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Tra cielo e terra
Il primo anello del cerchio della vita è abitato da creature verdi, immobili e capaci di far girare come una trottola tutti gli altri: le piante.
Sono loro che afferrano i raggi di sole e li usano come nutrimento. In effetti, sono gli unici organismi che riescono a cibarsi interamente di aria (il piccolo cianobatterio di cui parlavamo nel capitolo 1 non è altro che il loro più illustre antenato) anche se la loro vita è profondamente legata al terreno, in cui affondano le radici. Sono creature speciali, sospese tra cielo e terra come dei messaggeri. Messaggeri di luce.
Una mano lava l’altra
Tra gli scogli dei mari poco profondi e limpidi di tutto il mondo, si aggira una piccola lumaca. A prima vista, sembra un gasteropode simile a tutti gli altri: ha un corpo molliccio, allungato e carnoso, formato da una struttura chiamata “piede” e con degli occhi posti all’estremità di due tentacoli. Questi tentacoli, come in tutte le lumache, sono invaginabili, cioè si possono ritrarre. Anche la sua alimentazione non ha nulla di strano: la Elysia – questo il suo nome – passa la prima parte della sua esistenza a brucare alghe. Il suo colore è, ovviamente, poco originale, un bruno grigiastro identico a quello di qualsiasi lumaca sparsa per il pianeta. Insomma, a prima vista questa Elysia non sembra molto interessante. Eppure, in realtà, è una creatura unica nel suo genere. Come certe persone, che sfoderano il loro fascino soltanto quando le conosci da un po’, la Elysia mostra la sua originalità gradatamente, pasto dopo pasto, quando il colore della sua livrea da bruno si fa sempre più chiaro, fino ad assumere un color verde brillante. E, come spesso accade, con il cambio di look cambia radicalmente anche il suo comportamento: da lumaca bramosa di alghe, la Elysia diventa una nullafacente. Si apposta su uno scoglio leggermente sommerso dalle acque e interrompe, di punto in bianco, qualsiasi movimento. Il suo corpo, nella totale immobilità, inizia a poco a poco a riempirsi di zucchero e a crescere, diventando sempre più grande.
Da dove proviene questo zucchero?
Dall’aria e dalla luce, ecco la risposta. Il processo capace di rendere un raggio di sole un elemento tangibile (e nutriente!) prende il nome di “fotosintesi clorofilliana”, e la lumaca Elysia è l’unico caso al mondo di animale fotosintetico, in grado di utilizzare la luce per ottenere zuccheri dolcissimi. Approfondendo la questione, si può notare che la nostra lumachina applica una sorta di digestione selettiva: nella prima fase della sua vita, quando si ciba ancora di alghe, riesce a conservare all’interno delle cellule un piccolo organello che si trova in tutti i vegetali, chiamato “cloroplasto”. Il cloroplasto, sede della fotosintesi clorofilliana, inizia a svolgere la propria funzione nel corpo dell’animale. Ecco perché la Elysia diventa verde, ed ecco perché rimane ferma. Essa capta i raggi del sole e li trasforma in cibo, proprio come una piantina.
Se la fotosintesi è rarissima nel mondo animale, essa rappresenta la norma in quello vegetale: tutte le piante sono capaci di usare la luce per la propria alimentazione (anche se il cerchio della vita è così ampio che esiste qualche sporadica eccezione). Il suo aspetto rivoluzionario è duplice: consente di trasformare degli elementi inorganici in organici, e nel farlo libera un gas, l’ossigeno, che permette la combustione.
Ossigeno vuol dire vita, vuol dire possibilità. Grazie alla fotosintesi, gli esseri viventi hanno ottenuto due grandi vantaggi: l’aumento repentino della sostanza organica (più cibo per tutti) e la possibilità di accedere a un metabolismo decisamente più efficace. Sappiamo infatti che a un certo punto, nella storia dell’evoluzione, è avvenuto un fenomeno molto simile a quello che succede attualmente con la Elysia. Al posto della lumaca c’erano delle forme unicellulari (delle specie di amebe) e al posto dell’alga gli antenati delle piante: i cianobatteri. Anziché digerirli, le amebe li hanno inglobati all’interno del proprio organismo, unendosi a loro in una nuova forma di vita – questa unione prende il nome scientifico di “endosimbiosi”. Perché lo fanno? È molto semplice: procacciarsi il cibo è un’operazione abbastanza faticosa, oltre che piena di rischi. Spesso dalla predazione si torna a mani vuote, e restare a digiuno dopo tanto sforzo non è certo piacevole. Il sole, invece, è una fonte di sostentamento gratuita e sempre disponibile: per attingerne, non bisogna far altro che stare fermi e lasciare che la fotosintesi faccia il suo corso. Comodo, no? E c’è un altro vantaggio reciproco da considerare: da una parte il cianobatterio si prodiga nel trasformare in cibo la luce e l’aria, dall’altra l’ameba lo protegge dal pericolo dei predatori. Una mano lava l’altra.
Insieme, i due organismi hanno saputo creare colonie di nuove cellule specializzate. Innovazione chiama innovazione, complessità porta a una maggiore complessità. Le singole cellule si sono aggregate, hanno formato dei tessuti e, seguendo tempi molto dilatati (dobbiamo ricordarci che l’orologio della vita non conta le ore, i giorni e gli anni: le sue lancette si spostano solo dopo secoli, millenni e milioni di anni), si sono trasformati nei vegetali che attualmente coprono di verde il nostro mondo. Il luogo in cui, dopo 502 secondi di viaggio, il nostro raggio di sole si ferma per raccontare le mille storie della vita.
Il mistero delle piante
L’endosimbiosi ha tracciato un gigantesco solco tra gli organismi viventi: da una parte ha messo i vegetali e dall’altra gli animali. Dai progenitori dell’ameba unita al cianobatterio si sono sviluppate le piante, mentre dai batteri e dalle altre forme unicellulari si sono evoluti gli animali.
Quello delle piante è stato un successo clamoroso: sono stati loro i primi organismi a colonizzare le terre emerse e sono loro che ricoprono il pianeta Terra, con il 99% della biomassa.
Tutto questo grazie alla prima scintilla di vita, quel processo capace di trasformare la luce in glucosio segnando la prima lettera dell’alfabeto della natura: la fotosintesi clorofilliana.
Il meccanismo è piuttosto complesso e di difficile comprensione, tanto che noi esseri umani abbiamo sudato sette camicie solo per scoprirne l’esistenza! Supporre che la maggioranza degli esseri viventi si nutra di aria e di luce è, infatti, decisamente controintuitivo e lontano dalle nostre abitudini e dal nostro modo di pensare. Ma, come abbiamo già detto, la realtà è molto complessa e difficile da comprendere, e alle volte l’uomo è costretto a osservarla da una prospettiva un po’ limitata, non riuscendo a guardare più in là del proprio naso.
Gli uomini dell’antichità erano convinti che le piante si nutrissero di un elemento non proprio digeribile, ma molto più facile da individuare: il terreno.
L’alchimista e chimico belga Jan Baptiste van Helmont non ne era convinto; egli infatti aveva notato che, anche quando le piante crescevano in modo evidente, il livello del terreno non si abbassava. Come facevano a nutrirsene senza consumarlo? Segretamente, van Helmont decise di fare una cosa davvero rivoluzionaria per l’epoca: un esperimento! Era l’inizio del Seicento, un secolo difficile per gli scienziati, che dovevano sempre fare i conti con la rigidità della Chiesa. Eppure, la voglia di scoprire il segreto che spingeva i vegetali a crescere era tanta. Egli prese del terreno e lo pesò; poi fece la stessa cosa con una neonata pianta di salice piangente. Trapiantò quindi il giovane germoglio, che curò per cinque anni, annaffiandolo quando necessario ed evitando il freddo intenso in inverno. Il resto lo fece il tempo, che permise al salice di crescere e di trasformarsi in un albero di medie dimensioni.
Allo scadere dei cinque anni, van Helmont ripesò sia il terreno sia la pianta e scoprì un fatto sorprendente: il terreno era diminuito di soli 57 grammi, mentre la pianta era aumentata di ben 75 chili. Era evidente, a questo punto, che il vegetale non si era nutrito di suolo. Di cosa, allora? Pensare all’aria e alla luce era troppo astruso, anche per un uomo di mentalità aperta come van Helmont il quale, infatti, concluse che le piante sapessero trasformare l’acqua in nutrimento servendosi di processi alchemici oscuri. Per paura di ripercussioni da parte della Chiesa, nascose la sua scoperta: teologi e religiosi accettavano la conversione dell’acqua in vino a opera di un essere umano, ma non avrebbero mai tollerato la trasformazione dell’acqua in cibo da parte delle piante.
Ma la luce della verità non si può fermare – eventualmente trova qualche ostacolo e rallenta, ma sempre riesce a trovare una breccia e farsi strada. A quasi cento anni dall’esperimento di van Helmont, in Inghilterra, la luce delle idee nuove riprese a brillare in un luogo insospettabile: una birreria. Ad accendere lo stoppino della scoperta fu lo scienziato e chimico Joseph Priestley.
In realtà, Priestley non era particolarmente interessato alle piante. La sua vera passione erano gli odori, non sempre gradevoli, che si formavano durante la fermentazione dell’orzo nella birreria accanto a casa. Per studiare questi olezzi, che lo scienziato chiamava elegantemente “arie”, egli inventò degli speciali macchinari capaci di intrappolare i gas all’interno di una campana di vetro.
Per prima cosa lo scienziato investigò l’effetto di queste arie sulla combustione e “immerse” una candela accesa nei gas imprigionati nel marchingegno. Il risultato non tardò ad arrivare: la fiamma si spense dopo pochissimo tempo. Quindi il gas prodotto dalla fermentazione poteva far morire una fiammella… Poteva anche fermare la vita degli organismi?, si chiese Priestley. Per scoprirlo, progettò un piccolo (ma assai comodo) divano capace di accogliere dei topolini di campagna, vittime sacrificali che raccoglieva nei prati, all’interno del suo macchinario “intrappola-aria”.
I roditori, nella campana satura di gas, iniziarono a stare davvero male: la respirazione si faceva difficile e si contorcevano dal dolore. Solo l’intervento provvidenziale dello scienziato li salvava da morte certa. Quando, infatti, la sofferenza diventava evidente, egli apriva la campana di vetro per far entrare aria fresca e per far uscire il topo.
Quindi, le sue “arie” spegnevano sia le fiamme sia le vite degli animali. Come si sarebbero comportate con le piante? Priestley mise alcuni vegetali dentro delle campane e si accorse di un piccolo prodigio: contrariamente a quanto succedeva con i topolini e con le candele, i vegetali in mezzo a quel gas puzzolente se la passavano piuttosto bene.
Per complicare le cose, lo scienziato decise di mettere insieme, nel suo macchinario, sia un topolino sia delle piante verdi. E notò con sorpresa che il roditore, dopo un primo momento di debolezza, cominciava presto a riprendersi e riusciva a vivere discretamente.
Priestley concluse che le piante erano capaci di mitigare gli effetti letali delle “arie” grazie all’emissione di altri gas. Ora sappiamo che Priestley aveva colpito nel segno, almeno parzialmente. Il gas sprigionato durante la fermentazione, quello che tormentava Priestley dalla birreria, è l’anidride carbonica, sostanza che effettivamente non permette la combustione e nemmeno la respirazione. I vegetali catturano l’anidride carbonica e, mentre lo fanno, liberano l’ossigeno: per questo i topolini, in compagnia delle piante, riuscivano a sopravvivere!
Ma i passi per scoprire il meccanismo della fotosintesi, che incapsula i raggi del sole per far partire il cerchio della vita, non erano ancora finiti. Un altro pezzetto di strada lo percorse lo scienziato olandese Jan Ingenhousz, che prese delle provette, le riempì d’acqua e di piante e ne posizionò una parte al sole, mentre le altre restarono all’ombra. Ed ecco una nuova sorpresa: dalle foglie in piena luce iniziarono a sgorgare delle piccole bolle di gas, d’altro canto non succedeva niente in quelle poste al buio. Provò quindi a spostarle vicino al focolare, per verificare se era stato il calore a produrre le bollicine. Anche in questo caso le piante non produssero un bel niente. A quel punto, risultava evidente che era la luce a svolgere un ruolo essenziale.
Un ulteriore tassello venne posizionato dallo svizzero Jean Senebier, il quale scoprì che l’anidride carbonica era indispensabile per azionare la fotosintesi. Poi arrivò il tedesco Julius Robert von Mayer che, a metà dell’Ottocento, intuì che l’energia del sole si trasformava in energia chimica.
L’equazione finale della fotosintesi (6 CO2 + 6 H2O + energia solare —> C6H12O6 + 6 O2) venne scritta nel 1962 da Julius Sachs, e a Berkeley, negli Stati Uniti, gli scienziati Calvin e Benson compresero come funzionava a livello chimico (elaborando il famoso “ciclo di Calvin-Benson”).
La strada verso la piena comprensione di questo processo, però, non si è ancora conclusa. Sono centinaia gli scienziati che ancora oggi si spremono le meningi per guadagnare terreno e scoprire i dettagli mancanti di questo meraviglioso meccanismo che fa girare da milioni di anni il cerchio della vita.
Inefficiente, ma perfetta
I raggi del sole sono molto abbondanti sulla Terra, e offrono a tutti gli organismi grandi opportunità. È per questo che diverse creature dispongono degli occhi, organi capaci di catturare le radiazioni luminose e trasformarle in segnali nervosi: la luce, oltre a nutrire le piante, aiuta gli esseri viventi a orientarsi nel mondo. È una risorsa indispensabile. Eppure, bisogna ammettere che non è un piatto per tutti i palati. La dieta delle piante si basa su tre ingredienti soltanto (aria, luce e acqua), ed è piuttosto monotona. Nessuna gioia per questi esseri verdi, nessuna variazione di menu, nessuna ricetta regionale e davvero poche, pochissime calorie.
Ma il tallone d’Achille della fotosintesi clorofilliana non è certo nel gusto delicato dell’aria e della luce. Il vero problema è che questo processo è certamente magnifico, senz’altro unico, rende possibile la vita sulla Terra, innesca milioni di storie, ma… è davvero scadente dal punto di vista dell’efficienza.
Il Sole è molto generoso e invia sulla Terra, ogni giorno, un quantitativo di energia pari a 5 × 1020 Kcal.
Ebbene, di tutta la massa energetica che raggiunge la Terra, solo una parte piccolissima colpisce le foglie per trasformarsi in zuccheri – il resto riscalda l’atmosfera per poi disperdersi nuovamente nel cosmo siderale.
Il nostro raggio è uno dei pochi fortunati: le piante lo catturano e lo incamerano per farne nutrimento. Quello che lo aspetta, però, è un processo tutt’altro che semplice: appena arrivato, viene condotto nel “centro di reazione fotosintetico”, una struttura grande e complessa, formata da alcune proteine e dalla clorofilla (la molecola che colora di verde il nostro mondo). È qui che avviene la magia, ma anche la più straordinaria delle magie non è priva di problemi. Il centro di reazione fotosintetico, infatti, si rompe ogni quindici minuti, e le povere piante per farlo funzionare sono costrette a un incessante lavoro di riparazione! E, come se non bastasse, il centro di reazione è pure altamente inefficiente.
Per accogliere delle reazioni così intricate è necessaria una struttura molto elaborata. Ma, al crescere della complessità, aumenta anche la fragilità.
Ecco perché il centro di reazione si rompe tanto spesso ed ecco perché la fotosintesi non è un processo efficiente.
C’è quindi da preoccuparsi? Nemmeno per sogno, in questo breve viaggio illuminato dal raggio di sole non incontreremo situazioni che procedono in modo lineare e semplice. Gli organismi che conosceremo sono pervasi da problemi e lottano giorno dopo giorno, anno dopo anno, millennio dopo millennio per accaparrarsi i raggi di sole che piovono dal cielo. Nulla è gratis in questo viaggio, nulla è dovuto in questa avventura che si srotola al di sotto della biosfera. Eppure, nonostante i mille problemi, le difficoltà che la vita incontra a ogni passo, tutto va avanti perfettamente da più di quattro miliardi di anni.
Il segreto della vita eterna
Intorno al 2800 a.C., lungo le sponde del fiume Nilo, alcuni esponenti della specie Homo sapiens sapiens si cimentarono con una invenzione nuova di zecca proveniente dalla vicina Mesopotamia. Questa rivoluzionaria tecnica prendeva il nome di “agricoltura” e consisteva nel coltivare le piante per raccoglierne i frutti.
I vantaggi di questo approccio erano notevoli: le persone non erano più costrette ad andare in giro per le foreste a procacciarsi da mangiare. Inoltre, i campi coltivati erano più generosi dei boschi e gli esseri umani avevano più cibo a disposizione.
Contemporaneamente, a circa 12.000 chilometri di distanza, su un monte posto a 3000 metri sopra il livello del mare, un piccolo germoglio rompeva il suo guscio di legno e mostrava al mondo le sue foglioline. Mentre le tenere radici si ancoravano al terreno sassoso della valle e i piccoli rami si innalzavano verso il cielo limpido, gli antichi Egizi costruivano una grande civiltà: piramidi, geroglifici, calcoli astronomici. Il mar Mediterraneo diventava un bacino commerciale intorno al quale prosperavano altre importanti civiltà.
Nel frattempo, la giovane piantina si faceva grande. Il tronco si piegava per sopportare il sole cocente dell’estate e i freddi dell’inverno, mentre le radici scendevano sempre più a fondo per prelevare la poca acqua che circolava tra i massi dei monti impervi.
