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L’ultima tappa
Vegetali, erbivori, predatori sono uniti insieme per far circolare i raggi di sole all’interno del cerchio della vita. Se anche uno solo di questi fattori viene a mancare, allora il cerchio si spezza e il sistema va in pezzi.
Ormai il nostro viaggio sta per giungere al termine, manca solo una tappa per chiudere il cerchio e incontrare l’ultimo anello di questa catena, in cui vita e morte, problemi e soluzioni, equilibrio e caos si rincorrono, intrecciano e mescolano continuamente. È bene metterlo in chiaro: non sarà una tappa piacevole. L’ultimo pezzo del cerchio della vita è lugubre, scuro, pauroso e con un pessimo odore. Qui lo zucchero dolcissimo ha perso il suo sapore, i raggi di sole si nascondono (tutti tranne il nostro, naturalmente, che fa un’eccezione per noi soltanto), i rami, anziché protendersi verso il cielo, hanno lo sguardo rivolto a terra. Siamo arrivati nel regno dei degradatori.
Messaggeri della fine
Tutte le cose prima o poi finiscono: fa parte del cerchio della vita. I degradatori sono messaggeri di questa fine: sono quelli che arrivano quando tutti hanno ormai lasciato la festa e, dopo aver sbocconcellato gli avanzi, rimettono a posto ogni cosa e si richiudono la porta alle spalle.
Il loro momento giunge insieme al disfacimento del mondo intorno – quando le foglie, che un tempo si allungavano in su per catturare i raggi, si svuotano di linfa e assumono i colori caldi dell’autunno: allora cadono al suolo, pronte per essere degradate. Lo stesso vale per gli animali, tutti, sia erbivori sia carnivori: dopo una vita passata a sfamarsi, accoppiarsi e rincorrersi, sono arrivati al confine ultimo, lo hanno attraversato e ora giacciono sulla terra nuda e fredda, colma di scarti risalenti al tempo in cui erano vivi.
È in questo scenario desolante che entrano in scena i degradatori. Senza di loro, il cerchio non funzionerebbe, perché mancherebbe un passaggio fondamentale: quello che trasforma la morte in nuova vita, la fine in un nuovo inizio. Non è esatto dire che i raggi di sole in questa fase non ci siano più; ci sono, certo, ma sono nascosti, incapsulati in tutti questi corpi che se ne sono nutriti avidamente. Lo scopo di questi “guardiani della soglia” (funghi, batteri, coleotteri eccetera) è quello di cercarli e liberarli, rimettendo in circolo la loro energia.
La loro importanza è tale che uno di essi (il primo che incontriamo in questo cupo luogo) è stato a lungo considerato alla stregua di un dio in Terra. Secondo gli antichi Egizi, il suo lavoro era quello di trasportare la palla infuocata del sole da una parte all’altra del cielo. Kepri, questo il nome che gli avevano affibbiato, era il responsabile dell’alba e del tramonto – un compito fondamentale, perché senza di esso non ci sarebbe stata vita, non ci sarebbe stato futuro. Sotto lo sguardo di Kepri il sole nasceva e moriva, e così facevano le creature terrestri: il suo piccolo corpo era simbolo della connessione tra il mondo dei morti e quello dei viventi.
Ora, penserete: cos’avrà mai fatto questo animale per meritarsi una tale considerazione? È molto semplice: processa le montagne di escrementi che gli organismi, in particolare gli erbivori, producono ogni giorno. Il dio Kepri non è altro che un coleottero stercorario, cioè, come dice il suo nome, un insetto che si nutre esclusivamente di sterco. Perfino l’acqua proveniente dalle pozze e dalle fonti non gli aggrada, egli preferisce dissetarsi direttamente dagli escrementi che divora.
