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Il verde che nutre

È il momento di seguire il nostro raggio in un nuovo anello del cerchio, che riguarda creature molto speciali. Abbiamo visto che le piante si nutrono di energia pura; ebbene, questi animali, nutrendosi di piante, assimilano dentro di sé una parte di quella energia. In pratica, è come se una scintilla del nostro raggio continuasse a splendere dentro di loro. Si tratta degli erbivori, animali che spesso, ingiustamente, noi uomini riteniamo poco interessanti: placidi e mansueti, passivi, non troppo svegli… Scopriremo invece che queste creature sono piene di sorprese, basta saperle guardare dalla giusta prospettiva: quella della natura.

Superstomaco

Frenare l’orda degli erbivori e continuare a vivere crescendo verso l’alto è la prerogativa delle piante. Il loro gioco difensivo è molto efficiente, e utilizza anche delle barriere fisiche che si interpongono tra loro e i denti affilati dei nemici: le foglie sono ricoperte da cere indigeribili; i peli crescono copiosi tra le parti verdi per impedire o ostacolare il movimento degli insetti; le spine acuminate sanno pungere la lingua di chi prova ad avvicinarsi troppo.

L’elemento che sostiene le piante e consente loro di raggiungere il cielo è la cellulosa, che di fatto consiste in una lunga successione di molecole di glucosio impacchettate tra loro. Questa sostanza ha due grandi vantaggi: è molto resistente e non può essere assimilata dagli animali. I raggi di sole incapsulati nella cellulosa non possono sprigionarsi nel corpo dei mammiferi, quindi non rilasciano la loro energia.

Eppure, viaggiando lungo il cerchio della vita, non si può fare a meno di notare la grande quantità di animali che si nutre di erba per trasformarla in carne, latte, ossa – in altre parole, vita.

Come fanno gli erbivori a ricavare energia da una sostanza indigeribile?

La risposta è che hanno degli organi digerenti estremamente potenti. Le mucche, ma anche le pecore, i caprioli e i cervi, a differenza di noi uomini, non hanno un unico stomaco, ma ben quattro. La loro digestione è molto complessa. Quando ruminano nel prato, in poco tempo ingeriscono una grande quantità di vegetali; poi, a pasto finito, si riparano in un luogo protetto e aspettano che la natura faccia il suo corso.

La prima tappa è lo stomaco più grande, chiamato “rumine”, un luogo ricco di batteri e funghi che fanno avviare la fermentazione e spezzano i forti legami dello zucchero nella lunga catena della cellulosa. Dopo questa prima fermentazione, il cibo torna da dove era venuto, cioè nella bocca, dove viene masticato in tutta tranquillità. Il cibo triturato passa quindi nel secondo stomaco, il “reticolo”, e da qui viene smistato: le parti ancora troppo grosse ritornano nel rumine, il resto raggiunge la terza tappa, l’“omaso”, che assorbe tutti i liquidi della massa predigerita e la passa infine all’“abomaso”.

L’abomaso corrisponde allo stomaco degli altri animali. È qui che inizia la digestione chimica, con acidi ed enzimi, in forma analoga a quella che conosciamo anche noi esseri umani. Il percorso è lungo, complesso, ma offre grandi vantaggi: l’energia pura dei vegetali viene assorbita perfettamente.

Il petrolio delle mucche

La fermentazione, oltre a rendere digeribile la cellulosa, libera il materiale ingerito dai sottoprodotti come il metano, un gas infiammabile che si trova, oltre che nell’intestino degli erbivori, anche nelle viscere della Terra.

Alcune centinaia di milioni di anni fa, agli albori del cerchio della vita, la spinta data dai raggi di sole come il nostro diede il via a un flusso di energia che permise di popolare il nostro pianeta. Un’ondata di vita che si propagò e che mosse per lungo tempo gli organismi arcaici. Questa epoca dorata conobbe, però, una repentina fine: le specie animali e vegetali morirono e vennero inghiottite dal terreno. I cadaveri erano così abbondanti che non si riusciva a smaltirli; anno dopo anno, i residui organici non processati scesero verso le viscere della Terra, dove il calore e la pressione del magma li trasformarono in una sostanza nera e vischiosa oppure in un gas altamente infiammabile. Elementi di provenienza mortifera, ma che custodivano dentro di sé qualche raggio di energia risalente a milioni di anni prima: si trattava, di fatto, di un nuovo sole. Un sole nero.

Il 27 agosto 1859, lo scienziato americano Edwin Drake riuscì a scalfire la superficie della Terra e scendere nei suoi meandri per prelevare del materiale. La sostanza nera, dopo milioni di anni, vide nuovamente la luce e diede inizio a una nuova era: quella del petrolio.

La sua energia venne utilizzata dagli esseri umani in mille modi, tra cui quello di ricreare bolle di eterna primavera con il riscaldamento, o di alimentare automobili che bruciavano il sole antico nel loro cuore di metallo. In poco più di cento anni, gli ampi giacimenti si sono esauriti, ma la fame di energia degli uomini è addirittura aumentata.

Ecco che entrano in gioco gli erbivori: se le viscere della Terra non hanno più metano, e il poco che c’è è troppo difficile da estrarre, allora è meglio cercare altrove. Per esempio, nello stomaco della mucca. In effetti, il metano che si sviluppa all’interno del rumine trova già una sua via di fuga, anzi due: una verso l’alto, che esce dalla bocca con un rumoroso rutto; l’altra verso il basso, anche questa volta guadagnando l’uscita con un rumore secco e fragoroso. Ebbene sì, parliamo di puzzette, ma non ridete: è anche da loro che dipende il nostro futuro energetico!

Considerando che i bovini allevati dall’uomo sono più di 180 milioni e che ognuno produce, suddivisi in ugual misura tra rutti e scoregge, circa 300 litri di metano, si può sostenere che la quantità di questa energia è considerevole.

Per non disperdere il prezioso idrocarburo, alcuni scienziati hanno inventato un apparecchio capace di prelevarlo direttamente dal rumine, senza bisogno di aspettare che la mucca si decida a liberarsi da sola. Oltre a ottenere dell’energia “verde”, il sistema limiterebbe anche l’emissione di gas potenzialmente pericolosi per l’effetto serra. Insomma, due piccioni con una fava.

Capra a chi?

Come dicevamo, gli erbivori hanno la capacità di trasformare le erbe in carne, latte e lavoro.

Una caratteristica così utile che, da ormai diversi millenni, l’uomo li alleva e se li porta dietro in ogni parte del mondo. Tra questi, c’è un animale che per noi esseri umani è sinonimo di ottusità e testardaggine, ma in realtà dimostra una capacità di adattamento strabiliante: la capra.

Le capre sono state utilissime per noi umani. Il loro spirito un po’ rustico le ha rese capaci di mangiare vegetali scartati dalla maggior parte degli erbivori, come le erbe secche, le piante spinose e addirittura i muschi e i licheni. Inoltre, grazie alla loro stazza piuttosto ridotta, capre e pecore trovavano facilmente posto nelle stive delle navi: durante le lunghe traversate, i marinai avevano a disposizione latte fresco e carne, alimenti altamente energetici e ideali alla vita in mezzo al mare.

Tra un’onda e l’altra, ovviamente, capitava di fare una sosta in una delle numerose isolette del Mediterraneo. E qui – forse per trovare qualcosa da mangiare anche al ritorno, forse come segno di solidarietà verso altri marinai o eventuali disgraziati naufragi – i navigatori lasciavano un segno liberando qualche coppia di capre. In quel paesaggio brullo e roccioso, queste prosperavano: da pochi esemplari si creavano dei veri e propri greggi, che possiamo ancora scorgere mentre saltano di pietra in pietra tra gli impervi dirupi delle isole greche.

Con l’aiuto degli esseri umani, le capre hanno colonizzato le isole di mezzo mondo, con conseguenze non sempre piacevoli. Nel 1773, il famoso capitano James Cook liberò alcuni esemplari nei pressi di Marlborough, a sud della Nuova Zelanda; loro, ovviamente, iniziarono a riprodursi e a nutrirsi delle esotiche erbe dell’isola. Mangia oggi, mangia domani, mangia per diversi anni… le capre hanno fatto letteralmente sparire nel loro stomaco decine di piante autoctone che vivevano esclusivamente in quella parte di mondo! I vegetali non avevano mai conosciuto un erbivoro così forte, potente e poco schizzinoso, per cui non avevano mai sviluppato delle difese idonee.

Una cosa simile sta succedendo anche oggi, nel continente australiano: alcune capre sono scappate dai recinti e, libere di scorrazzare nel bush, sono diventate numerose e stanno distruggendo gran parte della flora locale. Il loro esercito, rinfoltito dalla presenza di pecore e asini, rischia di creare un danno abissale: senza i vegetali, lo abbiamo visto, il cerchio della vita si interrompe e rischia di sfociare in un’estinzione di massa.

Per risolvere la situazione, gli australiani hanno inventato una strategia nota come “tecnica di Giuda” o “tecnica della mantide religiosa”, due nomi decisamente sinistri, ma azzeccati, visto che questo stratagemma è tanto astuto quanto cruento. Funziona così: vagando per i deserti australiani, gli uomini catturano qualche femmina di capra (o di pecora o di asino) e le conducono in una stalla, dove vengono accudite di tutto punto: il fieno somministrato è di altissima qualità, l’ambiente è pulito e le visite veterinarie sono frequenti e accurate. Dopo alcuni mesi di trattamento regale, le capre sono in perfetta forma, profumate, delle vere signorine ignare dei problemi della vita selvatica.

La loro placida esistenza subisce un brusco scossone quando, a un certo punto, dei veterinari armati di siringhe iniettano nel loro corpo una dose da cavallo di ormoni femminili. Piene di estrogeni, le capre vengono caricate su dei camioncini e portate in giro per il bush australiano – dove, mesi prima, erano state catturate e dove adesso, ben pasciute e sprizzanti femminilità da tutti i pori, riconquistano la libertà… vigilata: prima però di scorrazzare tranquille tra i cespugli australiani, infatti, vengono dotate di un radiocollare che indica sempre la loro posizione.

I maschi, nel bush, sentono l’odore irresistibile di queste superfemmine anche da chilometri di distanza e convergono a frotte, sperando di incontrare l’amore. Invece, purtroppo, incontrano la morte: i cacciatori, appostati vicino alle “esche”, aspettano solo il loro arrivo per venire allo scoperto e ucciderli a suon di fucilate. Perché questa strage di poveri maschi? Questione di matematica: meno maschi significa meno femmine gravide. Con questo sistema, il governo australiano spera di ridurre il numero di erbivori per dare una tregua alle piante e far ripartire il cerchio della vita.

Il lungo viaggio del dromedario

Attraversando i mari di tutto il mondo, le capre sono arrivate dalla Grecia alla Nuova Zelanda al bush australiano. Ma non sono gli unici erbivori che noi uomini abbiamo scarrozzato in giro per il globo: uno dei più grandi viaggiatori a quattro zampe è la cosiddetta “nave del deserto”, il dromedario, anche se non sempre i suoi pellegrinaggi hanno avuto un esito felice. Un esempio? La storia del dromedario Harry, giunto in Australia nel 1840 su una nave che arrivava dalle lontanissime isole Canarie. Insieme a lui c’erano altri otto dromedari, ma lui è stato l’unico a giungere vivo a destinazione. Le navi del deserto non erano abituate a viaggiare sulle navi vere, e la lunga traversata dell’Oceano Indiano era stata fatale.

Harry era robusto nel fisico, ma aveva un temperamento fumantino e non troppo stabile. In Australia venne adottato dall’esploratore John Ainsworth Horrocks, che insieme a lui girò gran parte dell’outback australiano senza grandi intoppi. Finché, il primo settembre del 1846, Harry decise di dare prova del suo carattere: mentre Horrocks puntava il suo fucile in direzione di un uccello, con la chiara intenzione di mangiarselo, il dromedario si oppose e lo disarcionò. Il colpo partì lo stesso, ma non beccò il volatile: i proiettili recisero alcune dita del povero John, che non poteva fare altro che correre – a piedi! – per centinaia di chilometri in cerca del più vicino ospedale. Inutile dire che quando un medico, finalmente, lo visitò, ormai era troppo tardi: la ferita non medicata aveva causato un’infezione che si era propagata in tutto il corpo.