Il tempo galantuomo scandiva gli anni e i secoli, permettendo ai Romani di conquistare gran parte del mondo conosciuto, tra cui i territori del Medio Oriente e la Palestina, dove nacque un uomo capace di influenzare un intero popolo. Quando quest’uomo, Gesù Cristo, stava per spegnere la sua prima candelina, il nostro alberello aveva abbandonato da tempo la giovane età: le sue candeline erano ben 2833!
L’impero romano fece in tempo a prosperare e sgretolarsi, facendo posto all’Europa delle nazioni e all’ascesa di nuove potenze. Quando Cristoforo Colombo, dopo aver solcato i mari per 2 mesi e 9 giorni, approdò in America – era il 12 ottobre 1492 – le candeline sulla torta dell’albero erano diventate 4324. Lui le spense tutte, godendo ancora di ottima salute.
Mentre i suoi rami, anno dopo anno, si allungavano per conquistare un angolo di cielo, la brama di ricchezze montava nel cuore degli uomini: il colonialismo, la guerra d’indipendenza, la rivoluzione industriale. L’albero saluta il Novecento da anziano: le sue radici hanno imbrigliato gran parte del pendio, la sua chioma è gigantesca e il suo tronco contorto dalle estati bollenti e dai gelidi inverni.
Passano due guerre mondiali, arriva la grande ricostruzione, gli anni della contestazione giovanile. È a quel punto che lì, sulle White Mountains, in California, nei pressi della fascinosa e turbolenta San Francisco, alcuni botanici si imbattono nel nostro albero, appartenente alla specie Pinus longaeva. È il 1973, lui ha 4805 anni.
Gli scienziati lo chiamano Methuselah, Matusalemme: l’organismo più anziano di tutta l’immensa famiglia degli esseri viventi.
Di lui ora sappiamo molte cose, ma la sua esatta ubicazione resta avvolta nel mistero: per non rischiare atti vandalici nei suoi confronti, il governo della California ha deciso di non divulgare il suo indirizzo, noto solo a pochi prescelti. In pratica, il buon Matusalemme è una specie di rockstar: i più si devono accontentare di rimirarlo in foto.
La buona notizia è che non è l’unico millenario in circolazione: tanti altri alberi si possono ammirare dal vivo, e il loro indirizzo è noto a tutti. In Iraq sfida il cielo e il tempo il cipresso Sarv-e Abarqu (4000 anni), mentre nel Galles del Nord continua a crescere il tasso Llangernyw Yew, che i 4000 li ha raggiunti e superati. Nell’isola dei centenari, la Sardegna, vive un olivo chiamato in italiano il Patriarca e in sardo S’Ozzastru, che ha superato da poco i quattro millenni.
Come fanno questi organismi a vivere così a lungo? Per gli alberi, l’avrete intuito, superare i cento anni di età è davvero una sciocchezza, mentre per gli animali si tratta di pura utopia. Esistono, ovviamente, delle eccezioni: nel 2006 è stata trovata nei mari gelidi dell’Islanda una vongola insolitamente grande. I pescatori, curiosi, hanno deciso di farla esaminare in un laboratorio di oceanografia. Dopo una attenta analisi, i ricercatori ne hanno decretato l’età: 507 anni, record che ne faceva l’animale più vecchio al mondo.
Anche le piante hanno le loro eccezioni: tante erbe consumano il proprio ciclo di vita in meno di un anno. Normalmente, però, i vegetali possono raggiungere età impensabili per la maggior parte degli esseri viventi. Come fanno? E, soprattutto, perché lo fanno? La risposta sta sempre lì, in quel processo complicato e magnifico che ha dato inizio a ogni cosa: proprio lei, la fotosintesi clorofilliana.
Per un pezzetto di cielo
L’abbiamo detto: il cibo delle piante è facile da procurarsi, ma difficile da processare. Esiste un cielo enorme da cui attingere anidride carbonica, e una pioggia costante di raggi di sole pronti a essere trasformati in zuccheri, ma la fotosintesi non è particolarmente efficiente. Così le piante, per attingere questi ingredienti e miscelarli con acqua e sali minerali, devono stare ferme, altrimenti sprecherebbero troppa energia.
Il nostro raggio di sole è arrivato da poco, ma una cosa l’ha già capita: la natura non conosce la perfezione – al massimo il miglior compromesso, ottenuto dopo milioni e milioni di aggiustamenti. E la condizione di immobilità, come tutte le cose, ha dei vantaggi e degli svantaggi.
Prima le buone notizie: non essendo costrette a viaggiare, le piante si spostano unicamente verso l’alto, sfidando senza timore le leggi di gravità. Questo permette loro di crescere tantissimo… anche fino all’infinito, almeno in teoria, perché le piante conoscono i propri limiti. Quando l’energia richiesta per crescere diventa eccessiva, o quando l’ambiente circostante non è favorevole, ecco che arriva lo stop e loro smettono di allungarsi. Dove il territorio lo consente, invece, le piante crescono molto – come le sequoie della California o le grandi querce d’Europa. Fatevi una passeggiata per i sassosi paesaggi mediterranei e scoprirete, non a caso, che le piante sono quasi tutte piccole.
Per noi esseri umani, il concetto di crescita è legato a doppio filo con quello di futuro: crescere per noi significa andare avanti, progettare, procedere passo dopo passo verso l’avvenire. Per le piante, invece, è vero l’esatto contrario. La natura, non avendo una mente, non possiede neppure un’idea di futuro. Gli organismi vivono incastonati in un eterno presente, poggiato su un passato antichissimo – anche se inconsapevole. L’inconoscibilità del futuro, la terribile ansia che ci provoca, agli altri abitanti del pianeta è totalmente sconosciuta. Se le piante avessero coscienza del futuro, infatti, non sprecherebbero energie per elevarsi al cielo: anziché ostacolarsi e togliersi spazio l’un l’altra (come avviene in un bosco, dove gli alberi più alti tolgono luce e nutrimento a quelli più piccoli), si metterebbero d’accordo e autolimiterebbero la propria crescita. Per esempio, potrebbero deliberare che l’altezza massima sia di due metri, una statura più che sufficiente sia per catturare la luce sia per non sprecare energia. Invece, non avendo cognizione del tempo che verrà, non pensano a cosa sarebbe meglio, ma solo a cosa è meglio in quel preciso momento. La cosa migliore nel presente è non lasciarsi soffocare dall’ombra altrui e slanciare le proprie chiome al di sopra delle altre. Ecco spiegato il motivo della silenziosa e lentissima guerra che si combatte ogni giorno, nel bosco, per un pezzetto di cielo.
La grande forza degli esseri umani, ma anche il loro grande dramma, è quello di avere coscienza sia del passato sia del futuro. Forza perché possiamo raccontare, condividere e migliorare la nostra storia; dramma perché essa procede in modo casuale, è intrinsecamente insensata ed è provvista di una personale fine. Quindi, per non vedere questa parte altamente problematica, viviamo, come gli alberi, incastonati in un eterno presente senza un passato e senza un futuro. Eppure, quando riusciamo ad aprire il nostro cuore e liberare il passato che vive dentro di noi, la visione della vita mostra i problemi, le risorse ma, soprattutto, si allarga e il nostro futuro assume una visione dai contorni sempre più chiari e profondi.
Il tumore che germoglia
I percorsi del cerchio della vita presentano tante sfaccettature e quello che a prima vista sembra un limite ha comunque dei vantaggi: la crescita costante e inesorabile fa in modo che gli anni passino senza colpo ferire. Le piante invecchiano con una lentezza esasperante e il metabolismo lentissimo, unito all’immobilità (cioè a un dispendio di energie ridotto al minimo), fa il resto.
Esiste anche un altro fattore che permette alle piante di incontrare la morte in un futuro spesso remoto. Per capire il meccanismo che consente loro di sfidare i secoli, dobbiamo percorrere Washington Street nella cittadina di Riverside, in California. Appena dopo il ristorante messicano, svoltiamo a sinistra per imboccare Magnolia Avenue; di fronte al negozio di fiori, precisamente al civico 7115, si può ammirare un grande albero di arancio. Non possiamo sbagliare: il raggio di sole è già lì, pronto a illuminare una nuova storia.
Quella che abbiamo di fronte, con le sue chiome sempreverdi, non è una pianta qualsiasi: è nientepopodimeno che uno dei monumenti ufficiali dello Stato della California. Per sapere cosa ci fa un albero nella lista dei monumenti da non perdere, insieme al Golden Gate, al faro di San Diego e alla famosissima statua The Unconditional Surrender, dobbiamo riprendere il nostro viaggio e, questa volta, viaggiare sia nello spazio sia nel tempo.
La nostra destinazione è un piccolo convento di monaci nella città di Salvador de Bahia, in Brasile, nell’anno 1820. È quello l’anno preciso in cui, nel giardino del convento, un piccolo germoglio di arancio amaro iniziò a elargire dei frutti dolcissimi, facili da sbucciare, senza semi e con un piccolo, strano rigonfiamento alla base. Un frutto gemello, non sviluppato, che restava attaccato al fratello più grande; una piccola escrescenza dalla forma bizzarra, simile a un ombelico.
Per circa cinquant’anni gli unici ad assaggiare questi frutti sono stati gli ospiti del monastero. Poi, intorno agli anni Settanta dell’Ottocento, un viaggiatore portoghese di passaggio al convento si innamorò del gusto delicato dei suoi spicchi e, con il permesso del padre priore, staccò e portò con sé un pezzetto del ramo miracoloso. Il suo movimentato cammino lo portò proprio a Riverside, e proprio al 7115 di Magnolia Avenue, dove lo straniero piantò il piccolo germoglio.
Il sole dello Stato d’oro, unito al terreno particolarmente fertile e alle cure amorevoli del portoghese, trasformò il virgulto in un albero forte, vigoroso e capace di dare numerosi frutti prelibati… che ancora una volta si fecero notare: la dolcezza degli spicchi attirò l’attenzione degli agricoltori locali, che prelevarono dei germogli dall’albero per coltivarlo nei campi limitrofi. Dai germogli si svilupparono nuovi alberi e, a catena, altri virgulti: un’onda che si propagò a raggiera per tutta la California.
La varietà di arancio prese il nome di Navel – che in inglese significa “ombelico” – proprio in virtù della strana forma alla base del frutto. L’onda dolce delle Navel varcò presto i confini nazionali, propagandosi verso l’Australia, l’Asia, l’Africa e arrivando a lambire le coste miti del Sud dell’Europa (la Sicilia in particolare). A tutt’oggi è l’arancia più coltivata e consumata in tutto il mondo.
Dato che i suoi frutti non hanno i semi, la propagazione è di tipo vegetativo. Cosa significa? Che per coltivare un nuovo albero bisogna prendere un germoglio e piantarlo. Sembra un’intuizione banale, ma se ci fermiamo un secondo a riflettere possiamo trarne una conclusione affascinante: tutti i germogli oggi esistenti derivano dal rametto di un’unica pianta: quella del giardino del convento di Salvador de Bahia. Proprio quel rametto staccato dal viaggiatore portoghese e portato al 7115 di Magnolia Avenue, nella cittadina di Riverside!
Ma la cosa davvero sorprendente è che quel primo germoglio non era affatto comune, dal momento che era affetto da una mutazione. Nelle piante questo genere di manifestazioni viene chiamato “sport” ed è piuttosto comune: si tratta di una incontrollata proliferazione cellulare, che genera delle caratteristiche del tutto nuove nell’esemplare colpito. Nelle piante queste mutazioni tumorali si possono verificare nelle gemme e il loro effetto rimane circoscritto, o, come nel caso dell’arancia Navel, può dare vita a un germoglio diverso dal resto della pianta.
Cosa c’entra tutto questo con la capacità di attraversare i millenni da parte delle piante? C’entra eccome, perché quel che nel mondo vegetale prende il nome di sport, nel mondo animale assume le tetre connotazioni del tumore – una cosa che non permette mai di sopravvivere abbastanza a lungo.
Negli animali, infatti, gli agenti mutageni possono compromettere la funzionalità di organi centrali e quindi portare alla morte. Al contrario, nelle piante essi si sviluppano e diventano dei germogli – oppure parti della pianta stessa. Questo è possibile perché i vegetali non possiedono organi centrali: di conseguenza, non possono soffrire di questa malattia. O meglio: ne soffrono, ma i loro germogli mutanti, lungi dall’essere letali, possono addirittura dare vita a una nuova specie di frutti.
Le forme della vita sono così tante e così varie da essere differenziate: un problema per uno può risultare una risorsa per l’altro. Il raggio di sole le illumina tutte, tocca a noi aprire gli occhi e cercare le diverse situazioni che si consumano tra il brulichio costante che anima il cerchio della vita.
Risolvere problemi: l’immobilità
Provate a immaginare come sarebbe la vostra vita se non poteste muovervi. Ancorati al terreno per sempre, in attesa che altri (la natura, in questo caso) vi diano l’acqua e la luce di cui avete bisogno per vivere. Ecco, questa è la vita delle piante. Tutt’altro che piacevole, no?
L’inefficienza della fotosintesi clorofilliana, l’esigenza di avere tanta acqua e sali minerali, la necessità di catturare tanti raggi del sole e il fatto che sia l’aria sia la luce siano, da una parte, molto abbondanti ma, dall’altra, davvero difficili da processare e trasformare in cibo hanno costretto le piante a stare ferme e letteralmente piantate al suolo. L’immobilità permette alle piante di raggiungere venerande età come quella del vecchio Matusalemme, ma al contempo riempie la loro esistenza di clamorosi limiti. Di nuovo il viso di Giano della natura si fa vedere: questa condizione è vantaggiosa o pericolosa?
Proviamo ad analizzare il problema più evidente: la difesa. Sopravvivere agli attacchi esterni può essere molto difficile, se si è costretti a restare immobili. Le piante, però, nel corso del tempo sono riuscite a elaborare diverse strategie di difesa. Una delle più semplici ed efficaci riguarda la forma delle foglie: nel corso del suo viaggio, il nostro raggio di sole ne incontra tantissime, dalle forme e dai colori più incredibili, e un dettaglio che non può sfuggirgli è che la maggior parte di esse possiede un margine dentellato. Una caratteristica così frequente, in natura, non può essere casuale. E infatti le foglie dentellate portano un grande vantaggio alle piante che ne sono provviste: le rendono meno digeribili per i bruchi.
Come tutti i buoni giardinieri sanno, i bruchi sono dei gran divoratori di piante, e in particolare di foglie, che hanno l’abitudine di sgranocchiare al margine, piazzandosi a cavalcioni tra i due lembi. Ora, se provassimo a eliminare i dentelli da alcune foglie e darle in pasto ai bruchi, scopriremmo che essi le farebbero fuori in un sol boccone. Digerire foglie seghettate, invece, richiede molto più tempo. In pratica, i dentelli rallentano notevolmente la velocità di ingestione della pianta, perché il bruco, dopo aver attaccato una sporgenza, prima di affrontarne una nuova è costretto a riorganizzarsi. Durante questo intervallo, poi, può capitare di tutto: una tempesta, un uccello, un insetto predatore, un fungo parassita, un batterio mortale… Insomma, la pianta gioca sul tempo e sulla pericolosità del bosco o del prato. Una strategia decisamente ingegnosa, che ci dà uno spunto su cui riflettere: se non possiamo muoverci, guardiamoci intorno. Ogni cosa, nel mondo che ci circonda, può aiutarci a vivere meglio. Basta saper guardare.
Vegetali parassiti
Non sempre le storie incontrate dal nostro raggio di sole hanno una “morale” così chiara. Anzi, a ben pensarci, il bello della natura è proprio che una morale, almeno per come la intendiamo noi umani, non c’è. Problemi e soluzioni si rincorrono senza sosta, nel grande cerchio della vita, vittima e carnefice si scambiano continuamente i ruoli e la connessione tra gli esseri viventi diventa sempre più intricata man mano che il viaggio prosegue. Un esempio? Il vischio.
Il vischio è una pianta simile a un cespuglio ed è piuttosto comune in tutto il mondo. Per individuarlo è sufficiente andare in una foresta in inverno: il verde delle sue foglie risalta sul marrone scuro dei grandi rami degli alberi. Esso infatti, al contrario dei giganti di legno che abitano il bosco, non perde le foglie durante i mesi freddi. Ma c’è di più: il vischio vive esclusivamente sopra gli alberi, non si sporca mai con la dura terra e con le sue vicende, appunto, terrene.
Queste caratteristiche hanno stimolato la fantasia degli esseri umani, i quali lo hanno eletto a icona sacra, convinti che la sua origine si dovesse ricercare in alto, nei cieli. Secondo la leggenda, gli dèi si divertivano a gettare i candidi frutti della pianta, simili a perle, in basso, sulla Terra, per schernire gli esseri umani che soffrivano e faticavano. Il vischio poi se ne restava lì, appollaiato sopra i rami degli alberi, senza mai sporcarsi. Tutte le credenze che lo riguardano sono proprio da ricondurre all’idea che questa pianta fosse in realtà una creatura del cielo: dall’antico interesse dei druidi, che raccoglievano i suoi frutti e li processavano seguendo ricette alchemiche dal magico potere, fino a un’abitudine romantica che abbiamo ancora oggi, quella di baciarci sotto il vischio durante la notte di Natale.
