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Il popolo in movimento

Dopo aver viaggiato attraverso i vegetali, dopo aver conosciuto gli erbivori e dopo aver visto i problemi e le soluzioni che si avvicendano nel corso della loro vita, è giunto il momento di percorrere un altro tratto di strada. Passando di bocca in bocca, dalle foglie verdi alle mandibole instancabili dei grandi ruminanti e degli insetti vegetariani, il nostro raggio di sole deve adesso affrontare un nuovo passaggio: ora la sua energia passa nelle mani dei carnivori.

Il loro mondo è molto diverso dai precedenti: a differenza delle piante e degli organismi che se ne nutrono, i predatori non hanno la necessità di stare fermi. Sembra una questione piccola, e invece cambia tutto: il movimento, per i carnivori, non è soltanto una possibilità, bensì una necessità; stare fermi significa soccombere e finire, inevitabilmente, nelle grinfie di qualcun altro – qualcuno più forte, qualcuno più veloce. Movimento, inoltre, significa una digestione più agevole: i predatori non hanno bisogno di un superstomaco, perché quello che mangiano – cioè gli altri animali, in particolare gli erbivori – è molto più digeribile della cellulosa, non ha spine da affrontare né veleni da neutralizzare. Il loro è cibo di ottima qualità, molto energetico e facile da mandar giù.

Questo non significa che non abbiano anche loro una buona dose di problemi da risolvere: i problemi fanno parte del cerchio della vita, e per quanto ci si possa trovare in alto nella piramide alimentare non li si può sfuggire, si può soltanto fare del proprio meglio per tentare di superarli.

Il problema più grande degli animali carnivori ha un nome: legge del 10%. Questa legge riguarda molto da vicino il nostro raggio di sole, che ne è direttamente coinvolto.

Funziona così: nella catena alimentare, ogni passaggio ha un costo, e pure piuttosto elevato. Di tutta l’energia che le piante immagazzinano quando si nutrono dei raggi di sole, un erbivoro potrà utilizzare unicamente il 10%; il restante 90% verrà dissipato in calore o utilizzato durante la digestione. La stessa cosa vale quando un predatore si nutre di un erbivoro.

Di passaggio in passaggio, quindi, la quantità di “raggi di sole” assimilata dall’organismo diminuirà drasticamente: ecco perché è raro trovare catene alimentari con più di cinque livelli, ed ecco perché i predatori sono numericamente inferiori agli erbivori, che a loro volta rappresentano una minoranza rispetto alla massa dei vegetali.

La legge del 10% si può riassumere così: chi ha i denti non ha il pane e chi ha il pane non ha i denti, perché gli animali più forti e veloci sono anche quelli che hanno meno nutrimento (in termini di energia, quantomeno) a disposizione.

L’importanza dei carnefici

Dal momento che il loro cibo, pur essendo digeribilissimo, è difficile da catturare ed è più raro di quello degli erbivori, i predatori devono usare ogni mezzo per procacciarselo, senza farsi troppi scrupoli: sono quindi feroci, cacciano e uccidono le loro vittime con spietata determinazione e non fanno sconti a nessuno. Ma attenzione: questa strage degli innocenti ha un preciso scopo all’interno della biosfera.

Per capire il valore dei predatori e il loro ruolo nel cerchio della vita dobbiamo, ancora una volta, andare indietro nel tempo. Questa volta torniamo alla fine della Seconda guerra mondiale, in una nazione dell’Est Europa che più delle altre ha subìto le conseguenze nefaste del conflitto: la Polonia. Negli anni successivi al 1945, la popolazione polacca si trovava in una situazione disastrosa; lo spettro della fame si aggirava per le città e per le campagne senza alcuna soluzione all’orizzonte, e il destino si era accanito rincarando la dose con una serie di inverni particolarmente rigidi e lunghi, che compromettevano i raccolti.

Per fortuna, la Polonia era – e lo è ancora – una terra percorsa da molti fiumi, ricchi di pesci nutrienti, e grazie a loro i pescatori riuscivano, almeno in parte, a soddisfare la crescente richiesta di cibo. Ma, se tra i vicoli e nelle case si aggirava lo spettro della fame, nei fiumi e nei laghetti nuotava un predatore altrettanto temibile: la lontra, un animale acquatico che si nutre quasi esclusivamente di pesce.

I polacchi si trovarono costretti a una nuova guerra, non più contro altri esseri umani ma contro questo mammifero dalle zampe pinnate, che spadroneggiava tra le acque dolci togliendo loro il pesce di bocca. Ovviamente, si trattò di una guerra breve: l’esercito delle lontre non era preparato e non conosceva le tecnologie a disposizione dell’uomo, per cui in pochissimo tempo fu costretto a soccombere.

Sparita la lontra, i pesci iniziarono a proliferare e a cadere, numerosi, nella trappola delle reti da pesca. Il cerchio della vita è però complesso e gli equilibri si spostano facilmente: l’azione dei pescatori non fu senza conseguenze; presto i pesci cominciarono a scomparire dai fiumi, raggiungendo livelli tali da far rimpiangere i vecchi tempi in cui la lontra era l’unica predatrice.

In effetti, se si osserva meglio il comportamento di questo animale si può notare che esso ha un ruolo essenziale nella dinamica di popolazione delle acque dolci. I predatori, infatti, tendono sempre a catturare gli individui più deboli, quelli che hanno meno forze per scappare, cioè, tendenzialmente, gli anziani e gli ammalati. Senza la lontra a minacciarli, i pesci più anziani iniziano a competere con i giovani per le risorse alimentari, che diventano inevitabilmente più scarse. Inoltre, non essendo più fertili, i vecchi sottraggono energie a chi invece può assicurare la continuità della specie. A questo si aggiunge l’azione degli ammalati, che senza lontre sono liberi di nuotare in giro e di propagare pericolose epidemie.

Il risultato lo abbiamo già visto: un crollo vertiginoso della popolazione per i pesci, una fame terribile per i polacchi, colpevoli di non conoscere abbastanza le leggi dell’ecologia.

Vestito per uccidere

Quando parliamo di carnivori, il pensiero inevitabilmente corre ai predatori più grandi e pericolosi: i leoni, gli orsi, i lupi, gli squali… Ma c’è anche una moltitudine di carnivori insospettabili, che erroneamente riteniamo innocui perché tratti in inganno dalle loro dimensioni.

Una su tutti? La coccinella. Simbolo portafortuna per eccellenza, amata per la sua forma rotonda e per il suo manto a pois, la coccinella è in realtà un predatore feroce e solitario, pericoloso sia nello stato di larva sia in quello di adulto. L’abito non fa il monaco, è proprio il caso di dirlo… Quello della coccinella, poi, al di là dell’aspetto “modaiolo” ha in realtà, come tutto in natura, un significato ecologico (e minaccioso).

Questi insetti contengono infatti un alcaloide che li rende altamente indigeribili: se un uccello banchetta con una coccinella se ne pentirà amaramente e dovrà scontare diverse ore di tremendo mal di stomaco. Passato il contorcimento, il nostro amico alato ci penserà due volte prima di avventarsi su un animale tanto vistoso, e senza dubbio non troverà più i pois neri così graziosi.