L’attività principale degli stercorari consiste nell’aggirarsi per i prati in cerca di cacca. Quando ne trovano una bella grossa, ne prelevano un pezzetto. Con le loro zampette, lo lavorano fino a fargli assumere la forma di una pallina, che fanno rotolare lontano, finché non trovano un luogo adatto per interrarla. Prima, però, la farciscono con un uovo: custodita all’interno della sfera, la loro futura prole viene consegnata alle cure della terra.
Con il passare del tempo, lì sotto, una piccola larva esce dal guscio, mangia (servendosi dalle provviste lasciate dalla mamma) e diventa grande. Talmente grande che a un certo punto si trasforma in un adulto. Si scava allora una via verso l’esterno e inizia a fare quello che da milioni di anni fanno i suoi avi: sfamarsi con gli escrementi dei grandi mammiferi.
Questo è il motivo per cui gli antichi Egizi consideravano gli scarabei stercorari degli animali sacri: erano capaci di sorgere dal mondo dei morti (sotterraneo) per poi restare in quello dei vivi (la superficie). Cosa c’entrano l’alba e il tramonto con tutto ciò? Osservando questi insetti alle prese con la loro pallina di sterco, era scattata l’associazione con un’altra sfera: quella infuocata del sole. Ecco perché questo insetto si trova a suo agio sia nelle stalle sia sulle stelle, ed ecco perché, nonostante la sua poco elegante occupazione, lo stercorario è diventato il dio Kepri, una delle divinità più importanti dell’antica religione egizia.
La dura vita dello stercorario
Che siano abitanti di mondi spirituali oppure vivano qui sulla Terra, tutti gli organismi hanno dei problemi e lo stercorario ne deve affrontare parecchi. Quando nel prato il livello di sterco aumenta, per esempio, la competizione alimentare diventa agguerritissima: i poveri insetti devono fare letteralmente a botte per accaparrarsi un pezzetto di cacca.
Questa lotta per il cibo assume proporzioni diverse a seconda del luogo in cui avviene: in Europa il dispensatore di sterco più comune è la mucca, i cui escrementi hanno un peso medio di circa 25 chili; una cosa simile si verifica nel Nord Africa con la cacca di cammello, il cui peso è pressappoco lo stesso. Nell’Africa nera, invece, la guerra si fa più intensa: a fornire il cibo sono nientemeno che gli elefanti, che producono circa 50 chili di sterco al giorno! Nella savana, sotto il cielo tempestato di stelle, le lotte intestine e i furti di palline di cacca rappresentano la norma; a vincere non sono necessariamente gli scarabei più grossi o più forti, ma quelli con maggiore senso dell’orientamento e dell’equilibrio: chi trasporta la propria pallina seguendo una linea retta, senza lambiccarsi il cervello per disegnare tragitti tortuosi, evita di disperdere energia e di farsi rubare il bottino. Una strada a zig-zag è, infatti, più lunga e il viaggio dura di più: ecco perché le probabilità di furto aumentano ed ecco perché lo stercorario deve scovare una via breve per mettere al sicuro il suo tesoro.
E qui arriva un problema: come disegnare una linea retta in mezzo alla savana? Non sapendo come rispondere a questa domanda, gli stercorari si rivolgono al cielo – che, incredibilmente, risponde: una stella ha fatto partire il cerchio della vita, e una moltitudine di astri guida quotidianamente un’intera legione di stercorari verso la sua chiusura. In mezzo alla volta celeste, infatti, si trova una gigantesca striscia luminosa, dritta come un fuso, che prende il nome di Via Lattea. Ai coleotteri basta seguire questa strada stellata per raggiungere la salvezza.