Il fatto è che, come spesso accade, la realtà è ben diversa dalla leggenda: il vischio non appartiene ad alcuna dimensione spirituale, e di certo non ha poteri magici o curativi. Anzi, a dirla tutta i suoi frutti sono velenosi, e le sue esigenze sono simili a quelle di tutti gli altri organismi viventi – cioè molto terrene. Se vive sugli alberi non è per non sporcarsi con la terra, ma perché le sue radici non sono in grado di penetrare il suolo. In sostanza, non si tratta di una creatura divina e nobile, ma di un vegetale parassita, costretto a prelevare l’acqua e i sali minerali dalla linfa degli alberi su cui cresce.
Ogni cosa, nel vischio, è conformata per sfruttare al meglio gli altri organismi. Osserviamo i semi, per esempio: hanno una forma cuneiforme, adatta a infilarsi nelle screpolature della corteccia. Le radici che ne derivano saranno talmente robuste da penetrare perfino il legno più duro.
Ovviamente, anche la vita del parassita è costellata di problemi: prima di tutto bisogna trovare qualcuno da sfruttare, e la cosa non è per nulla banale. In genere è molto più facile centrare la terra che insinuarsi negli alti rami degli alberi e, dal momento che a disperdere i semi non sono gli dèi ma mammiferi e uccelli, è facile che sbaglino mira. E allora per il vischio sono guai seri: non sapendo estrarre le sostanze dal terreno, semplicemente non può crescere e passa a miglior vita ancora prima di germogliare. Anche se cade su un ramo la situazione può volgere al peggio, perché non tutti i rami vanno bene: se è troppo grande, le radici non riescono a penetrare la dura corteccia; se è troppo piccolo, invece, non c’è abbastanza sostanza da rubare.
Il vischio, quindi, è costretto a vivere solo in alto e sui rami di medie dimensioni. Una condizione davvero scomoda, che necessita di strategie virtuose per essere affrontata al meglio. Così – in un tempo straordinariamente lungo, quello richiesto dalla selezione naturale – il vischio ha scelto come agente di disseminazione un uccello della famiglia dei Torditi, la tordela, talmente ghiotta delle sue bacche da meritarsi il nome scientifico di Turdus viscivorus, cioè “tordo vorace di vischio”. Per attirarlo, la pianta colora i propri frutti con delle tinte a cui l’occhio dell’uccello è particolarmente sensibile, e anche il suo sapore si adatta perfettamente ai gusti del volatile… Con un piccolo segreto: all’interno delle bacche sono contenute delle sostanze lassative. Dopo aver tanto mangiato, la tordela necessita solo di due cose: riposarsi sui suoi rami preferiti e liberare l’intestino. Ovviamente la pianta non desidera altro, ma attenzione! C’è un altro problema all’orizzonte: se la tordela ha esagerato con le quantità, si corre il rischio che le sue feci siano troppo liquide, e scivolino quindi lungo il ramo fino a toccare la sgraditissima terra.
Come prevenire quest’eventualità, visto che per la tordela non esiste cibo più prelibato? Ecco che il virtuosismo della natura ci viene in soccorso: perché nel frutto del vischio, oltre a sostanze lassative e zuccheri prelibati, si trova anche una sostanza collosa, che ne ricopre la superficie e gli permette di restare appiccicato in alto, dove può germinare e dare vita a una nuova pianta. La cosa non finisce qui: la colla, infatti, è in grado di attraversare il tubo digerente della tordela senza essere digerita. Dopo aver tanto mangiato, l’uccello si ritrova con il becco pieno di questa materia viscosa. Per liberarsene, se lo strofina sui rami, infilando i semini, senza avvedersene, direttamente all’interno delle screpolature della corteccia, dove vengono fissati proprio grazie alla colla.
Siamo di fronte a una simbiosi o a una manipolazione? C’è da dire che i cespugli di vischio accolgono numerosi nidi di uccelli, e i suoi frutti nutrono non solo i Torditi ma anche gli scoiattoli, e talvolta i cervi e altri erbivori – che a loro volta fungono da nutrimento per altri animali carnivori. Insomma, dove c’è il vischio c’è sicuramente un albero che soffre (se non altro perché è costretto a vivere con un inquilino indesiderato!), ma tantissima biodiversità che si genera e che protegge l’intero ecosistema.
Mamme protettive
Il giorno 7 settembre 1978, nei pressi del Waterloo Bridge, a Londra, il giornalista e scrittore bulgaro Georgi Markov stava aspettando, come ogni mattina, l’autobus che lo avrebbe portato alla stazione radiofonica della BBC. L’intellettuale dell’Est Europa curava una trasmissione in cui faceva volare, senza mezzi termini, delle frecce al vetriolo nei confronti del regime comunista, quello bulgaro in particolare.
Mentre era assorto nei suoi pensieri, Markov sentì un acuto dolore alla coscia destra. Si voltò, convinto di essere stato punto da una vespa o da un altro insetto, ma vide soltanto un signore elegante raccogliere un ombrello e allontanarsi.
Il giornalista non diede peso all’accaduto e si diresse, come al solito, verso la radio. Quella mattina la trasmissione andò puntualmente in onda: nonostante il dolore alla coscia sempre più insopportabile, le vampate di calore, i giramenti di testa e la febbre, i consueti proiettili ironici vennero sparati al di là della cortina di ferro. Furono le ultime cartucce di Georgi Markov: giunto a casa, la febbre salì a tal punto che il giornalista iniziò a delirare. Venne portato di corsa all’ospedale, ma non ci fu nulla da fare: colpito da un arresto cardiaco, esalò lì il suo ultimo respiro.
L’autopsia rivelò quello che i medici già sospettavano: conficcata nella coscia del defunto c’era una microcapsula forata del diametro di 1,7 millimetri, composta al 90% di platino e al 10% di iridio. Al suo interno vennero rilevate tracce di ricina, un veleno molto potente, per il quale all’epoca non si conosceva un antidoto.
Perché raccontiamo questa storia? Il fatto è che la ricina è uno dei molti veleni di origine vegetale. Normalmente le piante non se ne servono certo per omicidi politici, come è facile immaginare. Anzi, a dirla tutta, il loro obiettivo non sono neppure gli esseri umani, bensì gli uccelli e gli altri animali che potrebbero avvicinarsi ai loro semi e tentare di mangiarli. Si tratta di una strategia di difesa che la pianta madre fornisce ai suoi piccoli: per sopravvivere, le piante devono assicurarsi che i loro semi non finiscano tutti in pasto agli animali, ma che si diffondano per mettere radici e germogliare altrove. Con la dose giusta di veleno, i semi risultano poco appetitosi e gli animali, per evitare un’indigestione, imparano a tenersene alla larga.
A usare questa strategia difensiva non c’è soltanto il ricino, ma anche piante più insospettabili: i semi del melo, del pesco e dell’albicocco, per esempio, hanno un contenuto più o meno alto di amigdalina, un glucoside cianogenico, capace cioè di liberare acido cianidrico dalla flora intestinale degli animali.
Anche la caffeina è un alcaloide che la pianta utilizza per proteggere i suoi semini dal vorace appetito degli animali. Quando il germoglio inizia a mostrare le sue tenere foglie al mondo, la caffeina migra dal seme nelle parti verdi, in modo da allontanare gli erbivori, poi scende verso il basso e penetra nelle radichette, che ricopre con una microscopica ma amarissima barriera, capace di tenere alla larga insetti, funghi e altri nemici.
In pratica, la madre fornisce alla neonata piantina sia gli elementi nutritivi sia la protezione necessaria. Se tutto procede per il meglio – cioè: se il seme ha trovato le condizioni per germinare, se la piantina non è stata divorata da qualcuno, se è diventata grande e se gli impollinatori hanno fatto il loro dovere – dopo la fecondazione si formeranno altri semi, cioè nuovi organismi in potenza. Quando cresceranno, saranno ormai capaci di pensare a se stessi in maniera autonoma, proprio come accade ai cuccioli di molte altre specie!
Il veleno però non è soltanto un’arma di difesa. La medicina ci insegna che il trucco sta nelle dosi: un milligrammo in più può essere letale, eppure con il giusto equilibrio ogni veleno si può trasformare in cura.
Una cosa simile avviene nel mondo delle piante. Le crucifere, famiglia a cui appartengono i cavoli, i broccoli, la colza e la senape, mescolano insieme al nettare una sostanza che eccita gli impollinatori, che vengono colti da una sorta di frenesia, un eccitamento che li sprona a lavorare alacremente e li rende ancora più efficaci. Bisogna però essere cauti! La sostanza aumenta il lavoro, ma anche l’aggressività. Quindi, attenzione ai campi di cavoli: potreste venire punti da qualche ape troppo eccitata.
Un altro caso particolarmente interessante è quello del caffè. Ricoperti da un involucro di polpa zuccherina e da una buccia di colore rosso vivo, i suoi semi attirano stormi di uccelli, tra i pochi organismi autorizzati a mangiarne a profusione. Perché? Semplice: perché possono volare lontano e aiutare nella disseminazione. Essi infatti assimilano soltanto l’involucro di polpa, mentre i semi veri e propri attraversano intatti il loro tubo digerente, per poi ritrovarsi all’esterno sani e salvi, pronti per far germinare una nuova pianta. La cosa interessante è che anche la polpa – quella di cui gli uccelli vanno ghiotti – contiene della caffeina. Quanta? Be’, la giusta quantità: non così tanta da intossicare i volatili, ma neanche troppo scarsa, perché la caffeina li aiuta a volare più veloci, portando i semi il più lontano possibile dalla pianta madre!
Inoltre, per evitare sprechi, la caffeina viene elargita solo a chi se la merita davvero: quando il fiore bianco del caffè viene visitato da impollinatori poco efficienti (mosche, farfalle, i maschi di alcune zanzare), la quantità dell’alcaloide contenuta nel nettare rimane piuttosto scarsa. Quando, però, arrivano le api, il livello della sostanza eccitante aumenta e scatena un circolo virtuoso che spinge l’ape a lavorare e visitare più fiori, con un grande vantaggio da entrambe le parti: il vegetale si riproduce, mentre l’insetto, raccogliendo più nettare, produce più miele.
Nel mondo dei vegetali, la pianta del caffè è senz’altro una delle mamme più protettive, al punto che utilizza più strategie di difesa contemporaneamente: oltre ai tessuti infarciti di un veleno, essa è provvista anche di foglie dentellate (un dispositivo di sicurezza più basico ma, come abbiamo visto, sempre efficace). È anche una genitrice oculata: per non sprecare una sostanza utile e preziosa come la caffeina, la dose giusta per allontanare bruchi e insetti viene disposta solo lungo i margini delle foglie, e non al loro interno.
Sorpresa piccante
C’è un’altra pianta che, al pari del caffè, è conosciuta e coltivata in tutto il mondo: è il peperoncino. I suoi fiori sono bianchi, perfetti per attirare gli insetti impollinatori; la sua forma è più o meno cespugliosa; alcune varietà sono annuali mentre altre sono perenni e la sua resistenza al freddo è simile a quella di tutti i vegetali che vivono sul continente americano. A prima vista, quindi, sembra una pianta come tutte le altre… Ma noi uomini sappiamo che non lo è: quando si analizzano i suoi frutti carnosi, il velo di normalità cade all’istante.
Esattamente come il caffè, il peperoncino cerca di attirare gli uccelli in modo che possano trasportare i semi lontano dalla pianta madre, e per farlo ha conformato i suoi frutti ai loro gusti: piuttosto piccoli, rossi, contenenti una discreta quantità di zucchero.
Qualcosa non torna, vero? Tutti sappiamo che il peperoncino non è di certo la cosa più dolce che ci sia in natura, e sappiamo anche che i volatili non sono grandi amanti del cibo speziato. Come fanno, allora, a sopportare il piccante? È molto semplice: non lo sentono. Il fatto è che il peperoncino non vuole solo attirare gli uccelli, ma anche difendersi dai mammiferi, che considera dei pessimi trasportatori di semi. Così, ingegnosamente, diffonde all’interno delle bacche una sostanza chiamata “capsicina”, che alcuni recettori della lingua dei mammiferi percepiscono come fuoco puro! La lingua degli uccelli, invece, non possiede questi recettori e consente loro di percepire soltanto il sapore zuccherino, senza correre il rischio di bruciarsi la bocca.
A vanificare la strategia, come spesso accade, sono gli esseri umani, che al posto di evitare la capsicina, la amano e la cercano.
Ma quello che a prima vista sembra un errore si trasforma in risorsa, per il peperoncino. Perché, contrariamente agli altri mammiferi, gli uomini sono ottimi agenti di dispersione: se gli uccelli fanno viaggiare i semi attraverso il continente americano, gli esseri umani nel corso del tempo sono riusciti a portare questa pianta in tutto il mondo, proteggendola e diversificandola per poterla usare nelle proprie ricette.
Il frutto zombi
Il nostro raggio di sole non soffre i veleni, non rischia di farsi male, non teme alcun pericolo. Per questo può permettersi di vagare in lungo e in largo, andando sempre a caccia di nuove storie. Le piante lo accolgono sempre con gioia, pronte a rivelargli i loro segreti. Quella che stiamo per incontrare è una pianta un po’ speciale, perché per difendersi non ha né dentelli né veleni. Come fa? Per scoprirlo, dobbiamo tornare indietro nel tempo e raccontare una storia… di streghe.
Siamo nell’inverno del 1692, nel piccolo villaggio di Salem, nel Massachusetts. Le due giovani figlie del pastore Samuel Parris ultimamente mostrano dei comportamenti davvero bizzarri: si nascondono dietro i mobili di casa, strisciano per terra, parlano in una lingua sconosciuta oppure rimangono in silenzio per lunghi periodi. Il padre, preoccupato per la situazione, si rivolge ai suoi colleghi religiosi, che gli consigliano diplomaticamente di lasciare la questione nelle mani di Dio.
Dio, a quanto sembra, preferisce non intervenire, ma nel frattempo tra i vicoli di Salem iniziano a circolare delle insinuazioni velenose. La diceria principale vuole che le ragazze siano state colpite da oscure pratiche magiche inventate da Belzebù in persona. Insomma, che siano possedute. Si cerca quindi qualcuno che faccia da “mediatore” tra il demonio e le ragazze, per aiutarle a liberarsene, e spunta presto tra gli abitanti della cittadina una grande esperta di streghe: la vedova Mary Sibley. Nel curriculum di questa donna spicca la capacità di preparare la witches cake, una focaccia di farina di segale in grado di rivelare la presenza di una fattucchiera all’interno della comunità. La ricetta è tanto semplice quanto disgustosa: la torta viene impastata con l’urina della persona colpita dal maleficio (in questo caso le figlie del reverendo) e una volta finita viene data in pasto a un cane, che a quel punto dovrebbe riconoscere (e aggredire) la responsabile del maleficio.
La signora Sibley segue diligentemente tutti i passaggi, prepara la focaccia e la serve al suo cane… che muore intossicato prima di stanare la strega di turno. La follia purtroppo non si ferma, le dicerie divampano e si trasformano in panico collettivo, prima di sfociare nel tristemente noto processo alle streghe di Salem.
Ora, se alcuni storici sostengono che il comportamento bizzarro delle due ragazzine non fosse di origine demoniaca ma, semplicemente, frutto della solitudine e della superstizione, altri credono invece che la vera ragione dei fatti accaduti a Salem affondi le radici nel cerchio della vita. Più precisamente, nelle strategie delle piante per difendersi dai loro nemici.
Il tutto inizia con la segale, ingrediente principale della nauseabonda witches cake, un cereale che, grazie alla sua capacità di resistere al freddo, viene coltivato soprattutto nei climi nordici. Si sa, però: anche i più forti talvolta si ammalano, e i semi di questa pianta possono infettarsi con un fungo velenosissimo che colpisce diverse graminacee, chiamato Claviceps purpurea. Quando succede, i semi infetti diventano neri e ricurvi e si riempiono di alcaloidi, tra cui l’acido lisergico. Questa sostanza, se ingerita da noi esseri umani, può causare diversi disturbi, i cui sintomi assomigliano molto a quelli riportati dai testimoni della follia delle figlie del reverendo.
Nel Seicento la segale era il cereale più coltivato nel Massachusetts; inoltre, alcuni documenti ufficiali raccontano di una pagnotta di colore rosso, regalata alla famiglia del pastore da alcune donne devote. All’epoca si credette che il rosso fosse quello del sangue del diavolo (con cui le streghe dovevano aver impastato la farina), ma oggi sappiamo che quando la percentuale dei semi infetti supera il 5% il pane ricavato dalla segale assume un colore vermiglio (da cui il nome del fungo Claviceps, cui si accosta l’aggettivo purpurea).
Ma perché questo fungo è così velenoso? E perché infetta molte graminacee? La risposta è nelle mille circonvoluzioni del cerchio della vita: le spore del fungo viaggiano trasportate dal vento, e si fermano raramente, ma quando incontrano l’infiorescenza di una graminacea ci si insediano volentieri. A quel punto, si impossessano del fiore e lo trasformano in un frutto zombie: il seme diventa nero, simile a un corno (ecco perché prende il nome di segale cornuta) e ricco di sostanze velenosissime.
Il frutto zombi è diverso dagli altri anche nel comportamento: al posto del chicco bruno portatore di vita, adesso c’è un malefico manipolatore di insetti. Esso preleva la linfa dalla pianta e, dopo averla trasformata in una sostanza appiccicosa e dolce, ci aggiunge le proprie spore. Quando gli insetti – che hanno un debole per lo zucchero – si avvicinano per banchettare, senza accorgersene si sporcano di spore, che trasportano quindi di pianta in pianta, ricominciando il tetro ciclo del male.