Oltre a essere disgustosa e indigeribile, l’adalina (il nome della sostanza contenuta nel corpo delle coccinelle) spande anche un odore nauseabondo. Questo perché le larve delle coccinelle hanno una forma completamente diversa da quella degli adulti – sono lunghe, assomigliano a piccoli coccodrilli e hanno sì dei colori di avvertimento, ma diversi (solitamente sono nere con striature rosse o arancioni). La puzza è un’arma di sicurezza, una difesa in più per assicurarsi la salvezza, laddove il colore non dovesse bastare a tenere lontani i nemici.

Secondo una caratteristica tipica dei predatori, le coccinelle (sia le larve sia gli adulti) sono velocissime – tutti le abbiamo viste correre tra le piante, anche se forse non tutti sapevamo che erano alla ricerca di prede da uccidere.

Anche il loro atteggiamento è tipico dei predatori. Quando le piccole larve – circa venti per ogni schiusa – sgusciano fuori dalle rispettive uova, cominciano subito a mangiarsi tra di loro, finché non ne sopravvive soltanto una: la più forte e la più aggressiva.

Tale figli, tale madre: mamma coccinella depone le sue uova (velenose anche loro, colorate di arancione o di giallo acceso) sulle pagine inferiori delle foglie. Dopo, si avventura alla ricerca di una preda per saziare la sua fame, ma capita spesso che il pellegrinaggio la riconduca al punto di partenza, affamata ed esasperata. E allora lei che fa? Senza pensarci due volte, divora i suoi stessi figli!

In altre occasioni, quando c’è penuria di cacciagione (in particolare di afidi, che sono il loro piatto preferito), le coccinelle sono costrette a una dieta vegetariana. Loro però sono predatori nell’anima, e si rifiutano di mangiare le foglie o i teneri germogli: se proprio devono ricorrere alla verdura, che almeno assomigli un po’ alla carne! Così si avventano sul polline di alcuni fiori, alimento ricchissimo di proteine. Ovviamente si tratta di una misura di emergenza: non appena ricompaiono gli afidi, questi insetti sanguinari sono ben felici di abbandonare la dieta vegetariana e avventarsi sulle loro vittime divorandone a più non posso (giusto per darvi una misura: una coccinella può arrivare a mangiare fino a cento afidi al giorno).

Coccinelle arlecchino

Abbiamo detto che questi predatori preferiscono condurre una vita solitaria, ma quando arriva l’autunno anche loro tendono a riunirsi per difendersi dal freddo dell’inverno e dagli attacchi degli altri carnivori. Al pari delle farfalle, anche le coccinelle possono formare uno sciame colorato, che amplifica il messaggio di pericolo invitando i nemici a farsi da parte.

Questi ammassi possono raggiungere delle dimensioni notevoli, e gli esseri umani hanno trovato il modo di trarne vantaggio. Per difendere le proprie piante, gli agricoltori utilizzano principalmente due metodi: gli insetticidi oppure gli insetti predatori, scatenati all’occorrenza per scacciare quelli vegetariani.

Le coccinelle, essendo voracissime mangiatrici di afidi, sono tra le prime a essere reclutate a questo scopo e vengono addirittura allevate in speciali fabbriche, per essere poi spedite a liberare il campo dagli sgraditi erbivori. In particolare, a essere allevata è una coccinella speciale, la coccinella arlecchino, campionessa mondiale di ingestione di afidi, un animale in grado di ingurgitarne più di cento al giorno.

Oltre a essere una sorta di pozzo senza fondo, questa coccinella, il cui nome scientifico è Harmonia axyridis, riesce anche a riprodursi molto velocemente; è originaria del continente asiatico, ma grazie alle biofabbriche viene ormai allevata in tutto il mondo.

Ma ci sono animali che non sono fatti per essere allevati, e la coccinella rientra tra questi: l’utilizzo delle Harmonia axyridis in agricoltura è filato sempre abbastanza liscio (le piante crescevano rigogliose senza parassiti e l’ambiente non veniva inquinato con pericolosi insetticidi) finché a un certo punto qualcosa è andato storto. Nel 1988, in un piccolo paesino della Louisiana, le arlecchino hanno deciso di espandersi: hanno varcato i confini dell’appezzamento in cui vivevano e hanno invaso prima i campi limitrofi, poi tutto lo Stato, quindi l’intero continente. Partite da uno status di esperimento, portato in giro per il mondo grazie all’azione degli esseri umani, queste coccinelle attualmente sono la specie più diffusa in circolazione.

Come ha fatto un piccolo nucleo di insetti a conquistare improvvisamente il pianeta? La spiegazione ce la danno le famiglie reali che in passato si sono avvicendate sulle sponde del Mediterraneo (nell’antico Egitto, per esempio) e in Europa. Un tempo, infatti, si credeva che i sovrani fossero creature di origine divina; in quanto tali, non si potevano mischiare con i comuni mortali; così, per riprodursi, erano costretti a sposarsi tra parenti stretti – se non addirittura, nei casi più estremi, tra fratelli e sorelle. Questa pratica si chiama “endogamia” e, come oggi ben sappiamo, favorisce la probabilità del manifestarsi di geni sfavorevoli, causando malattie spesso molto gravi e, in generale, la diminuzione della vitalità di tutta la famiglia.

Torniamo ora alla nostra coccinella asiatica: l’arlecchino inizialmente veniva allevata in gruppi molto ristretti, ed era quindi costretta a ricorrere all’endogamia. Una volta in campo, le fatali conseguenze di quest’abitudine diventavano evidenti: gli insetti erano poco vitali e perciò controllabili, dal momento che non avevano la forza necessaria per oltrepassare i confini dei campi coltivati.

Quelle della Louisiana, però, pur praticando l’endogamia, per uno strano e fortuito caso erano tutte dotate di geni perfettamente sani. Bisogna sottolineare, infatti, che i geni “cattivi” sono presenti in tutti gli organismi: ciascuno di noi, nel suo patrimonio genetico, ne è provvisto, ma riproducendoci con persone con cui non abbiamo alcun legame di parentela riusciamo a tenerli silenti, in stand by, come luci che nessuno accende. Nel caso di queste coccinelle, invece, i geni non avevano bisogno di essere silenziati, perché non c’erano affatto! I pochi individui liberati potevano tranquillamente accoppiarsi tra parenti, senza incappare nelle conseguenze nefaste dell’endogamia. A quel punto, dal piccolo campo della Louisiana si è propagata un’onda concentrica che ha portato le arlecchino in tutti gli Stati Uniti d’America, in Canada e poi in Europa, raggiungendo infine anche l’Africa e l’America del Sud.

Una curiosità? In Inghilterra è chiamata anche “coccinella di Halloween”, perché il periodo del suo raduno di massa autunnale cade proprio tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, quando si festeggia la notte di Ognissanti.

Predatori a metà

Se insetti come le coccinelle (ma anche le farfalle, le cavallette e tanti altri) usano il colore per non farsi mangiare dai predatori, c’è una creatura che preferisce una strategia leggermente diversa. A lei sono state dedicate poesie e canzoni, pensieri romantici e desideri notturni: stiamo parlando della lucciola, uno tra gli insetti più amati che ci siano.

Queste meravigliose creature riescono a fare a meno del colore perché, come tutti noi sappiamo, la loro arma segreta è la luce. Un’arma suggestiva, ma molto complessa: accendersi richiede un processo talmente elaborato che, per non sprecare troppe risorse, le lucciole uniscono l’utile al dilettevole e la usano, oltre che per difendersi, anche per accoppiarsi.