Tutt’altra storia sono le strade terrestri, quelle lastricate con il cemento, che tagliano e attraversano tutto il continente: le automobili le percorrono in lungo e in largo, ma anche molti erbivori, che sentono il bisogno di allontanarsi dal luogo di nascita per trovare nuove e fresche risorse, non disdegnano il progresso e se ne lasciano tentare. Gli elefanti, per esempio, non hanno dubbi: le strade di cemento sono semplici da seguire, non hanno buche e portano velocemente alla meta. Non conoscendo né i segnali stradali né le norme, però, non solo non si fermano con il rosso, ma soprattutto non frenano l’intestino quando la natura chiama. Così chili e chili di escrementi si posano sul cemento bollente, mostrando il percorso della carovana di elefanti… Un problema per gli uomini, ma una risorsa per gli stercorari, che accorrono a migliaia per accaparrarsi il loro cibo preferito.
Qui, per molti di loro, termina il viaggio (quello sulla Terra, quantomeno): non curandosi dello sterco e dei suoi abitanti, le auto sfrecciano a tutta velocità. Sono milioni i poveri coleotteri a finire spiaccicati sulle strade africane, e questo dramma non accenna a diminuire, con gravi disagi per tutti: la popolazione degli stercorari sta diminuendo e, conseguentemente, aumentano gli escrementi lasciati a sciogliersi e marcire anche durante la stagione delle piogge – oltre a quelli degli elefanti, ci sono quelli dei rinoceronti, delle mandrie di bufali e di tutti gli altri erbivori che popolano il continente.
C’è da dire che la vita dello stercorario, passato ormai da parecchio il tempo degli antichi Egizi, è dura un po’ dappertutto: c’è chi rischia la vita nella savana, ma anche chi deve cercare di sopravvivere in condizioni davvero estreme, come lo scarabeo dell’Himalaya.
Questo coleottero è lo stercorario più grande esistente, un dato che desta particolare perplessità negli entomologi di tutto il mondo: normalmente, più grande è lo sterco e maggiore è la stazza. Per esempio, in Europa gli scarabei sono piuttosto grandi, per processare la cacca delle mucche; sono ancora più voluminosi, ovviamente, quelli che percorrono le savane africane; in Australia invece sono piccoli, perché sono abituati a nutrirsi delle microscopiche cacche dei marsupiali. Tra le valli e i picchi dell’Himalaya non si aggira neppure un animale erbivoro di grandi dimensioni, eppure lo stercorario che abita su quei monti impervi è dotato di una stazza davvero invidiabile.
Cosa ci fa un insetto gigantesco in mezzo ai miseri escrementi della capra selvatica o del panda rosso? La risposta si trova nel passato: questi enormi coleotteri sono apparsi sulla Terra milioni di anni fa, quando le cime dell’Himalaya erano abitate non dalle capre ma… dai mammut! I pachidermi preistorici si aggiravano per i monti, divoravano la vegetazione e disseminavano il terreno di cacche monumentali. Per lo stercorario himalayano quella fu un’epoca d’oro: viveva da re, avendo a disposizione risorse illimitate. Adesso, dopo la scomparsa del suo elefante peloso preferito, il povero coleottero è costretto a vivere di stenti e ad accontentarsi di quel poco che gli regalano i piccoli mammiferi che riescono a resistere al clima spietato della catena montuosa più alta del mondo.
Dal letame nascono i fiori
Come abbiamo visto, l’ultima parte del cerchio della vita non è affatto luminosa, anzi, è spesso tetra, repulsiva e, soprattutto, poco profumata. Eppure, è fondamentale per tutti gli organismi che vivono sotto il sole e che abitano ai piani alti del nostro cerchio… Esattamente come la cacca: per quanto sia disgustosa, repellente, nauseabonda, se non ci fosse lei non ci sarebbe la vita – non solo quella degli stercorari, ma quella di tutti noi. Se non ne siete del tutto convinti, ecco una storia che vi farà da esempio.