Mentre le spore si aggirano per i prati a bordo degli insetti, i semi indemoniati cadono al suolo dove trascorrono, inerti, il lungo inverno del Nord. Giunta la primavera, non compare nessuna giovane piantina: insieme ai colori brillanti dei prati e dei boschi, nei campi regnano adesso le tinte cupe della Claviceps purpurea.
Anche i più spaventosi film di zombi hanno però un rovescio della medaglia: bisogna sempre ricordare che la natura ha mille sfaccettature e i suoi significati sono molto più profondi di quanto noi uomini riusciamo a percepire. Così, se si osserva il fenomeno della segale cornuta da una distanza ravvicinata, si scopre che il panorama cambia completamente.
Prima di tutto è necessario dire che l’erba che ricopre i prati è sprovvista di qualsiasi meccanismo difensivo: un vero e proprio paradiso per i grandi mammiferi erbivori, che con le loro fauci processano ogni giorno chili e chili di erba fresca. Le graminacee sono altrettanto indifese, e l’unica strategia che hanno elaborato per sfuggire all’attacco dei predatori principalmente è quella di generare i nuovi germogli sottoterra anziché in superficie. Non sempre basta, però. Bisogna, all’occorrenza, sapersi lanciare all’assalto. Ed ecco che in soccorso delle graminacee arriva lui: il fungo Claviceps, una sorta di mercenario che presta le proprie armi per combattere le guerre altrui. In cambio, le piante gli cedono qualche seme per aiutarlo a diffondersi, dando vita a quella che in natura (ma non solo) si chiama “simbiosi”: uno scambio perfetto, alla pari, in cui entrambe le parti lasciano qualcosa per ottenere un risultato vantaggioso per tutti. In questo caso, la sopravvivenza.
Attirare l’attenzione
Il problema dell’immobilità non riguarda soltanto la sicurezza e la possibilità di difendersi. Ci sono infatti altre questioni, più piacevoli ma non meno urgenti. Per esempio: come fare per incontrare il partner? Durante la loro milionaria storia, le piante hanno trovato tantissime soluzioni a questo problema, e la più comune è anche la più semplice. Possiamo osservarla in primavera, quando i prati di tutto il mondo si accendono di mille colori. La strategia è la stessa che applichiamo noi (e non solo, anche vari animali lo fanno!) quando vogliamo attirare l’attenzione: ci vestiamo a festa, ci facciamo belli per cercare di distinguerci. Ecco, i fiori fanno la stessa cosa, e la fanno sapendo di avere a che fare con un partner che sa dare tantissimo, ma è molto difficile da conquistare: l’ape da miele. In realtà l’ape non è un vero e proprio partner, l’accoppiamento richiede la presenza di un altro fiore della stessa specie. Ma se nessuno dei due riesce a muoversi, come ci si può incontrare per far avvenire la fecondazione? Gli insetti impollinatori servono esattamente a questo: sono dei “corrieri” che prelevano il polline (cioè la parte maschile dei fiori) da una corolla e lo consegnano a un’altra.
Quando alla mattina esce per andare al lavoro nei campi, ogni ape si trova di fronte a una massa di fiori splendenti, ognuno che reclama una visita. In mezzo a questa moltitudine colorata, farà la sua scelta: un fiore, uno soltanto, per tutto il giorno, fino al tramonto. Questa monogamia temporanea porta grandi vantaggi a entrambi: la pianta è sicura che il suo polline finirà sulla parte femminile di un fiore delle sua stessa specie, assicurando una fecondazione di qualità; l’ape, da parte sua, può permettersi di scegliere il fiore che la convince di più, evitando di girare a casaccio da una corolla all’altra. Le api sono infatti creature indaffaratissime, non hanno tempo da perdere: l’alveare è grande, le bocche da sfamare tante, e l’inverno arriva sempre prima di quanto non si pensi. Occorre procurarsi grandi quantità di nettare, insomma. Ed è qui che subentra la selezione, perché il fiore che lancia il messaggio più promettente di solito è quello che ha più materia prima da fornire.
Ovviamente, tutti i fiori cercano di attirare l’ape e di convincerla a posarsi su di loro, ed è per questo che nel prato si combatte una silenziosa e millenaria guerra. Le battaglie dei prati non si combattono con i cannoni ma a suon di profumi, forme e colori, con delle strategie più o meno lecite.
Lo scopo è quello di attrarre il maggior numero di impollinatori, perciò i fiori cercano di conformarsi ai gusti personali delle api. Il senso principale dell’ape, come quello della gran parte degli insetti, è l’olfatto. Ecco quindi che le piante si prodigano con aromi delicati, in grado di attirare l’attenzione anche da una lunga distanza: grazie alle loro antenne sensibilissime questi insetti sono capaci di percorrere controvento decine di chilometri seguendo la scia odorosa!
Una volta giunte nei pressi del fiore tentatore, le api si ritrovano a fare i conti con una nuova arma di seduzione: il colore. È questo il motivo per cui i prati di tutto il mondo sono punteggiati di rosa, violetto, giallo, blu: sono tutti colori ben percepibili dall’occhio dell’ape. L’unico un po’ più raro (pensateci bene, non sono tanti i fiori di questo colore) è il rosso, difficile da percepire per l’occhio composto delle api e, proprio per questo, poco vantaggioso. Ci sono anche dei colori che noi esseri umani non riusciamo a vedere – come, per esempio, l’ultravioletto, che risplende su quei fiori che noi percepiamo come bianchi. Addirittura, sui petali di alcune piante sono disegnate delle speciali linee chiamate “guide al nettare”, che indicano la precisa ubicazione delle ghiandole che secernono il liquido zuccherino. La maggior parte degli animali non è in grado di distinguerle, essendo insensibile all’ultravioletto. I fiori svelano la loro totale bellezza solo a chi sa coglierla e valorizzarla.
Un’altra strategia utilizzata dai fiori per fare colpo sulle api riguarda le forme. Qui la difficoltà aumenta, perché l’occhio dell’ape, così sensibile ai colori, nei confronti delle forme è piuttosto indifferente. Le piante devono riuscire a stupirle, per far sì che si accorgano di loro, e questo le costringe a un grande sforzo di fantasia per forgiare le corolle dei fiori con le forme più strane ed esuberanti. Il frutto di questo sforzo si può osservare facilmente in qualsiasi prato: i fiori meno evoluti (come la margherita, la magnolia, il girasole) hanno delle forme semplici e simmetriche; per attirare gli impollinatori puntano tutto sulla sobrietà. Le linee bizzarre e irregolari dei fiori delle leguminose, della salvia e delle orchidee indicano invece una maggiore complessità, cioè uno sforzo maggiore nel combattere la guerra dei fiori. Diciamo che si comportano come chi, per andare a una festa, decide di indossare un abito scintillante di lustrini: anche se non è certo di avere tutti gli occhi addosso, sa che così avrà molte più chance di essere notato!
A un certo punto, poi, proprio come in una festa, si aprono le danze. Sì, perché se c’è una cosa che le api vedono perfettamente sono i movimenti: quello che la maggior parte degli animali percepisce come un piccolo gesto, diventa enorme per l’ape (ecco perché gli esseri umani farebbero meglio a stare fermi quando si avvicina uno di questi insetti: basta il minimo movimento per spaventarlo e far sì che si senta aggredito, contrattaccando con una dolorosa puntura). Con una sensibilità tanto acuta, se andassero al cinema le api percepirebbero ogni singolo fotogramma e non riuscirebbero a cadere nell’illusione del movimento che dà senso al film – mentre noi facciamo esattamente il contrario: sfruttiamo il nostro difetto per divertirci e provare ogni sorta di emozione.
I fiori conoscono questo punto debole, e lo sfruttano ponendo i fiori sopra lunghi steli, che si muovono al sospirare lieve del vento. È così, ondeggiando dolcemente, che si palesano ed entrano nel mondo dell’ape per perpetuare la loro specie.
Seduzione tropicale
La competizione tra le piante per l’impollinazione è notevole, soprattutto nei luoghi come i tropici, dove le specie floreali presenti sono tantissime e molto diverse fra loro. In questi luoghi, le semplici armi di seduzione del prato non bastano più; i fiori devono ricorrere a strategie più sottili e non sempre corrette, come, per esempio, la manipolazione.
Per applicarla, bisogna essere in possesso di informazioni che l’altro non possiede. In questo caso, i fiori sanno cose che le api ignorano – in particolare le api di sesso maschile, i fuchi, i quali, quando arriva la stagione dell’accoppiamento, hanno l’abitudine di sfarfallare in giro in cerca della loro compagna. Non sanno che devono attendere qualche giorno prima dell’arrivo delle femmine, che si fanno aspettare e tardano sempre un po’ all’appuntamento – in quel momento, per essere precisi, stanno ancora dormendo comodamente all’interno dei loro bozzoli. Questa informazione è invece posseduta dai fiori, in particolare da una specie di orchidea tropicale, che prende il nome di “vesparia” o “fior di vespa” (Ophrys apifera), la quale sfrutta l’occasione per forgiare i propri fiori in una forma che assomiglia a quella di una femmina di ape. In pratica, si traveste e si finge un’altra per conquistare l’oggetto del suo desiderio.
Come abbiamo visto, basta poco per confondere la vista debole delle api, ma ci vuole ben altro per ingannare il loro olfatto. L’orchidea però ha pensato anche a questo: il suo profumo, infatti, è del tutto identico a quello emesso dalle api femmine! Il tranello funziona benissimo e il maschio si precipita sulla finta preda con la seria intenzione di sedare i suoi appetiti sessuali. Quando si accorge dell’errore, è troppo tardi: la pianta lo ha sporcato completamente di polline.
Ma non è finita qui, perché il fuco, dopo essere stato ingannato una prima volta, si lancia alla ricerca di una nuova femmina. Noi e la pianta sappiamo che questa ricerca è vana, ma lui continua a illudersi e, puntualmente, ricasca nella trappola di un’altra orchidea. Il polline raccolto nel primo fiore cadrà nel secondo, assicurando la fecondazione della pianta.
Quella dell’ape, invece, è ancora assai lontana! Ma tra qualche giorno le femmine si sveglieranno dal loro torpore, e a quel punto anche il sogno d’amore del fuco verrà finalmente esaudito.
Insetti poco eleganti
Dopo aver fatto un giro ai tropici, torniamo insieme al raggio di sole verso i nostri prati e giardini. Qui si trova un fiore che forse non è originale come l’orchidea manipolatrice, ma è senza dubbio tra i più amati dagli esseri umani (soprattutto quelli innamorati): la rosa.
Noi uomini coltiviamo la rosa per circondarci di bellezza; i suoi colori intensi, il suo profumo dolce, i suoi petali vellutati, tutto in lei comunica fascino ed eleganza. Ma, come sempre succede nella storia della vita, nulla è mai completamente buono o completamente cattivo, e la rosa non fa eccezione: se il bene, nel suo caso, è rappresentato dal suo aspetto, il male arriva insieme ad alcuni insetti dal corpo tozzo, vestiti con una livrea verde brillante. Coerentemente al ruolo che gli uomini gli hanno affibbiato, questi coleotteri sono l’esatto contrario delle rose: sono brutti, volano in modo sgraziato e fanno un sacco di rumore. Si chiamano cetonie, sono gran divoratrici di nettare e ogni volta che si posizionano sui teneri boccioli di rosa li distruggono a suon di mandibole, trasformando il piccolo paradiso terrestre di ogni giardino in un vero e proprio inferno.
Ma è proprio così la storia? La cetonia è brutta e cattiva e la rosa è bella e buona? Guardando meglio, sotto la corazza dura e spessa dell’insetto si cela un antico e dolce segreto.
Per conoscere la sua vera storia, dobbiamo viaggiare nel tempo e percorrere a ritroso ben 115 milioni di anni. È il periodo in cui alcune piante delle foreste iniziarono a secernere delle sostanze zuccherine in prossimità dei loro organi sessuali. A prima vista, questo fatto non ha alcun significato particolare, ma la storia della vita è profonda e segue percorsi tortuosi: è proprio questo liquido dolce, il nettare, a dare inizio a una piccola, grande rivoluzione il cui esito è proprio sotto i nostri occhi, nei prati colorati e profumati: l’impollinazione.
Legioni di insetti affamati di zucchero cominciarono a frequentare le piante e a sporcarsi di polline (che, come abbiamo visto, è la parte maschile del fiore). Passando su un altro fiore, sempre alla ricerca di sapori dolci, il polline raccolto sulla prima pianta cadeva nella parte femminile della seconda, portando alla fecondazione.
Mentre i fiori affinavano le loro armi seduttive per attirare l’attenzione degli insetti, questi ultimi non sono stati certo con le mani in mano, ma si sono specializzati nella raccolta di nettare e polline. I prati si sono così riem-piti di farfalle, sirfidi e dell’impollinatore per eccellenza, l’ape da miele. La vita è diventata più complessa, più profumata e più bella. Ma chi sono gli insetti precursori che, per primi, hanno trasportato i granuli di polline nei prati? Sono proprio loro, i tozzi coleotteri distruttori delle rose che con tanto amore piantiamo in giardino! Le cetonie sono state i primi insetti ad approfittare di questa fonte zuccherina e gratuita, solo che, essendo ancora un po’ rozze, anziché limitarsi a succhiare il nettare, già che c’erano, si prendevano anche i petali e tutto quel che restava del fiore. Eppure, dopo aver divorato il divorabile, capitava anche che qualche granulo centrasse casualmente l’obiettivo, dando origine a una nuova pianta.
Insomma, le cetonie non sono particolarmente eleganti o civili, ma hanno contribuito al progresso e all’evoluzione di molte specie floreali. La vera storia della cetonia ha generato un mondo pieno di profumi e di colori e ha acceso l’amore degli umani per la splendida rosa.
Trappola floreale
Se è vero che l’impollinazione con i coleotteri è piuttosto grezza, è altrettanto vero che in alcuni, rari casi può raggiungere delle vette di pura raffinatezza. A comandare il gioco sono sempre le piante che, come abbiamo visto, quando si tratta di fecondazione sono grandi maestre di astuzia, in grado di imbastire elaboratissime strategie pur di ottenere quello che desiderano.
È quello che succede alla Victoria amazonica, una pianta acquatica che vive nei calmi specchi lacustri del territorio amazzonico e che appartiene alla stessa specie delle ninfee. Essa è capace di produrre da una sola pianta circa cinquanta foglie circolari, ognuna delle quali ha un diametro di due metri e mezzo e un bordo rialzato – grandi, in pratica, come piccole imbarcazioni. La pagina superiore di queste foglie è cerosa (dunque, se bagnata, si ricopre di gocce che scivolano via), quella inferiore invece è ricca di spine per tenere lontani i pesci e i lamantini. Oltre a essere molto grandi, hanno una struttura talmente robusta da sopportare un peso di ben 45 chili, se ben distribuito. Questa caratteristica è stata studiata dagli inglesi e utilizzata per costruire il Crystal Palace della prima Esposizione universale tenutasi a Londra nel 1851: il palazzo era ispirato alla struttura e all’andamento delle venature delle foglie di questa straordinaria pianta.
Ma la vera peculiarità della Victoria sono i fiori: mentre le foglie sono progettate per essere fortezze inespugnabili, i fiori si sono conformati per attirare dei coleotteri del tutto simili alla cetonia. Inizialmente sono di colore bianco (almeno ai nostri occhi!) e spandono nell’aria un dolce profumo, che ricorda quello dell’ananas. Sono inoltre provvisti di un potere speciale, perché sono endotermici, cioè capaci di scaldarsi.
Il connubio tra il colore, l’odore e il calore rappresenta un richiamo irresistibile per i tozzi insetti, che giungono a frotte sui fiori della pianta amazzonica. L’ambiente è così confortevole che i coleotteri vi si trattengono per lungo tempo. Ma proprio quando è arrivato il momento del congedo… ecco che scatta la trappola e i petali si chiudono, imprigionandoli dentro!
Il fiore cambia faccia, mostrando il suo volto maligno, e a quel punto i coleotteri non possono far altro che cercare la via di fuga a suon di spinte e di calcioni. Ma non c’è nulla da fare: la calda, profumata e colorata prigione trattiene i poveri insetti per ventiquattr’ore.
La mattina successiva, le sbarre di petali si aprono e gli ostaggi sono liberi di volare lontano. Le tentazioni però sono dure da vincere; così, proprio come accade con i fuchi e le orchidee, appena liberi i coleotteri vengono attirati nuovamente dalle lusinghe dei fiori e precipitano all’interno di una nuova corolla, che verso sera si chiude imprigionandoli per altre ventiquattr’ore.
Di nuovo si ripresenta l’inutile tempesta di spinte e calcioni, ma questa volta c’è una novità: i granuli di polline raccolti durante la precedente prigionia cadono sul talamo femminile. E così la mattina seguente il fiore si riapre e gli insetti si dileguano per finire vittime di un’altra trappola profumata.
Nel frattempo, però, accade un piccolo miracolo: il miracolo della vita. Il fiore appena visitato cambia sia il colore – che da bianco vira al rosso – sia il sesso – quindi da maschio si trasforma in femmina. Così, quando i granuli maschili appena deposti incontrano i pistilli femminili, la scintilla della fecondazione si accende, e con essa una nuova vita. A questo punto il fiore non ha più bisogno dei coleotteri e si chiude per l’ultima volta; si immerge nelle profondità delle acque tiepide e calme della foresta amazzonica e attende. Protetti dalla placida corrente, i semi maturano lentamente e diventano leggeri e impermeabili. Mamma pianta, al momento giusto, li affiderà all’acqua, che li trasporterà in un luogo adatto alla germinazione.