Osserviamole di notte, mentre volteggiano sopra i prati: gli individui che volano disegnando scie luminose nell’aria sono i maschi innamorati in cerca di una femmina. Le femmine, invece, non possiamo vederle librarsi: il loro aspetto resta sempre quello di giovani larve, anche se sessualmente mature. Non diventando adulte, non sviluppano mai le ali (prerogativa dei grandi) e, invece di volare, camminano per i prati. Sono lunghe circa venti millimetri, e assomigliano a piccoli vermi.

Quando sopraggiunge il crepuscolo e sulla Terra scendono le tenebre, le lucciole femmine decidono che è giunta l’ora di cercare il loro principe azzurro. Si arrampicano sopra un filo d’erba e, per attirare i maschi, emettono un flebile luccichio intermittente. La luce, quindi, è una spia della loro dolce emozione, la stessa che manifestano i maschi accendendo una parte dell’addome.

Due luci che si riconoscono nel buio, basta questo. Non appena il “lucciolo” intravede nel verde una luce con la medesima pulsazione, il gioco è fatto: l’alchimia dell’amore e il mistero della vita vengono tramandati, ancora una volta, sulla Terra.

Dopo qualche giorno, la femmina deporrà numerose uova, da cui sgusceranno tante minuscole larve affamate. Queste figlie dell’amore, però, a differenza dei genitori non manifestano alcun sentimento poetico: perché le lucciole saranno anche animali dal fascino romantico, ma lo diventano soltanto da grandi. Da piccole, invece, sono delle voracissime predatrici: le larve nascono con una fame atavica, che cercano subito di saziare non mangiandosi tra loro ma andando a caccia di lumache e chiocciole, che attaccano in gruppo per sbranarle senza troppi complimenti. Per questo motivo le lucciole sono molto abbondanti nei luoghi ricchi di calcare, la sostanza essenziale per costruire la casetta delle chiocciole: dove ci sono le prede ci sono anche i predatori, e in questo caso il predatore si manifesta con un ricco sfarfallio luminoso.

Dopo diverse scorpacciate di molluschi, le piccole lucciole diventano adulte e, come abbiamo visto accadere molte altre volte nel corso del nostro viaggio, cambiano completamente dieta: adesso, alla carne preferiscono il dolce nettare zuccherino che trovano principalmente nei fiori.

Femme fatale

Anche se per noi le lucciole brillano tantissimo, in realtà la loro emissione luminosa è alquanto flebile: la lunghezza d’onda della loro luce corrisponde a 5000-6000 Angstrom, a cui l’occhio umano – al pari di quello degli insetti – è sensibilissimo. Un’illusione ottica, in sostanza, grazie alla quale le lucciole risparmiano energia e ottengono il massimo dell’attenzione senza scaldare troppo il loro corpo.

Il processo chimico che avviene per produrre la luce è il sistema biologico più efficiente sulla Terra. Disperde solo il 2% in calore, mentre il restante 98% viene effettivamente convertito in luce. Per avere un termine di paragone: in una normale lampadina a incandescenza il 90% dell’energia viene dissipata in calore e solo il 10% diventa luce. È questa grande efficienza che permette alla lucciola di non bruciarsi durante la ricerca del partner.

Come abbiamo visto, il messaggio luminoso viene utilizzato sia per contattare il partner sia per allontanare i nemici. Ma c’è anche una lucciola, il cui nome scientifico è Photuris, che sfrutta la luce per adescare le sue prede. Le femmine di questa lucciola si comportano apparentemente come tutte le altre femmine: di notte aspettano il loro principe azzurro appollaiate sopra un filo d’erba oppure adagiate sul terreno. Quando un maschio appare nel buio della notte, lei inizia a lampeggiare. Fin qui nulla di strano. La differenza non sta nei mezzi, ma nello scopo: il fine ultimo di queste lucciole non è l’amore ma il suo contrario. Appena il maschio scende, convinto di incontrare l’amore, trova invece delle mandibole pronte a divorarlo. Ecco perché le Photuris vengono chiamate anche femme fatale: sono predatrici come le altre, ma alle lumache e ai bruchi preferiscono i maschi delle lucciole di altre specie!

Profetesse del prato

C’è un altro terribile predatore che semina cadaveri in tutti i prati del mondo, e che viene comunemente associato all’idea di donna fatale: la mantide religiosa.

Questo spaventoso insetto ha da sempre evocato sentimenti oscuri nel cuore degli uomini, soprattutto per la sua abitudine di divorare il maschio durante l’accoppiamento. Secondo alcune credenze popolari, la mantide porta il malocchio. Nell’antichità, la sua comparsa preannunciava carestie e disgrazie di ogni genere. Se un antico romano si ammalava, la colpa era della mantide che lo aveva fissato con sguardo truce. Il nome Mantis, peraltro, significa “profetessa”, il che è già significativo: si riteneva infatti che avesse il potere di prevedere ed evocare gli eventi, sia nel male sia nel bene (ci sono culture, infatti, in cui si crede che la mantide sia in grado di proteggere i bambini, perché sa dove si nasconde il lupo).

In effetti la mantide è tra gli insetti più sorprendenti che si conoscano e, a ben guardare, ognuna delle credenze nate intorno a lei è legata a una sua caratteristica reale. Ma andiamo per ordine: i Mantodea (l’ordine di insetti a cui appartengono tutte le specie di mantidi) vivono nelle regioni calde dell’Europa meridionale, in Asia e in Africa. Alcune specie sono state anche introdotte nel Nord America e in Australia. Gli adulti si possono osservare in ambienti soleggiati, ricchi di arbusti e di erbe (e forse per questo motivo erano considerate evocatrici di carestie) tra i quali è davvero difficile distinguerle: sono infatti dotate di un corpo che sfrutta perfettamente il colore per mimetizzarsi e di una straordinaria attitudine all’immobilità.

Le mantidi sono delle mirabili predatrici, ma assai poco selettive. Mangiano di tutto, e questo le rende poco adatte per un utilizzo in agricoltura, come avviene invece per le coccinelle. Ciò nonostante, il loro comportamento predatorio è davvero straordinario, fondato su un movimento tanto complesso quanto fulmineo.

Le estremità delle zampe anteriori (femori e tibie) sono munite di spine disposte su due serie e terminano con un lungo uncino arcuato e molto appuntito; quando le tibie si piegano sembrano mani giunte in preghiera (questa posizione è infatti denominata “dell’orante”). Non appena scorge una preda, la mantide lancia fulmineamente le zampe in avanti, afferra la vittima e la tiene stretta con le spine. Poi passa alla fase due: divorare il malcapitato in modo lento e meticoloso.

Un’altra caratteristica un po’ inquietante delle mantidi è il modo in cui riescono a ruotare la testa restando completamente immobili con il resto del corpo. Tale caratteristica è assolutamente unica nel suo genere, tanto che si dice che “gli altri insetti possono solo vedere, la mantide invece può guardare”. La capacità di ruotare il capo di 180 gradi risulta particolarmente utile quando, durante l’accoppiamento, la femmina deve divorare il maschio.

