Il primo computer non si scorda mai

Abbiamo ancora tutti negli occhi (e negli orecchi) la scena di 2001 Odissea nello spazio in cui il computer di bordo, ormai definitivamente fuori controllo, comincia a straparlare.

«Buongiorno, signori. Io sono un elaboratore HAL 9000. Entrai in funzione alle Officine Acca A Elle di Verbana, nell’Illinois, il 12 gennaio 1992. Il mio istruttore mi insegnò anche a cantare una vecchia filastrocca. Se volete sentirla, posso cantarvela».

«Sì, vorrei sentirla, Hal. Cantala per me».

«Si chiama Giro girotondo. Giro girotondo, io giro intorno al mondo. Le stelle d’argento costan cinquecento. Centocinquanta e la Luna canta, il Sole rimira la Terra che gira, giro giro tondo come il mappamondo…»

Il film di Kubrick è del 1968, ma almeno fino ai primi anni Ottanta del computer si continuava ad avere, da noi, un’idea molto vaga. Qualcuno raccontava – appunto – che la NASA se ne serviva per i razzi spaziali; altri che i giapponesi ci disegnavano i robot dei cartoni animati. Dicendo il cellulare ci si riferiva alla camionetta della polizia e sentendo parlare di medium, più che alla comunicazione di massa, veniva da pensare ai fenomeni paranormali. Nel nostro immaginario c’era solo il digitale extraterrestre: quello di «ET telefono casa», il mostriciattolo alieno col lungo dito puntato verso il cielo.

«Il telefono, la tua voce», appunto: e infatti le telefonate avevano sostituito le lettere. «La differenza tra me e mia figlia», diceva nel 1983 Maria Luisa Altieri Biagi a un convegno organizzato dall’Accademia della Crusca, «è scandita dal fatto che i miei epistolari amorosi erano per me importantissimi. Ho perfino desiderato che i miei fidanzati partissero per avere questo tipo di contatto verbale. Invece mia figlia telefona, con grave danno delle finanze familiari, e, a parer mio, perdendo qualche cosa nel tipo di rapporto». L’analfabetismo di ritorno appariva come una china inesorabile: la scrittura stessa veniva data – come abbiamo visto – per spacciata.

È in questo contesto che, nel 1985, il linguista Francesco Sabatini sanciva la nascita dell’«italiano dell’uso medio». Un italiano che finalmente gli italiani cominciavano a parlare davvero, affiancandolo o sostituendolo al dialetto nella vita di tutti i giorni. Oggi, a trent’anni di distanza, c’è anche un italiano che gli italiani scrivono davvero nella loro vita di tutti i giorni: è l’e-taliano dell’uso immediato. Quello che si è diffuso con le e-mail, si è affermato con gli SMS e ormai quasi tutti usiamo nei social network e nelle messaggerie istantanee.

L’e-taliano è il punto d’arrivo (inevitabilmente provvisorio) di una storia che dura giusto da tre decenni ed è un po’ la storia di ognuno di noi. Perché la storia siamo noi, noi che scrivevamo le lettere e oggi scriviamo i Whatsapp.

Per misurare la rapidità con cui l’e-taliano è cambiato e ci ha cambiato, basta voltarsi un attimo indietro. La storia inizia appunto negli anni Ottanta, quando cominciano a diffondersi anche da noi i primi sistemi di videoscrittura. Accolti, però, da una grande diffidenza. Nel 1983, alla domanda «Scusi, lei scriverebbe un romanzo con il computer?», tutti gli scrittori italiani interpellati rispondevano di no. «Lo scrittore potrebbe scrivere benissimo sulle tavolette di Ninive, incidendo la creta», aggiungeva Alberto Moravia. Neanche uno scrittore di fantascienza, d’altronde, avrebbe potuto prevedere che tutti saremmo tornati a scrivere su tavolette (sia pure chiamandole tablet). In mezzo a tanti apocalittici, uno dei pochi entusiasti era proprio Umberto Eco, che l’anno dopo – in una delle sue Bustine di Minerva – scherzava sul divario generazionale creato dall’informatica: «il computer è come il cucciolo di un cagnaccio feroce, non fa male ai bambini, si lascia mettere le mani in bocca, lo porta a cavalluccio, e se ci riprovasse un grande lo morderebbe».

Correva l’anno 1984, quello delle sinistre profezie di George Orwell. Eco stava già lavorando (al computer) al suo secondo romanzo – Il pendolo di Foucault, pubblicato nel 1988 – che tra i protagonisti principali ha proprio il «word processor» di un pc.

«Ecco, indiscreto lettore, tu non lo saprai mai, ma quella linea spezzata lì sopra, che si affaccia sul vuoto, era proprio l’inizio di una lunga frase che di fatto ho scritto ma che poi ho voluto non aver scritto (e non aver neppure pensato) perché avrei voluto che quel che avevo scritto non fosse neppure avvenuto. È bastato un comando, una bava lattiginosa si è distesa sul blocco fatale e inopportuno, ho premuto un “cancella” e pssst, tutto sparito».

«Mi son comprato un personal computer», cantava in quegli anni Franco Battiato, «ma il cuore soffre un po’ di aritmia». Oggi, invece, il cuore ci batte un po’ più forte pensando a com’eravamo quando il computer a casa nostra non c’era. Quando, se si aveva bisogno di scrivere qualcosa di ufficiale – una lettera burocratica, una tesina universitaria –, si era costretti ad andare da chi il computer ce l’aveva. Un po’ come succedeva negli anni Cinquanta per la televisione.