Qualche tempo dopo, una nuova Victoria crescerà per ripetere l’inganno ai danni dei poveri coleotteri.
Le figlie dei fiori
L’ape vive da tempo immemore con gli esseri umani, e proprio come loro si è sempre dovuta adeguare al clima dei posti in cui viveva, sviluppando dei caratteri che potremmo tranquillamente definire nazionali. Esistono così le api tedesche, quelle spagnole, quelle balcaniche, quelle italiane eccetera.
Un ricercatore russo ha voluto mettere alla prova la qualità impollinante delle varie sottospecie e ha basato il suo studio comparativo su una caratteristica in particolare: la “costanza fiorale”, ossia la fedeltà nei confronti dei fiori. Il giorno è lungo, i fiori sono tanti, è mai possibile che le api non “tradiscano” mai il primo fiore incontrato alla mattina? Questa è la domanda di partenza del ricercatore.
Ebbene, mettendo a confronto le api tedesche, spagnole, balcaniche, francesi e italiane, ha scoperto qualcosa di sorprendente: le api tedesche, uniche nel loro genere, non trasgrediscono mai e rimangono quindi fedeli al primo fiore della mattina. Le altre possono, in qualche raro caso, virare durante il giorno verso fiori più attrattivi e più forniti di nettare. Ma quella che è l’eccezione per tutte le api, diventa la norma per una e una soltanto: l’ape italiana! Fedele allo stereotipo nazionale, quest’ape si distingue per il suo carattere permissivo e per la sua tendenza ad aggirare le regole… Un atteggiamento che non si manifesta solo nei confronti dei fiori, ma anche verso i propri simili.
Quando l’estate brucia e trasforma il prato fiorito in un groviglio di erbe secche, le api si trovano nei guai: i colori dei fiori sono scomparsi, così come i profumi. Ma, soprattutto, non si riesce a trovare neanche una gocciolina di nettare da trasformare in miele. Il problema diventa pressante, le scorte del miele calano inesorabilmente. Quando la situazione diventa davvero pericolosa, l’ape cade in tentazione: dagli alveari vicini si spande un aroma di dolcissimo miele già pronto. Come non desiderare di appropriarsene? Impossibile! Ecco allora che, da paladine della biodiversità, si trasformano in ladre incallite e si dirigono quindi verso le colonie limitrofe con la chiara intenzione di rubare il miele fresco.
Purtroppo, però, l’alveare è un sistema chiuso, un club esclusivo in cui è difficilissimo riuscire a entrare. L’ingresso dell’arnia è sempre presidiato dalle api guardiane, che controllano l’accesso e non lasciano mai passare le api di altre famiglie. L’unico modo per convincerle è ricordarsi che ognuno ha un prezzo, anche tra le api… Ciò che resta da capire è a quanto ammonta. Per questa ragione le intruse offrono alla guardiana una gocciolina di nettare o miele, con la chiara intenzione di corromperla. Alcune api guardiane accettano di buon grado la “bustarella”, mentre altre non si lasciano abbindolare. Che ci sia una differenza tra le diverse nazionalità di provenienza? L’entomologo russo ha messo a confronto le diverse api anche su questo, e i risultati sono sorprendenti: al primo posto nella scala dell’integrità morale si posiziona la solita tedesca, la quale non accetta neanche una gocciolina di nettare e difende la colonia a dispetto del suo tornaconto personale. Poi arrivano le altre: la francese, la spagnola, la balcanica. In ultima posizione, quella che si lascia corrompere con una discreta facilità, la più individualista tra tutte le api: già, è proprio quella italiana, che accetta sempre di buon grado la bustarella e lascia passare le intruse senza farsi troppi scrupoli!
Com’è possibile che uno stereotipo culturale possa funzionare così bene per degli insetti? In realtà, questi comportamenti hanno una spiegazione biologica: quanto al tradimento, l’ape italiana può permettersi di “sfarfallare” di fiore in fiore perché, semplicemente, vive nell’abbondanza. Le specie di piante con fiori ricchi di nettare si trovano facilmente lungo tutto lo Stivale, per cui il libertinaggio non influisce sull’impollinazione: a fine giornata, tutti i fiori verranno comunque visitati e fecondati. I prati tedeschi sono meno generosi, com’è facile intuire, per via delle temperature rigide, per cui chi trova un buon partner floreale fa bene a tenerselo stretto!
Anche la tendenza a lasciarsi corrompere ha un significato scientifico: solitamente, gli alveari che vengono saccheggiati sono quelli più deboli, destinati a perire a causa della siccità estiva. Quindi, anche in questo caso, il danno è davvero limitato. Anzi, se guardiamo il fenomeno con uno sguardo più ampio esso può assumere le sembianze di un grande senso della comunità: il sacrificio di un alveare già debole consente la sopravvivenza di quelli più forti perpetuando la specie e proiettandola verso il futuro.
L’ape è un insetto originario dei tropici che si è adattato alla perfezione in Italia, penisola, tra l’altro, particolarmente ricca di fiori. Ecco perché le api sono decisamente più abbondanti in Italia rispetto alla Germania, ed ecco perché nel Sud dell’Europa ci si può permettere di perdere una famiglia a favore di un’altra più forte. Al Nord, il ronzio della api è meno numeroso e il lusso di perdere un alveare non è fattibile. Il comportamento diverso tra le api italiane e quelle tedesche viene spiegato quindi in termini evoluzionistici e non certo di virtuosismo etico e morale!
Lacrime di stelle e polvere di vento
A questo punto del nostro viaggio vale la pena di fermarsi a puntare lo sguardo sulla dolce sostanza per cui le api sono disposte a faticare, rubare, corrompere, sacrificarsi: il miele. Cosa è esattamente il miele? La risposta a questa domanda non è per nulla scontata: come nel caso della fotosintesi clorofilliana, anche qui gli esseri umani hanno faticato non poco per risolvere l’arcano.
La vera provenienza del miele è difficile da capire principalmente perché non si trova in natura: non è nei fiori, non è sulle foglie e nemmeno all’interno della pianta. L’unico posto in cui lo si può trovare con certezza è la città di cera delle api, l’alveare. Il primo essere umano a elaborare una teoria sulla sua provenienza è stato il grande filosofo greco Aristotele: se il miele non è una sostanza prodotta dalla terra – ragionava – allora deve per forza arrivare dal cielo! Da qui il soprannome di “nettare degli dèi”: il dolce, paradisiaco miele non poteva che essere la loro pietanza preferita.
Aristotele passava le nottate a cercare nella volta stellata un indizio che potesse suggerirgli l’origine del nettare divino, e a un certo punto, finalmente, lo scorse: era lassù, senza dubbio, e arrivava proprio dalle stelle! Il filosofo aveva notato infatti che gli astri baluginavano, ed era chiaro, per lui, che quel luccichio fosse il sintomo del pianto delle stelle. Dove c’è pianto ci sono lacrime, ovviamente, ma, al contrario di quelle terrestri, le lacrime del cielo sono dolcissime. Dolci come il miele. Quindi, secondo Aristotele, le api, figlie del sole, di notte lasciavano l’alveare e si dirigevano nello spazio siderale, raccoglievano le lacrime di stelle, le trasportavano nell’alveare e, attraverso degli strani processi alchemici, le trasformavano in miele.
Questa fantasiosa teoria trovò qualche oppositore anche tra i pensatori antichi: il romano Plinio il Vecchio si chiedeva perché mai le stelle dovessero piangere e, non trovando alcun motivo, concluse che il baluginio doveva necessariamente essere associato a un altro fenomeno. Osservò allora che le stelle, anche se non piangevano, di certo non si nutrivano mai: qualcuno ha mai visto una stella mangiare? Certo che no. Dunque, egli stabilì che salivassero continuamente per via della fame. Ecco quindi trovata la soluzione: le api non raccoglievano le lacrime – le stelle stavano benissimo – ma la saliva degli astri affamati. Una bava di stelle dolcissima, che grazie alla loro sapienza veniva trasformata in miele.
Al filosofo e poeta Virgilio, quando lesse entrambe le teorie, venne da sorridere per l’ingenuità della visione degli antichi. Lui ne era certo: il miele non era affatto una sostanza del cielo, e le api lo fabbricavano a partire da qualcosa che si trovava lì, in mezzo agli uomini. Bisognava dunque mettersi alla ricerca di questa materia prima. Dopo aver viaggiato e indagato, finalmente Virgilio scovò la sua risposta: il miele si nascondeva tra le pieghe del vento. Il pensatore mantovano aveva notato che il vento, in particolare quello che spirava nel golfo di Napoli, era profumato e aveva un sentore di dattero con un tocco agrumato. Questo odore, a suo dire, proveniva dal suo sudore: andando di qua e di là, il vento doveva fare una gran fatica e traspirare a più non posso! Ovviamente le secrezioni corporee del vento non potevano puzzare come quelle degli uomini: egli, essendo il figlio del dio Eolo, profumava anche sotto sforzo. Le api, ronzando in mezzo alla brezza, distillavano questo dolce umore e quindi lo portavano nell’alveare dove (sempre seguendo dei misteriosi processi alchemici) lo trasformavano in miele, il cibo degli dèi!
Ovviamente, anche se Virgilio ci era andato leggermente più vicino, nessuno dei tre aveva ragione. Quindi: cosa è in realtà il miele? Dove lo prendono le api?
La risposta ormai la sappiamo: non è il sudore del vento, non è neanche la saliva o le lacrime delle stelle. Il materiale che le api prelevano in natura è il nettare, una sostanza zuccherina secreta da ghiandole chiamate “nettari” che si trovano alla base del calice dei fiori. Appena raccolto, viene immagazzinato in una borsa interna al corpo dell’ape, posizionata davanti allo stomaco e detta “borsa mellifera”, cioè “portatrice di miele”.
Quando la borsa è piena, l’ape bottinatrice fa ritorno all’alveare e dà inizio alla catena di montaggio: passa il nettare alla prima sorella che incontra, che a sua volta lo passa a un’altra e poi a un’altra, finché l’ultima non lo mette dentro il favo, nelle cellette esagonali che contraddistinguono l’architettura dell’alveare. La catena prevede il coinvolgimento di almeno cento sorelle, ognuna delle quali aggiunge qualche cosa e arricchisce il nettare con un enzima (che fa parte del gruppo delle diastasi, enzimi piuttosto comuni anche in molti semi) che renderà il futuro miele una sostanza indeperibile, cioè che non marcisce mai.
Attraverso il miele le api fanno rivivere la primavera in inverno: con esso scaldano il favo e si nutrono. Non possono certo permettergli di marcire, altrimenti come farebbe la famiglia a sostenersi durante i mesi in cui i fiori sono spariti dai prati? La prima cosa da fare, dunque, è adoperarsi per impedirglielo (e l’enzima serve proprio a questo). La seconda operazione consiste nel togliergli l’acqua, per risparmiare spazio e per bloccare pericolosi fenomeni fermentativi.
Ed eccolo qui, il “magico processo alchemico”: durante la notte, tutte le api iniziano a sbattere le ali all’unisono, creando un vortice di aria calda e secca che si aggira per i corridoi dell’alveare, una specie di phon fai da te che riesce ad “asciugare” il nettare privandolo fino al 70% della sua acqua. Quando il tasso di umidità si stabilizza intorno al 18%, allora il miele è maturo e sarà cura di una delle sorelle del gruppo chiudere la celletta che lo contiene con un velo di cera.
Le chef dell’alveare
L’ape è sicuramente il migliore tra gli insetti impollinatori, anche se non è l’unica a offrire questo servizio. In mezzo ai fiori, infatti, si può osservare anche il variopinto volteggiare delle farfalle e la lugubre livrea delle mosche. Queste ultime sono decisamente meno efficienti, perché raccolgono il nettare solo per se stesse (cioè lo consumano sul momento, come fossero al fast food) e non adottano la costanza fiorale: si posano su un fiore e poi, subito dopo, ne raggiungono un altro di una specie diversa, sprecando irrimediabilmente il polline raccolto. Ci sono anche alcuni maschi di zanzara capaci di impollinare certi fiori che si aprono soltanto di notte (perfetti, dunque, per il loro stile di vita).
Cosa li distingue? Tutti portano il polline, ma solo uno riesce a fare il miele.
Il miele è una sorta di interpretazione della natura da parte dell’ape, un caso singolare tra le storie del cerchio della vita. Gli organismi viventi, infatti, consumano i doni della natura così come sono, senza processarli. La mucca, per esempio, bruca l’erba e non la trasforma in “insalata”, come fanno invece gli esseri umani. Il leone mangia la carne prelevandola direttamente dalla sua preda, mica la abbrustolisce su una griglia bollente.
Gli unici organismi che interpretano i prodotti della natura e li trasformano in base alla loro visione del mondo sono le api e gli esseri umani. Ecco perché ogni società umana ha la sua cucina tipica: ognuno vede il mondo in modo diverso, da cui derivano piatti variegati.
La stessa cosa fa l’ape, che converte la materia prima in qualcosa di peculiare e completamente innovativo. Non solo: ognuna delle sottospecie di ape “cucina” il nettare in modo diverso, ed esiste perfino una scala di capacità. In altre parole, alcune sottospecie producono un miele migliore delle altre.
Chi, tra tutte le api, è la chef più brava? La risposta è ovviamente scontata: è l’ape italiana! Questo insetto biondo (cioè più giallo rispetto alle altre sottospecie) e particolarmente docile è così bravo a trasformare il nettare in miele che di fatto tutte le api del mondo sono italiane: tutti le vogliono perché sono miti e lavoratrici e perché producono il miele migliore al mondo. Quindi, attualmente, al fianco dei ristoranti che sfornano pizze, paste di vari gusti e tante altre leccornie preparate da chef a due zampe, ronzano laboriosi anche questi piccoli cuochi a sei zampe, che con le loro pietanze rendono il pianeta un luogo più buono e profumato.
Formiche tossicodipendenti
Abbiamo seguito gli impollinatori di mezzo mondo, ne abbiamo appreso le debolezze e le strategie, abbiamo perfino assistito al magico procedimento che trasforma il nettare dei fiori in quello degli dèi. Torniamo adesso, insieme al nostro raggio di sole, sul sentiero principale: nel cerchio della vita, le piante hanno ancora molte cose da insegnarci.
Mentre alcuni vegetali cercano di risolvere il problema dell’immobilità attirando il più possibile l’attenzione su di sé (l’abbiamo visto con i fiori), altri, meno amanti della compagnia, preferiscono fare una “selezione all’ingresso” e allontanare le presenze sgradite, in modo da circondarsi solo di creature scelte.
Un esempio interessante si può trovare nella foresta amazzonica, dove gli alberi sono così fitti da formare, con le loro chiome, una barriera compatta di rami intricati. Sono pochi i raggi di sole che riescono a superare questo muro verde e a toccare terra: nel regno tropicale della luce, la foresta è immersa in una perenne semioscurità.
Nonostante la scarsità di fonti luminose, la foresta amazzonica è uno dei luoghi con la più alta biodiversità al mondo, e lo dimostra il fatto che, oltre ai rami, anche il numero di animali presente al suo interno è fittissimo, tanto che la competizione per il cibo è alle stelle.
Eppure, nel cuore della selva tropicale, esistono delle isole dalle quali la vita è tenuta fuori, delle radure in cui la biodiversità è scarsa e cresce rigogliosa una pianta soltanto. Questo vegetale riesce a vincere la battaglia per la vita grazie a una simbiosi davvero particolare: quella con il diavolo.
Secondo la credenza degli uomini che abitano in Amazzonia, infatti, il diavolo non sopporta la biodiversità e la ricchezza della vita: naturale, quindi, che al caotico, coloratissimo mondo della foresta preferisce la quiete mortifera di queste radure, chiamate, non a caso, jardines del diablo. A fargli compagnia c’è soltanto una pianta, la sua preferita, l’unica in grado di crescere nel suo giardino: l’erba del diavolo, che, sempre secondo le credenze degli indigeni, Belzebù coltiverebbe con grande pazienza e dedizione.
In realtà anche qui, come nel caso di Salem, il diavolo non c’entra nulla, perché è stata proprio la pianta a creare un sistema per contrastare la costante competizione della foresta.
L’erba del diavolo appartiene al grande gruppo delle acacie e dispone di alcune spine piuttosto grandi e cave. Al loro interno, sono presenti delle ghiandole – chiamate “nettari extrafiorali” – da cui sgorga costantemente una fontana di nettare dolcissimo. Inoltre, la spina presenta sulla sommità un piccolo foro, che lascia uscire un buon profumo di nettare da spandere nell’aria circostante.
Ora, bisogna considerare che uno dei popoli più numerosi del circondario è quello delle formiche. Naturale, con tutto questo armamentario di seduzione, che esse non resistano all’invito profumato e decidano di entrare nella camera dei desideri. Naturale anche che decidano di stabilirvisi, dal momento che l’erba del diavolo è un vero e proprio paradiso, che offre ai suoi ospiti cibo, protezione e alloggio.