Qual è il motivo di questo comportamento crudele? La risposta la troviamo nella legge del 10%. La mantide femmina ha poco cibo, ma tanti bisogni, tra cui ne spicca uno in particolare: quello di produrre una massa ingente di uova. L’energia necessaria, ovviamente, non si trova durante il parto, per cui bisogna procurarsela da un’altra parte. Il maschio, inizialmente considerato come un amante, man mano che procede nell’accoppiamento assume anche le sembianze di un alimento ricco, con tutte le proteine necessarie allo sviluppo delle generazioni future! Inoltre, a differenza di altre prede, le mantidi di sesso maschile sono particolarmente docili e rimangono impassibili mentre la compagna li divora, staccando prima la testa e poi smembrando l’intero corpo.

Verso la fine dell’Ottocento, il grande entomologo Jean-Henri Fabre si mise in testa di capire se il fatto di mangiarsi il partner fosse legato alla scarsità di risorse sicure nelle vicinanze. Fece allora un esperimento: prese una femmina di mantide e la mise in una teca piena di prede potenziali, quelle che normalmente si incontrano nel prato; poi prese un maschio e piazzò anche lui all’interno della teca. Senza perdere tempo, i due iniziarono ad accoppiarsi e poco dopo, come da copione, la femmina staccò la testa del compagno e iniziò a divorarlo.

Una volta finito l’accoppiamento e il pasto, Fabre aggiunse un nuovo maschio alla popolazione della teca e si accorse con stupore che la mantide, non ancora sazia, si avventava su di lui e ripeteva l’operazione nei minimi dettagli. Lo scienziato andò avanti con l’introduzione di maschi fino a raggiungere il considerevole numero di sette: nessuno venne risparmiato, tutti e sette finirono nello stomaco della terribile femmina!

Questo esperimento dimostrava un fatto sorprendente: pur avendo a disposizione varie prede alternative, le mantidi, profetesse sanguinarie, preferivano comunque uccidere i compagni. Purtroppo, Fabre non riuscì a scoprire il motivo di tale comportamento: per farlo, è stato necessario attendere più di cento anni, finché un gruppo di entomologi americani non ha scoperto la verità: il maschio della mantide presenta un gruppo di nervi che parte dalla sommità del capo e scende fino alla base dell’addome; quando la femmina, con un colpo deciso di mandibola, decapita il compagno, recide questo fascio di nervi. L’effetto è immediato: il maschio, invece di morire, intensifica i movimenti copulatori, e solo dopo passa a miglior vita! Non si tratta, dunque, di un problema di fame, ma di una questione di sesso. Il vero scopo della femmina è assicurarsi la fecondazione con un accoppiamento più energico; poi, visto che si trova lì un corpo ancora caldo (oltre che gustoso e proteico), non sapendo che farsene… se lo mangia.

La rivincita dei maschi

L’abitudine da parte delle femmine di mangiarsi il maschio durante (o subito dopo) l’accoppiamento è piuttosto comune nel mondo degli artropodi: sono tante le specie di ragno che non disdegnano questa pratica, che va molto di moda anche tra le mosche predatrici. Non tutti i maschi però si immolano per le generazioni future, alcuni hanno trovato il modo di salvare capra e cavoli.

Gli empididi sono delle mosche predatrici generaliste (cioè, come le mantidi, non hanno un piatto preferito ma mangiano più o meno tutto quello che si trovano davanti). Anche per loro vale la legge del 10%, per cui, quando fanno fatica a trovare delle prede, si rivolgono al maschio e al suo prezioso quantitativo di proteine.

La strategia della femmina dell’empidide è molto diversa da quella della mantide. Dato che non possiede una testa capace di girarsi di 180 gradi, per mangiare il partner deve aspettare la fine dell’accoppiamento. D’altro canto, anche il comportamento dell’empidide maschio è diverso da quello del mantide: contrariamente a quest’ultimo, infatti, non appena si accorge delle brutte intenzioni della compagna, si dà alla fuga.

Come fare però per godersi l’accoppiamento e nel contempo avere tutto il tempo per fuggire con calma? Questa mosca ha elaborato una strategia molto astuta: prima di adescare una compagna, si aggira per il prato alla ricerca di una preda, che uccide e impacchetta con della seta. Con il bozzolo tra le zampe, non appena trova una femmina con cui unirsi, le porge il dono. Se si prende la briga di incartare il suo regalo non è certo per galanteria: prima di poterlo mangiare, la femmina deve disfare il pacco; il maschio, furbescamente, approfitta di questo piccolo contrattempo per saltarle addosso e procedere all’accoppiamento!

Quando il pacchetto è scartato, il regalo consumato, il rapporto concluso, arriva il momento della portata principale: l’empidide maschio. Il quale però, vigile, ha osservato la partner per non perdersi nemmeno un cenno; non appena la femmina è sul punto di finire l’antipasto, lui interrompe la sua attività per volarsene lontano dalle sue fauci.

La legge del 10% però è crudele, e può capitare che il maschio si aggiri per il prato in cerca di prede da sacrificare senza trovarne nemmeno una. Nel frattempo, il bisogno di incontrare una partner è impellente, rimandare l’accoppiamento sarebbe impensabile. Come fare allora, per non finir mangiato? L’empidide decide che, a mali estremi, estremi rimedi: bisogna ricorrere all’inganno. Strappa un pezzetto di petalo da un fiore e lo impacchetta meticolosamente con la seta: questo è il dono che verrà offerto alla femmina. Durante l’accoppiamento, lei inizia a scartare, ignara della brutta sorpresa che l’attende. Dopo diversi minuti, scopre la triste verità e si volta di scatto per mangiarsi il maschio… Ma è troppo tardi, lui è già andato via!

Alcuni maschi sono dei maestri nell’arte dell’inganno e dentro il pacchetto non mettono né l’insetto né il pezzetto di fiore, ma tessono un involucro completamente vuoto. In caso ve lo stiate chiedendo: sì, funziona! Le femmine ci cascano e i maschi restano in vita, aggirando sia la furia famelica delle partner sia le leggi – spesso altrettanto dure – della natura.

Che succede, invece, se a scarseggiare non sono solo le prede, ma anche le femmine? La fame dei maschi a quel punto esplode, e sarebbe destinata a restare insaziata se l’evoluzione non fosse venuta in soccorso di queste mosche dotandole di un dimorfismo sessuale molto lieve. In pratica, i maschi e le femmine si assomigliano moltissimo. I maschi ne sono consapevoli, e sfruttano questa somiglianza per ottenere ciò che vogliono, cioè cibo e sesso. Due cose che le femmine riescono sempre a ottenere senza muovere nemmeno un dito: perché, allora, non fingersi donne?

Il maschio affamato si posiziona su una foglia al sole, in attesa, proprio come fanno le femmine mentre sono in cerca di un compagno. Quando un altro maschio si avvicina alla foglia, non nota la differenza e casca nel tranello, preparando per lui un pacchetto che potrebbe contenere soltanto un petalo stropicciato, oppure nulla, ma ha anche buone probabilità di contenere del cibo.

Nel frattempo che il maschio travestito si gode il bottino, l’altro procede a un rapporto sessuale che, in realtà, è omosessuale. Alla fine dell’accoppiamento, il maschio “attivo” sarà spompato e affamatissimo, mentre quello “passivo” sarà ben nutrito e in forze, pronto a volar via in cerca di femmine da sottrarre al suo ingenuo rivale.

Il Vietnam degli entomologi

La legge del 10% può essere aggirata anche in modi meno fantasiosi. Se è vero che la maggior parte dei predatori ha un’indole fondamentalmente solitaria, è anche vero che alcuni di loro riescono a tener testa alla natura proprio facendo gruppo e coalizzandosi, aumentando così il livello di sicurezza e la quantità di cibo che riescono a procurarsi.

