Capitolo 24
Il tabacco che stava piovendo dolcemente dai polpastrelli di Raphael aveva attraversato un oceano immenso, rischiato di affondare o di marcire nelle stive dei vascelli. Dunque, era molto costoso. Per questo il fornello delle comuni pipe era piccolo.
Raphael aveva imparato il piacere del fumo in Olanda. Da lì provenivano tutte le sue pipe, lunghe e fragili, e sempre dall’Olanda gli arrivava il tabacco, che gli veniva consegnato regolarmente da un mercante di spezie fiorentino. Dagli olandesi aveva imparato anche a mischiare la canapa al tabacco. Questa, però, proveniva da Bologna, e si coltivava in molti luoghi d’Italia, e quindi costava poco. Per questo motivo il fornello delle pipe di Raphael era più largo del normale.
Gli piaceva sedersi in un’osteria e fumare ascoltando gli ultimi pettegolezzi dagli avventori, che schiacciavano le carte da gioco sulle mezze botti rovesciate a mo’ di tavoli, e barcollavano tra scope, stracci, sputacchiere di ferro, catini, brocche…
A volte faceva irruzione un musico o un saltimbanco, altre scoppiava una rissa, non ci si annoiava mai.
Il vino e i liquori scioglievano facilmente le lingue. Si udivano parole sincere. E a volte anche la pipa si rendeva utile allo scopo di estorcere informazioni, quando qualche curioso chiedeva sfacciatamente di provarla.
L’ultimo della lista tossì sputando nuvole di fumo. «Che diavoleria!», esclamò sussultando sulla sedia e scuotendo i capelli neri e ricci. «Come fate a trovarlo buono, messere?».
Raphael rise. «Serve un po’ di tempo per scovare la ragione del piacere».
L’uomo si lasciò convincere e dopo aver rivolto uno sguardo di sfida alla pipa aspirò altre boccate. Alla terza riuscì a non tossire. Quando riconsegnò la pipa annuiva sorridendo, come a dire che aveva capito.
«Allora vi piace?», chiese Raphael, divertito dalla situazione.
«Sì, signore». Anche lui era visibilmente contento. «Ho provato il tabacco!», annunciò agli amici, come se avesse appena catturato un animale mai visto da essere umano. Ma quelli erano tutti ubriachi e lo ignorarono. «Posso offrirvi qualcosa per ricambiare?».
Raphael riprese a fumare con la sua tipica aria imperturbabile. «Siete un pittore?»
«Qui lo siamo quasi tutti». L’uomo si guardò intorno e non fu smentito. «Chi non dipinge scolpisce, decora, stucca. Anche il mio amico Cocco, l’oste, era un pittore di ottima fama prima di aprire quest’osteria e pure una locanda, che gli rendono molto bene. Anche voi siete un artista?»
«Mio padre e mio fratello lo erano. Io sono solo un appassionato».
«Mi chiamo Marco». Il pittore gli offrì la mano tesa. «Sono lieto di fare la vostra conoscenza, messer…».
«Raphael». Ricambiò la stretta di mano, sorreggendo la pipa con l’altra.
Gli occhi lieti e lucidi si scrutarono a vicenda.
«Da dove venite, messer Raphael?»
«Firenze».
«E cosa vi porta a Roma?»
«Sto cercando pittori da proporre a un mecenate».
«Siete un agente?».
Raphael confermò.
Al che il pittore divenne insistente. «Volete visitare il mio studio, messere? Ho imparato dai migliori, all’accademia, sono in grado di accettare qualunque tipo di commissione. Ma in special modo eccello nella tecnica dell’affresco. So anche lavorare il bronzo. L’ho imparato da un fiorentino come voi».
«Non sono fiorentino».
«E di dove, allora?»
«Chi lo sa».
«Be’, se vi piace, il mio laboratorio è aperto a ogni ora per voi».
«Lo terrò presente», fece Raphael con indolenza.
Le iridi nere del pittore brillavano per la curiosità. «State aspettando qualcuno?»
«Vi do questa impressione?»
«Onestamente, sì».
Il pittore era stordito dal vino e dalla canapa, ma non sbagliava: Raphael era lì per parlare con il padrone dell’osteria. Il suo nome era sul registro di Leonardo: Cocco Bernardozzo, in testa a una lista di debiti relativi a pranzi e cene in quella stessa osteria, consumati a credito. Ogni riga era stata barrata, segno che i debiti erano saldati. “Pagato il buon Bernardozzo”, aveva scritto Leonardo in uno degli appunti.