Nell’Africa centrale e meridionale vive, immerso nei corsi d’acqua, un animale dalla possente stazza: l’ippopotamo. In un tempo lontano, questo grande mammifero si tuffava anche nei fiumi dell’Asia e dell’Europa (il suo imponente corpo si poteva scorgere anche in luoghi oggi impensabili, come il centro dell’attuale Londra). Anche la valle del Nilo accoglieva i “cavalli di fiume”, venerati dagli antichi Egizi come simboli di fecondità in virtù del loro aspetto tondeggiante e massiccio. Un repentino cambiamento climatico, unito, probabilmente, a una caccia spietata da parte dell’uomo, ha fatto estinguere l’ippopotamo in gran parte del mondo, relegando la sua presenza in un’area del continente africano.
Ma, anche qui, in questo spazio relativamente piccolo, i problemi sono riusciti a raggiungerlo. Il fatto è che gli uomini che abitano in quei territori apprezzano molto sia la carne sia i denti dell’ippopotamo, con i quali costruiscono diversi manufatti, e così una caccia spietata si consuma da anni sotto i cieli e nelle acque dell’Africa. Ma, attenzione, la vera vittima non è l’ippopotamo!
Fino agli anni Settanta, la decimazione degli ippopotami non aveva destato particolari problemi, eccetto una drastica riduzione della loro carne nelle ricette locali. Sembra una questione da poco, un piccolo cambio di dieta… ma in natura basta un battito di ciglia per sconvolgere un ecosistema intero. Non c’è carne? Nessun problema, in teoria: si può tranquillamente passare al pesce – cosa che fecero gli africani, andando a pescare proprio nei corsi d’acqua dove un tempo si immergeva l’ippopotamo.
Dopo qualche anno, dalle rive dei fiumi iniziarono a scomparire le piante acquatiche e gli argini, non più tenuti insieme dalla fitta rete delle loro radici, scesero verso i fiumi dileguandosi in un ribollio terroso. Private degli argini, durante la stagione delle piogge le acque turbolente tracimavano dal letto dei fiumi e si espandevano nelle campagne limitrofe. Come se non bastasse, i pesci cominciarono a diminuire, fino, in qualche caso, a scomparire del tutto.
Come si spiega una simile catastrofe? Torniamo al punto di partenza, l’ippopotamo. Egli fa parte della grande schiera degli erbivori e si procura il suo cibo sia brucandolo mentre se ne sta a mollo nell’acqua sia addentrandosi nella savana di notte, per consumare qualche arbusto o erba di pianura. La dieta ricca di fibre provoca una discreta produzione di escrementi – circa 30 chili al giorno. Quando l’intestino inizia a farsi sentire, l’ippopotamo sale sull’argine del fiume e, mentre si libera, agita forsennatamente la coda, frantumando la materia fecale, che viene distribuita a pioggia sulla riva e fornisce un aiuto essenziale alle piante grazie alla discreta quantità di azoto che contiene. Può capitare, talvolta, che lo stimolo intestinale venga soddisfatto direttamente nell’acqua: lunghi filamenti marroni iniziano allora a muoversi tra le acque calme del fiume. Se per alcuni è una visione di pessimo gusto, per altri è pura poesia: i pesci, per esempio, trovano gli escrementi un alimento molto ricco e completo, e alcuni di essi ne vanno talmente ghiotti che passano la vita nuotando nei pressi dei branchi di ippopotami, sperando che arrivi un po’ di manna dal cielo.
Ecco allora il punto. Un minor numero di ippopotami si traduce immediatamente in una drastica diminuzione di escrementi e, quindi, di minerali necessari alla vita delle piante. La diretta conseguenza è che gli argini, da verdi, diventano color terra, le radici si indeboliscono e le acque sono libere di esondare. Allo stesso tempo, anche i pesci, privati del loro sostentamento, scompaiono lentamente dal fiume e dalle reti dei pescatori.
Basta che un solo tratto del cerchio venga spezzato perché l’intero meccanismo si inceppi definitivamente, impedendo alla vita e alla natura di fare il loro corso.