Il 23 settembre, poco prima di morire, John Ainsworth Horrocks espresse il suo ultimo desiderio: che l’odiato, intrattabile, recalcitrante dromedario venisse abbattuto con un colpo di pistola. L’esecuzione avvenne il giorno stesso, ma anche Harry prima di spirare esaudì un suo desiderio: tirò un gran morso in testa a uno dei presenti, che evidentemente non gli stava molto simpatico.

La vicenda di Harry è certo triste, ma fortunatamente non è l’unica che riguarda i dromedari: la storia di questi animali è antichissima e inizia in un luogo imprecisato del Nord America dove, 44 milioni di anni fa, dalla ricca biodiversità locale spunta il primo esemplare di camelide del mondo: il Camelops hesternus!

Grazie alla natura generosa, questo cammello ancestrale ebbe una vita facile e florida. Le sue popolazioni si ingrandirono e viaggiarono – la maggior parte verso sud, fino al grande continente sudamericano, dove il tempo e le condizioni ambientali ne forgiarono il carattere e l’aspetto trasformandolo nell’attuale lama. Quelli che si diressero verso nord, invece, incontrarono un braccio di mare, lo Stretto di Bering, che all’epoca era solcato da un ponte di ghiaccio. Loro lo attraversarono e si trovarono così nel continente asiatico. Anche in Asia il tempo e il clima fecero la loro parte, trasformando il cammello ancestrale nel cammello a due gobbe.

Non tutti, però, si fermarono qui: una parte della popolazione decise di proseguire il viaggio, fino a raggiungere l’Africa settentrionale. Qui si stabilirono e si adattarono, assumendo le sembianze del dromedario con un’unica gobba. Tre destinazioni, altrettante trasformazioni.

A complicare le cose è la comparsa, esattamente 300.000 anni fa, dell’animale uomo – anche lui gran viaggiatore, anche lui pronto a colonizzare la maggior parte delle terre emerse. Quando l’Homo sapiens sapiens giunge nel continente americano, incontra i Camelops hesternus rimasti nella loro terra di origine e comincia a cacciarli. La predazione è così assidua che, in capo a qualche migliaio di anni, tutti i cammelli americani scompaiono per sempre dal continente.

Fortunatamente non sempre l’incontro tra esseri umani e camelidi è andato così male: in Asia e in Africa, invece che cacciarli per mangiarseli, gli uomini impararono ad allevare questi animali per ottenerne, oltre alla carne, anche lana, latte e lavoro. La loro relazione divenne talmente stretta che tutti i camelidi finirono con l’abbandonare la vita selvatica per diventare a tutti gli effetti degli animali domestici.

Camel burger

E l’Australia? Non si arrese dopo Harry, e nel dicembre del 1942 fece arrivare da Tenerife altri due dromedari, seguiti a ruota da nuovi esemplari da varie parti dell’Africa e dell’India: alla fine, si ottenne una mandria composta da almeno diecimila capi di bestiame.

Lo scopo dell’introduzione era legato all’incredibile capacità di adattamento che i camelidi dimostrano alla dura vita del deserto. Secondo gli importatori, se erano capaci di sopravvivere nel deserto del Sahara, se la sarebbero cavata egregiamente anche nell’arido outback australiano. Ed ebbero ragione! Gli animali vennero usati con successo nella costruzione della ferrovia che taglia a metà il pericoloso deserto australiano, trasportando legno, ferro e tutto il materiale necessario.

I tempi degli uomini però sono molto più veloci di quelli della natura: proprio mentre i dromedari si stavano adattando al loro nuovo lavoro, le macchine, i camion e altri mezzi tecnologi resero obsoleto il loro utilizzo. Insieme alle macchine comparve anche più di una domanda: che farsene di tutti quei cammelli, ora che non li si poteva più far lavorare? Come alimentarli, come abbeverarli? Perché prendersene cura, visto che ormai non servivano più a nulla? Tante domande per un’unica risposta: liberarli e lasciare che il destino si prendesse cura di loro.

Il fato accolse la sfida lanciata dagli uomini e trattò i dromedari particolarmente bene. Grazie all’assenza di nemici naturali, unita alla capacità di processare la cellulosa, i dromedari non solo non morirono, ma si riprodussero e prosperarono. Da diecimila divennero ventimila, poi trentamila, e aumentarono ancora, fino a raggiungere la considerevole popolazione di 500.000 unità che attualmente pascolano nel deserto australiano.

Ovviamente, questa sovrappopolazione non è senza conseguenze: seguendo il nostro raggio abbiamo ormai capito che nel cerchio della vita basta un solo, minimo cambiamento per modificare a catena tutto quello che c’è intorno. Nel caso dei dromedari australiani, i danni sono considerevoli: essi sono animali di grandi dimensioni, e per nutrirsi danno fondo alle poche erbe e alle rare pozze d’acqua che incontrano nel deserto. I piccoli marsupiali autoctoni non riescono a competere con la “nave del deserto”, le risorse sono troppo scarse e il rivale troppo forte.

Che fare, dunque, per proteggere la fauna locale dall’estinzione? Gli australiani hanno pensato di risolvere la situazione grazie al “camel burger”, una nuova specialità culinaria. Per prepararlo bisogna munirsi di un mezzo di trasporto che può andare dalla classica jeep fino all’elicottero, avventurarsi nel bush armati fino ai denti, scatenare una tempesta di piombo sugli animali, macellarli e cuocere la loro carne alla brace.

Il cammello è diventato uno dei piatti più gettonati nei ristoranti australiani: dall’hamburger alla bistecca, dalla grigliata al polpettone, senza contare il grande utilizzo delle sue pelli, che si trasformano in cappotti, giubbini, coperte e vengono commercializzati nei negozi più alla moda.

Una fine triste, ma non solitaria: la lista degli erbivori che hanno cambiato continente per colpa dell’uomo è lunghissima, almeno quanto la lista delle ricette che sono state ideate per contenerne la diffusione un morso alla volta.

Sulla costa Est degli Stati Uniti d’America si può assaggiare un delizioso fritto di granchi verdi (europei); nel Maryland si può assaporare il pesce osseo “testa di serpente” (che è orientale), servito in umido con una salsa alle fragole e una gelida piña colada; il leone di mare del Mar Rosso si trasforma in sushi nei ristoranti della Florida, e così via.

L’unico animale vegetariano che non si riesce a trasformare in una ricetta deliziosa è la nutria, un roditore che un tempo veniva allevato per la sua pelliccia e che adesso vaga libero in giro per il mondo. La sua carne ha un gusto tremendo e, per quanto ci si possa ingegnare, non si adatta a nessuna ricetta. Una soluzione? L’ha trovata una start up americana fondata da alcuni studenti di Veterinaria: se per noi umani la carne di nutria è assolutamente immangiabile, essa in compenso può diventare un ottimo cibo per cani!

Gli erbivori che non ti aspetti

Mucche, capre, cammelli: tutti erbivori, tutti animali speciali, ognuno a suo modo. Quando abbiamo intrapreso il nostro viaggio, però, ci siamo posti un obiettivo: quello di guardare le cose da un altro punto di vista, di provare a uscire dal seminato seguendo la luce di un raggio di sole in luoghi dove non avremmo mai pensato di mettere il naso. Ci sono un mucchio di cose, in natura, che stanno sotto i nostri occhi senza che noi riusciamo a vederle – e sì, tra queste ci sono anche molti erbivori.

I principali divoratori di erba, infatti, non sono le mucche, e neppure le giraffe e gli elefanti. Sono molto più piccoli, invece, ma abbastanza numerosi da processare una massa vegetale di impressionanti proporzioni. Stiamo parlando degli insetti, creature antichissime dalle abilità nascoste e sorprendenti!

Un primo esempio ci arriva dai Lepidotteri, cioè la grande famiglia che comprende sia le farfalle diurne sia quelle notturne. Questo importante gruppo è costituito da ben 200.000 specie, che hanno una cosa in comune: più invecchiano, più diventano belle. Come tutti sappiamo, infatti, prima di colorare il cielo con le loro ali brillanti le farfalle hanno una forma simile a quella dei vermi, e anziché volare strisciano per terra. Oltre a essere sgraziati, i bruchi hanno un appetito terribile che li tiene ancorati a ogni vegetale commestibile che incontrano sulla loro strada. Ciascun bruco necessita di un quantitativo di cibo pari a dieci volte il proprio peso: per assumere una tale quantità di erba e foglie, non può fare altro che tenere la bocca impegnata dall’alba al tramonto, masticando ininterrottamente fino a quando, alla sera, la stanchezza e la bassa temperatura bloccano il suo metabolismo dandogli un po’ di tregua. Inoltre bisogna tenere conto del fatto che, mentre i mammiferi sono capaci di consumare quasi esclusivamente le parti tenere come le foglie, gli steli erbosi e i frutti, i bruchi possono processare anche le radici, la linfa elaborata, il polline, e in alcuni casi perfino il legno, una sostanza tra le più indigeste che esistano in natura.

Ora, se proviamo a moltiplicare il quantitativo di cibo consumato quotidianamente da un bruco per le 200.000 specie di farfalle esistenti, otteniamo un numero ovviamente molto alto. Se poi continuiamo a moltiplicarlo per i miliardi di miliardi di individui che appartengono a ciascuna delle 200.000 specie, il risultato è una cifra da capogiro. Non è finita: a questo numero dobbiamo sommare anche la quantità di vegetali consumata dagli altri erbivori – uccelli, mammiferi, pesci, anfibi. Ecco che il numero ottenuto diventa così alto da risultare incalcolabile.

È naturale che questa brama di nutrimento scateni una colossale guerra tra gli erbivori e le piante: da una parte queste ultime resistono al continuo e pressante attacco crescendo e ricrescendo, fino a ricoprire di verde gran parte della superficie terrestre; dall’altra gli insetti sono sempre più numerosi e difficili da gestire. A tutt’oggi, la natura non ha ancora sancito chi può mettersi dalla parte dei vincitori e chi dei perdenti. L’unica cosa certa è che entrambe le fazioni possiedono delle armi di difesa e di attacco davvero efficienti.

La cimice che non invecchiava

Tra gli insetti, ce ne sono alcuni che possono scegliere quale dieta seguire. Le cimici, per esempio, si dividono tra predatrici, ematofaghe (cioè quelle che si nutrono esclusivamente di sangue) e vegetariane. Queste ultime sono le più numerose, e tra le migliaia di specie spicca un piccolo esemplare nero e rosso, facile da osservare soprattutto in autunno, quando si raduna a frotte nei pressi dei tronchi degli alberi per cercare un rifugio per il freddo inverno. Si chiama Pyrrhocoris, un nome che si può tradurre letteralmente come “corazza rossa”: la massa di insetti aggrovigliati l’uno sull’altro sulla corteccia crea infatti l’impressione di una corazza dalle sfumature rosse. E non a caso: un po’ come per noi uomini in strada (pensiamo ai cartelli e ai semafori), spesso anche in natura il rosso è un segnale di pericolo. Nel caso di queste piccole cimici, serve ad allertare chiunque voglia avvicinarsi del fatto che sono velenose, per cui è bene che i predatori si tengano a debita distanza!

Il pirrocoride è il protagonista di una storia che si è svolta tra gli Stati Uniti e quella che una volta si chiamava Cecoslovacchia, e che ha avuto, come ultimo esito, un mondo migliore.

La prima parte della vicenda avviene in un tetro laboratorio di Praga. Qui l’entomologo Karel Sláma studia con grande successo il sistema ormonale degli insetti, utilizzando per i suoi test una folta colonia di pirrocoridi.

Siamo negli anni della cortina di ferro, ma i risultati degli esperimenti di Sláma sono talmente brillanti da creare una breccia e oltrepassare l’oceano. Quando gli scienziati dell’università di Yale lo invitano a passare qualche tempo nei loro ultramoderni laboratori, l’entomologo ceco non se lo fa ripetere due volte: carica armi, bagagli e pirrocoridi su un aereo e si stabilisce negli Stati Uniti, dove riprende la sua attività di ricerca.

A un certo punto, però, succede una cosa terribile: i pirrocoridi iniziano a sentirsi male e a manifestare strani sintomi: mantengono per lungo tempo la forma giovanile, senza mai diventare adulti. In pratica, non riescono a crescere, e di conseguenza neppure a riprodursi.

Come si spiega questa malattia? Sláma inizialmente pensa a qualche sostanza insetticida presente nel laboratorio, ma quando cambia sede la situazione non migliora. Anche l’ipotesi che sia il cibo degli insetti a essere contaminato si rivela senza fondamento.