Le formiche appartengono a questa categoria, loro sono maestre del vivere in società, e ciò vale sia per le vegetariane (come le tagliafoglie) sia per le carnivore, come per esempio le formiche di fuoco. Queste ultime hanno un’alimentazione molto varia, che spazia dalla melata degli afidi, arrivando perfino a sperimentare ricette impensabili, come le sostanze in putrefazione. L’unica costante è la carne, che non deve mai mancare e che riescono a prelevare con grande abilità dalle prede più diverse – piccoli invertebrati, ma anche rettili, e alle volte addirittura dagli uccelli.

La strategia di caccia consiste nell’assalto in massa: l’esercito, dispiegato in tutta la sua potenza, aggredisce la vittima iniettandole una massiccia dose di veleno. A quel punto, le dimensioni dell’animale importano poco: finirà comunque stordito e passerà in poco tempo a miglior vita, smembrato dalle formiche per essere consumato sul posto o trasportato nel nido.

In Sud America, dove abitano, le formiche di fuoco seminano il terrore, sfruttando anche l’aiuto involontario dell’uomo per allargare il proprio raggio d’azione. Nel 1941, una nave proveniente dal Brasile portò una colonia di formiche di fuoco fino in Alabama; negli Stati Uniti, questi insetti trovarono… l’America! Prati immensi dove poter scavare i loro nidi, moltitudini di prede e, soprattutto, la totale assenza di nemici naturali. In pochi anni, si espansero fino a varcare il confine con il Texas. Fu nei prati vastissimi di questo Stato che la formica di fuoco mutò, dando origine a un ceppo capace di produrre un’infinità di regine (cioè di femmine fertili), che velocizzarono ulteriormente l’invasione.

Ma la vera diffusione di queste formiche, quella che le ha portate fino in Cina e in Oceania, è arrivata con quello che successivamente è stato battezzato il “Vietnam degli entomologi”.

Negli anni Cinquanta, gli stessi aerei che avevano oltrepassato l’oceano per sconfiggere il regime nazista solcarono i cieli degli Stati Uniti meridionali con le stive piene di sostanze chimiche, che vennero lanciate a pioggia su tutto il territorio. Questa volta il nemico da eliminare non erano i tedeschi, ma la formica di fuoco.

Gli insetticidi fecero il loro sporco lavoro e sparsero la morte ovunque: capi di bestiame, uccelli, pesci, rettili, molluschi e anche, per finire, tantissime formiche autoctone. Tra i pochi sopravvissuti alla pioggia chimica c’era però lei, la formica di fuoco, che resistette ai miasmi letali grazie ai suoi nidi inespugnabili, simili a veri e propri bunker. Finita la guerra, si trovarono di fronte a uno scenario postapocalittico: un enorme continente svuotato da potenziali competitori, tutto da esplorare e razziare in lungo e in largo.

I nidi dilagarono con maggiore forza e velocità, arrivarono in California e poi riuscirono a varcare i confini nazionali per invadere l’Australia e la Cina, sfruttando il traffico navale. A questo punto è evidente il motivo per cui l’operazione viene ricordata come il “Vietnam degli entomologi”: proprio come nella terribile guerra del Sudest asiatico, nonostante la profusione di risorse il risultato non solo fu negativo, ma addirittura dannoso!

Il potere dell’invisibilità

La capacità predatoria delle formiche di fuoco causa non pochi problemi alle popolazioni degli Stati Uniti. Uno di questi è legato alla loro tecnica di caccia, basata sulle onde elettromagnetiche.

Questi insetti si muovono divisi in legioni per perlustrare il territorio, finché, grazie al loro sesto senso da predatori, non captano un segnale. Sapendo che ogni organismo vivente emette un campo energetico, seguono questa scia invisibile per scovare la potenziale vittima.

Quello che non sanno è che gli esseri umani hanno vinto la notte, soggiogando l’energia elettrica e convogliandola all’interno di speciali centraline, da cui si dipartono i fili di rame che trasportano la corrente nelle nostre case. Ovviamente le centraline sono pervase da onde elettromagnetiche, e ovviamente le formiche scambiano questa emissione per un animale. È piuttosto frequente, quindi, che una legione di guerriere si scagli contro una centralina. La guerra che ne consegue è terribile: le mandibole taglienti delle formiche si coordinano in un feroce attacco che si conclude con lo sbranamento della plastica che riveste i fili di rame.

L’immediata conseguenza, come si può immaginare, è il ritorno della notte in città: i black-out, nel territorio delle formiche di fuoco, sono praticamente all’ordine del giorno.

Ma non è finita qua: le formiche di fuoco sono, come dicevamo, animali onnivori, per cui non disdegnano il cibo utilizzato dall’uomo e spesso si intrufolano nelle case abitate per espugnare tavole e credenze. Quando arrivano, però, una forza imprevista e irresistibile le attira: si tratta del forno a microonde, con il suo forte campo elettromagnetico. Immediatamente cercano di assediarlo, puntando direttamente al suo cuore: il motore.

Mentre le formiche sono impegnate nello scontro con i fili elettrici, può capitare che il proprietario del forno, ignaro, decida di scaldarsi del cibo. Le intruse, attratte dal profumo, abbandonano per un attimo il campo di battaglia e si avventano sul pezzo di pizza o di lasagna che si sta scongelando. Possono farlo tranquillamente, dato che le onde elettriche risultano innocue per i loro corpi piccoli e corazzati. E, altrettanto tranquillamente, raggiungono l’esofago del malcapitato. A questo punto, disorientate, iniziano a pungere il poveretto, che se non vuole incappare in un pericoloso shock anafilattico è costretto a correre al pronto soccorso dell’ospedale più vicino.

Non sorprende che gli esseri umani siano entrati in guerra aperta contro questi invasori a sei zampe e inventino mezzi sempre nuovi per debellarli. Se gli aerei della Seconda guerra mondiale hanno fallito miseramente, una nuova arma – anch’essa proveniente dal cielo – può infliggere un duro colpo al fronte compatto delle formiche di fuoco. Si tratta di un’arma piccolissima, quasi invisibile, ma micidiale: una mosca appena percettibile dall’occhio umano, che prende il nome di Phoridae.

La sua efficacia consiste nel fatto di essere una creatura estremamente sensibile e molto abile nello “spionaggio chimico”. Le formiche, quando si sentono in pericolo, liberano una sostanza volatile che avverte le compagne della minaccia incombente (il feromone di allarme, che abbiamo già incontrato lungo il nostro cammino); immediatamente, il gruppo si compatta per fronteggiare il nemico. Il Phoridae capta questo odore e lo insegue a ritroso fino a individuare la colonia di formiche. A quel punto ne intercetta una e immediatamente scende su di essa; avvolta dalla più completa invisibilità, grazie alle sue dimensioni minime, depone sopra la sua cuticola un uovo, da cui sguscia una larva microscopica che penetra la corazza della formica e si sposta sfruttando la sua circolazione linfatica. Quando raggiunge il cervello, la larva interrompe il suo viaggio, si aggrappa all’esoscheletro e inizia a nutrirsi di liquidi e cellule della materia grigia della sua ospite.

I sintomi dell’attacco non tardano a mostrarsi: la formica ammalata perde il senno, interrompe la relazione con le sue sorelle e comincia a vagare, raminga, per il prato. Il suo viaggio solitario, apparentemente senza scopo, finisce presto: a un certo punto, esausta, si ferma e sale sopra un filo d’erba, attendendo la morte.