Fino al primo anno d’università, io avevo tenuto duro, fedele a un’arcaica idea di umanista. In camera mia – ancora vivevo con i miei genitori – tenevo appeso un quadretto con una frase tratta dalle lettere Senili di Petrarca. Tradotta dal latino, quella frase faceva così: «Non v’ha cosa che pesi men della penna, né che più di quella diletti: gli altri piaceri svaniscono, e dilettando fan male; la penna stretta fra le dita dà piacere, posata dà compiacenza, e torna utile non a quegli soltanto che di lei si valse, ma ad altri ancora e spesso a molti che son lontani, e talvolta anche a quelli che nasceranno dopo mille anni».

Già, ma poi dovevo andare in giro piatendo tastiere in prestito di pc non miei. E implorando l’aiuto di chi aveva già quelle competenze informatiche di cui ero ancora completamente privo. Uno di questi amici informatizzati un giorno si impietosì (o forse, più probabilmente, spazientì). E, assemblando pezzi di alcuni suoi vecchi pc, mise insieme una macchina dalle prestazioni mediocri, ma per me più che sufficienti. «Ecco il tuo primo computer», mi disse solenne un giorno – l’ennesimo – che ero andato a scroccargli tempo e tastiera. «Si chiama Frankenstein».

Non so più dove sia finito. Né il suo ritrovamento desterebbe lo stesso scalpore toccato a quel vecchio Apple assemblato nel 1976 direttamente dalle nude mani di Steve Jobs (qualche tempo fa i giornali raccontavano di questa signora americana che l’aveva buttato nella spazzatura e poi aveva scoperto che poteva valere fino a 200.000 dollari). Però è su quel computer che imparai a digitare e qualche anno dopo, con l’ausilio di un lentissimo modem, a connettermi a Internet. Erano i primi anni Novanta e ormai vivevo per conto mio: avevo un nuovo indirizzo fisico e anche il mio primo indirizzo mail, che coincideva praticamente col mio codice fiscale: ntngpp70@tin.it.

Il primo computer non si scorda mai, d’accordo. Ma da quanto tempo si usava nel mondo la posta elettronica? E quando sarebbero arrivati gli SMS? E i primi social network? La risposta si può trovare in alcune delle cosiddette timeline che si trovano in rete. Se ne deduce, ad esempio, che il primo messaggio e-mail risale al 1971, ma la prima attestazione della parola in inglese è del 1982. Per quanto riguarda gli SMS (Short Messagge Service), parola e cosa compaiono insieme – sempre in inglese – nel 1992. I social network hanno i loro antenati nelle BBS (Bulletin Board System) degli anni Settanta, ma diventano davvero popolari solo grazie a Facebook, che appare in rete nel 2004.

Da noi, il momento decisivo cade – appunto – alla metà degli anni Novanta. Non sarà un caso che molte parole chiave si trovino attestate tutte insieme per la prima volta in un articolo pubblicato nel “Corriere della Sera” il 17 ottobre 1993; un articolo sul futuro del giornalismo americano.

Un quotidiano con varie edizioni che verrà distribuito elettronicamente in tutta l’America. Esso sarà spedito via telefono (con o senza fili) ai modem dei “personal computer” da tavolo e di quelli tascabili, e quindi leggibile sui loro schermi. Questi piccolissimi calcolatori, non a caso chiamati “notebook”, utilizzano un nuovo tipo di software che connette insieme computer, fax, telefoni, stampanti. Per avere il “personal journal” basterà collegare il “notebook” a un qualsiasi telefono e lo stesso “computerino” comporrà automaticamente il numero verde “ad hoc” per il collegamento: il giornale verrà immediatamente trascritto nelle memorie dell’apparecchio a disposizione del lettore. […] L’abbonato può inoltre rileggere a piacimento (e stamparli nel proprio “printer”) articoli o notizie, pubblicati nel corso degli ultimi otto anni; egli ha pure l’accesso ad una “chat room”, un “salotto telematico” nel quale – via computer – “colloquia” in diretta anche con gli estensori del giornale o con gli altri lettori. L’utente dispone anche di una “E Mail”, una “casella postale” elettronica per la corrispondenza con tutti gli utenti della rete di banche dati “America on line”. Infatti il nuovo “giornale” è stato realizzato in cooperazione con questo grande “network” informatico nazionale.

L’articolo di Giancarlo Masini, pubblicato nell’inserto “Corriere scienze”, si intitolava USA: il giornale apparirà ogni giorno sul computer (sottotitolo: Il progetto del “Wall Street Journal” per la creazione e la diffusione a tutte le aziende USA di un quotidiano elettronico tramite collegamento computer modem). I numerosi virgolettati importavano dagli USA una serie di espressioni destinate a grande fortuna anche in italiano: l’unica che non si è acclimata è printer, per cui era già in uso in quegli anni il calco stampante.

Il mondo rappresentato da quelle parole era ancora coniugato al futuro, ma pochi anni dopo sarebbe diventato anche in Italia il presente di tutti i giorni. Bastava solo avere un po’ di pazienza: «Attendere prego…».