Ma nel cerchio della vita tutto costa fatica ed è problematico – figurarsi nel giardino di Belzebù! Le formiche non possono starsene tranquille a succhiare il nettare senza fare nulla, così di giorno escono dal loro rifugio e si avventurano per il giardino del diavolo. Mentre camminano, capita che incontrino il seme di una pianta estranea, e a quel punto, senza pensarci due volte, con le loro possenti mandibole lo masticano fino a ridurlo in brandelli. Ecco perché in queste radure si trova solo e soltanto la pianta del diavolo: tutte le altre, semplicemente, non possono germinare poiché vengono eliminate dalla grande armata delle formiche.
A prima vista si tratta di una simbiosi perfetta, in cui la pianta fornisce il vitto e l’alloggio e le formiche ricambiano con la distruzione delle potenziali competitrici. Ovviamente le cose non sono così semplici e, se è vero che l’erba del diavolo è molto generosa con le sue inquiline, è altrettanto vero che essa possiede un aspetto decisamente demoniaco. Il nettare che sgorga dalle sue spine, infatti, non è puro, ma miscelato con degli alcaloidi, delle droghe che rendono dipendenti le formiche. Questi insetti, dunque, sono legati per sempre alla pianta, che per convenienza li ha scelti come unici compagni di vita e li ha resi dei tossicodipendenti a tutti gli effetti. Se solo osano ribellarsi e tornare nella loro foresta, una crisi di astinenza assale le formiche e le costringe a far ritorno alla pianta manipolatrice.
Quello che funziona in Amazzonia può andare bene, con qualche variante, anche in altre zone. Se ci spostiamo lungo il cerchio della vita e ci dirigiamo nel grande continente africano, possiamo scorgere un fenomeno molto simile. Qui i raggi di sole piovono generosi, illuminando e nutrendo gli organismi viventi e le cose incredibili che accadono intorno a loro.
Una di queste è legata alla pianta di acacia, un alberello che cresce nella savana e che è molto simile all’erba del diavolo, dal momento che anche lui sfrutta le formiche come sistema difensivo. I rami delle acacie africane sono costellati da grandi spine cave provviste di nettari e anche qui, come in Sud America, vivono intere colonie di formiche.
Nella savana però il nemico non è rappresentato dalle altre piante: in queste terre aride sono pochi i vegetali in grado di sopravvivere, il sole è troppo forte e l’acqua troppo poca. Le acacie, insieme ad alcune erbe, si accaparrano di fatto tutto il sole dell’Africa.
I nemici che si aggirano per le sterminate pianure riarse dal sole sono invece i grandi erbivori, capaci di ingerire con un sol boccone enormi quantità di vegetali. Il rimedio però è lo stesso: a contrastare l’appetito di una giraffa o di un elefante, ci pensano sempre loro. Le formiche.
Quando uno di questi erbivori si avvicina, la squadra di formiche abbandona la placida vita all’interno della spina e si dirige verso il nemico. Sono tante e coraggiose, e non si lasciano spaventare dalle dimensioni del mammifero; si lanciano all’attacco e puntano direttamente al tallone di Achille dell’avversario – cioè il naso. Esse, infatti, entrano numerose all’interno delle cavità nasali del quadrupede di turno, addentando le sue tenere mucose. L’invasore, colpito nel suo punto debole, è costretto alla ritirata – accompagnata da un concerto di starnuti.
Il cipresso senza mamma
Abbiamo visto, osservando il processo di impollinazione, che i fiori, per riprodursi, hanno bisogno di un organo sessuale maschile e di uno femminile. Alcuni riescono a fare le veci di entrambi, adattandosi alle occasioni, ma la sostanza resta invariata: l’omosessualità, nelle piante, è una faccenda rara (a differenza degli animali, che invece offrono molti esempi in proposito), e altrettanto rara è la possibilità di riprodursi senza l’ausilio di un partner.
Ci sono però alcuni abitanti del pianeta Terra che hanno solo un genitore – e questo genitore solitamente è la madre. Ciò non significa che il padre è fuggito, o morto, o sconosciuto: significa proprio che non l’hanno mai avuto. Nel XVII secolo, un gruppo di scienziati formulò la bizzarra ipotesi che in natura potesse avvenire anche il contrario, cioè che potessero esistere creature che non hanno mai avuto la madre e hanno solamente il padre. Leggenda o realtà?
Lo scienziato olandese Nicolaas Hartsoeker, poco prima dell’avvento del secolo dei Lumi, studiò a lungo gli spermatozoi umani al microscopio e, nel farlo, gli parve di notare la presenza di un piccolo umano rannicchiato all’interno della testa della cellula sessuale. Questo homunculus, come successivamente lo denominò, venne anche disegnato dallo stesso Hartsoeker, il quale si convinse che la sua esistenza dipendesse unicamente dall’elemento maschile: la cellula uovo femminile non era altro che un luogo sicuro pronto ad accogliere l’homunculus per nutrirlo e proteggerlo, generando infine un nuovo individuo. In altre parole, il padre era l’unico genitore, la madre forniva un riparo di grande qualità ma non partecipava alla formazione del neonato.
Questa teoria venne denominata “spermismo” e, ovviamente, è falsa: gli esseri viventi sono il frutto dell’unione di entrambe le cellule sessuali – in rari casi, della sola cellula femminile.
Nel groviglio di esseri viventi e di infinite soluzioni che la vita si è inventata per risolvere i problemi ambientali, esiste però anche un essere spermista, uno soltanto su tutto il pianeta. Parliamo del cipresso del deserto del Sahara, un albero che viene generato proprio come aveva ipotizzato Hartsoeker: il granulo pollinico (maschile) entra nella cellula uovo con un nuovo alberello già in nuce, che da lei viene semplicemente nutrito. La cosa però non funziona granché, tant’è che si tratta di una strategia che viene adottata unicamente da questa pianta – la quale, tra l’altro, non se la passa per nulla bene: a oggi esistono solo 230 esemplari di cipresso del Sahara; ogni pianta produce pochissimi semi, la maggior parte dei quali completamente sterili. Lo spermismo è quindi destinato a scomparire molto presto.
Migrazioni grandi e piccole
Una famiglia ristretta come quella del cipresso africano non è certo l’ideale, ma anche i semi normali, quelli generati dall’unione tra un gamete maschile e uno femminile, hanno i loro problemi. Uno dei più gravi riguarda proprio la famiglia: la competizione alimentare con la madre e con i fratelli può essere spietata per un piccolo seme. Capita spesso che non ci sia nutrimento sufficiente per tutti, e che ci si debba sfidare tra parenti per sopravvivere. C’è poi sempre la solita difficoltà: l’immobilità. Lasciare il nido e andare per la propria strada sembrerebbe la soluzione più semplice, ma come fare per allontanarsi, quando non si hanno gambe per correre via? Ecco perché spesso i semi adottano delle strategie per allontanarsi dal luogo in cui sono cresciuti. La fame che pervade tutti gli esseri viventi li costringe alla ricerca perenne di nuovi territori e risorse da sfruttare.
Sulla Terra sono molti gli organismi che migrano e, spostandosi in massa, tentano di placare i loro bisogni. Ma, se è facile osservare le rondini che a fine estate lasciano l’Europa e si dirigono verso l’Africa, e se è ancora più semplice vedere mandrie di bufali africani che galoppano in cerca di acqua, è invece molto difficile notare la migrazione delle piante. Eppure, esse si spostano, esattamente come tanti altri esseri viventi (inclusi gli uomini!) e sempre per il medesimo motivo: sopravvivere.
Il pianeta Terra ha conosciuto dei periodi di grande freddo nei quali la morsa del ghiaccio si è impossessata di vasti territori. Ma, così come è arrivato, il gelo se ne è andato e, man mano che il ghiaccio si ritirava, le foreste colonizzavano i territori liberati dal calore del sole. Con un sincronismo perfetto, l’onda bianca si riduceva e la massa verde si espandeva.
Questa colonizzazione costante e lentissima di terre sempre nuove è proprio la prova del fatto che le piante, in effetti, si muovono. Ovviamente non lo fanno con le gambe, e non usano nemmeno le ali. Come fanno, allora? Prendiamoci un po’ di tempo in questo nostro viaggio attraverso il cerchio della vita e osserviamo qualche strategia di movimento tipica del mondo vegetale.
Iniziamo dalle semplici piante erbacee che ricoprono tutte le radure. Quando la primavera ha esaurito il suo carico di energia, il sole dell’estate splende alto nel cielo e la calura si impossessa delle lunghe giornate, allora è arrivato il momento della maturazione delle graminacee, uno dei principali abitanti dei prati.
I frutti secchi delle graminacee sono coperti da foglie chiamate “glume” o “glumelle” e, nella parte superiore, si staglia una struttura (spesso zigrinata) simile per forma a una freccia appuntita, che prende il nome di “arista”. È proprio lei lo strumento che permette ai semi di conquistare nuovi spazi. Come? È presto detto. Prima di tutto si aggrappa al vello o alle penne dei numerosi animali che si aggirano per il prato; a dorso di animale, i semi si allontanano dalla pianta madre alla volta di nuove radure, che riempiono con i loro lunghi steli verdi.
Evitare la competizione alimentare è solo una parte della soluzione del problema, la seconda consiste nell’intrufolarsi tra gli angoli oscuri delle zolle di terra per cercare le condizioni di germinazione perfette. Le ariste giocano un ruolo fondamentale anche in questo caso, visto che sono igroscopiche, cioè capaci di assorbire l’umidità dell’aria. In pratica, queste frecce vegetali si gonfiano e sgonfiano a seconda della quantità di acqua presente nell’atmosfera, un cambio di dimensione lento ma inesorabile che permette di allargare le crepe del terreno e di infilarcisi dentro, conquistando preziosi centimetri di profondità. Una volta raggiunta l’oscurità, i semi si trovano nelle condizioni perfette per germinare: quando la pianta nuova verrà alla luce, potrà anche lei conquistare la sua fetta di cielo.
Anche altre piante usano l’umidità per spostarsi. Il frutto del ricino è una capsula contenente dei semi, ed è formata da varie parti, ognuna delle quali ha una igroscopicità differente. Durante le ore più calde, alcune zone perdono più acqua rispetto alle altre, creando delle forti tensioni all’interno del frutto. I conflitti interni sfociano in una brusca e potente rottura del frutto stesso: quando il ricino è maturo, si può udire un vero e proprio scoppiettio provocato dall’esplosione delle capsule (in casi simili, come quello della pianta Hura crepitans, il rumore è talmente forte da assomigliare a un colpo di rivoltella). Grazie a questa detonazione, i semi vengono lanciati distanti dalla pianta madre.
Un altro sistema di dispersione del seme, utilizzato da tante piante, è volare con il vento. I vegetali dotano i propri semi o frutti di strutture simili ad ali (chiamate “pappi”) in grado di raccogliere la brezza e quindi allontanarsi dalla pianta madre. Il tarassaco, chiamato anche “soffione dei prati”, è forse la pianta più conosciuta a utilizzare questo mezzo di trasporto. I suoi semi possono viaggiare anche per centinaia di metri ondeggiando nell’aria con il loro piccolo paracadute.
Un caso singolare è rappresentato dal tarassaco delle Hawaii, il cui pappo è talmente piccolo da consentire solo degli spostamenti minimi. Ancor più strano se si pensa che i suoi progenitori, invece, possedevano un pappo talmente grande che gli permise di attraversare l’oceano Pacifico raggiungendo l’arcipelago hawaiano dall’America – sospinti, molto probabilmente, da forti venti di tempesta.
In genere i parenti si assomigliano, almeno per alcuni tratti. Come mai la progenie e gli antenati sono così diversi? La risposta risiede nel pragmatismo della natura, che premia solo le soluzioni che funzionano: la medesima caratteristica può essere perfetta in un contesto, ma disastrosa in un altro. Ed è esattamente quello che è successo con il soffione delle Hawaii.
Il grande organo di volo dei tarassachi continentali permette di coprire vaste distanze: in un continente come l’America questo è un bel vantaggio, dato che i semi hanno a disposizione un territorio sterminato. In un contesto del genere, la natura premia quindi chi ha il pappo più grande e che può spingersi sempre più in là per conquistarsi un nuovo spazio.
Arrivati sull’isola, però, quello che era un vantaggio diventa un limite: i semi provvisti di un ampio organo di volo tendono a strafare e a finire in mezzo al mare. In un’isola è meglio stare dalla parte dei bottoni e rimanere nei pressi della pianta madre, per essere sicuri di trovare del terreno – e non dell’acqua salata – in cui affondare solide radici e edificare lo stelo verso il cielo.
Volo in business class
Che il paracadute sia grande o piccolo, il vento per la disseminazione non è particolarmente fruttuoso, perché non svolazza dove gli pare e piace (il vento, si sa, non si può fermare, né tantomeno comandare) e finisce con l’essere poco preciso. Meglio affidarsi a qualche altro vettore, che sia più efficiente nel percorrere tanti chilometri e nel lasciare il seme in un luogo adatto alla sua germinazione.
Così come i fiori cercano di attirare le api, perché sanno che non ci sono impollinatori migliori in circolazione, allo stesso modo i semi o i frutti si conformano per richiamare i migliori disseminatori che si aggirano per il cerchio della vita: gli uccelli. La differenza tra vento e uccelli, per capirsi, è la stessa che c’è tra un aereo monoposto ultraleggero – poco sicuro, perché notevolmente esposto alle intemperie – e un volo in business class.
I vantaggi dei volatili sono molteplici: sono piccoli (quindi il loro singolo pasto non è particolarmente abbondante), ma hanno bisogno di tanta energia per volare e pertanto mangiano spesso. Soprattutto, volano lontano. Sono quindi capaci di trasportare velocemente i semi da un capo all’altro della Terra.
Per consegnare i propri figli agli uccelli, le piante si sono inventate una strategia analoga a quella per attirare le api: hanno frutti colorati e profumati, provvisti di una ricompensa zuccherina per i disseminatori. Il mondo percettivo dei vertebrati è però molto diverso da quello degli insetti, e per questo i frutti hanno colori, profumi, forme e zuccheri tanto differenti. Per esempio, l’occhio degli uccelli è sensibile a tantissimi colori, ma tra tutti predilige il rosso. Così, la maggior parte dei frutti tinge la propria buccia di questo colore. Inoltre, amano le forme tonde – che, tra l’altro, sono più semplici da ingerire – e infatti la maggior parte dei frutti sono proprio di questa forma, profumati e saporiti come piace agli uccelli.
I frutti, è ovvio, non sono altro che il dolce involucro nel quale sono custoditi i semi. Mangiandoli, gli uccelli prendono a bordo i semi per poi “scaricarli” lontano dalla pianta madre (insieme a una buona dose di concime naturale!). Non a caso, per assecondare e agevolare l’espulsione, molti frutti hanno la polpa lassativa.
La vita è ricca di fascino, ma pure di problemi, e i vegetali non devono sprecare risorse inutilmente. La maggior parte dei frutti acerbi aspetta a mostrare gli splendidi colori che attirano gli uccelli: essi rimangono verdi per due motivi: continuare a nutrirsi grazie alla fotosintesi clorofilliana e nascondersi in mezzo alle foglie. Per essere ancora più sicuri, i frutti acerbi sono infarciti di sostanze che gli conferiscono un gusto sgradevole (non solo per gli uccelli: anche noi uomini ci accorgiamo della differenza). Tra le sostanze più utilizzate per tale scopo ci sono i tannini, dei composti che rendono il frutto indigeribile e disgustoso.
Grazie a questi accorgimenti, tutto procede per il verso giusto: l’ovulo e il polline, fusi insieme, crescono e si trasformano in seme, mentre parte del fiore si riempie di sostanze nutritive e matura in un frutto appetitoso. A quel punto, presto, stormi di uccelli o branchi di mammiferi sono pronti a ingurgitarli e depositarli nel loro apparato digerente. Qui però compare un nuovo problema: lo stomaco è un luogo piuttosto acido, tanto che, se digerisse i semi assieme alla polpa, rischierebbe di comprometterli e vanificare tutto il lavoro svolto dalla pianta.
La storia lunghissima della natura ha trovato qualche rimedio a questo inconveniente, tra cui quello adottato da frutti come la ciliegia e la pesca: esse costruiscono attorno al seme un involucro di legno molto duro, che risulta indigeribile dagli animali. Altra soluzione è quella di produrre una grandissima quantità di semi, talmente tanti che il tubo digerente non è in grado di processarli tutti e quindi, alla fine, sarà costretto a depositarli da qualche parte. Le more, le fragole, l’uva sono solo alcuni tra i vari frutti a usare questo sistema di dispersione.
Frutta di stagione
Lo scambio di favori tra i volatili e le piante è una pratica molto antica, e nel corso dei secoli è diventata sempre più raffinata. Un esempio interessante riguarda la cosiddetta “frutta di stagione”: non è un mistero che la frutta estiva sia mediamente molto più dolce di quella invernale, ma forse non tutti sanno che questa differenza è legata a doppio filo alla dieta degli uccelli.
In primavera e in estate i volatili hanno bisogno di parecchia energia: è il tempo dell’amore, della covatura e dell’accudimento dei pulcini e per affrontarlo serve un’alimentazione davvero nutriente. Le piante allora, per ripagare il loro posto in business class, si adattano a queste esigenze: i frutti tipici delle stagioni calde sono ricchi di zucchero, acqua e sali minerali.
In autunno invece la situazione cambia: l’esigenza degli uccelli adesso è allontanarsi in fretta dall’inverno e dalla sua coltre gelata. Vincere la gravità e librarsi in cielo è difficile se si è in sovrappeso; per questo i volatili hanno bisogno di mantenersi leggeri: un corpo piccolo vola più veloce ed è perfetto per scappare verso luoghi più caldi e ospitali.
