Capitolo 28

Un uomo entrò nell’osteria, trafelato, e si fermò sulla porta a cer-
care qualcuno fra i clienti. Individuò un gruppetto di giovani, che come lui avevano l’aria di essere degli artisti, e li raggiunse dicen-
do: «Udite, udite!».

Si voltarono anche gli altri avventori.

«Vengo da San Pietro», disse l’uomo, gli occhi spiritati per qualcosa di incredibile che dovevano avere appena visto. Lo si capiva perché non smetteva di indicarseli. «È stato appeso un quadro meraviglioso ai ponteggi del cantiere». Prese fiato più a lungo del necessario, per fare lievitare la curiosità degli astanti.

«Di che quadro stai parlando?», chiese qualcuno tra la clientela. «Non date da bere a costui, perché è già ubriaco!».

Seguì un coro di risate.

L’uomo ignorò lo sbeffeggiatore e si rivolse di nuovo agli amici. «Ne sono stato testimone. Vi era dipinta una giovane donna morta, al collo ancora la corda con cui è stata strangolata, e in mano una caraffa di porcellana con sopra uno zucchetto porpora, e la scritta Venenum. Ed era un’immagine così verosimile… Un quadro mirabile, come non ne avevo mai visti prima».

«E perché qualcuno dovrebbe abbandonare un dipinto tanto meraviglioso sui ponteggi di un cantiere?», chiese una voce scettica.

«Non lo so, ma l’ho visto con i miei occhi».

«Andiamo a vedere se dice la verità», propose uno tracannando il vino che gli restava nel boccale e alzandosi in piedi. «Se non è vero lo appendiamo noi ai ponteggi della fabbrica di San Pietro».

Approvazione generale.

«No, no», lo fermò il testimone oculare. «Sono arrivati subito i birri del Santo Uffizio e lo hanno fatto sparire!».

«Sì, sì, lo hanno fatto sparire. Udite, udite, abbiamo qui un rac-
contatore di frottole!».

Ma qualcuno interessato al racconto dell’uomo c’era e lo invitò a esporre tutto per filo e per segno.

Lo avrebbe fatto anche Raphael, se non ci fosse stato l’oste davanti a lui, pronto a salutarlo con rispetto.

«Di nuovo qui, Raphael? Temevo che saresti ripartito subito».

«Non ho ancora trovato quel che sto cercando».

«Si vede che sei uno cocciuto».

«Messer Bernardozzo», spiegò Raphael ad Ariel, che gli sedeva di fronte, «era amico di mio fratello, e ha scritto un libro sulle vite dei pittori. Mi ha raccontato cose molto interessanti».

«Oh, per così poco».

«Lieto di fare la vostra conoscenza, messere», fece Ariel allungando una mano.

«No, ti prego, gli amici mi chiamano Cocco e mi danno del tu. Bevete del vino?»

«Stavolta vorremmo mangiare».

«Orbene, vi faccio preparare qualcosa di speciale».

«Due piatti di maccheroni con il parmigiano, e due boccali di vino rosso sono speciali, per te?», gli chiese Raphael.

«Direi di sì».

«Allora, vada per i maccheroni».

«Vi faccio portare subito il vino dal garzone».

Cocco, a quanto pareva, non aveva nessuna voglia di commentare le affermazioni dell’uomo che aveva visto lo strano quadro, non in quel momento, con l’osteria gremita di gente. Quando si allontanò, Raphael e Ariel si concentrarono sul nuovo arrivato, cercando di carpire qualche parola di quel che stava dicendo. Ma gli amici lo stavano seppellendo sotto una gragnola di manate e lo prendevano in giro per le frottole che si inventava. L’argomento, a quel tavolo, morì così.

«Potrebbe essere stato l’Anonimo?», chiese Ariel.

«Direi di sì», rispose Raphael.

«Allora dovremmo smettere subito di cercarlo».

Quindi, tornarono entrambi a scrutare con sospetto la porta d’en-
trata.

Ariel era irrequieto. «Non mi piace questo posto», disse a bassa voce. I gomiti sul tavolo e le spalle curve, non riusciva a tenere fermo il piede e a smettere di guardare gli altri clienti intorno a lui con un’espressione combattiva. «Perché non ce ne andiamo?»

«Voglio capire cosa si agita dietro l’Anonimo, e questo mi pare il posto giusto per trovare informazioni. A te non sembra?»

«Non devi dimenticarti, Raphael, che siamo venuti a Roma per conto del duca Cosimo e che abbiamo già assolto al nostro compito. Eravamo d’accordo che ci saremmo trattenuti ancora a Roma per qualche giorno, per cercare l’Anonimo, non che ci saremmo infilati in una grande palude di guai».

«Lavinia è stata uccisa. Elena è stata minacciata. Entrambe hanno posato di recente per l’Anonimo».

«Però questo per noi è del tutto irrilevante adesso».

«Io non credo che un pittore braccato dall’Inquisizione possa avere interesse a uccidere e minacciare le proprie modelle».

«Be’, ti sbagli, Raphael. Se l’Anonimo è ricercato dal Sacro Tribunale, ha un’ottima ragione per togliere di mezzo chiunque possa rivelare la sua identità e il luogo in cui si nasconde».

«Te lo concedo».

Ariel scosse la testa. «Forse sono troppo precipitoso. Dopotutto anche la mia ipotesi è fragile. L’Anonimo, chiunque egli sia, dovrebbe essere fuggito da Roma ormai da un bel pezzo. E se non lo ha fatto, si nasconde. Non ce lo vedo uno così andare in giro ad ammazzare belle donne».