I mesi passano e l’allevamento si riduce al lumicino, finché anche l’ultima cimice non si spegne, lasciando il povero Karel a domandarsi perché. Non potendo proseguire i suoi studi, Sláma torna a Praga e raccoglie una nuova colonia per riprendere con gli esperimenti: forse era stato il cambio di continente a provocare la strage di pirrocoridi. Invece, con sua grande sorpresa, anche nella vecchia Europa gli insetti continuano a morire. Non gli resta che una cosa da fare: analizzare scrupolosamente le differenze tra l’allevamento originario e quello dopo l’avventura oltrecortina.

Dobbiamo premettere che l’allevamento di questa cimice è piuttosto semplice: è sufficiente prendere alcuni esemplari, chiuderli in una capsula di Petri con un fondo di carta assorbente, fornirgli dei semi come cibo e metterli in un luogo caldo e luminoso.

In America, al nostro entomologo era stato fornito del materiale di prima scelta, tra cui dei fogli di carta assorbente nuovi di zecca, che lui aveva riportato con sé a Praga per allevare i nuovi insetti… Ed ecco, finalmente, scovato l’inghippo: la carta europea è diversa da quella americana; una deriva da legno di latifoglie (in particolare betulle), l’altra da quello di una specie di pino tipica degli Stati Uniti.

Cambiando la carta, la misteriosa malattia scompare all’istante. Cosa contiene il pino americano che le betulle europee non possiedono? La scoperta è talmente sorprendente e utile che se ne beneficia ancora oggi: nel legno americano ci sono delle sostanze chiamate “fitormoni”, in grado di interagire con il sistema ormonale degli insetti e modificarlo radicalmente. Nel caso dei pirrocoridi, i fitormoni non permettono loro di diventare adulti, ma sono tantissimi gli insetti che subiscono effetti indesiderati quando vengono a contatto con queste sostanze.

Ebbene, è proprio grazie a questa scoperta che si è deciso di utilizzare i fitormoni per difendere le colture agrarie. Essi, infatti, sono alla base dei cosiddetti “insetticidi di quarta generazione”, che rimpiazzano completamente i tossici, vecchi insetticidi con enorme vantaggio per i nostri ecosistemi, e il loro successo ha incoraggiato lo studio di altre tecniche di difesa ecosostenibili, incrementando il numero delle aziende che si dedicano all’agricoltura biologica.

Bomba a orologeria

La vasta porzione del continente americano che si estende dall’Argentina fino al Sud degli Stati Uniti è abitata da un genere di formiche che gli scienziati chiamano Atta e dalle persone normali conosciute come formiche tagliafoglie, perché è proprio questo il loro piatto preferito.

Ogni mattina, un plotone di operaie esploratrici esce dal nido sotterraneo in cerca di nuove fonti di cibo. Appena una riesce a scovare un albero o un prato ricco di foglie succulente, si posiziona in cima al vegetale e inizia a sfregare le sue zampe con uno speciale organo posizionato tra l’addome e il torace. L’effetto di questo movimento è un fischio, debole ma udibile anche dall’orecchio umano, stridulo e acuto.

Quando le sorelle che si aggirano nei dintorni percepiscono il fischio, abbandonano le loro faccende per raggiungere l’esploratrice; a quel punto, anche loro si mettono a fischiare, producendo un coro con un volume che cresce man mano che altre formiche accorrono all’adunata. Quando sono sicure di essere tutte presenti, e che nessuna di loro sia persa in mezzo alla foresta o al prato, il coro si zittisce e il massacro ha inizio: centinaia di mandibole si accaniscono sulle foglie dell’albero per farle a pezzetti, senza esitazioni e senza pietà. Ogni pezzetto misura pochi centimetri quadrati, e quando un’operaia lo stacca lo afferra e lo mantiene in verticale sopra di sé. Allora, si forma una processione: con il pezzetto di foglia a fare da stendardo, la famiglia si dispone in una fila ordinata e si dirige compatta verso casa.

Il pericolo, però, è dietro l’angolo: una minuscola mosca parassita ha ascoltato il coro delle formiche e si è diretta verso la famiglia mentre, ignara, era intenta a ridurre in brandelli le foglie dell’albero.

Questa piccola mosca sa attendere, come tutti i predatori degni di tale nome. Così, ben sapendo che l’arma delle tagliafoglie è costituita dalle mandibole, aspetta il momento in cui le operaie sono indifese perché hanno la bocca impegnata. A quel punto, sferra il suo attacco micidiale grazie a una risorsa segreta davvero speciale: un uovo! Con grande cautela, essa prova a posizionarsi in modo da deporre un uovo sopra il corpo della povera, ignara formica.

Si tratta di una bomba a orologeria: se l’assalto ha un esito positivo, dopo qualche giorno dall’uovo uscirà una piccolissima larva, talmente piccola da riuscire a infilarsi all’interno del corpo del suo ospite e iniziare… a mangiarselo. Il finale è drammatico: la formica perisce tra mille dolori, mentre la mosca diventa sempre più grande, si trasforma prima in pupa e quindi in un adulto che, dopo aver sfondato l’esoscheletro della sua vittima, esce allo scoperto per attaccare altre formiche.

Le tagliafoglie, ovviamente, non stanno a guardare. Non sono predatrici carnivore come le mosche, ma si sanno difendere egregiamente. La loro grande forza risiede, più che nelle mandibole taglienti, nella coesione del gruppo.

Esse si difendono viaggiando sempre in coppia composta da una sorella di stazza piuttosto grande che taglia e trasporta la foglia mentre l’altra ha un corpo più piccolo ma un carattere belligerante.

Mentre la formica grande trasporta il pezzetto di vegetale, la più piccola si posiziona in cima al ritaglio e scaccia, a suon di mandibole, i bombilidi in cerca di una vittima.

Piccoli chimici

Le operaie tagliafoglie viaggiano come i carabinieri: sempre in coppia, una grande che taglia e trasporta la foglia, una piccola che si posiziona in cima al ritaglio del vegetale e combatte per mantenere alla giusta distanza eventuali aggressori. Grazie a questa coesione, esse riescono a raggiungere il formicaio sane e salve.

Quando lo raggiungono, la grande deposita il suo raccolto e poi torna fuori, in attesa di un nuovo fischio.

Le più piccole, invece, restano a lavorare il brandello vegetale: lo frantumano con le mandibole prodigiose, poi lo lasciano ad altre sorelle di dimensioni ancora inferiori che, dopo averlo ridotto in una polvere verde, lo inumidiscono con i loro escrementi liquidi.

Il risultato è una poltiglia che viene posizionata in speciali camere del formicaio, di dimensioni variabili (alcune sono grandi come una pallina da tennis, altre come dei palloni da basket). Quello che non cambia è il trattamento della poltiglia, che viene inoculata con degli antibiotici “fatti in casa”: le formiche li producono da batteri che vivono sul loro torace per evitare che i microrganismi che abitano sottoterra intacchino il miscuglio vegetale facendolo marcire.

L’unica a sopravvivere all’effetto degli antibiotici è una muffa molto simile a quella grigia del pane, che inizia a impossessarsi della massa umida crescendo e propagandosi dappertutto. L’impasto si trasforma così in una sostanza leggera e spugnosa, che viene costantemente controllata dalle formiche: se qualche fungo estraneo riesce a insediarsi nonostante l’antibiotico, viene immediatamente rimosso.

Mentre sottoterra le guardiane si assicurano che l’impasto non vada a male, le tagliafoglie che operano in superficie si dirigono in fila indiana verso il bosco, dal quale tornano con tante goccioline di acqua. A cosa servono? A inumidire l’impasto, un po’ come si fa quando si prepara il lievito madre. L’ultimo passaggio è la concimazione: le formiche riversano i loro escrementi sulla sostanza, ottenendo come risultato finale un’enorme spugna di colore grigio che odora di muffa.

Sembra un esperimento riuscito male, una di quelle poltiglie che i bambini preparano giocando al Piccolo Chimico… ma non lo è. Tutto questo – apparentemente disgustoso – procedimento serve per nutrire la muffa. Perché tanto disturbo? Il fatto è che le formiche, pur essendo erbivore, non hanno il superstomaco dei grandi mammiferi e pertanto non sono capaci di digerire la cellulosa; inoltre, molte piante dell’America centrale sono infarcite di veleni, proprio per evitare di farsi divorare dagli erbivori.

Il fungo ospite serve ad assimilare la cellulosa in sostanze digeribili e ricche di energia, trasformare il veleno in cibo delizioso e fornire al formicaio ben due pietanze diverse, adatte a tutte le esigenze: le larve e la regina si nutrono direttamente alla fonte, divorando abbondanti porzioni di muffa grigia, mentre gli adulti sfruttano la linfa elaborata e zuccherina che sgorga dai frammenti di foglia già processati.

La guerra con i carnivori

Il cerchio, a prima vista, si chiude: le formiche vivono placidamente, il fungo trova un ambiente ideale e un popolo che lo cura. Il lieto fine però non pertiene alla natura, anzi, dato che questa è una storia circolare, gli eventi si susseguono uno dopo l’altro. Se vegetariani e carnivori spesso faticano ad andare d’accordo anche tra gli esseri umani, nel mondo animale questa antipatia si trasforma in una guerra spietata: la posta in gioco, in questo caso, è la vita stessa.

Nel caso delle formiche tagliafoglie, il nemico è un esercito di cugine feroci e bellicose: le formiche Nomamyrmex. Il cibo preferito da questo popolo guerriero non sono le foglie degli alberi e nemmeno i germogli del prato; esse si nutrono proprio delle formiche Atta!

Per procacciarsi il cibo, l’esercito delle Nomamyrmex si sveglia al mattino presto e procede compatto verso il formicaio delle tagliafoglie. Quando arriva in prossimità del nido da saccheggiare, tra i due popoli inizia una grande battaglia: le attaccanti sfoderano un pungiglione velenoso che infilzano nel corpo delle nemiche; le altre si difendono a suon di mandibole taglienti, con cui spezzano l’esoscheletro delle intruse.

Il conflitto finisce quasi sempre nello stesso modo: con la conquista del nido da parte delle Nomamyrmex, più forti per indole e più abituate al combattimento. Esse, dopo aver ucciso tanti nemici, si intrufolano nel loro nido, ne percorrono i tortuosi cunicoli e raggiungono finalmente il loro obiettivo: le stanze in cui riposano, innocenti, le larve e le uova delle Atta, che verranno trasportate nel loro formicaio come bottino per sfamare tutta la colonia.

Prima di tornare nella loro roccaforte, però, le Nomamyrmex lasciano un segno indelebile del loro passaggio. Alcuni soldati scelti si intrufolano nei corridoi delle tagliafoglie in cerca del luogo più riparato dell’intero formicaio: la stanza in cui la formica regina depone le uova. Una volta raggiunta la camera segreta, le Nomamyrmex sfoderano il loro pungiglione velenoso con cui infilzano, uccidendola, la madre di tutte le formiche, la più importante della colonia.

Adesso, il cuore dell’intera famiglia si è spento e il formicaio è destinato a collassare. I pochi sopravvissuti, non riuscendo a coordinarsi tra loro, abbandonano la casa per aggirarsi raminghi tra i prati e le foreste intorno. Soli, tra le erbe alte e gli alberi che sfidano il cielo, incontrano presto la loro inevitabile morte.

La lucertola vendicatrice

Quella della guerra fratricida tra formiche carnivore e vegetariane è una storia di violenza e sangue, apparentemente senza vie d’uscita. Eppure, nella vasta porzione del continente americano che si estende dall’Argentina fino al Sud degli Stati Uniti, così come in tutto il mondo in cui il cerchio della vita ruota costantemente, le vicende degli organismi si aprono sempre a nuove prospettive che spaiano le carte del gioco.

La natura, infatti, ha fatto comparire proprio in quella porzione di territorio una lucertola dal nome di Amphisbaena alba. A prima vista, questo rettile si può confondere con una biscia, oppure con un serpente, dato che è sprovvisto di zampe e si muove strisciando, esattamente come i suoi parenti dalla lingua biforcuta. Ma la luce del nostro raggio di sole ci guida sicura mostrandoci ogni dettaglio: nessun errore, dunque, si tratta proprio di una lucertola – carnivora, come tutte le lucertole.