Brutti, sporchi e cattivi
C’è un luogo sulla Terra, apparso per la verità solo recentemente, in cui il normale viaggio della vita viene interrotto proprio nella sua parte finale. Sono le enormi città degli esseri umani, all’interno delle quali la natura deve farsi da parte per sottostare ad altre leggi. A far compagnia all’Homo sapiens sapiens, per esempio, ci sono esclusivamente gli organismi che lui ritiene amichevoli o desiderabili; tutti gli altri vengono banditi, eliminati, esclusi senza pietà.
La natura però la sa lunga, ed è davvero difficile da imbrigliare: sempre trova la strada per imporre le proprie regole, e questo succede anche nelle nostre città.
Il punto debole dei nostri conglomerati urbani si trova proprio nel tratto che stiamo esplorando: la parte finale del cerchio della vita. Ogni giorno, gli uomini producono masse gigantesche di rifiuti organici, il cui smaltimento diventa un problema sempre più difficile da risolvere, anche perché gli animali degradatori sono tra i primi nella lista nera delle presenze indesiderate – a differenza di altri più gradevoli ma meno utili, come per esempio i pesci rossi.
Gli esseri umani non li vogliono, ma le sostanze in putrefazione li attirano: ecco allora che una vera e propria legione di degradatori varca il confine tra natura e città e fa la sua comparsa nelle fogne, nei bidoni della spazzatura e in tutti i luoghi dove abbondano le masse putrescenti. Questo popolo delle tenebre, fatto di individui poco raccomandabili, “brutti, sporchi e cattivi”, ha un nome: gli animali che riescono a fare breccia ed entrare clandestinamente nel mondo degli umani si chiamano “sinantropici”.
Uno di essi, milioni di anni fa, non viveva nelle fogne, ma all’ombra di alberi giganteschi. È un animale piccolo, piuttosto tozzo, provvisto di una dura corazza, abituato a gironzolare in mezzo al terriccio umido delle foreste ancestrali. Quando, giù nelle valli, gli uomini hanno cominciato a costruire i primi villaggi, questo animale ha abbandonato i boschi e si è insediato nelle case e nelle cantine. I villaggi sono diventati paesi, poi città e, infine, gigantesche metropoli. Al crescere degli insediamenti umani, cresceva anche la massa di rifiuti da loro prodotta, e gli spostamenti da un continente all’altro hanno fatto il resto, permettendo a questi improbabili clandestini di viaggiare e proliferare un po’ ovunque. Ora è facile scorgerli mentre sfrecciano negli scantinati umidi, in mezzo a scatoloni, vecchie biciclette e materiale accatastato: stiamo parlando delle blatte, animali degradatori abituati a consumare pezzetti di legno marcio, foglie morte trasportate dal vento, resti di animali e altre sostanze in decomposizione.
Nelle cantine e nelle fogne, essi hanno trovato delle condizioni di umidità e di ombra molto simili al loro habitat naturale, ma con tanti vantaggi in più: mentre nelle foreste l’inverno fa la sua comparsa e ricopre tutto di un gelido manto bianco, in cantina la temperatura rimane piuttosto costante, e le prelibatezze gastronomiche (cioè le sostanze puzzolenti e putrefatte) non mancano di certo.
In quanto “brutta, sporca e cattiva”, la blatta non ha perso le sue rozze abitudini con il trasferimento dalla campagna alla città: il bon ton a tavola non è certo il suo forte, e anzi, oltre a nutrirsi di cose che la maggior parte degli animali trova disgustose, ha anche un piccolo, riprovevole vezzo al quale non riesce a rinunciare. Quando incontra una briciola ammuffita, un pezzo di carne putrefatto o del formaggio rancido, ci vomita sopra. Il suo rigurgito è tutt’altro che un segno di insoddisfazione: essendo ricco di enzimi, esso ha il compito di predigerire il pasto. Ma non è finita qui: prima di mangiare, blatte e scarafaggi si apprestano a difendere il territorio di loro competenza, per evitare che dei rivali giungano a togliergli il cibo di bocca. E lo fanno seguendo il loro stile non proprio raffinatissimo – cioè, defecando copiosamente e cospargendo il perimetro di cacca.