«Già».

«A proposito: cos’altro hai scoperto parlando con le modelle?».

Raphael gli raccontò della badessa che procurava ragazze ai pittori; degli affreschi realizzati per il suo monastero da un altro artista che si faceva chiamare anche lui l’Anonimo, il quale aveva lavorato nella bottega di un parente stretto della suora stessa; lo mise al corrente della chiacchierata che aveva fatto con Bernardozzo, secondo il quale i due Anonimi non potevano essere la stessa persona.

E alla fine Ariel alzò le spalle e disse solo che bisognava essere prudenti: se si riusciva a trovare i quadri senza rischiare di lasciarci la pelle, bene, altrimenti meglio desistere.

Ma Raphael sapeva come destare interesse in un alchimista. «Elena mi ha raccontato una cosa alquanto strana», disse.

«E sarebbe?»

«L’Anonimo le ha somministrato una bevanda amara…».

«Una bevanda?»

«Per farla dormire».

«Amara, hai detto?»

«Ti ripeto quel che mi è stato riferito dalla donna».

«Potrebbe trattarsi di una mistura a base di Papaver somniferum… Ma perché addormentare una modella?»

«Non lo so».

Arrivò la cena.

«Buon appetito, signori».

Piatti colmi di pasta e formaggio sotto candidi arabeschi di va-
pore.

«Perché sei voluto venire a cenare qui?»

«Nessuno di noi due sa cucinare, Ariel».

«È troppo rischioso».

«Che cosa, mangiare?»

«Potrebbe esserci del veleno qui dentro».

Raphael addentò il primo boccone e annuì. «Potrebbe», disse.

Mangiarono.

Ma Ariel non era tranquillo. A un certo punto cominciò a fissare Raphael con uno sguardo vacuo, come se stesse vedendo attraverso il
suo corpo, e di tanto in tanto allungava il collo per sbirciare oltre
la sua spalla.

«Cosa c’è?»

«Ci stanno osservando».

«Ne sei sicuro?»

«Non ti voltare. Ci sono due individui, nell’angolo dietro di te, vicino alla botte».

Raphael piegò lievemente la testa e sbirciò con la coda dell’occhio. «Già», disse, «pare anche a me».

«Sembrano due gentiluomini. Ben vestiti, rasati di fresco… Sono spagnoli».

«Lo deduci da come sono vestiti o dai baffi?»

«Dalle loro labbra. Stanno parlando spagnolo».

«Dimenticavo di avere di fronte a me il più sbalorditivo prestigiatore del mondo! E riesci a capire anche quel che si stanno dicendo?»

«Qualche parola, quando posso vedergli la bocca e loro non stanno guardando da questa parte. È difficile cogliere il senso della conversazione. Sembrano indecisi sul da farsi». Ariel iniziò a ripetere le frasi, scollegate o interrotte, così come le coglieva leggendo il labiale: «“Ci parli tu o ci parlo io? Ha il permesso del bargello di portare l’arma… Attenzione… L’altro… Ebreo… Non ci avevano… Tranquillo. Ci penso io…”».

«Parlano di noi?».

«Si stanno alzando».

«E immagino che stiano venendo da questa parte».

«Non posso negare».

«E cosa suggerisci di fare?»

«Alzarci a nostra volta e uscire».

«In altri termini: scappare».

«Meglio affrontarli fuori, nel caso avessero cattive intenzioni».

Raphael però continuò a mangiare. Non aveva ancora deglutito il boccone quando due ombre si proiettarono sul suo piatto.

«Signori, permettete?»

«Prego», disse Raphael. «Accomodatevi».

I due, capelli corti e pizzo appuntito, si erano portati le sedie e le sistemarono ai due lati liberi della tavola. Si sedettero sorridendo, come per comunicare che venivano in pace.

«Mi chiamo Juan», disse uno toccandosi il petto, «e lui es Ferdinando». Toccò anche il petto dell’altro. «Perdonate l’intrusione y anche il mio italiano confuso, ma desideriamo parlare con voi. Siete il signor Raphael Dardo? Es corretto?».

Raphael assentì. «Se lo cercavate, lo avete trovato, don Juan».

«Perdonate davvero, però si tratta di una faccenda piuttosto delicata y urgente».

«Il mio amico e io vi ascoltiamo con piacere».

Ariel lanciò un’occhiata che lo smentiva, ma poi annuì e sorrise ai due ospiti.

«Ecco, abbiamo appreso che anche voi state cercando i quadri dell’Anonimo».

«Vi interessate d’arte?», chiese Raphael.

«Sì, señor. Siamo in peregrinaje qui a Roma. Siamo peregrinos. Come si dice…?»

«Pellegrini», lo aiutò Ariel.

«Ecco, sì. E ci piacerebbe mucho comprare dei quadri da portare in España». Rise. «Oh, lo siento. Parlo molto male».

«Non è come lo dite, don Juan. È ciò che dite che mi suona strano».

«Cosa intendete, señor Raphael?»

«Sapete che l’Anonimo è ricercato dal Santo Uffizio?»

«Davvero?»

«Due buoni pellegrini non dovrebbero interessarsi a certe cose».

«Ecco, señor. Stavamo scherzando. Possiamo spiegare todo, però
non qui».

«Noi non siamo interessati, grazie», disse Ariel.

«Dove e a che ora?», chiese Raphael.

«Va bene adesso? Il nostro ambasciatore desidera parlarvi».

Il collezionista di quadri perduti
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