Essa si aggira per i prati in cerca di insetti, il suo pasto preferito, e per trovarli si serve dell’olfatto estremamente sensibile. Talvolta, durante il suo peregrinare, le mucose olfattive dell’Amphisbaena vengono solleticate dall’inconfondibile odore del feromone “traccia” delle formiche Atta.

Queste formiche, come tutte le formiche, comunicano, oltre che con i suoni, anche attraverso i feromoni. Quello chiamato “traccia” viene deposto sul terreno da una operaia esploratrice che ha scovato una fonte di cibo e sta tornando a casa. Le compagne, sentendo l’aroma, seguono questa traccia a ritroso fino a raggiungere la fonte del nutrimento. È per questo che le formiche si muovono tradizionalmente in fila indiana: stanno seguendo tutte la stessa scia olfattiva.

Si tratta quindi di un evento piuttosto comune; eppure, quando la lucertola percepisce l’odore, il suo destino cambia radicalmente. Essa interrompe immediatamente la sua ricerca di cibo per seguire il filo aromatico che la porta dritta nel nido delle formiche. A questo punto, scava un ingresso secondario e prende alloggio in una delle comode stanze in cui i funghi crescono rigogliosi e processano l’impasto vegetale. La cosa strana è che le formiche – note per essere particolarmente inospitali, come abbiamo visto nel caso degli insetti stecco – stranamente tollerano questo intruso e non fanno nulla per scacciarlo. Da parte sua, la lucertola si dimostra un inquilino discreto e dal formicaio non cerca né cibo né lavoro. Semplicemente, al riparo sottoterra, la Amphisbaena rimane in attesa. Di cosa? Delle terribili formiche Nomamyrmex!

Quando il loro esercito bellicoso si appresta alla conquista del nido delle tagliafoglie e la sanguinosa battaglia si scatena, le viscere della Terra iniziano a borbottare. Improvvisamente, proprio quando le Atta sono sul punto di soccombere, un gigantesco rettile con le fauci spalancate giunge in loro soccorso! La lucertola si muove forsennatamente e, a ogni movimento del capo, inghiotte intere legioni di invasori, che spariscono all’interno del corpo del rettile. Le formiche battagliere cercano disperatamente di pungerla, ma è tutto inutile. La lucertola è troppo grande e troppo forte, così l’onda nera delle formiche Nomamyrmex si affievolisce sempre più, fino a scomparire.

La Amphisbaena è un elemento sorpresa nella guerra tra formiche, un cavallo di Troia che assicura alle tagliafoglie di mantenere salvo il loro nido, non solo contro gli attacchi delle “cugine” carnivore, ma anche contro le miriadi di coleotteri che ogni giorno cercano di varcare i confini del formicaio nel tentativo di rubare un pezzetto di fungo. Dopo la vittoria, ogni cosa torna al suo posto: le operaie riprendono il loro andirivieni nei campi, mentre la lucertola si ripara nel suo antro oscuro sottoterra.

Piccole, ma micidiali

La simbiosi tra le formiche tagliafoglie e la Amphisbaena è apparentemente perfetta: il rettile ha a disposizione un pasto abbondante, non è costretto a strisciare per i prati in cerca di insetti e, per di più, alloggia in una casa sotterranea comoda e ben protetta. D’altra parte, anche le formiche hanno un indiscutibile vantaggio: dove possono trovare un alleato così potente?

Può succedere, però, che questo idillio si incrini. Scoraggiati dalla presenza della lucertola, gli attacchi delle Nomamyrmex si fanno sempre più rari e, come spesso accade lungo il cerchio della vita, quella che sembra una buona notizia è in realtà il principio di una crisi. Lo stomaco del rettile inizia a borbottare per la fame e, non trovando intorno a sé nemmeno l’ombra delle sue pietanze preferite, per placarla comincia a fare incetta di larve e di uova della sua povera coinquilina, che ovviamente subisce senza ribellarsi: la lucertola è troppo potente, sia come amico sia come nemico.

Se però usciamo dall’oscurità del nido e lasciamo che il nostro sguardo si allarghi, oltre le formiche e il loro piccolo mondo riusciremo a vedere l’intera foresta: allora sì che troveremo una vera simbiosi.

Gli alberi e le erbe del prato nutrono le tagliafoglie, le quali, a loro volta, sostengono la vita delle piante con le loro gallerie sotterranee, che fanno arieggiare il terreno rendendolo idoneo alla crescita delle radici. Salde radici permettono alle chiome di slanciarsi verso l’alto e quindi produrre tante foglie, perpetuando un ciclo senza fine.

Ogni intoppo, in questo cerchio, si trasforma in un modo per disinceppare il meccanismo e mantenere l’equilibrio, proprio come avviene con le lucertole, che consentono alle tagliafoglie di sopravvivere, ma non di spadroneggiare all’interno della foresta. D’altro canto, queste formiche sono dotate di una capacità di adattamento sorprendente, e sanno sfruttare un apparente svantaggio (come le loro dimensioni ridotte) per farsi valere. Insomma: sono piccole, ma micidiali.

Un esempio perfetto si mostra con l’arrivo degli esseri umani, che sono da sempre i maggiori elementi di disturbo in questo circuito che ruota da milioni di anni. La loro fame atavica li spinge a coltivare sempre nuove terre e a tagliare sempre più legname. Gran parte delle foreste che ricoprono la superficie terrestre – e non soltanto nell’habitat delle tagliafoglie – sono state abbattute per accogliere immensi campi coltivati.

Il disastro che ne consegue è facile da immaginare: sparita la foresta, dovrebbero sparire anche le formiche. E invece no: questo popolo antico ha trovato il modo di sopravvivere. Di giorno le operaie, anziché dirigersi verso gli alberi, vanno a cercare il cibo direttamente nei campi, dove prelevano grandi porzioni di foglie.

Purtroppo non si può piacere a tutti, e la simbiosi che avevano con gli alberi, nata dopo milioni di anni di convivenza, con le piante agrarie non riesce a instaurarsi. Esse provengono da ogni angolo del mondo, e non hanno mai dovuto adattare le proprie abitudini alla presenza delle tagliafoglie. Così, i campi coltivati si riempiono di scheletri di vegetali destinati a soccombere di fronte al microscopico nemico.

E gli inconvenienti non terminano qui, anche uomini e animali finiscono vittime di questa convivenza forzata: i formicai, con tutte le loro camere, si possono ramificare per metri e metri nel sottosuolo, arrivando a coprire una superficie complessiva davvero notevole. Non è quindi raro che, in queste terre rubate alla foresta, un trattore o un animale allevato si ritrovi a camminare sul sottile strato che separa il mondo esterno da quello sotterraneo. A causa del grande peso, il labile confine si frantuma e il malcapitato – macchina agricola o animale che sia – sprofonda e precipita verso il basso!

Bocca a siringa

Ora è arrivato il momento di lasciare le tagliafoglie e il loro nido per continuare il nostro viaggio lungo il cerchio della vita. I prossimi abitanti della biosfera che incontriamo hanno aggirato brillantemente ogni singola strategia adottata dai vegetali per non farsi mangiare. L’indigeribilità della cellulosa non li riguarda, il problema dei veleni non li sfiora e i lembi dentellati delle foglie non li preoccupano. Essi superano le barriere vegetali dirigendosi direttamente verso il cuore della pianta, e cioè verso il liquido zuccherino che scorre all’interno di ogni vegetale: la linfa.

Stiamo parlando degli afidi e delle cocciniglie, due insetti strettamente imparentati tra loro e dotati di una bocca molto speciale: è grazie a lei che riescono ad annientare ogni ostacolo e barriera che li separa dal nutrimento che cercano. Simile a una lunga siringa, essa si conficca nei tessuti vegetali fino a raggiungere il dolce fiume di acqua e zucchero che fluisce dentro di loro.

Per proteggere il suo “sangue”, la pianta cerca di posizionare i vasi floematici nel punto più profondo del proprio corpo; di conseguenza, la siringa degli afidi e delle cocciniglie deve avere una lunghezza tale da conquistarsi il nutrimento. Non solo: con il passare del tempo, i tessuti della pianta diventano sempre più duri e resistenti; non è un caso, quindi, che gli afidi agiscano principalmente in primavera, quando l’epidermide vegetale è ancora tenera e la siringa può pungere più in profondità.

Per quanto abili, però, questi insetti non sono invincibili. Ci sono anche degli svantaggi legati alla loro bocca prodigiosa: per esempio, una volta inserita, non è di facile estrazione e li costringe a rimanere fermi, dopo ogni pasto, per un periodo molto lungo. Inoltre, la linfa elaborata è un liquido molto ricco di zuccheri, ma povero di proteine e altre sostanze fondamentali per il metabolismo animale: in parole povere, non è un alimento completo. Per soddisfare i propri fabbisogni alimentari, afidi e cocciniglie sono costretti a succhiare litri e litri di linfa, restando incollati alla foglia per tutto il tempo.

Un problema, questo, che ne attira altri, tra cui uno davvero pericoloso che si può facilmente intuire: proprio come le piante che predano, questi animali non riescono a scappare, il che li rende, ovviamente, delle facili prede. Ma, proprio come le piante, tra un millennio e l’altro hanno trovato qualche soluzione ai loro problemi.

Rosso cocciniglia

Partiamo dalle cocciniglie. Questi insetti hanno una caratteristica fondamentale: in base al sesso, il loro aspetto cambia radicalmente.

Le femmine assomigliano a delle piccole patelle che vivono attaccate alla superficie dei vegetali, rivestite con una struttura in tutto analoga a una conchiglia. Per stare compatte all’interno del guscio, nel corso della loro vita rinunciano ad alcune cose che per altri insetti sono essenziali, come le zampe (che perdono invecchiando) e le ali (che non sviluppano mai). Il loro corpo si trasforma in un sacchetto pieno di uova, provvisto di una bocca a siringa lunghissima che rimane costantemente conficcata all’interno della pianta.

I maschi sono completamente diversi. Hanno le ali, le zampe e nessun guscio; sono in continuo movimento per ricercare le loro compagne; non si nutrono di linfa elaborata, ma del nettare dei fiori (come le api e gli altri insetti impollinatori che abbiamo già incontrato lungo il cerchio della vita) e non necessitano di tanto nutrimento perché non devono produrre tante uova. Qualche sorso di nettare è sufficiente a far partire il loro metabolismo e fare quel che devono – cioè fecondare le femmine, aggirandosi nei pressi delle loro colonie e infilando un lungo organo sessuale sotto le loro corazze.

La differenza tra i due sessi è così marcata che, fino all’inizio dell’Ottocento, gli entomologi cadevano sempre in inganno, convinti che i maschi non appartenessero affatto alla famiglia delle cocciniglie. A confonderli non era soltanto l’aspetto così diverso, ma anche il comportamento: sostenevano che i maschi fossero in realtà delle femmine di parassiti, e che il lungo organo fosse un ovodepositore in grado di infilare le uova all’interno del corpo dell’ospite.

Tornando alle femmine, la loro straordinaria somiglianza con le patelle non è un caso, ma un altro esempio di convergenza evolutiva. Anche i molluschi marini sono costretti a rimanere immobili per filtrare litri e litri di acqua, recuperando quel poco di sostanza organica contenuta nel liquido salato. Per proteggere il loro corpo molle, si dotano di una dura conchiglia che faccia loro da scudo.

Come abbiamo visto nei vegetali, alle volte non è sufficiente difendersi: bisogna dotarsi di qualche arma di offesa. Così, esattamente come le piante, le cocciniglie e i molluschi infarciscono i propri tessuti con delle sostanze velenose, oppure con coloranti che dissuadano i predatori.

È interessante notare che i colori, utilizzati dai fiori per attirare l’attenzione di potenziali partner, siano invece in questo caso indicatori di pericolo: il predatore non ha la sensibilità e la fantasia degli impollinatori, e quando incontra un colore inusuale, nel dubbio, si rivolge altrove.

L’uso del colore da parte di patelle e cocciniglie è anche al centro di due storie davvero bizzarre.

La prima è iniziata più di 4000 anni fa, nel luogo occupato attualmente dal Libano. Qui viveva il popolo dei Fenici, che aveva imparato a dominare le forze del mare e a raccogliere il vento vigoroso del Mediterraneo per farsi spingere alla ricerca di terre sconosciute, per conoscere nuovi popoli e mercanteggiare con loro.