Nel frattempo, nella sua calotta cranica, la larva cresce e necessita di più cibo. Inizia così un rituale raccapricciante, in cui il parassita si mangia tutto il cervello della formica, la cui testa martoriata si stacca infine dal corpo. Mentre l’animale decapitato muore, la testa inizia una nuova vita: la larva, protetta dal robusto cranio, si trasforma in una pupa per poi divenire, dopo qualche giorno, una mosca adulta. Con le sue mandibole si apre un pertugio, si libra in volo e parte alla conquista del mondo, pieno di nuove formiche da annientare.

Gli entomologi americani hanno studiato questa mosca, l’hanno allevata e ora la stanno lanciando in tutti i territori invasi dalla formica di fuoco. L’hanno anche ribattezzata ant-decapitating fly, cioè “mosca decapitatrice di formiche”, biologicamente inserita nella categoria dei parassitoidi, cioè creature che, a differenza dei parassiti, non necessariamente uccidono l’ospite, ma lo debilitano e solo raramente lo finiscono (in alcuni casi, la larva mantiene in vita il suo ospite per molto tempo, consumandolo lentamente prima di porre fine alle sue sofferenze divorandolo da capo a piedi). In sostanza, i parassitoidi sono animali piccolissimi, velocissimi e maestri nell’arte della tortura: lenta, invisibile, letale.

Naso da segugio

Quella dei parassitoidi è una categoria molto interessante. Per studiarla bene facciamo un piccolo passo indietro nel cerchio della vita per incontrare nuovamente gli afidi, grandi divoratori di linfa elaborata. In mezzo agli afidi verdi, noteremo alcuni individui di colore marrone chiaro e dalla forma tondeggiante. Questi ultimi sono i poveri malcapitati che hanno subìto l’attacco di una vespa parassitoide. In questo momento, all’interno del loro corpo sta crescendo una larva, che una volta divenuta adulta forerà con le sue potenti mandibole il loro esoscheletro e spiccherà il volo alla ricerca di nutrimento (perlopiù nettare o melata, dal momento che, a dispetto della sua indole feroce, questo insetto da adulto è strettamente vegetariano) e di nuove vittime alle quali affidare la sua prole.

Come abbiamo visto per le mosche decapitatrici, i parassitoidi sono dei veri fenomeni quando si tratta di individuare future vittime. Le loro antenne mobili sanno riconoscere i vari odori con grande sicurezza: sentono i feromoni di allarme delle formiche, il profumo dolciastro della melata, il nauseabondo aroma di escrementi di insetto, oppure si mettono in ascolto delle sostanze SOS emesse dalle piante. Di cosa si tratta? Nel corso della loro antichissima storia, le piante hanno elaborato una strategia di difesa che le mette in contatto con i parassitoidi: quando vengono attaccate dagli erbivori, emettono una o più sostanze che attraggono le vespe parassite e le chiamano in soccorso. Esse, attirate dall’aroma, accorrono in massa e falcidiano i poveri erbivori senza pietà.

Gli esseri umani hanno trovato il modo di usare lo strabiliante olfatto dei parassitoidi per i loro usi e consumi. Prima di tutto li addestrano, insegnando loro a distinguere gli odori più particolari (droga ed esplosivi, per esempio) con un premio zuccherino. Dopodiché, li posizionano in un marchingegno ideato da un gruppo di ricercatori, capace di rilevare il loro comportamento. Questo strumento consente di tenerli al sicuro e di trasportarli ovunque, anche negli aeroporti di tutto il mondo, dove hanno trovato un impiego interessante: appena un individuo cerca di oltrepassare la frontiera carico di sostanze illegali, viene intercettato dall’insetto, che lo fa finire direttamente in galera!

Vampiri a sei zampe

Tra i parassitoidi, ce ne sono alcuni che si nutrono quasi esclusivamente di sangue. Si tratta di un liquido ricchissimo di sostanze nutritive, ma scomodo da procurarsi: i vertebrati, infatti, non sono felici di donarlo e costringono gli animali ematofagi a cercare sempre nuove strategie per aggirare le loro barriere difensive.

Prendiamo la zanzara, il più famoso insetto che dedica la vita a succhiare il sangue altrui. Il suo apparato boccale è formato da alcuni stiletti che, uniti, formano due piccoli canali: uno per iniettare la saliva, l’altro per aspirare il sangue. La saliva contiene sia un anestetico sia un anticoagulante – per prelevare il sangue in tutta tranquillità senza che l’animale se ne accorga – ma contiene anche delle sostanze che provocano una reazione allergica – responsabile dei noti gonfiori e pruriti che tutti abbiamo provato almeno una volta nella vita.

Come tutti i parassitoidi, le zanzare sono dotate di un olfatto ultrasensibile, grazie al quale riescono a percepire sia l’odore dell’animale sia l’anidride carbonica che emette. Ora, tutti abbiamo delle preferenze in fatto di odori, e queste creature dal naso portentoso non fanno eccezione: secondo uno studio condotto da alcuni ricercatori, il “profumo” più attraente per la zanzara è… l’odore dei piedi umani. Quindi, se vi siete mai chiesti il perché delle numerose punture che vi siete ritrovati tra alluci e talloni, avete finalmente la risposta: le zanzare sono delle feticiste, e ai vostri piedi non sanno resistere! Inoltre, siete delle vittime perfette: il vostro sangue è particolarmente ricco di sostanze nutrienti e, per di più, non avete la pelliccia, per cui questi vampiri a sei zampe non trovano alcun ostacolo quando vi si posano addosso.

Ma c’è di più: dato che le zanzare, prima di prelevare il sangue, iniettano sostanze all’interno dei corpi delle vittime, alcuni organismi viventi hanno deciso di usarle come mezzi di trasporto. Sono dei parassiti che si nutrono del sangue, ma sono talmente piccoli che possono vivere direttamente all’interno del malcapitato di turno. Come ci finiscono? Proprio grazie alle zanzare.

Ovviamente c’è zanzara e zanzara: le Culex sono meno indicate delle Anopheles per veicolare parassiti, dal momento che quando sono a riposo il loro corpo non si inclina, quindi non fornisce alcuna scaletta per agevolare la discesa. In generale, però, pur con le debite distinzioni, le zanzare possono diffondere tantissime malattie; la più terribile, quella che ancora oggi miete un gran numero di vittime tra esseri umani e animali, è la malaria.

La malaria non è una malattia da poco: essa rappresenta la più importante parassitosi del mondo, la seconda malattia infettiva per mobilità e mortalità dopo la tubercolosi, con 500 milioni di nuovi casi clinici (di cui il 90% in Africa tropicale) e 1 milione di morti all’anno. Un vero e proprio flagello, per di più antichissimo: le prime testimonianze verificate le troviamo nel 2700 a.C., mentre la prima descrizione del quadro clinico della malaria risale a Ippocrate, che ne descrive la tipica febbre intermittente. In Italia, la sua diffusione è stata ostacolata dall’abilità degli antichi Romani nel curare i campi agricoli e bonificare le zone paludose, ma con la caduta dell’impero, intorno al V secolo d.C., il controllo delle vie di comunicazione e delle campagne venne meno, e i focolai fecero la loro comparsa definitiva. Fino al 1945, in Italia di malaria si moriva eccome, soprattutto in Sardegna, nella zona dell’Agro Pontino, in Maremma e lungo la foce dei fiumi – in particolare del Po. Solo le bonifiche e l’uso promiscuo di insetticidi hanno consentito di eliminare gran parte delle zanzare Anopheles dal nostro ecosistema.