Ed è proprio dagli uccelli migratori che ci arriva un altro esempio del sodalizio tra vegetali e volatili. Gli uccelli europei, con l’arrivo dell’autunno, viaggiano verso sud per raggiungere l’Africa. Però, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e, nel caso specifico, si tratta del mar Mediterraneo. Così, prima di partire, si radunano lungo le coste dell’Europa meridionale, dove cercano cibo per affrontare la traversata: nel deserto azzurro non c’è cibo, e neppure aree di sosta in cui riposare. Servono dunque alimenti molto calorici, in grado di rilasciare la loro energia lentamente per permettere di sostenere il corpo nell’incredibile impresa del volo. Ebbene, il sistema della natura ha generosamente posizionato lungo le coste mediterranee una pianta utile a risolvere il problema: l’olivo.
Quest’albero matura i suoi frutti proprio nel periodo dell’anno in cui gli uccelli si radunano sulla costa. Il suo frutto è piccolo, tondo, facilissimo da mandar giù. Ma c’è dell’altro: la sua polpa contiene poca acqua (in questa stagione non ce n’è tanto bisogno come in estate) e molti grassi (che, guarda caso, sono assai calorici e rilasciano la loro energia con oculata lentezza).
Il tornaconto dell’olivo è evidente: prima di partire, gli uccelli fanno incetta dei suoi frutti, incamerano preziosi grassi e si rafforzano abbastanza da affrontare il viaggio, durante il quale trasporteranno i semi dall’altra parte del Mediterraneo.
I mesi passano, l’inverno è lontano e gli uccelli si godono l’eterna primavera dell’Africa. La Terra nel contempo gira, il ghiaccio si ritira e le ore di luce si allungano: tutte condizioni perfette per l’allevamento dei pulcini. Per gli uccelli è tempo di tornare a casa e attraversare nuovamente il mare. Ed ecco che il problema si ripropone: come affrontare un viaggio così lungo senza fermarsi e rifocillarsi?
La risposta è semplicissima: mesi prima, dopo la lunga traversata, i migratori sono arrivati a destinazione e a quel punto, forse per la grande gioia di avercela fatta, hanno liberato il loro intestino proprio lì, sulle sponde rocciose. Gli escrementi, ricchi di semi duri, fanno germinare nuove piante, che mettono radici e sono in grado di elargire frutti ricchi di olii nutrienti.
La cosa sorprendente è che, pur trattandosi di semi della stessa pianta, questi olivi hanno tempi di fruttificazione diversi da quelli dei loro parenti europei. Le differenti condizioni di temperatura e di luce su questa sponda del Mediterraneo fanno sì che le loro olive non arrivino in autunno, ma verso la fine dell’inverno… Cioè nel periodo perfetto per rifocillare gli uccelli prima del viaggio di ritorno!
Se nel mondo degli uomini le due sponde del Mediterraneo sono teatro di scontri, drammi e contrasti, in natura il dialogo tra di loro è tenuto in vita dalle storie degli uccelli, sempre in fuga dall’inverno e in cerca dell’amore.
Lo zibetto del caffè
Esistono anche altre soluzioni per permettere ai semi di allontanarsi dalla pianta madre – e alcune sono talmente efficaci che gli esseri umani hanno deciso di approfittarne.
La storia che andremo a raccontare adesso coinvolge infatti organismi di ogni risma: vegetali, animali, uomini (e, ovviamente, il nostro raggio di sole). Protagonista è una bevanda tra le più antiche e popolari al mondo: il caffè. Lo abbiamo già incontrato lungo il nostro viaggio, in veste di pianta madre oculata e protettiva. Il fatto però è che la natura, quando subentra l’uomo, deve sempre un po’ rimescolare le carte in tavola e rivedere anche le abitudini più antiche.
Nel caso del caffè, quel momento è arrivato quando gli uomini hanno provato a ricavare una bevanda dalle sue foglie che facevano bollire nell’acqua, come si fa con il tè. Poi scoprirono che si poteva fare di meglio: tostando, macinando e miscelando con acqua bollente i semi, si otteneva una bibita ancora più buona. Come se non bastasse, l’anidride carbonica sprigionata dalla tostatura, salendo in superficie, si fondeva con il caffè, donandogli una nota di sapore tutta particolare. Cosa volere di più? Niente, e infatti gli esseri umani di tutto il mondo si innamorarono del caffè e del suo gusto allettante. Intorno al XV secolo dal porto di Mokha, nello Yemen, centinaia di piante si imbarcarono verso tutti i luoghi tropicali della Terra.
La richiesta di caffè era così alta che la coltivazione della pianta venne largamente estesa. Per fare spazio alle nuove piante, in tutte le zone a ridosso dei tropici vennero tagliati chilometri di foreste. Nel Sudest asiatico, in particolare, la situazione divenne piuttosto grave: gli animali che si nutrivano dei frutti delle palme (presenti in gran numero a quelle latitudini) ovviamente si videro all’improvviso privati di cibo e morirono come mosche. Una vera e propria strage degli innocenti – gli alberi da una parte, gli animali dall’altra.
Non tutti, però! Lo zibetto delle palme, un mammifero molto simile alla mangusta, per sopravvivere cercò di adattarsi alla nuova situazione. L’unico modo per farlo era cambiare dieta, e così fece: al posto dei datteri, cominciò ad avventarsi sui frutti del caffè.
A soffrire questa volta furono gli agricoltori, che naturalmente dichiararono guerra al piccolo zibetto cercando con ogni mezzo di placare la sua brama di frutti. Ma lui vinse sia le battaglie sia la guerra, perché agiva sempre di notte e, mimetizzato dalla sua pelliccia scura, riusciva a non farsi mai beccare.
A quel punto, la coltivazione del caffè nel Sudest asiatico era drasticamente compromessa. Per gli esseri umani l’unico modo di salvare il salvabile era prendere esempio dallo zibetto: bisognava adattarsi, cambiare strategia. E così fecero: avevano notato che il piccolo animale digeriva egregiamente la polpa del frutto, ma lasciava integro il seme. I semi, quindi, entravano insieme al frutto e uscivano dal lato opposto, di fatto indenni.
Messi alle strette, gli esseri umani iniziarono a recuperare i semi del caffè dagli escrementi degli zibetti. La cosa, in realtà, risultava piuttosto semplice, perché lo zibetto usa i suoi scarti per delimitare il proprio territorio ed è abituato a depositarli sempre nello stesso posto. Quindi gli agricoltori si misero a studiare la sua routine digestiva; ogni mattina, facevano un giro per la campagna e raccoglievano i semi: una bella lavata, una poderosa tostatura e nessuno si sarebbe accorto della piccola “deviazione”.
Gli assaggiatori, invece, se ne accorsero eccome! Il sapore della bevanda ottenuta da questi semi era diverso: rotondo, delicato, completamente privo di amaro. Insomma, la qualità era di gran lunga migliorata. Suggestione? No, realtà: gli enzimi digestivi dello zibetto non riescono a intaccare il seme, ma distruggono la membrana che lo ricopre. Ed è proprio questa parte a rendere il caffè più amaro e leggermente acido. Togliendola, rimane solo la parte migliore. Ma c’è di più: lo zibetto, infatti, è esigente in fatto di gusti e non mangia tutto quello che si trova davanti. Applica invece una selezione ponderata, scegliendo solo i frutti perfettamente maturi. I semi contenuti in questi frutti sono quindi nella fase ottimale, quella che serve per produrre un caffè di altissima qualità. Quindi, lo zibetto seleziona i semi migliori di un campo, dimostrandosi in questo molto più abile dell’agricoltore!
Da scarto, dunque, il caffè dello zibetto è diventato ricercatissimo, con un prezzo di mercato che può arrivare anche a dieci volte quello “normale”.
La famiglia degli zibetti è piuttosto diffusa nel mondo. Un lontano cugino, per esempio, risiede in Perù, altro Paese in cui la coltivazione del caffè è ormai molto praticata. Questo animaletto, chiamato dai locali mishasho, non solo sceglie e digerisce i semi del caffè esattamente come il suo parente asiatico, ma fa addirittura di più: insieme ai frutti del caffè, ingerisce anche quelli di varie piante tropicali. Cosa significa? In pratica, nello stomaco del mishasho si forma una sorta di macedonia di frutta tropicale, che donerà al chicco di caffè degli aromi davvero speciali!
È questo il bello, quando si viaggia attraverso il cerchio della vita: le sorprese non finiscono mai. Talvolta le situazioni si complicano in maniera inaspettata; in altre occasioni, invece, dei problemi apparentemente intricati vengono risolti in modo tanto inatteso quanto lineare ed elegante.
Un esempio importante ci arriva dalla grande quercia, l’albero che si impone con i suoi immensi tronchi in tutti i continenti del mondo. Anche lei, al pari dei suoi simili, non è né buona né cattiva, né vittima né carnefice, ma un po’ tutte e due le cose. Anche lei ha dei problemi, come tutti, e li risolve creativamente.
Il frutto della quercia, lo sappiamo, è la ghianda. Di forma cilindrica, è rivestita parzialmente da una cupola che ricopre, di norma, un singolo seme, particolarmente ricco di carboidrati. I carboidrati, anche questo lo sappiamo, non sono altro che zuccheri: ecco allora che un numero imprecisato di animali si affanna a cercare, sgranocchiare, stoccare questi piccoli doni. Scoiattoli, topi, ghiandaie e tanti altri uccelli basano la propria alimentazione sul frutto della quercia.
A prima vista, potremmo pensare si tratti di una predazione bella e buona e che per la quercia avere frutti così appetitosi sia in realtà uno svantaggio. Ma ormai abbiamo percorso un bel pezzo di strada nel cerchio della vita, e abbiamo visto come le piante siano in grado di adoperarsi per ottenere ciò che vogliono. Dunque non dovrebbe stupirci scoprire che la predazione apparente è al contrario una strategia della pianta per allontanare da sé i propri figli e disperdere i propri semi.
I frutti della quercia, infatti, maturano in autunno, quando gli animali si apprestano al letargo invernale. In questo periodo la raccolta è frenetica: tutti vogliono stoccare il maggior numero di semi per consumarli in primavera, al loro risveglio. Il freddo dell’inverno, però, è feroce e la sua falce bianca e tagliente miete numerose vittime. In primavera, quindi, molte ghiande restano incustodite e, al posto di denti e becchi pronti a divorarle, incontrano il benevolo sole che scalda e illumina la foresta. Temperatura gradevole, acqua e terreno sono le condizioni ideali per germinare e dare vita a una nuova pianta lontano dalla madre.
Il cerchio della vita però va avanti da miliardi di anni e, in questo lunghissimo lasso di tempo, ha trovato il modo di intricarsi, articolarsi e tessere trame sempre più complesse. La vita della foresta non è così lineare e semplice, e la quercia non è l’unica a preoccuparsi della sopravvivenza della sua progenie. Alcuni topolini hanno messo a punto una strategia per non permettere ai semi di germinare: con i loro denti, cercano il punto preciso in cui il frutto nasconde il seme; poi lo sgranocchiano proprio lì, uccidendo la pianta in potenza ma mantenendo integro il frutto, che resta così disponibile per la primavera futura. Gli unici che potranno consumarlo, a quel punto, saranno proprio loro, i topolini – oppure, se loro dovessero cadere vittime del “generale bianco”, i loro simili.
Con il passare del tempo, i semi della quercia hanno imparato a difendersi spostando il germoglio in un punto irraggiungibile dagli incisivi affilati dei topi. Ma ci sono anche altri animali che minacciano la sua sopravvivenza, animali che non sono nemmeno in grado di rendersi utili trasportando i semi lontano dalla pianta madre. Come difendersi da questi ultimi? Come fanno tantissime altre piante: con i tannini, sostanze che selezionano all’ingresso chi è autorizzato a mangiare le ghiande e chi no. Noi esseri umani, per esempio, siamo nella lista nera: se provassimo a mangiare le ghiande ci verrebbe un mal di pancia terribile.
Ma, come sempre, per ogni problema c’è almeno una soluzione, e alla creatività della natura dobbiamo aggiungere quella degli uomini. Gli antichi abitanti delle Americhe avevano trovato un metodo per ingerire le ghiande senza problemi: dopo averle raccolte, le seppellivano in prossimità dei ruscelli. La mancanza di ossigeno, unita al continuo passaggio dell’acqua, le lavava fino a eliminare la parte tanninica. Resi puri e commestibili, i frutti venivano quindi macinati, e con la farina ottenuta si preparavano gustose pietanze!
Un errore madornale
Lo zampino del genere umano in natura è un fattore di grande rischio e imprevedibilità: certe volte noi uomini ci limitiamo a escogitare un modo per mangiare le ghiande senza fare indigestione, certe altre, invece, combiniamo dei disastri incredibili.
Uno dei più clamorosi ci porta indietro nel tempo, più precisamente nel 1868, a Medford, una piccola città situata pochi chilometri a nord di Boston, nel Massachusetts. Qui si era appena trasferito dalla natia Francia il pittore Étienne Léopold Trouvelot, il quale, oltre ai colori e all’arte, amava moltissimo l’entomologia. Mentre i suoi quadri non rivoluzionarono il mondo artistico (sono in pochi, infatti, a ricordare il suo nome), la sua dedizione nei confronti degli insetti cambiò radicalmente il paesaggio americano.
Tutto partì da un’idea balzana: studiando i bachi da seta, la cui alimentazione è costituita principalmente da foglie, Trouvelot si era messo in testa di sfruttare l’abbondante fogliame delle foreste del Nord degli Stati Uniti per ottenere della raffinata seta. C’è un problema, però: il baco da seta ha gusti molto specifici e non accetta di nutrirsi con foglie qualsiasi, ma solo con quelle del gelso. Le foreste americane, invece, sono in gran parte composte da altre latifoglie, tra cui la nostra cara quercia.
Il pittore non si lasciò scoraggiare da questo inconveniente ed escogitò una soluzione: avrebbe ibridato il Bombix mori (il nome scientifico del baco da seta) con una farfalla europea, la Lymantria dispar, un insetto dalle abitudini alimentari molto più varie, più alla buona, in grado di nutrirsi di diverse piante tra quelle presenti nei boschi del Massachusetts. L’ibrido, secondo Trouvelot, avrebbe avuto un sistema digestivo molto forte, adatto ad assimilare l’ampio fogliame americano e trasformarlo in delicata seta europea. E fu così che dalla Francia partì un pacchetto davvero speciale, contenente alcuni esemplari di Lymantria e di Bombix da far accoppiare.
Purtroppo, Trouvelot aveva studiato arte e non biologia. Non sapeva, quindi, che due animali appartenenti a specie diverse non si possono riprodurre. Va da sé che il suo progetto entomologico era destinato a fallire fin dall’inizio, e infatti, dopo due mesi di inutili tentativi, si arrese di fronte alla realtà dei fatti. A quel punto, non sapendo più che farsene, il francese decise di liberare le farfalle nel folto della querceta vicino casa.
Al ritorno, mentre contemplava il cielo che si faceva scuro, la tanto attesa ispirazione artistica arrivò e Trouvelot decise con certezza: la sua strada non era l’entomologia, ma l’arte. Iniziò a produrre quadri su quadri, in cui i cieli nordici erano il soggetto principale. Nel frattempo, però, nella foresta le limantrie sfornavano uova su uova, bruchi su bruchi e farfalle su farfalle. Dal manipolo di insetti liberato dal francese si generò una spaventosa popolazione che, a tutt’oggi, distrugge ettari ed ettari di foresta americana. Gli studiosi hanno calcolato che i danni della limantria si aggirano intorno agli 870 milioni di dollari annui!
Fin dagli inizi del Novecento gli entomologi americani hanno intrapreso vari programmi di lotta: dalla liberazione di milioni di parassiti dei bruchi all’uso degli insetticidi, ricorrendo perfino al taglio degli alberi per frenare l’avanzata. Ma tutto è stato inutile: la limantria è ancora attiva e continua la sua distruzione annuale.
Anche ai giorni nostri, in primavera e in estate, nelle fresche foreste del Massachusetts, i bruchi sono talmente numerosi che il rumore emesso dalle loro voraci mandibole, simile allo scroscio della pioggia, si può sentire da centinaia di metri di distanza.
La farfalla e il topolino
Eppure, esistono delle porzioni di foresta americana dove il danno della farfalla europea è limitato, grazie alle intricate reti intessute dagli alberi (in particolare loro: le querce) che portano a effetti non prevedibili.
Un albero grande e diffuso in tutto il mondo come la quercia ha numerose frecce al suo arco. Per raccontare questa nuova strategia, dobbiamo mettere un secondo da parte le farfalle e spostare l’attenzione su un fenomeno molto interessante: quello della “pasciona”.
Questo termine va ricondotto all’alternanza di fruttificazione tipica della quercia: a un anno di abbondante produzione di ghiande – l’anno della “pasciona”, per l’appunto – ne seguono altri chiamati di “scarica”, in cui gli alberi fruttificano molto meno.
Durante l’anno della pasciona, una grande festa si accende nel bosco; tutti gli animali si affannano per raccogliere quanti più frutti possibili, sopraffatti da tutta quell’abbondanza. La popolazione dei mangiatori di ghiande cresce esponenzialmente, ignara dei tempi di magra che arriveranno. L’anno successivo, infatti, i frutti non sono sufficienti per nutrire tutti, e numerosi animali soccombono sotto i crampi della fame.