Forti come le onde che attraversavano e potenti come l’aria che soffiava sulle loro coste, i Fenici mostravano il loro fiero carattere colorando le vesti di rosso: volevano attirare l’attenzione, ma anche essere temuti. Il rosso era un segnale che metteva tutti in allerta. A fornire il colorante era sempre lui, il mare: la materia prima arrivava da un mollusco piuttosto comune nei fondali sabbiosi, il murice, provvisto di una ghiandola ripiena di una sostanza color porpora. I Fenici pescavano queste conchiglie, le frantumavano e usavano il colore per tingere le stoffe.

Come possiamo immaginare, la sostanza vermiglia viene prodotta dal mollusco per allontanare i predatori, eppure il caso ha voluto che alla fine attirasse il più terribile tra i suoi nemici: l’uomo. Inoltre, se la quantità di colorante contenuta nella ghiandola è sufficiente a spaventare un animale, certo non basta per tingere le stoffe: per colorare un singolo vestito, i Fenici dovevano raccogliere migliaia di murici.

Raccogli oggi, raccogli domani, raccogli per centinaia di anni, va da sé che, nonostante la generosità del mar Mediterraneo, i poveri molluschi iniziarono lentamente a diminuire; così le vesti persero brillantezza, spegnendo l’orgoglio nazionale fenicio. Ma l’antico popolo non si diede per vinto e, stimolato dalla brama di colorante, si avventurò nel grande Oceano Atlantico per pescare le preziose conchiglie.

Viaggiando per tutto il Mediterraneo, i Fenici incontrarono il popolo romano, che venne contagiato dalla moda del rosso porpora. Anche per loro era un segno di potere e nobiltà – tant’è che tutti i senatori indossavano un ampio mantello vermiglio.

Ma il tempo sbiadisce le tinte, spegne le passioni e ridimensiona gli imperi. Dopo secoli di prosperità, i Fenici persero la supremazia dei mari e l’impero romano si frantumò in mille pezzi, ma il colore rosso mantenne il suo significato: solo che adesso, al posto dei mantelli dei senatori, c’erano le grandi tonache dei cardinali cattolici e, secoli dopo, le giubbe rosse della flotta britannica.

Cosa c’entra tutto questo con la nostra cocciniglia? C’entra eccome, perché il Mediterraneo era molto lontano dalla Gran Bretagna e a quel punto (siamo nel XVII secolo) i murici, dopo millenni di pesca, erano sempre più rari. Gli inglesi allora si rivolsero proprio a lei: alla cocciniglia, in particolare quella denominata Kermes vermilio.

E qui comincia la seconda storia, perché nel grande cerchio della natura i problemi sono la norma e anche la vita degli uomini non può che essere ricca di difficoltà. Le cocciniglie amano i luoghi caldi e secchi, cioè l’esatto contrario dell’uggioso, umido, freddo clima d’Inghilterra. Ricordiamoci però che ai tempi delle giubbe rosse gli inglesi avevano a disposizione l’impero più grande del mondo: di territori perfetti per l’allevamento delle cocciniglie potevano sceglierne a iosa. E fu così che le navi britanniche entrarono nel porto di Sidney cariche di piante di cactus provenienti dal Brasile, dove venne impiantato un allevamento di cocciniglie per colorare di orgoglio le giubbe di tutti i soldati dell’impero.

Qualcosa andò decisamente storto: mentre il cactus cresceva rigoglioso, l’insetto stentava ad acclimatarsi. Mentre la ragione prima dell’impresa, cioè la cocciniglia, non dava i risultati sperati, la pianta riuscì a varcare i confini dei campi coltivati e a espandersi per tutto il territorio australiano. All’inizio del Novecento, il bosco di cactus aveva raggiunto delle dimensioni apocalittiche. Come risolvere questa situazione? Gli inglesi andarono in Brasile, raccolsero una farfallina ghiotta di piante di cactus e la portarono in Australia: dopo qualche anno, questo spinoso problema era stato eliminato.

Ma il colore rosso era destinato a combinare altri guai all’impero britannico: i nemici potevano scorgere i soldati anche da molto lontano e sparar loro addosso tutto quello che avevano in canna! Si decise dunque, saggiamente, di dismettere le giubbe rosse e di utilizzarle soltanto in tempo di pace, oppure per le grandi cerimonie ufficiali.

È la fine quindi del colore rosso? No, il vermiglio delle cocciniglie si può ancora trovare, ma non placa più la fame di orgoglio – piuttosto, quella dello stomaco. Esso viene infatti usato per colorare un liquore molto diffuso in pasticceria, in particolare quella, deliziosa, siciliana: i pasticcini che contengono il liquore Alchermes sono irresistibili sia alla vista sia al palato.

Dai cardinali all’esercito, dai senatori romani alle pasticcerie siciliane… Le storie che intersecano le cocciniglie, il colore rosso e gli esseri umani sono un esempio perfetto del cerchio della vita: perché basta un insetto piccolissimo per creare e sconvolgere un universo intero.

Insetti matrioska

Dei parenti stretti delle cocciniglie sono gli afidi, conosciuti anche con il nome poco lusinghiero di “pidocchi delle piante”. Esattamente come le loro cugine, gli afidi in primavera si posizionano sulle piante e ne suggono la linfa zuccherina, ma c’è una differenza non da poco: essi non possiedono alcuna protezione; sono teneri, dolci e davvero gustosi. Non è un caso che, appena raggiungono una pianta, un vero e proprio esercito di predatori si precipita su di loro e ne mangia a più non posso! Coccinelle, crisope, larve di sirfidi, larve di Aphidoletes, parassitoidi, tutti insieme appassionatamente per banchettare a spese degli afidi.

Eppure, a dispetto della loro facilità di predazione, sono animali che si trovano dappertutto. Tanto per fare un esempio, basti pensare che l’Aphis gossypii – una specie di afide – è l’insetto più dannoso per l’agricoltura di tutto il mondo.

Come fanno quindi a non scomparire, e, anzi, a prosperare così bene? Le armi a loro disposizione sono sottili, difficili da individuare ma estremamente efficaci. Una delle strategie usate dagli afidi prende il nome di “strategia R” e consiste nel riprodursi velocemente e frequentemente. Per fare questo, hanno stabilito di eliminare, per gran parte dell’anno, il genere maschile: in questo modo il cento per cento della popolazione è in grado di generare dei figli.

Per metterli al mondo il più presto possibile, gli afidi non depongono uova, ma partoriscono direttamente delle piccole figlie che… alla nascita sono già incinte a loro volta! Come si spiega un simile prodigio? Questo fenomeno prende il nome di “inscatolamento delle generazioni” e assomiglia, concettualmente, a una matrioska: dentro una bambola grande ce n’è una più piccola, che a sua volta ne contiene una ancora più piccola e così via.

Questo strano fenomeno consente a un’afide di diventare mamma e nonna insieme. Il risultato è sorprendente: milioni e milioni di afidi che succhiano la linfa elaborata, alla faccia dei nemici che li assalgono. La loro capacità riproduttiva è più veloce delle mandibole affilate dei carnivori e consente alla specie di sopravvivere.

Ovviamente non è l’unico asso nella manica. Un altro meccanismo di difesa prende il nome di “feromone di allarme” ed è una sostanza volatile emessa da due strutture filiformi, i cornicoli, che svettano sopra l’addome dell’insetto. Quando un afide si accorge di un pericolo imminente, ne rilascia un po’; l’aroma viene percepito dalle antenne dei compagni, che si uniscono a lui nel secernere la sostanza. In breve tempo si forma un “coro” di odori che per noi umani è difficile da annusare ma facile da vedere: gli afidi alzano in modo coordinato i loro addomi, dando vita a un’onda che si propaga per tutta la colonia. Appena il nemico si allontana, smettono di emettere il feromone di allarme.

Bisogna però stare attenti alle quantità: se la quantità propagata è bassa, la calma ritorna e tutti riprendono a succhiare la linfa senza effetti collaterali, ma se invece la dose è alta, tutti gli afidi interrompono la loro attività e si gettano a terra senza riuscire a ingurgitare alcunché. Ma non c’è nulla da temere: grazie alla loro capacità di riproduzione, i pochi sopravvissuti riportano in brevissimo tempo la popolazione al consueto livello.

Afidi domestici

Per gli afidi, come molti animali erbivori, la parola chiave è “comunità”. All’interno delle colonie, i singoli si coordinano perfettamente tra loro, con relazioni talmente strette che la formazione viene considerata alla stregua di un unico animale, che prende il nome di “superorganismo”.

Unire le forze può essere la chiave per sopravvivere e per fare incetta di cibo. Le relazioni possono allargarsi e coinvolgere individui appartenenti anche a specie diverse – proprio come fanno le piante, che sanno stringere alleanze formidabili per attenuare i problemi legati all’immobilità, elargendo liquidi zuccherini in cambio di difesa.

Anche gli afidi ripagano gli alleati con lo zucchero. La linfa di cui si nutrono, infatti, all’interno della pianta viene usata come sistema di trasporto per trasferire glucosio dalle foglie agli altri organi – le radici, i frutti, i semi, alle volte i fusti. Va da sé, quindi, che nella dieta di questi insetti gli zuccheri sono talmente abbondanti che occorre trovare un sistema per liberarsi di quelli in eccesso. La risposta degli afidi (ma anche delle cocciniglie) è espellerli sotto forma di una sorta di melassa.

Questa sostanza zuccherina, una volta espulsa, ricopre gli afidi con uno spesso strato che funge da barriera contro le condizioni meteorologiche avverse. Ed è lei, ovviamente, la moneta con cui vengono pagati i protettori.

Le formiche, ormai le conosciamo, vanno letteralmente pazze per lo zucchero, al punto che non si chiedono da dove arrivi, se sia più o meno puro o più o meno a chilometro zero: semplicemente, quando lo scovano, fanno di tutto per proteggere lui e la fonte da cui proviene.

L’amicizia tra afidi e formiche è molto antica, anche se nel corso del tempo, da amicizia vera e propria, si è trasformata in un rapporto simile a quello che hanno gli allevatori con il bestiame: in pratica, le formiche trattano gli afidi come i loro animali domestici. Esse sono riuscite a sviluppare una speciale tecnica di “mungitura” per ottenere cibo dagli afidi: con le loro antenne tamburellano il loro addome, finché quelli non reagiscono emettendo una gocciolina dolce, che subito viene prelevata e condivisa dalle sorelle della famiglia. Non solo: le guerriere del prato hanno imparato anche la pastorizia. Così, quando il loro bestiame a sei zampe ha esaurito il getto, viene prelevato con le mandibole e trasportato su una nuova pianta tutta da sfruttare. Quando le condizioni meteorologiche si fanno critiche, di nuovo le formiche afferrano con le mandibole gli afidi e li portano al sicuro nel loro nido sotterraneo. Quando il sole splende nel cielo e le piante riprendono vita, è arrivato il momento di riportarli ai verdi pascoli!

Cosa ci guadagnano gli afidi, in tutto questo? Vengono protetti dai guerrieri neri, offrendo in cambio del cibo abbondante e di alta qualità.

La speranza ha la forma di un termitaio

Sono molti gli animali che si riuniscono in società per contrastare i predatori. Il nostro raggio di sole ce ne ha mostrati alcuni – gli afidi, le formiche, le api – ma non ci ha ancora presentato i più antichi, quelli che da più tempo abitano sul nostro pianeta. Si tratta delle termiti.

Questi insetti assomigliano alle formiche, non per un vicino grado di parentela ma per un fenomeno di convergenza evolutiva: entrambi hanno scelto l’oscurità della terra come regno da abitare, e questo ha fatto sì che incontrassero, lungo il cerchio della vita, gli stessi problemi, ai quali hanno risposto con le medesime soluzioni. La forma del corpo si adatta sempre alle condizioni in cui vive; è naturale, quindi, che due animali che occupano lo stesso habitat abbiano un aspetto simile.

Dal punto di vista sistematico, le formiche discendono dalle api (sono cioè api che, milioni di anni fa, hanno deciso di rinunciare al volo per rifarsi una vita sottoterra), mentre le termiti sono strettamente imparentate con gli scarafaggi. Eppure, la loro somiglianza non è soltanto fisica, ma anche, per così dire, culturale: la loro struttura sociale è pressoché identica, basata sulla presenza di un’unica madre, la regina, e tante figlie sterili che si occupano del nido e dei suoi bisogni. A differenza delle formiche, però, nel termitaio i maschi ci sono e hanno un ruolo. Anche loro sono sterili, al pari delle sorelle, e si occupano in particolare di proteggere il nido.