E se Bernardozzo era buono per Leonardo, lo era anche per Raphael. Aspettò ancora che si presentasse l’occasione buona per parlargli, e intanto continuò a conversare con il pittore.
«Ho sentito parlare di un vostro collega che si firma l’Anonimo, ricercato dall’Inquisizione. Ne sapete qualcosa?»
«Quello che si racconta in giro», rispose il pittore, stupito dalla domanda. «Mi ero fatto l’idea che il vostro mecenate fosse più esigente».
«Non è un buon artista?»
«Girano molte leggende sul suo conto. A ogni modo, lo cattureranno prima o poi, e lo ammazzeranno sul patibolo. Oppure lo manderanno a remare nelle galere papali fino alla fine dei suoi giorni. Credo che potrete trovare artisti dall’esistenza meno precaria».
«Credo di sì». Caricò un’altra pipa, la accese con una candela, se la portò alle labbra, aspirò fino a riempirsi i polmoni e gliela porse. «Volete?».
Marco fumò volentieri, tossendo a ogni boccata. «Basta così», disse, dopo averla aspirata tutta senza neppure rendersene conto. Era paonazzo, gli occhi vitrei, la fronte imperlata di sudore. «Accidenti. Di cosa stavamo parlando?». Si accasciò contro la spalliera della sedia, con le mani penzoloni che quasi toccavano il pavimento, e cominciò a ridere. «Perdonatemi. Questo tabacco confonde la mente».
«Non è di vostro gradimento?»
«Mi piace». Annuì con convinzione. «Sì, è buono».
«Mi hanno detto che l’Anonimo ha raggiunto la perfezione».
«Certo, ne ho sentito parlare. Ma è meglio che chiediate a una persona che sa tutto sugli artisti che operano in città». Con uno sforzo quasi sovrumano, Marco si mise in posizione eretta sulla sedia e cercò qualcuno al di là della coltre di fumo, sventolando la mano. «Cocco!».
Si voltò il padrone dell’osteria.
«Lui ha perfino scritto un libro», spiegò Marco, col tono inorgoglito e magnificante di chi vende una mercanzia. «Si intitola Vite di pittori, architetti e scultori. Magari lo avete letto. Voi sapete leggere, signor Raphael?»
«Purtroppo per me, no», rispose.
Mentiva, ma almeno non si sarebbe sentito rispondere che avrebbe potuto leggere il libro per trovare le risposte che era venuto a cercare.
L’oste si avvicinò. «Desiderate?», chiese rivolgendosi dritto a Raphael, come se l’altro fosse troppo stordito per garantire il pagamento dell’ordinazione.
«Costui si chiama Raphael», gli disse Marco, «un uomo importante, al servizio di un mecenate importante, con delle domande importanti da farti».
«E sarebbero?». La diffidenza modellava il volto dell’oste.
«Mi chiamo Raphael Dardo».
«Dardo?»
«Il fratello di Leonardo Dardo», disse Raphael. «Se non sbaglio eravate amici».
L’oste sgranò gli occhi, i muscoli facciali tirati in un’espressione di meraviglia. «Suo fratello?»
«Sì, signore».
«Non gli somigliate neanche un po’».
«Lo so».
Bernardozzo gli gettò le braccia al collo e lo abbracciò stretto. «Siete il benvenuto, qui, signor Raphael».
«Grazie, signor…».
«Datemi del tu. Ne sarei onorato. Volete bere qualcosa? Avete appetito? Mia moglie cucina bene, sapete».
«Adesso, no grazie. Ma chiamami Raphael, eri un amico di mio fratello».
«Cosa posso fare per te, Raphael?». Batté le
mani e si guardò attorno, incredulo. «Non ci credo. Non sai quanta
gioia si sta riversando nel mio cuore! Sono davvero molto lieto di
conoscerti». Lo palpò, come per appurare che fosse reale, e rise.
«Lasciaci soli», disse a Marco, continuando a fissare il fratello
del suo vecchio
amico.
Il giovane pittore si alzò e fece un saluto ossequioso a Raphael. «Ricordatevi di me», disse.