Capitolo 8
Svegliato dalla potenza dei tuoni, Raphael si mise a sedere sul giaciglio.
Da anni, ormai, non riusciva più a dormire fino al mattino, ed era costretto ad aspettare inoperosamente che facesse giorno.
Il dolore.
La rabbia.
La brama di vendetta.
I ricordi, rigurgiti di eventi passati che gli facevano serrare i denti e i pugni fino a farsi male, fino ad affondare le unghie nei palmi delle mani.
Levò la camicia da sotto il guanciale, la srotolò, se la fece scivolare attorno alla testa, infilò le braccia nelle larghe maniche e scese dal letto, lasciando che il peso del tessuto completasse la vestizione. Quindi, a occhi chiusi, pescò un fiammifero di carta dalla scatola, insieme all’acciarino e all’esca. Poi iniziò a sbattere la selce contro l’acciaio, con forza, in paziente attesa di una scintilla abbastanza consistente da incendiare la stoffa che faceva da esca. Sarebbe potuto scendere in cantina a prendere un tizzone dal fuoco che Ariel teneva sempre acceso, nel suo forno alchemico, ma gli piaceva meditare sulle scintille, esercitare la calma, riflettere in attesa della luce.
L’esca si accese.
Raphael raccolse quella fiamma fugace con il pezzettino di carta arrotolato e imbevuto nella cera, e accese le candele.
Gli stoppini divamparono uno dopo l’altro
sfrigolando, infine ogni fiammella si ritrasse e restò ferma e
immacolata come un fuo-
co fatuo.
Raphael stappò la boccetta di inchiostro nero, ne versò qualche goccia nel calamaio, prese la penna d’oca e cominciò a vergare un biglietto.
Mio eccellentissimo principe,
spero che questa breve missiva vi trovi sorridente e in buona salute.
Qui a Roma tutto procede secondo le mie aspettative. Ho avuto la fortuna di riuscire a recuperare un discreto numero di opere che appartennero alla famiglia de’ Medici. E mi auguro di poterle presto svelare davanti ai vostri occhi increduli.
Ora, mio duca, guardate come la nostra vita sia intessuta di paradossi: trovarmi a Roma mi è insopportabile, eppure sono felice di essere qui e non altrove, e di potervi servire.
Per fortuna, la Città Eterna non è quella immensa e vorticosa Babele che si potrebbe immaginare. È una Sodoma, o una Gomorra, ma di nascosto e con infinita ipocrisia, come tutti sanno. La mia missione qui non dovrebbe richiedere più tempo del previsto.
Vi porterò dei dipinti che rallegreranno non poco il vostro nobile cuore, se sarò aiutato dalla Fortuna. Le vostre opere torneranno presto nell’unico luogo che spetta loro: le stanze del palazzo ducale; e io al mio: ovunque desideri il mio sublime principe.
Piegò il foglio, posò la piuma nell’inchiostro e si alzò. Aveva lasciato le imposte aperte, il forte vento le stava facendo sbattere con violenza.
Lo scrosciare impetuoso della pioggia, le foglie degli alberi che imitavano il suono di un torrente.
A tratti la casa si illuminava a giorno vanificando la debole luce artificiale, ma qualche istante dopo tornava il buio pesto, e il pavimento tremava sotto i piedi.
Raphael calzò gli stivali di pelle veneziana e si diresse verso la finestra.
Nel passare accanto al tavolo, infilò lo sguardo sotto il telo con cui suo fratello aveva coperto gli strumenti da lavoro prima del suo arresto. Era tutto in ordine, come lo aveva lasciato lui: la scatola dei pennelli ne conteneva alcuni ancora nuovi, mai usati da Leonardo, e fatti con le setole di porco bianco da Raphael stesso, che da bambino, prima di andare via da Roma in cerca di avventura, lo aiutava come garzone; la tavolozza era pulita, nell’apposita cassetta; gli stracci lavati e ripiegati accanto alla bacchetta; non c’era traccia di colore o di polvere d’ossa nel mortaio di porfido.
Eri un pittore eccellente.
Rivolse uno sguardo in alto, alla soffitta in cui Leonardo lavorava.
Vi accedeva per una scala di legno che, dopo essere entrato, sollevava con una carrucola, perché nessun altro potesse salire. E quando riscendeva, chiudeva sempre la botola con una grossa chiave che portava perennemente appesa al collo. Nessuno doveva vedere i suoi quadri prima che fossero compiuti.
Solo a Raphael, che spesso aveva anche posato per lui, era consentito.
Erano trascorsi quattro anni da quando Leonardo era stato arrestato dal Santo Uffizio, a Venezia, con l’accusa di aver dipinto dei soggetti giudicati eretici. Era stato sottoposto al “rigoroso esame”, come chiamavano la tortura gli sgherri di Carafa, e poi arso vivo a Roma, insieme a tutti i suoi quadri.