L’unico, fortunato maschio fertile che ha il privilegio di accoppiarsi è il re. Re e regina non hanno né gli stessi diritti né gli stessi doveri: è lei, la madre di tutti gli individui della colonia, a deporre le uova; nel corso della vita può arrivare a produrne ben 80 milioni, ma per farlo ha bisogno di un lungo lasso di tempo – e infatti può vivere fino alla veneranda età di 90 anni. I maschi non si occupano della deposizione delle uova e, dunque, non vivono così a lungo: un re può vivere al massimo tre anni. Questo significa che la regina deve continuamente cambiare il marito, dando vita a situazioni davvero bizzarre, come quando la sovrana, ormai novantenne, procede ad accoppiarsi con un “toy boy” di appena qualche mese di vita!

Tutta questa attenzione nei confronti della sovrana è equilibrata dal ruolo indispensabile svolto dal gruppo. Le termiti si radunano a milioni in un nido gigantesco, in un andirivieni che è confuso solo in apparenza: sotto questo brulichio di insetti si cela un ordine segreto, capace di costruire cose straordinarie.

La più straordinaria di tutte è il termitaio stesso: i termitai sono costruzioni che possono raggiungere incredibili altezze (nella savana africana ne esistono alcuni che arrivano a 12 metri e scendono nelle viscere della Terra per 40!); vanno in profondità nel terreno e, contemporaneamente si ergono verso il cielo. Questo perché le termiti hanno bisogno sia dell’umidità, che trovano nelle profonde falde acquifere, sia dell’aria, che trovano abbondante nel cielo. La cosa ha dei vantaggi anche per gli ecosistemi in cui vengono costruiti i termitai. Ecco un esempio: in alcune zone dell’Africa tropicale, così come in Asia meridionale e in Australia, si alternano dei periodi molto secchi con altri particolarmente piovosi. Durante questi ultimi, l’acqua può cadere in maniera così abbondante da far straripare i fiumi e ricoprire le pianure. Così come la luce porta la vita ma, se troppo intensa, è capace di toglierla, allo stesso modo si comporta l’acqua. La giusta dose è necessaria per i processi vitali, mentre le grandi inondazioni distruggono tutto quello che un tempo cresceva rigoglioso. Proprio quando l’acqua diventa troppa, una speranza si accende: questa speranza ha la forma di un termitaio! Mentre tutto è sommerso, esso diventa una piccola isola capace di ospitare semi di piante, piccoli mammiferi e insetti. Quando l’acqua si ritira e il terreno ritorna a mostrarsi, la vita che aveva raggiunto la sommità del termitaio interrompe il suo periodo da naufraga, scende e riconquista, semino dopo semino, passetto dopo passetto, le intricate relazioni tipiche di questi ambienti così complessi.

Re, regine, uova e funghi

Come fanno i termitai a restare in piedi nonostante le inondazioni? Il segreto risiede nella tecnica costruttiva: essi sono edificati miscelando la terra con una sostanza collante, prodotta dalle mandibole delle stesse termiti. Le pareti risultano particolarmente solide e impermeabili all’acqua, e anche la struttura è perfettamente congegnata: al loro interno si dirama un reticolo di gallerie costruito in modo tale da permettere alle correnti d’aria di spirare agevolmente e mantenere intatte le condizioni di umidità e di temperatura. Anche lo scambio con l’esterno avviene in maniera mirabile: le pareti del termitaio sono sì impermeabili all’acqua, ma non ai gas, che viaggiano tranquillamente tra dentro e fuori. Questo è fondamentale, perché gli insetti producono grandi quantità di anidride carbonica (che deve essere eliminata in quanto tossica), mentre necessitano di ossigeno per far funzionare il loro metabolismo. Grazie alle caratteristiche del nido, i due gas si scambiano di posto: l’anidride carbonica esce mentre l’ossigeno entra, permettendo all’aria nel nido di rimanere sempre pulita.

Il termitaio è un efficiente polmone e, al contempo, una fortezza inespugnabile. La sua parte più interna e protetta ospita, in una camera appositamente costruita, la coppia reale – il giovane re che non fa praticamente nulla e l’attempata regina che depone costantemente uova, che vengono prelevate e trasferite in altre camere appositamente progettate.

Poi ci sono le riserve di cibo, e quindi i giardini con i funghi. Le termiti, infatti, si nutrono di materiale vegetale, ma anche di lignina, una sostanza ancora meno digeribile della cellulosa. Per questo, esattamente come le formiche, hanno infatti instaurato una simbiosi con muffe e funghi per digerire l’indigeribile.

Esattamente come per le formiche, il materiale viene masticato, inumidito con la saliva e concimato con gli escrementi. I funghi crescono vigorosi all’interno del nido e sviluppano dei corpi fruttiferi tondeggianti, detti “sferule”, che rappresentano parte del cibo delle termiti adulte. Ma il loro ruolo non si limita alla mera alimentazione: i funghi sono coinvolti anche nella regolazione dell’umidità all’interno del nido, quindi servono anche da “condizionatori”.

L’alimentazione estrema delle termiti necessita di un sistema digestivo particolarmente complesso e quindi, oltre ad assomigliare alle formiche, esse riproducono in miniatura il sistema utilizzato dai bovini e dagli altri ruminanti. Sono infatti dotate di un apparato digerente formato da diversi comparti, un superstomaco piccolissimo ma estremamente potente.

L’epoca d’oro delle termiti italiane

Nonostante la loro capacità di coalizzarsi formando colonie forti e potenti, le termiti difficilmente riescono a uscire dal loro habitat e tendono a rimanere in zone temperate, soprattutto lungo la fascia tropicale.

Eppure, nel 1947 venne creato in Italia un istituto per combattere loro e i danni che potevano arrecare ai palazzi degli umani.

Com’è possibile che si siano spinte fino a noi e che siano riuscite a prosperare al punto da essere ritenute un temibile nemico pubblico?

Per capire il motivo di questo periodo d’oro delle termiti italiane dobbiamo tornare indietro nel tempo, e precisamente al primo settembre del 1939, quando le forze armate tedesche invadono la Polonia. È l’inizio della Seconda guerra mondiale, che, secondo le previsioni degli strateghi tedeschi, sarebbe stata una “guerra lampo”.

Il governo italiano si dichiara inizialmente “non belligerante”, ma il 10 giugno del 1940, dal suo balcone che affaccia su piazza Venezia, Benito Mussolini annuncia l’entrata in guerra dell’Italia: i tedeschi macinavano vittorie, allearsi con loro avrebbe sacrificato poche vite e regalato grandi vantaggi a tutta la nazione.

La guerra, invece, si protrae fino al 1945, quando il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia comunica la morte del Duce avvenuta a Giulino, in provincia di Como.

Sotto le ceneri e le macerie del conflitto stava però covando un’altra guerra: quella contro le termiti.

Per la prima volta nella storia, le bombe avevano abbandonato le trincee e i confini di guerra per inoltrarsi nelle città. Le case, le chiese e i palazzi di tutta Europa erano crollati sotto la pioggia di ordigni e alla fine del conflitto tutto, Italia compresa, era ridotto a un cumulo di macerie.

Tra i mattoni rotti e polverosi, tra le pietre distrutte, si poteva scorgere – ormai a brandelli – il legno un tempo usato come materiale da costruzione. Una visione infernale per gli umani, ma paradisiaca per le termiti, che, probabilmente arrivate in nave dalle ormai perdute colonie africane, iniziarono il loro banchetto. Dalle macerie, si propagarono poi nelle case civili: i danni, come si può facilmente immaginare, furono enormi. Ecco perché si decise di istituire un organo dello Stato per combattere questa orda selvaggia.

La guerra contro le termiti fu principalmente chimica: senza alcuno scrupolo, nei confronti degli insetti vennero usati prodotti che, qualche anno prima, avevano ucciso milioni di innocenti nelle camere a gas dei lager nazisti. Tutte le guerre finiscono, e anche quella contro le termiti si esaurì: gli invasori vennero uccisi e il legno venne riportato sopra i tetti. Il clima piuttosto mite dell’Italia ha permesso però ad alcune frange di termiti di resistere all’attacco; ora vivono relegate in pochissimi punti della penisola.

La colonia più resistente, che ancora procura seri danni alle travi di legno, è quella della Città del Vaticano. Le vecchie travi di San Pietro permettono alle termiti di sfamarsi nonostante il profuso sforzo degli esseri umani per toglierle di mezzo.

Se i danni in Italia, e in generale in Europa, sono limitati per la scarsità del legno come materiale costruttivo, in posti come gli Stati Uniti d’America le termiti mangiano che è un piacere: ancora oggi, sono circa 2 milioni le case degli americani che ogni anno finiscono in pezzi, smantellate dalla vorace fame di questi insetti!

Temperatura perfetta

Tra gli uomini e le termiti non c’è solo una relazione conflittuale.

Per esempio, a Harare, nello Stato africano dello Zimbabwe, si staglia un enorme centro commerciale inaugurato nel 1996, capace di accogliere 5600 metri quadri di negozi, 26.000 metri quadri di officine e, nel sotterraneo, ben 450 posti auto.

L’Eastgate Centre – questo il suo nome – è formato da due edifici, posti uno di fronte all’altro e collegati da una copertura vetrata che lascia spazio alla circolazione dell’aria. Dei ventilatori a basso consumo energetico aspirano l’aria dallo spiazzo tra i due edifici e la pompano in appositi condotti verticali all’interno dei due corpi di fabbrica, in modo che attraversi tutti i piani, per poi uscire all’esterno dai camini. Questo meccanismo ha una duplice funzione: da un lato garantisce il ricambio d’aria degli ambienti, dall’altro mantiene la temperatura sempre costante.

Cosa c’entrano le termiti? C’entrano eccome, perché l’Eastgate Centre mima proprio il sistema di raffreddamento e riscaldamento naturale di un termitaio, riuscendo nell’incredibile impresa di mantenere la temperatura costante senza l’uso del condizionatore (in un posto in cui si può passare nell’arco di una giornata dai 37 ai 3 gradi centigradi)! All’interno del centro si gode di una eterna primavera, che ha permesso di risparmiare in energia elettrica ben 3,5 milioni di dollari.

Un grande successo che è stato, ovviamente, replicato in altre parti del mondo. Nel centro di Londra svetta un enorme palazzo chiamato Portcullis House. Nelle stanze sempre fresche si aggirano i senatori del governo inglese, i quali possono elaborare le loro proposte di legge in un clima perfetto. Anche in questo caso, l’architetto Michael Hopkins si è ispirato al nido delle termiti e al suo perfetto condizionamento.

Molti nemici, molto onore

I regali delle termiti non si limitano ai consigli su come mantenere la temperatura costante all’interno degli edifici: grazie alla loro capacità di trasformare la cellulosa e la lignina in sostanze pregiate come lipidi e proteine, esse sono considerate un cibo prezioso. Dal punto di vista nutritivo infatti, 100 grammi di termiti africane contengono 610 calorie, 38 grammi di proteine e 46 di grassi: molto meglio di un hamburger ben cotto!

Queste risorse non passano inosservate nella foresta africana, e infatti le termiti hanno non pochi nemici. I più terribili sono le formiche matabele, che formano delle colonie immense (costituite anche da 20 milioni di unità) e prendono il nome da una delle tribù africane più spietate di tutti i tempi. Durante tutto il XIX secolo i matabele umani razziavano e distruggevano tutto ciò che incontravano nel loro cammino; la stessa cosa fanno le matabele a sei zampe: nella parte meridionale del Sahara formano delle legioni che quotidianamente assalgono i grandi termitai!

La battaglia si consuma in un’ora, come una vera Blitzkrieg. Dalle due alle quattro volte al giorno, le formiche procedono in lunghe file ordinate alla volta dei nidi nemici. Arrivate in sito, con le loro formidabili pinze neutralizzano le termiti soldato e uccidono tutte le operaie pizzicandole in bocca con un pungiglione; una volta varcata la soglia della fortezza, si avviano verso le stanze segrete e fanno razzia di uova e larve. Non distruggono l’intera famiglia, stanno attente a lasciare un numero molto alto sia di uova sia di larve, per permettere alle termiti di riprendersi e trasformare ancora legno e foglie secche in nutrimenti preziosi da depredare.