Alla fine della pasciona, la vita con i suoi colori cede il posto alla morte con il suo tetro mantello. Ma non per la quercia: lei utilizza l’alternanza proprio per sopravvivere. I semi raccolti durante l’anno dell’abbondanza sono così numerosi che non si riesce a consumarli tutti; una buona parte germina in primavera e così l’anno seguente, mentre la morte infligge la sua legge agli animali, le nuove piantine di quercia crescono senza nemici.
C’è chi, come gli uccelli, cerca di sfuggire alla carestia migrando altrove, ma non c’è nulla da fare: le querce sono organizzate come un esercito, e sincronizzano l’intera comunità in modo che gli anni di scarica e di pasciona siano gli stessi per tutte. Gli uccelli, viaggiando, trovano soltanto penuria di frutti e abbondanza di cadaveri.
In pratica, è la quercia a dettare i tempi del bosco. È lei a decidere quando si festeggia e quando ci si lamenta, la sua produzione di frutti può far crollare una foresta o accenderla di vita.
Cosa c’entra questo “strapotere” delle querce con la farfalla limantria? C’entra eccome: abbiamo visto che, durante gli anni della pasciona, gli animali che si nutrono di ghiande aumentano a dismisura. Tra questi c’è un topolino, il peromisco, la cui presenza nel periodo dell’abbondanza è addirittura pari a quindici volte quella di un anno qualsiasi.
Quando la pacchia finisce, la foresta si ritrova piena di topolini che si aggirano disperati alla ricerca di ghiande sempre più rare. Rosi dalla fame, cercano cibo anche nei luoghi più impensabili, arrivando persino a scavare sottoterra. Ed è proprio qui che entrano in gioco le farfalle: a rigor di logica, sottoterra i topi non dovrebbero trovare nulla; invece, grazie al pittore francese, trovano tantissime crisalidi di limantria che attendono la buona stagione per sfarfallare e distruggere le foreste americane. Il peromisco, reso folle dalla fame, è ovviamente disposto a tutto, anche a cambiare dieta e passare dalle ghiande alle piccole farfalle in fasce.
Quello che sembra un racconto horror è in realtà l’innesco di un effetto domino positivo per – quasi – tutti: il peromisco riesce a sopravvivere, così come i suoi predatori; le querce non vengono defogliate e allungano le chiome verso il cielo americano. Nonostante non siano anni di pasciona, elargiscono qualche ghianda agli uccelli, agli scoiattoli e agli altri animali del bosco. La morte degli anni di scarica viene scacciata via. Tutto grazie all’errore madornale del nostro buon pittore francese: alla fine, anche in natura, non tutto il male viene per nuocere.
Profumo di cadavere
Il cerchio della vita inizia con la fotosintesi clorofilliana, si inoltra nel mondo vegetale e subito si interconnette con quello animale. Durante questo viaggio, abbiamo incontrato organismi che con le piante fanno lavoro di squadra, occupandosi dell’impollinazione e della disseminazione.
È arrivato il momento di incontrare un altro tassello di questo dream team: quello che riguarda il sotterramento dei semi. Abbiamo già visto che topolini, scoiattoli e uccelli interrano spesso i semi delle ghiande per custodirli. Abbiamo anche incontrato i semi delle graminacee, che con la loro punta riescono a conficcarsi nel suolo. Ma anche tra i sotterratori bisogna fare delle distinzioni, esattamente come per gli impollinatori: non tutti, infatti, sono in grado di svolgere questo ruolo con la stessa efficienza. Se le api sono le regine dell’impollinazione, il principale delegato a questa funzione non può che essere l’immenso popolo del sottosuolo: le formiche.
Il raggio di sole sarà anche il nutrimento più importante per i vegetali, ma nella stragrande maggioranza dei casi i semi, per germinare e sopravvivere, hanno bisogno di stare a contatto con la terra: laggiù riescono a fare il pieno d’acqua e, una volta assorbita, si gonfiano sprigionando una grande pressione. Noi uomini questo l’abbiamo imparato a nostre spese: nel corso dei secoli, sono state tante le barche cariche di semi che si sono trasformate in bombe a orologeria; la pressione dei semi venuti casualmente a contatto con l’acqua era tale che riusciva a spaccare le robuste travi, facendo affondare la barca!
Sottoterra, per fortuna, simili rischi non si corrono e i semi possono servirsi di un mezzo di trasporto molto più efficiente delle nostre navi: i diecimila trilioni di formiche che hanno colonizzato il sottosuolo. L’ambiente in cui vivono questi insetti è il luogo ideale per la germinazione dei semi, e le piante non si potevano certo lasciar scappare un’occasione del genere. Come attirare l’attenzione di questi guerrieri del prato?
Una prima strategia l’abbiamo già incontrata nelle querce e consiste nella iperproduzione di semi ricchi di sostanze nutritive: il numero di semi è sempre talmente abbondante che non solo soddisfa l’appetito di tutto il formicaio, ma permette anche che ne rimangano molti intatti, custoditi all’interno del nido: quando la primavera ritorna nel prato, ecco che il seme germoglia, getta le giovani radichette e inizia una nuova vita.
Ma non tutte le piante vogliono sprecare energia producendo ogni anno così tanta frutta. Ecco perché molte di esse dotano i loro semi di strutture specializzate ad attirare le formiche, chiamate “elaiosomi”. Così come il nettare è usato per ripagare il lavoro dell’ape, l’elaiosoma fornisce una ricompensa alle formiche; il fiore richiama l’ape con il suo profumo e la stessa cosa fa il seme. Quello che cambia è il gusto dei due insetti: mentre l’ape ama gli aromi delicati, la formica ha gusti decisamente più “terra terra”… Alla soavità dei fiori, preferisce la gravità dell’odore di cadavere. L’elaiosoma è, infatti, un’appendice del seme piena di sostanze grasse che “profumano” di putrefazione.
Il mirto, l’arbusto tipico delle zone del Mediterraneo, applica una doppia strategia: prima cerca di allontanare il seme dalla pianta madre attirando gli uccelli con i suoi piccoli frutti, splendenti di ultravioletto; poi, quando i semi si trovano all’aperto, scoperti dalla polpa del frutto, entra in gioco l’elaiosoma, che richiama le formiche come una sirena e le spinge al lavoro di semina vero e proprio.
Travestimento perfetto
La strategia dell’elaiosoma è talmente efficace che alcuni insetti hanno deciso di imitare le piante e sfruttarla a proprio favore. Il fatto è che il nido delle formiche è un ambiente in cui molti vorrebbero svernare: è perfettamente difeso sia dai nemici sia dalle condizioni meteorologiche avverse. Per passare alcuni mesi al sicuro nel sottosuolo, ci sono creature che farebbero follie.
Una di queste è l’insetto stecco australiano, che quando raggiunge l’età adulta assomiglia in tutto a un legnetto, e usa questo travestimento per nascondersi in mezzo ai cespugli. Quando si sente davvero in pericolo, poi, finge di ondeggiare, copiando il movimento dei piccoli rami mossi dalla brezza in modo da rendersi invisibile all’occhio dei potenziali predatori.
Da piccoli, però, gli insetti stecco non sono ancora degli attori così consumati, e non riescono a proteggersi altrettanto bene. Fortunatamente c’è una soluzione, e anche questa per funzionare ha bisogno di una maschera: se il corpo adulto assomiglia a uno stecco, le uova dell’insetto australiano assomigliano in tutto e per tutto ai semi delle piante – e infatti le femmine scelgono, per deporle, gli stessi luoghi dove risiedono i veri semi delle vere piante.
La cosa sorprendente è che, esattamente come i semi, queste uova sono provviste di elaiosoma! Così, attirate dal “profumo”, le formiche non vanno tanto per il sottile: prelevano anche quelle e se le portano, insieme ai semi, all’interno del formicaio. Protetti dal caldo del sottosuolo, i semi germinano, mentre le uova si schiudono.
C’è un problema: le formiche non tollerano intrusi all’interno della loro città oscura. Appena un insetto diverso si palesa nel formicaio, viene immediatamente ucciso. Per fortuna gli insetti stecco hanno il trasformismo nel sangue, e per sfuggire alla furia razzista delle formiche non hanno problemi a travestirsi ancora una volta: nella primissima fase della vita, infatti, queste creature assomigliano proprio alle formiche! Così mimetizzate, fanno presto a guadagnarsi l’uscita, posizionarsi sopra una pianta e mutare nuovamente forma, diventando dei perfetti ramoscelli in barba ai loro nemici!
L’invenzione del futuro
Lungo il tratto di strada che unisce il mondo dei vegetali a quello degli animali, non si può ignorare la presenza di un animale molto particolare, che con il mondo vegetale ha un rapporto piuttosto originale. Questo essere vivente ama i semi, ma per consumarli li tritura, li macina, li secca, li fa fermentare, insomma usa la sua mente creativa per dar loro una nuova vita.
I semi che preferisce ricevono un amore folle e una dedizione assoluta: le piante che li producono vengono difese dai nemici, nutrite, tenute nelle condizioni ideali per la germinazione e per la crescita, portate in ogni angolo del globo.
Ovviamente, l’avrete capito, stiamo parlando dell’essere umano. Sì, è vero, abbiamo detto prima che questo viaggio prevede di toccarlo solo in parte, e infatti il vero protagonista della prossima storia non è lui, bensì – ancora una volta – un seme. Un seme molto particolare, perché da sempre l’essere umano ha mostrato di preferirlo a tutti gli altri, segnando con la sua coltivazione (la prima della storia!) il passaggio da una società di cacciatori nomadi a una civiltà stanziale fondata sull’agricoltura. Questo seme ha un nome, e il suo nome è grano.
Prima di incontrarlo, noi uomini passavamo le giornate girovagando per le savane primordiali in cerca di semi da mangiare, proprio come animali. Probabilmente, allo stesso modo, dopo averne raccolti alcuni li conservavamo sottoterra. Le cose cambiano quando i germogli iniziano a spuntare: al contrario di tutti gli animali, infatti, l’uomo ha la capacità di capire le conseguenze delle proprie azioni. Capisce quindi non solo che dal seme si può ottenere una pianta, ma anche che quella stessa pianta può dargli molto, molto di più.
Inventando l’agricoltura, abbiamo inventato il futuro: la possibilità di pianificare, di smettere di vivere alla giornata. Agricoltura significa civiltà; senza il grano, essa non sarebbe mai stata possibile.
Il primo paga pegno
Il frutto del grano prende il nome di “cariosside” ed è ricoperto da diverse foglie che lo proteggono dalle minacce del mondo esterno. Quando non sono più necessarie, cioè quando il frutto è maturo, queste speciali coperte si aprono spontaneamente.
Gli uomini preistorici, però, avevano notato una cosa piuttosto strana: certe piante di grano, anche quando arrivavano a maturazione, non aprivano le foglie e, conseguentemente, non permettevano ai frutti di abbandonare la pianta madre. Questo, in natura, di fatto è un handicap: i frutti prigionieri non possono germinare, e la pianta che non è in grado di far vivere i propri semi è destinata alla sterilità.
Fortunatamente, quello che in natura è un handicap, in agricoltura è una virtù. Pensiamo all’uomo del Neolitico impegnato nella raccolta del grano. Il poveretto, mentre faticava e tagliava le piante mature, con l’apertura delle foglie si vedeva cadere tantissimi frutti a terra. Certo, poteva sempre piegarsi e “spigolare” i frutti nel terreno, ma quanti ne perdeva? Sicuramente tanti. Le piante che non si aprivano, invece, consentivano un risparmio sia di fatica sia di una consistente parte del raccolto. Ecco perché l’uomo le ha da subito elette a sue preferite e le ha coltivate per migliaia di anni, fino a far sparire tutte le altre. Queste piante, adesso, sono le più diffuse su tutto il pianeta, oltre che le più protette: il servizio degli esseri umani è in assoluto il più efficiente che si possa avere dal regno animale. Ma non è affatto gratuito, anzi: il prezzo da pagare può essere molto, molto alto.
Il problema del grano è lo stesso di tantissime piante coltivate: è stato forgiato per piacere sempre di più agli umani e, con il passare del tempo, ha abbandonato la via della natura per entrare in una zona inventata dalla mente dell’uomo, che lo ha legato irriducibilmente a sé. Nel caso di un’ipotetica estinzione della razza umana, il grano sarebbe costretto a seguire il suo protettore nell’oblio.
Alcuni semi, però, usano l’uomo senza pagare pegno. Come la plantaggine maggiore, una pianta molto comune nei prati di tutta Europa, che vive bene in mezzo agli esseri umani perché resiste al calpestamento. I suoi microscopici semi si infilano in tutti i manufatti degli uomini e li seguono ovunque, lasciandosi trasportare senza però cedere al ricatto della coltivazione. Proprio per questa caratteristica, in America viene chiamata white man foot, perché è stata in grado di seguire passo passo l’uomo europeo nella sua avanzata negli Stati Uniti d’America.
The Survivor Tree
Tante sono le storie di convivenza tra piante e umani, tra alberi e persone. Una di queste si svolge negli Stati Uniti d’America e inizia con una felice intuizione di uno scrittore, tal Edward S. Martin che, tra le pagine del suo libro The Wayfarer in New York, uscito nel 1909, paragona lo Stato di New York a un enorme albero di melo, con le radici che affondano nella valle del Mississippi mentre il frutto cresce e matura nel centro di Manhattan. Per la prima volta, la megalopoli americana viene soprannominata “Grande mela”.
Inizialmente, il nome ha poco successo, dopo qualche anno cade già in disuso. Negli anni Settanta, però, la Grande mela risorge dalle proprie ceneri grazie a un cronista, Charles Gillet, che voleva associare New York al delizioso frutto per cancellare la sua nomea di metropoli difficile e violenta. La cosa funzionò: nel giro di poco, aerei carichi di turisti cominciarono ad atterrare nella Grande mela con il desiderio di dare un morso a questa succulenta megalopoli. Ora, grazie anche all’albero delle mele e ai suoi frutti, New York è un luogo splendido, che visitatori da tutto il mondo apprezzano, sognano e amano.
Ma la storia degli uomini è simile a quella della natura: è circolare. Dopo un periodo di serenità, l’11 settembre 2001 il terrore ha avvolto New York con il suo pesante mantello nero. Adesso, a quasi vent’anni di distanza, a squarciare il velo della paura ci pensa proprio un albero, che allunga i suoi rami verso il cielo ridando speranza e gioia ai più di otto milioni di abitanti della Grande mela.
L’albero che sta facendo rinascere New York non è simbolico, ma reale, vivissimo; è provvisto di radici, di un tronco, di foglie. Si tratta di un pero, un albero che è diventato famoso perché è stato testimone di uno degli episodi più tragici del nuovo millennio.
Il pero in questione, infatti, viveva nel giardino del World Trade Center. Quel giorno, mentre cresceva alto e rigoglioso, una massa di macerie incandescenti si abbatté su di lui, distruggendo i suoi rami, bruciando il tronco, strappando le foglie e disarcionando le radici.
Nei giorni seguenti, però, accadde qualcosa di straordinario. Tra le rovine di cemento armato, in una tetra foresta di calcinacci e metallo, i pompieri lavorarono giorno e notte per strappare alla morte i pochi sopravvissuti all’attentato. Gli scavi tra le macerie si protrassero a lungo, la città contava i morti e si macerava nel dolore.
Ma a un certo punto, in mezzo a questo deserto di morte, il pero rispuntò tra i detriti. Era ridotto a un moncherino annerito dal fuoco, non aveva più foglie e le sue radici erano strappate. Eppure, l’occhio benevolo (ed esperto) di un pompiere riconobbe, nella sua corteccia bruciata, un barlume di vita; prese quello che era rimasto del pero e lo portò agli agronomi del New York City Department of Parks and Recreation.
Nella serra del Bronx, questo albero trovò ricovero e cure e, dopo svariati mesi, una timida fogliolina verde fece capolino nella scorza scura e martoriata. Quel germoglio contagiò l’intero albero, che in poco tempo si ricoprì di foglie sempre più grandi e sempre più brillanti. Nuova linfa iniziò a fluire nel tronco pieno di ferite e nuove radici, avide di vita, si misero a cercare la profondità della terra.
Fu così che l’11 settembre 2010, durante la cerimonia di commemorazione della tragedia, il pero, tornato forte e vigoroso, riprese il suo antico alloggio presso il giardino del World Trade Center. Venne chiamato The Survivor Tree, l’“albero sopravvissuto”: i suoi fiori, le sue foglie, i suoi rami protesi verso il cielo ricordano ai newyorkesi che tutto si può superare, che nessuna tragedia è per sempre e che il futuro è un luogo sconosciuto, ricco anche di cose bellissime.
Se il pero di New York parla di speranza e di un futuro migliore al mondo degli uomini, tutte le piante che ricoprono di verde il pianeta stanno dicendo la stessa cosa, ma si rivolgono alla natura.
Esse non hanno mai sviluppato degli organi centrali e vitali, le loro funzioni essenziali (depurarsi dalle scorie, crescere, respirare) sono condivise da tutte le cellule: questo significa, tra le altre cose, che non hanno un cuore, dunque non hanno un vero punto debole.
Un nemico senza un bersaglio da colpire è inattaccabile: lo puoi ridurre a brandelli, come nel caso del pero di New York, ma lui risorgerà sempre dalle sue ceneri, come un’araba fenice. Ecco perché molte piante si lasciano mangiare senza colpo ferire: sanno che nessun morso può essere letale, e che possono anche ridursi all’osso, ma alla fine rispunteranno come se nulla fosse.