Al termine di questo rito, si preparano alla grande abbuffata e si avventano sul cibo, reso ancora più puzzolente dalla spruzzata preventiva di vomito.
Ma attenzione, anche questi animali sanno essere esigenti in fatto di gusti. La Blattella germanica, un insetto che, a dispetto del suo nome, è originario del continente africano, si è trasferita in Europa attirata da un cibo particolarmente prelibato: le sue papille esigenti impazziscono letteralmente per la polvere di caffè, soprattutto se umida e usata. Non è un caso che queste bestioline infestino i bar, in particolare le basi delle macchine per l’espresso, dove trovano la loro amata polvere (e un calore tale da curare il mal d’Africa che le affligge). Non è neppure un caso, quindi, che la loro patria d’elezione sia anche la patria del caffè, cioè l’Italia.
Se state già elencando mentalmente i mille modi che avete a disposizione per sbarazzarvi di eventuali ospiti sgraditi, è bene che sappiate che le blatte si distinguono per un’altra prodigiosa caratteristica: se gli si mozza la testa, continuano a vivere. A questi esseri speciali, la ghigliottina non fa né caldo né freddo: la loro testa è una appendice che, in fin dei conti, non è necessaria. Per circa un mese, gli scarafaggi decapitati possono continuare a sfrecciare sui muri ammuffiti e aggirarsi impunemente tra gli scatoloni e le cianfrusaglie accatastate nel seminterrato, prima di partire definitivamente per il paradiso degli insetti.
Ma c’è di più: alcuni entomologi americani hanno indagato la vita di questi insetti senza testa e hanno scoperto che non se la passano per nulla male. Non potendo mangiare, non perdono tempo tra i resti marcescenti del cibo, ma si fiondano senza indugi sull’altro sesso: eliminato un bisogno primario, prima di morire possono dedicare tutto il tempo che resta a godersi le gioie dell’accoppiamento.
La mosca del futuro
Le blatte non sono gli unici animali sinantropici che si nutrono dei rifiuti organici delle città. Nella foresta di cemento si aggirano anche numerose mosche, pronte a conquistare una fetta di sostanza organica in decomposizione. Mosca, in effetti, è un termine un po’ troppo vago. Diciamo che gli insetti che normalmente si aggirano per le strade – oppure nei cimiteri, o in mezzo alle discariche – appartengono alla famiglia dei Muscidi o dei Calliforidi.
Le larve di questi insetti sono in grado di estrarre i residui dei raggi di sole dalle sostanze più impensate, come cadaveri, rifiuti organici ed escrementi, e la loro abilità è sorprendente: in pochi giorni sono capaci di processare chili e chili di queste sostanze.
La cosa può portare ad alcuni problemi: nell’ultima parte del cerchio della vita vivono infatti molti batteri e microrganismi che possono veicolare malattie. La mosca più diffusa, la cosiddetta “mosca domestica”, da giovane larva vive nelle sostanze putride (il che la rende un efficientissimo trasmettitore di batteri e infezioni), mentre da adulta è solita frequentare le cucine di noi esseri umani, alla ricerca di sostanze zuccherine.
Per liberarsi delle mosche, ma anche della produzione eccessiva di rifiuti organici, gli esseri umani si sono rivolti a una mosca molto speciale, che potrebbe risolvere entrambi i problemi e, allo stesso tempo, aiutare gli ultimi raggi del sole a ritornare nello spazio siderale.