La camera degli orrori

Per noi umani, le zanzare sono vecchie conoscenze, dal momento che la loro ronzante presenza ci riguarda da vicino. Ma ci sono anche insetti che non seminano il terrore tra gli uomini, ma sono temutissimi da bruchi, cavallette e ragni: si tratta di vespe parassite, dall’aspetto aggraziato (hanno zampe molto lunghe e un vitino particolarmente sottile) ma dalle abitudini crudeli.

Le femmine di queste vespe preparano un nido che può avere diverse forme (un foro nel terreno oppure una sorta di otre costruito con fango, da appendere in luoghi riparati) e che non serve come casa, bensì come cella in cui rinchiudere le prede che catturano – una sorta di camera degli orrori, in cui a condurre il gioco sarà un killer tanto piccolo quanto spietato.

Il metodo di caccia è sempre lo stesso, collaudatissimo: quando catturano un artropode, gli iniettano un veleno che non uccide la vittima, ma la paralizza. Il corpo dello sventurato viene poi trascinato nel nido, che continua a riempirsi di prede fino a quando la femmina non decide di avere provviste a sufficienza. A quel punto, depone un uovo e richiude dall’esterno l’entrata del nido con del fango. Compiuto il proprio dovere di madre e di predatrice, se ne va a morire da sola nel prato.

Nel frattempo, nel nido, dall’uovo fuoriesce una nuova vita sotto forma di larva. Per le prede catturate inizia un vero e proprio incubo, degno dei peggiori film dell’orrore: la vespa neonata comincia a sbocconcellarle dalle estremità, risalendo lentamente, un boccone dopo l’altro, verso i centri vitali. Il povero ragno (o bruco, o cavalletta) soffre le pene dell’inferno senza alcuna possibilità di muoversi, mentre la larvetta lo riduce a una sorta di moncherino. Solo alla fine, quando non troverà più nulla da mangiare, darà il colpo di grazia al malcapitato aracnide.

Nella tela del ragno

I ragni saranno anche vittime innocenti, quando finiscono tra le grinfie delle vespe parassite, ma sono anche, a loro volta, dei predatori formidabili. Addirittura, secondo alcuni scienziati, sono i più grandi consumatori di carne di tutto il cerchio della vita!

La densità di popolazione dei ragni si aggira intorno ai 130 per metro quadrato. Se calcoliamo che ogni ragno consuma circa 0,1 grammi di prede al giorno e moltiplichiamo questo dato per tutta la popolazione di aracnidi in un ettaro, si ottiene che essi consumano ogni anno 47.500 chili di carne. Un quantitativo che fa impallidire i leoni e gli altri grandi carnivori del cerchio della vita!

A distinguere i ragni dagli altri predatori è un eccellente strumento di morte, che loro sanno usare con grande maestria. Da delle ghiandole speciali, chiamate “della seta” o “filiere”, essi producono una sostanza vischiosa, che si solidifica a contatto con l’aria; poi, utilizzando dei pettini posizionati sulle zampe, questa seta viene lavorata con sorprendente abilità.

I manufatti dei ragni sono i più vari: il più conosciuto è la classica ragnatela a raggiera, facile da scorgere tra i rami di un albero e costruita in modo che i fili sottili risultino invisibili all’occhio delle mosche e delle falene. In questo modo, le poverette si trovano improvvisamente invischiate nella trappola mortale mentre volteggiano tranquille nell’aria. Il ragno riserva loro una sorte tristemente simile a quella che riceve dalla vespa parassita: le povere vittime si dibattono alla ricerca della libertà e lui, avvicinandosi, inietta nel loro corpo un veleno paralizzante, le avvolge nella seta e le trasporta ai bordi della sua ragnatela. Solo a quel punto, con tutta la calma del mondo, le divora senza pietà.

I tipi di ragnatela sono tanti quasi quante sono le specie di ragni, e le diverse forme sono un po’ l’equivalente di uno stemma di famiglia. I rappresentanti della Hexathelidae, per esempio, costruiscono dei grandi lenzuoli di seta e li appoggiano orizzontalmente sulla vegetazione. Nel centro di questo grande telo, praticano un foro – il risultato finale è simile a un imbuto – all’interno del quale attendono le loro prede. Non le vedono, ma le sentono arrivare: quando una mosca o un altro insetto si avventura ingenuamente sul morbido tappeto, il ragno avverte una vibrazione e si precipita fuori per morderlo e trasportarlo nell’imbuto. Il ragno Bolas americano non tesse la tela, ma usa la seta in un altro modo. La sua strategia consiste nell’attirare le prede – principalmente falene – diffondendo nell’aria un feromone sessuale femminile. In pratica, finge di essere una femmina di falena. Figuriamoci i maschi! Immediatamente si avvicinano alla fonte dell’odore, dove ad attenderli, al posto dell’amore, trovano la morte sotto forma di un filo di seta dall’estremità appiccicosa. Il ragno, provetto pescatore, sa usare con destrezza questo filo di seta, che lancia in direzione della vittima per catturarla!

La seta è un materiale straordinario: è più resistente dell’acciaio e, al contempo, più leggero. Un simile dono della natura non può essere usato solo come strumento di morte. E i ragni, infatti, la tessono anche per assicurare il futuro dei loro figli: le uova del ragno vengono ricoperte con la seta per proteggerle dai potenziali predatori e dalle condizioni ambientali avverse. I ragni della famiglia dei Pisauridi fanno di più: costruiscono una stanza di seta, che accoglie prima le uova e poi i piccoli, che nascono in questo sicuro asilo e ci rimangono per qualche giorno, cullati dallo sguardo attento della madre. Poi, arriva il momento di vedersela da soli: nella maggior parte degli aracnidi (e degli insetti in generale), il “cucciolo” deve badare a se stesso fin dall’inizio della sua vita. Grazie alla seta e al cielo, i microscopici ragnetti se la cavano benissimo anche in assenza della madre: una volta fuori dal nido, infatti, essi emettono un pezzetto di seta che slanciano in alto verso il sole. Il vento accoglie questo filamento, lo preleva e lo trasporta in volo, insieme al suo tessitore. È proprio così, con questo velivolo improvvisato, che i giovani ragni colonizzano nuovi territori.

Quando si tratta di caccia, normalmente questi insetti sono individualisti. Alcuni però sanno collaborare, non solo all’interno della medesima specie, ma anche tra “famiglie” diverse. In Texas è stata scoperta una ragnatela larga 180 metri, prodotta da una colonia di ragni appartenenti a dieci specie differenti: ogni ragno ha donato alla comunità la propria capacità di tessere la tela e poi, insieme, hanno costruito qualcosa che il singolo non avrebbe potuto, nemmeno lontanamente, pensare di fare.

Tarantella

Il veleno è un’altra arma a disposizione del ragno, un’arma che gli permette di uccidere velocemente i piccoli insetti ma anche di procurare notevoli danni agli animali più grandi. Certe volte, il veleno del ragno può avere addirittura degli effetti positivi.