Le termiti, ovviamente, non stanno a guardare. I soldati, per proteggere la loro casa, stringono le matabele in un morso che risulta, molto spesso, letale. Alla formica malcapitata, ridotta in fin di vita, non resta che gridare. Ma le formiche non possiedono un organo stridulatore, per cui non possono urlare davvero. Lo fanno servendosi di una sostanza chimica che abbiamo già incontrato durante il viaggio: il feromone di allarme, che attira l’attenzione delle compagne in modo che recuperino la formica ferita, la portino nel formicaio e le somministrino le cure di cui ha bisogno – la principale consiste nel rimuovere i pezzetti di mandibola della termite (che spesso restano incastrati nel corpo della vittima) e lasciarla a riposo per qualche giorno.

Le termiti hanno anche nemici molto più grandi delle terribili matabele: gli scimpanzé, infatti, ambiscono alle proteine e ai lipidi contenuti nel loro corpo.

Ovviamente, nel loro caso, le dimensioni rendono impossibile un’invasione del termitaio. Come fare a stanare un obiettivo così piccolo? Loro hanno escogitato una strategia: si procurano dei ramoscelli, li privano delle foglie e li forgiano in modo da farli entrare agevolmente all’interno dei piccoli fori del termitaio. Una volta che lo strumento è costruito, infilano il ramoscello e attendono. Dopo qualche minuto, ritirano la loro rudimentale canna da pesca: immancabilmente, essa è ricoperta di tanti piccoli insetti, pronti per essere divorati come carne su uno spiedino!

Questa tecnica viene utilizzata anche dagli esseri umani per catturare le termiti, solo che, anziché mangiarle sul posto, le trasportano nei villaggi per cucinarle arrosto o friggerle in olio bollente, ottenendo uno snack nutriente dal sapore un po’ dolce, a metà tra la carota e la nocciola.

Bisogna però sottolineare che le termiti non nutrono solo lo stomaco degli umani, ma anche il loro spirito. Per esempio, in Australia gli aborigeni scelgono dei tronchi di albero – normalmente di eucalipto – resi cavi dalle abitudini alimentari di questi insetti, per usarli come strumento musicale. Esso si chiama didgeridoo, ed è uno strumento a fiato molto grande, con una forma simile a quella di una tromba, in grado di emettere un suono caldo e misterioso.

Farfalla in pelliccia

Nel corso di questo viaggio, abbiamo avuto (e avremo ancora) diversi incontri con le formiche. Si tratta di un caso? Certamente no. La famiglia delle formiche si è distinta, tra le migliaia che compongono la grande classe degli insetti, per le sue capacità adattative: attualmente non esiste luogo terrestre che non conosca l’andirivieni frenetico di queste irriducibili guerriere. Un grande successo biologico, dovuto alla straordinaria capacità di cooperare sia tra loro sia con altri organismi. Insieme formano una rete collaborativa che permette loro di vincere la terribile lotta per la vita, grazie anche al riparo sicuro del formicaio.

Come abbiamo visto, il formicaio è un luogo talmente protetto che molte specie cercano di utilizzarlo come “tana” per ripararsi dai nemici e dalle intemperie. Tra queste c’è anche una famiglia di farfalle, chiamate licenidi. Si tratta di lepidotteri piuttosto comuni, di piccola taglia, con ali colorate di un blu brillante nei maschi e di un marrone sbiadito nelle femmine.

I bruchi di queste farfalle si comportano come tutti i bruchi del mondo: vivono su varie piante e si nutrono continuamente di foglie. Le differenze con il resto dei lepidotteri emergono quando la larva si sta per trasformare in crisalide: in quel momento ha inizio una raffinata strategia per sedurre le formiche e approfittare della loro ospitalità. La larva di licenide si lascia cadere al suolo e rilascia una sostanza liquida dal sapore dolciastro, che attira le formiche (sempre affamatissime di zuccheri) a frotte; non appena raggiungono il corpo inerte del bruco, esse lo afferrano con le loro potenti mandibole e lo trasportano nella città sotterranea.

È qui, immersa nell’oscurità, che si verifica la simbiosi tra i due insetti: la farfalla riceve riparo dalle intemperie e da pericolosi predatori pagando l’affitto con abbondanti dosi di cibo zuccherino, in un idillio che dura diversi mesi.

Il tempo passa e l’inverno, giorno dopo giorno, si impossessa del mondo esterno: le giornate si accorciano, le temperature calano e il sole si affaccia sempre più di rado. È il periodo dell’anno in cui il bruco del licenide, protetto da uno spesso strato di terreno, si trasforma in crisalide. La ruota della vita continua a girare e, dopo qualche mese, il sole si riprende il mondo spazzando via i colori cupi dell’inverno con le corolle dei fiori e i profumi della primavera.

Il licenide, a questo punto, sente la brama di ritornare nella superficie scintillante. Abbandona la dura corazza della crisalide e diventa una bella farfallina del colore del cielo. Dopo essersi cambiata d’abito incontra però un ostacolo: le formiche non riconoscono in questo essere alato il loro vecchio amico bruco – e come biasimarle? Più che un cambio di look, quella delle farfalle è una metamorfosi radicale! Di fronte al nuovo, elegante inquilino, il formicaio impazzisce, convinto di trovarsi alle prese con un intruso (e ormai abbiamo imparato che gli intrusi, nel formicaio, sono tutt’altro che ben visti). Centinaia di guerriere si avventano quindi sulla farfalla neonata, con la chiara intenzione di ucciderla… Dobbiamo aspettarci un finale tragico? La farfalla non si ricongiungerà mai al prato primaverile? Nulla di tutto ciò: la natura ha rivestito il corpo del licenide con una folta pelliccia bianca, che funge da barriera e non permette alle mandibole delle formiche di ferirne il corpo.

Di fatto, mentre la farfalla corre svolazzando nei cunicoli del formicaio alla ricerca dell’uscita, le formiche addentano ciuffi di peli che si staccano senza danneggiare la fuggitiva – e anzi, facendole un favore: quando il licenide, finalmente, esce alla luce del sole, ha perso la folta pelliccia che avrebbe intralciato il suo volo. Adesso non le resta che fare qualche passo, sbattere delicatamente le ali, ricongiungersi al cielo e incominciare un nuovo capitolo nella meravigliosa storia della vita.

Delicate e invincibili

Le farfalle, abbiamo già visto, sono delle formidabili divoratrici di vegetali: i bruchi si nutrono sostanzialmente di erbe, mentre i lepidotteri adulti si nutrono principalmente del nettare dei fiori. Un cambio di dieta pensato con astuzia: in questo modo, le diverse età delle farfalle non entrano mai in competizione alimentare.

Possono quindi vivere tranquille? Ovviamente la domanda è retorica: ogni organismo, nel cerchio della vita, ha almeno un nemico da fronteggiare. Ma la grande creatività della natura viene in soccorso di tutti gli esseri viventi; nel caso di queste perle dell’aria, è riuscita a renderle estremamente delicate e, al contempo, quasi invincibili.

Dei bruchi e del loro appetito famelico abbiamo già parlato: per quanto le piante si ingegnino per tenerli lontani, continuano a mangiare a più non posso, e anzi, spesso si dirigono proprio verso quelle particolarmente velenose… Un atteggiamento che può sembrare strano, se non addirittura insensato. Ma, se torniamo indietro nella storia di questi animali troviamo una logica perfetta – anche nella natura, infatti, studiare la storia fornisce sempre una chiave di lettura per interpretare il mondo con più consapevolezza.

Cosa ci dice la storia, in questo caso? Che alcune farfalle con il tempo hanno imparato a metabolizzare i veleni, guadagnando dei grandi vantaggi: da una parte si nutrono di piante che gli altri erbivori rifiutano, sfuggendo così alla competizione alimentare, e dall’altra acquistano un’arma formidabile. Le sostanze tossiche vegetali, infatti, non vengono distrutte, ma inglobate nei tessuti animali. Il risultato è che le farfalle diventano a loro volta repellenti e velenose. A quel punto entra in gioco il colore: abbiamo visto che in natura la bellezza dei colori è dettata da diverse necessità – attirare l’attenzione, come fanno i fiori, oppure segnalare un pericolo, come spesso fanno piante e insetti. Le farfalle sono tra gli animali più colorati che ci siano, le loro ali variopinte hanno ispirato la fantasia di artisti di ogni genere e continuano a lasciare a bocca aperta chiunque se le trovi davanti. Ebbene, tutta questa bellezza nasconde un unico messaggio in codice: “Non avvicinatevi”. I potenziali predatori sono così avvertiti, più colori ci sono e più alto è il rischio di trovarsi di fronte a un esemplare velenoso!

Alcune farfalle, oltre al colore, per dissuadere i nemici scelgono di muoversi in gruppo, unendosi in sciami giganteschi. Un caso esemplare è quello delle farfalle monarca, tanto colorate quanto tossiche, dal momento che quando sono ancora dei giovani bruchi amano nutrirsi di piante velenose. Durante i mesi miti, esse vivono tra il Canada e gli Stati Uniti, per poi migrare, nel corso dell’autunno, alla ricerca di una temperatura migliore. In questo periodo, gli sciami che attraversano il Nord America possono essere giganteschi – possono addirittura oscurare il cielo. Tutte insieme, varcano il confine e arrivano in Messico: il punto d’incontro è una valle nello Stato del Michoacán, situata a 3000 metri di altezza. Il numero di farfalle che vengono qui a svernare è impressionantemente alto: milioni e milioni di insetti, tutti aggrappati ai tronchi degli alberi in uno spettacolo davvero incredibile, che attira turisti ed entomologi da tutto il mondo e, contemporaneamente, allontana gli uccelli della valle, che non appena arrivano le farfalle monarca si dileguano verso altri lidi. Loro sanno bene che una farfalla è una solista che canta un’unica melodia, ma milioni di farfalle intonano un coro che parla di mal di pancia e avvelenamenti mortali!

Diavoletti di luce

Quella tra branchi di erbivori e colore è una storia antica, che non abbiamo ancora finito di raccontare. Per conoscere il prossimo capitolo, dobbiamo seguire il raggio di sole in un altro continente, abbandonando l’America alla volta della grande Africa. Qui, l’arrivo delle piogge coincide con il rigoglio vegetativo e con la deposizione delle uova da parte di un insetto erbivoro che incontriamo per la prima volta: la cavalletta. Quando le uova si schiudono, la nuova vegetazione fornisce cibo e riparo alle larve neonate, finché non si sviluppano in adulti alati.

Spesso, il numero di larve è tale da creare situazioni di sovraffollamento; lo stretto contatto fisico innesca una reazione a catena che spinge le cavallette a passare dalla vita solitaria a quella gregaria.

I loro corpi diventano più tozzi ed emanano un feromone, detto “locustolo”, che li induce a essere attratti l’uno dall’altro, portando ad aggregazioni numerose (anche milioni di individui) e successivamente alla formazione di sciami. È proprio questo lo scopo dell’azione del locustolo: indurre le cavallette a radunarsi in gran numero per affrontare insieme la fatica della migrazione. Una volta giunti a destinazione, infatti, gli insetti si disperdono e cominciano a vivere ognuno per conto proprio.

Oltre a modificare il comportamento, il locustolo agisce sulla produzione di melanina: sotto il suo influsso, il colore delle cavallette vira dal verde (nelle ninfe neonate) e dal marrone (negli adulti) al giallo-nero. Sulle ali posteriori, poi, sono presenti delle macchie rosse, che hanno una funzione protettiva: quando sono in pericolo, gli insetti spiccano il volo e, muovendole, abbagliano il nemico!

E c’è di più: le cavallette sono note per la loro voracità; quando si fermano dopo aver divorato tutto il verde che incontrano sul loro cammino, passano la notte sul luogo del delitto – gli scheletri degli alberi spogliati delle foglie oppure il terreno senza più un filo d’erba. Nella notte africana, la temperatura crolla e il vapore contenuto nell’aria si condensa in piccole goccioline di rugiada. Ovviamente, non trovando foglie su cui posarsi, essa cala sul corpo delle cavallette addormentate.