Questa mosca fenomenale si chiama “mosca soldato”, ed è un insetto americano diffuso in tutto il mondo, utilizzato fin dagli inizi del Novecento per la lotta biologica alla mosca domestica. Il metodo è molto semplice e si basa sul fatto che le larve di entrambe le mosche si nutrono di sostanze in decomposizione: nelle stalle si libera (il termine tecnico è “lanciare”) una grande quantità di uova di mosca soldato, da cui sgusceranno delle larve piuttosto aggressive, in grado di dare del filo da torcere a quelle della mosca domestica. Gli adulti di mosca soldato, invece, sono abbastanza pacifici, e soprattutto (qui sta il dato davvero eccezionale) non hanno bisogno di nutrirsi. Il vantaggio che ne deriva è enorme: dopo aver sterminato gli avversari, le mosche possono sfarfallare in giro senza arrecare alcun disturbo!
Il forte appetito delle larve della mosca soldato – capaci di procurarsi cibo a sufficienza per una vita intera – è talmente impressionante che si è pensato di allargarne l’utilizzo per far loro “digerire” i rifiuti organici cittadini. Nello Stato americano dell’Ohio è stato fatto un esperimento destinato a restare nella storia: a una legione di piccole mosche soldato sono state fornite ben 24.000 tonnellate di rifiuti organici. Ebbene, le voraci mandibole di questi insetti hanno processato la massa di sterco e putridume nel giro di poche ore. Dalla sperimentazione all’azione: sono ormai molte le città americane con delle squadre attive di mosche soldato, che quotidianamente chiudono il cerchio per gli esseri umani, riportando i raggi di sole a casa loro, nello spazio.
Gli entomologi statunitensi hanno scoperto anche che le larve, dopo aver tanto mangiato e prima di diventare grandi, passano da uno stadio intermedio in cui hanno l’aspetto di pupe belle cicciotte, ricoperte da uno spesso strato di grasso. Si è pensato quindi di sfruttare questo adipe, e per farlo è stata inventata una specie di megafrullatore capace di separare il “grano dal loglio”, cioè di estrarre il grasso dalle pupe lasciando intatti gli altri tessuti. Si ottiene in questo modo un olio di mosca, che viene raffinato e trasformato in un prezioso biocarburante, da affiancare alle altre fonti di energia sostenibile.
In un prossimo futuro, dunque, gli esseri umani potrebbero spostarsi a bordo di automobili azionate da olio di mosca, trovando così l’anello mancante, la chiusura perfetta di quel cerchio della vita che da milioni di anni continua a girare – pieno di problemi, di soluzioni e, soprattutto, di meraviglia.
Il nostro viaggio è finito, dopo essere passato attraverso problemi e soluzioni di piante, erbivori e carnivori sono giunto alla fase finale in cui gli animali degradatori hanno fatto il loro dovere. Hanno smantellato la sostanza organica ormai morta e l’hanno ridotta a elementi minerali, gli stessi che compongono tutto l’infinito universo.
Le sostanze minerali vengono prelevate dalle piante, unite ai raggi di sole, trasformate in glucosio pronto a dare un’altra, ennesima spinta al cerchio della vita.
Come sarà il nuovo slancio in avanti? Non lo sappiamo, esso varia al variare dei raggi del sole: le storie della vita sono così tante che ogni raggio di sole ne racconta e ne illumina tantissime. Il nostro, una volta sceso, ha visto un sacco di insetti. Altri raggi di sole potrebbero incontrare dei mammiferi, oppure dei batteri, ma anche dei protozoi, insomma, tutti gli altri organismi che si dibattono al di sotto della biosfera.
E mentre sulla Terra tutti gli elementi materiali vengono processati e ritornano in vita, il nostro raggio ha esaurito il suo compito di fornire l’energia alla massa brulicante che abita la sottile biosfera. Ora è libero di tornare nell’universo ma, prima di perdersi nello spazio siderale, si volta per l’ultima volta verso il pianeta azzurro.
Da questa prospettiva non scorge né problemi né soluzioni, da lassù osserva solo un cerchio che ruota da tempo immemore trascinando con sé delle trame che si intrecciano sempre più e che si perdono in una profondità senza fondo. L’ultima parola che gli viene in mente, e che porterà con sé nel suo viaggio infinito è una e una soltanto: meraviglia.