Nel Sud Italia, in particolare nella splendida Puglia, esiste un ballo popolare chiamato “tarantella”; i ballerini che si cimentano in questa danza si muovono forsennatamente al ritmo incessante di tamburelli e nacchere.

La storia di questo ballo è antica e il suo inizio si perde nelle assolate, bollenti estati del Mediterraneo, tra gli agricoltori che raccoglievano il grano. Con la falce recidevano le spighe e se le tenevano sotto l’ascella, per poi caricarle su un carretto e portarle nell’aia per la trebbiatura.

Talvolta, insieme al grano, raccoglievano anche qualcos’altro: un ragno dal morso indolore, ma molto velenoso. Si tratta del piccolo Latrodectus tredecimguttatus, detto “malmignatta” o “vedova nera”, il cui morso provoca convulsioni addominali, spasmi e vomito.

Il contadino punto dal ragno si contorceva eseguendo dei movimenti simili a quelli di una danza scatenata. Quando i compagni tornavano tra i campi in cerca di un colpevole, trovavano subito un sospettato perfetto: un ragno molto più grande della vedova nera, il cui morso è piuttosto doloroso ma praticamente innocuo. Rea di trovarsi sul luogo del delitto e di essere particolarmente visibile, la tarantola veniva condannata senza possibilità di appello.

Da questa ingiustizia è nata una tradizione: il ballo che fa scatenare la Puglia, al quale è dedicata perfino una notte di festa alla fine dell’estate, prende il nome da un clamoroso errore di identità.

Creature del cielo

In un tempo ormai lontano, il cielo era un immenso deserto azzurro privo di vita: non esisteva ancora un essere vivente capace di sfidarne la vastità, e i raggi di sole, per incontrare la vita, dovevano aspettare di toccare terra.

Fino a quando, circa 300 milioni di anni fa, un organismo animale non ha spiccato il volo ed è riuscito, per la prima volta nella storia della vita, a guardare il mondo dall’alto. E lo ha fatto per un motivo ben preciso: non per godersi il panorama, e nemmeno per cercare di raggiungere le nuvole, ma, molto più prosaicamente, per piombare sulle sue prede e catturarle.

Questo pioniere del volo non si è ancora stancato di tagliare l’aria con delle rapide picchiate, e, anzi, nel corso del tempo è diventato un vero e proprio virtuoso, capace di planare in avanti, schizzare all’indietro, fermarsi a mezz’aria, viaggiare capovolto e raggiungere la ragguardevole velocità di 50 chilometri orari. Stiamo parlando di un insetto, un prodigioso predatore i cui colori e movimenti sono diventati per noi esseri umani un simbolo di grazia universale: la libellula.

Questo animale è da sempre a metà strada tra l’innovazione (il cielo) e la tradizione (l’acqua, origine della vita sul nostro pianeta). Se l’adulto si aggira volteggiando nel cielo, le libellule giovani si trovano più a loro agio nei ruscelli o nei piccoli stagni.

Tutto inizia, come spesso accade, con una femmina carica di uova, in cerca di un luogo dove deporle. Per alcune specie, il compito risulta piuttosto facile: basta disperderle direttamente nell’acqua; per altre invece l’operazione è leggermente più complessa, in quanto le uova devono essere protette da una pianta acquatica. Tutte però, passato qualche giorno dalla deposizione, si schiudono liberando delle forme giovanili, che passano la loro vita terrena serenamente a mollo.

È cosa nota che la natura è maestra di compensazione: se le libellule sono ottime pilote, in grado di prodursi in acrobazie di ogni genere, quando si tratta di nuotare sono un vero disastro. Non hanno pinne da agitare, e anziché usare le zampe preferiscono affidarsi a un sistema originale, ma non particolarmente efficace: ingurgitano acqua dalla bocca e la fanno uscire, rapidissimamente, dalla parte opposta, spingendosi in avanti con un movimento a stantuffo. Superfluo dire che non riescono mai a coprire grandi distanze… Come fanno, quindi, a procurarsi il cibo? Solitamente, si appostano vicino a un masso e sperano che qualche preda passi da quelle parti. Appena una larva di insetto, un piccolo girino, oppure un pesce minuscolo si presenta, le libellule si avvicinano e spalancano la bocca, che assomiglia a una molla e funziona come una pinza mortale. Questo apparato boccale prende il nome di “maschera” perché la libellula lo mostra soltanto per mangiare: quando è a riposo, lo ripiega sotto il capo, mascherandolo leggermente.

Presto o tardi, le immensità del cielo richiamano questa creatura dell’aria. È evidente che le sue potenzialità in acqua non trovano modo di esprimersi del tutto, per cui, quando si sente abbastanza sicura, la giovane libellula si avventura fuori dall’acqua, si arrampica sul primo stelo che trova e compie l’ultima muta, che la trasformerà in un adulto provvisto di quattro magnifiche ali. Finalmente può conquistare il suo elemento naturale e volteggiare elegantemente nel cielo.

Se in acqua questi insetti riescono a percorrere solo la distanza consentita dall’aria nella loro pancia, in volo possono invece coprire lunghissimi tragitti (la libellula Pantala flavescens, per esempio, fa la spola tra l’Australia e l’India inseguendo la stagione delle piogge, un viaggio di 11.000 chilometri degno di un volo di linea).

Da vere creature del cielo, in aria le libellule svolgono tutte le loro funzioni vitali – tra cui la caccia. Sembrerebbe uno svantaggio, invece la loro capacità predatoria è a dir poco eccezionale e supera, in efficacia, quella dei grandi predatori terrestri. Un leone o un felino della savana ha un’efficienza di caccia pari al 30%, mentre la libellula sfiora il 90%. Questo sorprendente risultato è dovuto al suo volo virtuoso, ma anche alla capacità di intercettare con un margine di errore minimo la posizione della vittima.

Ma non si vive di sole mosche (la preda principale delle libellule), e la fame non è certo l’unico bisogno che le libellule soddisfano volando: anche l’amore, per questi insetti, si consuma nelle immensità celesti. L’accoppiamento di questi esseri volanti avviene, infatti, principalmente quando sono in volo. Il maschio, appena scorge una femmina, la insegue, e talvolta esegue una sorta di parata nuziale: si tratta, in pratica, di voli circolari che hanno il chiaro scopo di farsi notare. Finita la danza volante, finisce anche il romanticismo: il maschio afferra la femmina tra il capo e l’addome con dei cerci, una sorta di tenaglia posizionata all’estremità del corpo. Si passa quindi all’accoppiamento vero e proprio: la femmina piega l’addome e pone la parte terminale a contatto con l’organo sessuale maschile, il quale è posizionato negli ultimi segmenti dell’addome. Finito l’amplesso, il maschio non abbandona la compagna ma la tiene attanagliata con le sue pinze fino al momento della deposizione delle uova, cosa che avviene sull’erba palustre oppure direttamente sull’acqua o ancora sul terreno impregnato di acqua. Il suo comportamento è giustificato dalla scarsa fiducia riposta nella femmina. Può capitare, infatti, che la sua compagna, finito l’amplesso, si faccia tentare da un altro maschio. Quest’ultimo, prima dell’accoppiamento, elimina gli spermatozoi del primo amante per essere certo della paternità della progenie.

Tutto questo è facile da osservare: è sufficiente porsi in riva a un laghetto e guardare le libellule mentre volteggiano unite in un abbraccio d’amore, così come è facile rimanere incantati di fronte alla natura e al suo ciclo eterno.