Capitolo 39

Caro Raphael,

vi aspetto, se volete. Questa sera, dopo il tramonto. Strada dei Giubbonari. Appartamento al secondo piano, con vetro rosso alla finestra. Verrete?

La vostra amica,

Elena

Raphael ripiegò il biglietto e si immerse nella tinozza. L’acqua calda battezzò il suo corpo vigoroso, lo cullò in un dolce torpore. Pensieri vaporosi come sogni.

Chi era l’Anonimo?

Quali diaboliche meraviglie nascondevano le sue opere?

Stando alle accuse dell’Inquisizione, ci si doveva figurare un pittore che intingeva i pennelli nel sangue delle sue vittime e uccideva le modelle, per sacrificarle al diavolo e avere in cambio la capacità di realizzare immagini miracolose.

Ma cosa c’era di vero in tutto questo?

Elena aveva raccontato di essere stata addormentata tutte le volte che aveva posato per lui. E sembrava sinceramente impaurita.

Chissà per quale bizzarro motivo quell’uomo preferiva sedare le persone che ritraeva.

Il mistero era come l’acqua che avvolgeva il corpo di Raphael: accogliente, purificatore, s’insinuava nel suo cervello, ne prendeva la forma, lo impregnava come una spugna.

Quando il vapore smise di salire in filamenti lattiginosi dalla tinozza, riemerse e si asciugò con un telo.

Andò nella camera da letto e indossò i vestiti migliori: calze di seta arancioni, pantaloni di velluto blu stretti al ginocchio con un nastro viola e, quando ebbe finito, un profumo mellifluo si diffuse in tutto l’appartamento.

Il vino cadde nel bicchiere producendo musica.

Che vita gli aveva riservato il destino, pensava, una vita da avventuriero, da ombra costretta a scivolare nelle tenebre.

Bevve. Rifletté a lungo. Poi intinse la penna nell’inchiostro.

Cara Elena,

sono lieto del vostro invito.

A stasera.

Vostro,

Raphael

«Ariel!». Piegò il biglietto, lo imbustò e lo tenne sulla punta delle dita. «Ariel?», chiamò a voce più alta.

«Sono qui». Lui uscì da dietro una tenda damascata, nella sala adiacente e si presentò sullo specchio della porta. «Che c’è?»

«Cosa stavi facendo?»

«Controllavo la strada».

«Potresti recapitare questo per me?».

Ariel prese il biglietto in consegna e se lo fece scivolare nella tasca. «Ti vedo turbato».

«Ripensavo al marchese Billi e ai suoi contatti».

«Secondo me sapeva che sarebbero state due trappole per te».

«Ancora non ne sono sicuro».

«Io dico che ti stai infilando in una faccenda troppo sporca».

Raphael indicò con la piuma della penna i sacchetti di denaro affiancati sul tavolo. «Voglio i quadri dell’Anonimo».

La berretta nera rimbalzò sulla mano di Ariel, fece una piroetta nell’aria e cadde sulla sua testa, affondando con uno sbuffo impercettibile su capelli lisci e scuri. «È inutile discutere con te. Per chi è il biglietto?»

«Una modella».

«Ora capisco perché insisti con questa ricerca».

«Consegnalo. Poi prepara i bagagli per tornare a Firenze con una carrozza di posta».

«Non ti lascio qui da solo».

«Voglio che il duca riceva le sue opere prima che venga a sapere da qualcun altro che le abbiamo recuperate. Non dovrò più mentire per temporeggiare e starò più tranquillo sapendole al sicuro. E poi è meglio che tu stia lontano da Roma. Se Carafa sale al soglio pontificio, questo diventerà il posto peggiore per un ebreo».

Ariel ci pensò e disse: «Lo è già. Lo è sempre stato. Hanno dovuto vietare le rappresentazioni teatrali della Passione di Cristo al Colosseo, perché dopo la gente si avventava sugli ebrei. Eppure viviamo qui da prima che Gesù nascesse. E Gesù era un ebreo come me».

«Conosco la storia, Ariel».

«Io resto qui».

Il collezionista di quadri perduti
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