Capitolo 41

Raphael gettò la Bibbia sulle lenzuola stropicciate, fra il suo corpo nudo e quello di Elena. «Formula una domanda», le disse. «Deve essere breve».

Lei lo guardò con espressione vacua. «E poi?»

«La rivolgeremo a un’intelligenza superiore per sapere in quale paragrafo potremo trovare la risposta».

«Che cos’è?»

«Si chiama bibliomanzia. Significa che il libro diventa un indovino».

«Ma potrebbe essere spiacevole».

«Io non credo».

Lei si prese il mento fra le dita e guardò in alto. «Voglio sapere chi diventerà papa». Ricadde sul materasso e guardò il soffitto affondando la nuca nel cuscino soffice.

Raphael aprì la Bibbia nel punto in cui la Genesi recitava: Quand’ecco il Signore fece piovere dal cielo sopra Sodoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco proveniente dal Signore.

Chiuse il libro e lo gettò via.

«Ma ero curiosa di conoscere la risposta».

«Ho io una domanda da farti».

«Va bene».

«Qualunque cosa?»

«Qualunque».

«Chi ti ha minacciato intimandoti di tenere la bocca chiusa. Quale segreto ti chiedono di nascondere?»

«Vuoi proprio cacciarti nei guai e mettere me in pericolo».

«Se il segreto è inconfessabile, sei già in pericolo e io mi sono già cacciato nei guai».

Fece un lungo sospiro e disse: «Lavinia mi ha raccontato delle cose».

«Quali cose?».

Elena scosse la testa. «È meglio che tu vada, adesso».

«Voglio proteggerti».

«Ho già perso un uomo per questo».

«Fidati di me».

«Lavinia mi ha parlato di festini blasfemi, con orge e ogni sorta di sozzerie, che si tengono in residenze lussuose. I partecipanti sono sempre tutti mascherati. Molte ragazze vengono portate lì bendate e tali rimangono fino a quando qualcuno le riporta a casa o nel bordello da cui sono state prese. Questi signori credono di riuscire a mantenere il segreto sulle loro depravazioni, ma prima o poi le cose si vengono a sapere».

«Chi sono questi signori?».

Lei allargò le braccia. «Non lo so. Ma Lavinia subiva le atten-
zioni di un uomo potente e prepotente negli ultimi mesi. E io
sono convinta che sia stato lui a introdurla in quelle feste satani-
che».

Dardo sentì un brivido tagliargli in due la schiena. «Cosa ha visto?»

«Le hanno fatto bere una mistura. Proprio come a me, quando ho posato per l’Anonimo. Anche Lavinia raccontava di essere stata stordita, ma ricordava una specie di messa e poi… alla fine, tutti si sono accoppiati con tutti, senza badare a chi capitava tra le mani. Ricordava anche che c’era un pittore che dipingeva. Sembrava qualcosa di molto studiato e coreografico. Quelli lì, chiunque siano, sono solo dei ricchi maiali con strane idee in testa».

«Ha assistito a delle violenze?»

«Lei no». Elena scese dal letto e andò a prendere qualcosa dal cassetto della specchiera. Una boccetta. La stappò e si versò qual-
che goccia del contenuto nel bicchiere, poi impugnò la caraffa e
vi fece cadere sopra due dita d’acqua. Bevve. «Ma io ne ho sentito parlare tempo fa da una mia amica che lavorava in un bordello. Diceva che avevano stuprato una bambina davanti ai suoi
occhi».

«Credi che potrei farle qualche domanda?»

«No. Fu trovata morta per strada, con la gola tagliata. Un balordo, si disse. Ma io non ci ho mai creduto. Secondo me l’hanno fatta fuori proprio perché non ha saputo tenere la bocca chiusa su certe cose». Abbassò gli occhi sul flacone che aveva ancora in mano e spiegò che lo usava da quando era morto suo marito. Lo comprava da uno speziale di Borgo. Molte ragazze si facevano dei tamponi vaginali imbevuti di quell’elisir, per lenire certi fastidi. Ma lei, per fortuna, non ne aveva mai avuto bisogno. Ne beveva qualche goccia per calmarsi. E, soprattutto, lo usava per rendere impotenti gli uomini che non le andavano a genio.

«L’uomo che ha portato Lavinia in quei festini chi è?»