Ma, certo, per lui sarebbe stato peggio sopravvivere al processo. Già dopo i primi minuti di corda, aveva riportato traumi alle braccia, che gli avrebbero impedito di dipingere ancora.
Raphael fece scivolare il ricordo alle carceri in cui Leonardo era stato rinchiuso per mesi, a Venezia, a causa di una disputa legale tra lo Stato Pontificio e la Serenissima Repubblica. Lo avevano arrestato lì, alcuni giorni dopo la sua fuga da Roma.
Ripensò ai tetri vestiboli dei Pozzi, alle celle allagate, all’umidità, al fetore. Ogni volta che immaginava suo fratello in quella prigione immonda si raggelava e desiderava vendetta.
Le carceri sotterranee di Venezia erano notoriamente mortifere, l’acqua marina entrava dalle inferriate, trasudava dal pavimento e vi restava a imputridire e a puzzare insieme agli escrementi umani. I topi sguazzavano in due piedi di liquami e con le loro piccole lingue melmose arrivavano ovunque, perfino a leccare le lacrime dei rinchiusi e a strappar loro il cibo dalle mani. I detenuti vegetavano rannicchiati nella lordura, su un asse appeso al muro, perché altrimenti sarebbero stati a mollo nell’acqua di mare. Ogni mattina, all’alba, il guardiano e gli arcieri gli portavano dell’acqua dolce, qualche cucchiaio di zuppa e una porzione di galletta; posavano il triste pasto per terra su un pagliericcio, e questo era tutto. Per legge, non gli era consentito radersi, ma raramente le barbe dei prigionieri diventavano lunghe: pochi sopravvivevano a quelle condizioni disumane per più di qualche settimana; gli altri salivano sul patibolo.
O sul rogo.
Quello di Leonardo era stato approntato a Roma, a Campo de’ Fiori.
Quanto tempo ancora, prima che il cardinale Carafa esali l’ultimo respiro?
Poteva accadere presto, oppure mai, proprio come la sua elezione a pontefice, benché i bene informati la dessero per improbabile: gran parte dei cardinali non vedeva di buon occhio i suoi metodi, e sul suo nome era calato il veto dell’imperatore.
Ma Raphael aveva un brutto presentimento.
Era uno strano destino ritrovarsi a Roma, proprio nel momento in cui Carafa stava raggiungendo l’apice del potere. E invece, eccolo nell’antica dimora della sua famiglia, dove i ricordi più belli erano irrimediabilmente confusi con quelli più orribili.
Suo padre, sua madre, i suoi fratelli… Tutti, uno dopo l’altro, erano stati ammorbati dal tocco mortifero del Santo Uffizio.
Il primo, uno stimato scultore, non aveva sopportato l’infamia di avere un figlio eretico e si era legato una corda al collo. Al mattino era stato trovato da sua moglie, appeso al ramo di un arancio.
La povera donna, che pochi mesi dopo aveva dovuto sopportare la visione di un figlio in fiamme sul rogo, aveva smesso di mangiare e, nel giro di poco tempo, aveva esalato l’ultimo, faticoso respiro. Altri due fratelli, che erano stati rinchiusi nelle carceri di Tor di Nona, a Roma, affinché si schiarissero le idee sulle loro confuse deposizioni al processo a carico di Leonardo, ne erano usciti gravemente malati e in miseria.
Non avevano più fatto giungere loro notizie.
Raphael in quei mesi si trovava lontano, ad Amsterdam. Doveva ancora compiere il ventitreesimo anno di età, ma si faceva già valere come esperto mercante d’arte. Fino ad allora, a Roma, aveva sempre lavorato sodo come aiutante di Leonardo e di suo padre, ma ogni momento libero lo aveva dedicato con tutto il cuore alla Chiesa e alla preghiera. Nessuno avrebbe potuto accusarlo di qualcosa, tantomeno di eresia. Per giunta non circolava sangue dei Dardo nelle sue vene. Per l’inquisitore, Raphael era solo un bastardo che, fin da ragazzino, aveva portato da mangiare a un vecchio prete malato, e non aveva mai creato problemi ad anima viva.
Poi era arrivato il giorno dell’esecuzione pubblica di Leonardo. Lui non aveva assistito. Era rimasto in Olanda per scongiurare ogni possibile coinvolgimento. Ma lo aveva sognato quasi ogni notte: lo vedeva bruciare, lentamente, gli occhi che cuocevano nelle orbite come uova sode, e udiva le sue urla soffocate dalla mordacchia, che doveva impedirgli di rivolgere parole blasfeme alla folla di presenti.
Da quel giorno, niente fu più come prima.