Al mattino, il grande sole africano sorge e i suoi raggi illuminano e scaldano l’orda di cavallette, che piano piano si risvegliano, sciolgono i muscoli e iniziano a sbattere delicatamente le ali. Ed ecco la magia: le macchie rosse sulle ali posteriori si miscelano con le goccioline di rugiada e scintillano sotto i raggi dorati, creando un effetto ottico che, per chi ha la fortuna di assistervi, è talmente bello da togliere il fiato. Dopo giorni di distruzione, nello scenario apocalittico che segue il passaggio delle cavallette, tante piccole fiammelle rosse si accendono all’improvviso, come piccoli diavoletti ricoperti di luce.

La magia dura poco: il sole, alzandosi, scalda i muscoli degli insetti e asciuga la rugiada della notte. Lo sciame di cavallette si leva in volo e cerca un altro posto in cui seminare terrore, distruzione e bellezza.

Cavalletta gourmet

Una forza devastatrice come quella delle cavallette, quando si scontra con gli uomini e con i loro campi coltivati produce disastri incredibili.

Nel dicembre del 2010 una terribile infestazione di locuste si è abbattuta sull’Australia, con gravi ripercussioni per l’agricoltura locale. Un ristoratore dedito all’agricoltura biologica si è ritrovato ad assistere a questa grande migrazione proprio nel momento in cui stava grigliando bistecche sul barbecue. Gli insetti erano così tanti, e così veloci, che alcuni sono finiti inevitabilmente sulla griglia rovente, rosolandosi in pochi minuti. L’uomo, provvisto di un grande appetito e di larghe vedute, ha assaggiato il risultato di quell’insolita ricetta e, con grande sorpresa, l’ha trovata buonissima e ha deciso di riproporla agli avventori del suo locale. Da quel momento, la sua vita è cambiata radicalmente: di giorno raccoglie le cavallette nei campi e di sera le arrostisce o le frigge per servirle ai suoi clienti sempre più numerosi. Nel frattempo, il gusto delle cavallette ha trovato anche un estimatore insospettabile: il cane dell’agricoltore, che ha iniziato a rincorrerle per i prati e divorarle, diventando il primo cane insetticida della storia!

Il cambio di prospettiva, come si può immaginare, ha modificato il problema: se prima le cavallette erano troppe, adesso erano troppo poche. In compenso, la notizia degli insetti alla brace ha provocato un circolo virtuoso di imitazioni: un famoso chef israeliano ha approfittato dell’invasione di locuste nel Sinai per preparare dei piatti davvero speciali per i suoi clienti: nel suo menu si trovano locuste fritte, locuste speziate al miele, pasta con locuste e, ovviamente, locuste alla brace, tutti piatti apprezzatissimi dal momento che le cavallette sono gli unici insetti annoverati tra i cibi kosher.

Anche in Italia si è passati dalla piaga alla risorsa: durante l’estate del 2003, complice il caldo torrido, le cavallette hanno letteralmente ricoperto l’Appennino toscoemiliano. Le province limitrofe, per risolvere la situazione, hanno scelto un altro animale appassionatissimo di locuste: la gallina faraona. Ogni agricoltore ne ha ricevuta almeno una in regalo con l’invito a lasciarla libera nei campi. Le galline non si sono fatte pregare e hanno iniziato a fare razzia. Risultato? La popolazione delle cavallette è diminuita, mentre sono aumentate esponenzialmente le ricette a base di gallina nei ristoranti della zona!

A tutto volume

Dalle cavallette, passiamo ora a un altro insetto famoso non per la sua voracità, ma per la sua pigrizia. Dalla favola di Esopo alla hit di Heather Parisi, la cicala è un animale che ha sempre avuto una forte presa sul nostro immaginario. Il suo canto, in particolare, è uno dei simboli dell’estate e della gioia di vivere. Ma a cosa serve, in realtà? Il suono emesso dalle cicale ha diversi scopi, e nessuno di essi ha a che fare con le vacanze.

Il primo è senza dubbio godereccio: serve per attirare l’altro sesso. Nel caso delle cicale è il maschio che canta per attirare le femmine e lo stratagemma colpisce nel segno: appena sentono il frinire romantico, esse si librano in volo verso i maschi. Dopo l’accoppiamento depongono le uova e i giovani, appena usciti dal guscio, si infiltrano tra le pieghe del terreno per nutrirsi di radici e sostanza organica.

L’organo stridulatore che emette il suono prende il nome di “timpano” e assomiglia al fondo di un barattolo di pomodori pelati vuoto: basta premerlo per sentire un clic clac. Anche le cicale usano un meccanismo simile, servendosi di due membrane che si muovono dal basso verso l’alto (e viceversa) per permettere loro di cantare.

Il frinire delle cicale ha però anche lo scopo di spaventare i predatori: quando un uccello individua un insetto e gli si avvicina, il suono si fa più intenso, finché non diventa talmente forte che il nemico, non riconoscendolo, si allontana in preda al panico.

Una curiosità interessante è che i canti delle cicale variano moltissimo a seconda del luogo di provenienza. In Amazzonia, per esempio, non è raro sentire un intenso fischio che attraversa la foresta compatta, simile a quello di un treno. Ovviamente non si tratta di una ferrovia in mezzo alla giungla, ma di un maschio di cicala che cerca di conquistare la femmina! E lo stesso avviene se il silenzio amazzonico è squarciato da quello che sembra il raglio di un asino: anche in quel caso, si può stare certi che il simpatico mammifero non c’entra nulla, ma si tratta di un altro “cicalo” che tenta di fare colpo. In Malesia si può venire accolti, nel mezzo della giungla tropicale, da un applauso scrosciante: i maschi delle cicale qui optano per un bel battimani, al posto del “classico” frinire, e le femmine accorrono numerosissime. Purtroppo, non sempre il corteggiamento si conclude nel modo sperato. Gli indigeni, che conoscono quest’abitudine, si aggirano per la foresta con dei grossi sacchi appesi al collo e si mettono ad applaudire. Legioni di cicale si dirigono ingenuamente verso di loro, sperando di trovare l’amore… Ma, ahimè, al posto del principe azzurro trovano una pentola colma di olio bollente! I locali infatti catturano questi insetti e, dopo una bella infarinatura, li gettano in padella per una frittura di cicale – che, per inciso, pare sia squisita.

La cicala più rumorosa vive nel deserto australiano: il suo canto riesce a raggiungere i 100 decibel, un suono pari a quello emesso da una motosega a un metro di distanza dall’ascoltatore! Anche le cicale del Mediterraneo non se la cavano male: la campionessa di “caciara” è quella greca, che riesce a raggiungere la notevole soglia dei 70 decibel.

Ma perché le cicale emettono un suono così forte? Che le femmine siano sorde? Niente affatto, anzi, ci sentono benissimo (sono in grado di percepire anche un suono di appena 30 decibel, che corrisponde a un flebile sussurro). Sembra però che amino il rumore: sono delle gran festaiole, e ce lo dimostra il fatto che, tra i maschi, quelli più rumorosi sono anche quelli che rimorchiano di più! Inoltre, se le cicale amano il rumore, i predatori come uccelli e piccoli mammiferi amano il silenzio e, quando sentono il frastuono, scappano a gambe levate e lasciano le cicale a godersi il canto dell’amore.

Le cicale dei numeri primi

Al nostro raggio di sole il frastuono non dispiace, e in compagnia delle cicale si ferma volentieri. Adesso, per esempio, le segue fino in Nord America, per visitare alcune foreste che crescono rigogliose dal North Carolina fino allo Stato di New York. Qui, ogni tredici o diciassette anni, gli alberi si riempiono, letteralmente, di cicale magicicada, chiamate anche “cicale dei numeri primi”. Sono così tante che spesso i boschi non bastano per ospitarle, e loro sono costrette a spingersi nelle grandi, spaventose metropoli vicine – come New York, Washington e Baltimora.

Come fanno a fuoriuscire tutte insieme nello stesso momento, dopo un periodo così lungo e così precisamente scandito? Perché proprio ogni tredici o diciassette anni?

Per capirlo, dobbiamo analizzare velocemente il ciclo biologico di questi animali: in inverno le giovani cicale se ne stanno tranquille sottoterra in diapausa (il letargo degli insetti), per poi svegliarsi in primavera e riempirsi la pancia con la sostanza organica che trovano nel terreno. Dopo tanto mangiare, è il momento di diventare grandi e conoscere il mondo: i giovani escono in superficie, si arrampicano su un albero e compiono una muta, trasformandosi in cicale canterine fatte e finite.

Ebbene, nel caso delle magicicada questo evento accade esattamente ogni tredici o diciassette anni. A quel punto, è la Woodstock delle cicale: trilioni di milioni di esemplari, che raggiungono una densità di 350 individui per metro quadrato, si ritrovano assieme nel bosco e cantano furiosamente per sei settimane, si accoppiano, incidono il legno degli alberi e ci depongono le uova. Dopo, stremati, gli adulti muoiono, ricoprendo il terreno con strati e strati di cadaveri: la loro vita è stata breve, ma scatenata.

Quando le uova si schiudono, il ciclo si ripete: le piccole cicale sgusciano fuori e si lasciano cadere a terra, attraversano il macabro tappeto composto dai corpi dei loro genitori e si infilano nel terreno, dove rimarranno per tredici o diciassette anni, a seconda della specie.

Ora, la domanda sorge spontanea: come fanno a sapere quanti anni sono passati dalla loro schiusa?

Molti scienziati si arrovellano su questo tema. Alcuni sono convinti che le cicale dei numeri primi conoscano l’aritmetica e, nello specifico, siano in grado di contare quanti autunni sono passati prestando orecchio alle foglie che cadono al suolo. Altri sostengono che i trilioni di milioni di cicale morte incrementino la quantità di azoto nel terreno: le giovani, rilevando il livello di questa sostanza chimica, sanno che quando è alto è meglio starsene al sicuro, mentre quando si abbassa è giunto il momento di salire sopra gli alberi e fare un gran baccano.

Un altro dubbio irrisolto riguarda il motivo per cui il ciclo si compie sempre dopo un numero primo. Secondo alcuni, la risposta è connessa con un misterioso fungo parassita, ormai scomparso, le cui spore potevano durare dodici o sedici anni, a seconda della zona. La cicala cercava di evitarlo emergendo sempre un anno dopo il suo limite di sopravvivenza: così facendo, è riuscita a sconfiggere il suo nemico. Peccato che, con la sua estinzione, sia scomparso anche il modo di verificare tale teoria!

Un’altra ipotesi si concentra sulle risorse del territorio. Secondo i promotori di questa idea, le foreste della parte est degli Stati Uniti non potrebbero garantire l’alimentazione di tutte le specie di cicale. Ecco allora che gli insetti si sono sincronizzati istituendo dei turni: una esce ogni tredici anni, l’altra ogni diciassette. Questi numeri garantiscono la minima probabilità di incontro, dal momento che con quest’alternanza le due specie dovranno dividersi la foresta solo una volta ogni duecentoventun anni (13 × 17). Se avessero scelto dei cicli scanditi da altri numeri, per esempio di dodici e diciotto, allora, durante circa lo stesso periodo, si sarebbero incontrate ben cinque volte!

Esiste un’ultima teoria, che prende il nome di “mimetismo aritmetico” e riprende la logica della “pasciona” che abbiamo incontrato diverse pagine fa: ogni tanto, le cicale si rendono disponibili in una quantità talmente elevata da soddisfare i grandi predatori, i quali, giocoforza, non riescono a razziare un numero così elevato di prede. In questo modo si assicurano la sopravvivenza, e le superstiti si possono riprodurre garantendo un futuro alla progenie. Passato l’anno di confusione, la foresta si spopola e i predatori, non trovando nulla da mangiare, diminuiscono a loro volta. Il picco negativo delle popolazioni dei predatori è esattamente tredici o diciassette anni, a seconda del tipo; con il ritorno delle cicale, anch’essa ritornerà a un alto livello. Insomma, si tratta di una rincorsa tra preda e predatore.

Anche se non sappiamo quale tra queste teorie sia la più corretta, sappiamo che tutte partono da un presupposto esatto. Per esempio, è verissimo che la presenza di cadaveri aumenta il livello di azoto nel terreno – risultando peraltro molto utile per le piante, che se ne servono per riparare i danni procurati dai raduni periodici, ma tossico per gli uccelli, che durante il periodo di festa diventano eccessivamente numerosi: negli anni successivi, in cui il silenzio diventa opprimente, gli uccelli non solo non sanno cosa mangiare, ma sono anche vittime dei miasmi mortali che salgono dal terreno, e a un certo punto non possono far altro che emigrare altrove.