«Si chiama don Carlo», rispose Elena. «È un soldato, un capitano. Figlio di un conte e nipote di un cardinale».

«Quale cardinale?».

Elena lo disse con il tono mesto che accompagnava sempre quel nome: «Carafa».

«Il nipote di Carafa è a Roma?»

«I nipoti. E anche un gran numero di altri parenti. Sono arrivati che era morente papa Giulio iii, verso la fine del mese di marzo, pronti ad arraffare, come corvi su una bestia morta».

«E tu come lo sai?»

«Me ne ha parlato Lavinia».

Il conclave seguito alla morte di Giulio iii aveva eletto Marcello ii, elucubrò Raphael. Perché don Carlo era rimasto a Roma, dal momento in cui non era stato eletto suo zio?

La risposta apparve subito nella sua mente: don Carlo Carafa doveva sapere che il pontificato di Marcello ii sarebbe durato poco, molto poco. Per l’esattezza, dal nove aprile al primo maggio.

«E Lavinia ne sentiva parlare da don Carlo?»

«Sì, lui parlava molto, specialmente quando era ubriaco, vale a dire sempre».

«E che altro ti ha raccontato?»

«Ho incontrato Lavinia due sole volte, da quando don Carlo è arrivato a Roma. Lei era preoccupata, perché, diceva, lui era pazzo e le faceva paura. Mi ha detto che don Carlo si trovava di guarnigione a Porto Ercole, quando l’ambasciatore francese a Roma ha scritto al suo comandante ordinandogli di mandarlo qui per mettersi al servizio del Collegio cardinalizio. Il decano del collegio era lo zio, Gian Pietro Carafa. E sai una cosa? Lavinia mi disse che don Carlo era freddo con lei, che in realtà preferiva i maschi. Stava con lei solo perché voleva farsi vedere in giro con una bella donna, per nascondere la sua vera natura e per essere invidiato dagli altri uomini. Con Lavinia poteva ottenere il risultato desiderato, perché lei era davvero molto bella».

«Il nome Angelo Ruffo ti dice qualcosa?».

Elena ebbe un sussulto e strabuzzò gli occhi. «Tu fai finta di non sapere, ma sei molto informato, vedo».

«Perché?»

«Non sai che Lavinia lo conosceva?»

«No».

«Ruffo ha commissionato molti ritratti di Lavinia. Ne era innamorato. Sinceramente. Non era corrisposto. Però so che si vedevano spesso in privato, nella sua villa».

«Questo don Carlo potrebbe avere ucciso Ruffo per gelosia?»

«Don Carlo? Sì, anche solo per il piacere di farlo, perché quello è…».

Elena fu interrotta da un rumore violento e improvviso. Qualcosa, forse una grossa pietra lanciata dalla strada, aveva colpito la persiana.

Raphael scattò in piedi, nudo e flessuoso, la pelle umida su cui giocava la luce delle candele; sfilò la pistola dal fodero appeso alla spalliera di una sedia, prese la polvere, le pallottole e la caricò, poi andò a spalancare la finestra.

Si sporse per controllare l’esterno.

Sembrava tutto molto tranquillo.

Niente di insolito, solo le stelle che infioravano il cielo nero e le fronde che ondeggiavano al ritmo dell’aria fresca.

Elena lo guardò aspettando di incontrare uno sguardo rassicurante, ma lui era teso come le corde del suo liuto. «Cosa c’è?», gli chiese.

Le fece vedere la pietra che qualcuno aveva lanciato. «Lo fanno spesso?».

Elena era stupita. «No».

Poi un oggetto volante entrò dalla finestra sibilandogli sulla testa. Raphael lo vide urtare contro la parete e stramazzare sull’assito con un tonfo.

Continuava a emettere un sibilo nervoso.

«Che cos’è?», chiese Elena, cercando per terra.

«Non lo so».

«E cos’è questo rumore?».

Raphael si abbassò e lo vide oltre le gambe del letto: restò annichilito per qualche istante. «Fuori!», urlò, «fuori da qui!». La afferrò per un braccio sollevandola dal materasso e la trascinò via di peso verso la porta, e giù per le scale. Fece appena in tempo ad aprire il portone che dava sulla strada, poi la dinamite deflagrò risucchiando l’aria.

Il collezionista di quadri perduti
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