Archie
1946-1947
Finora aveva sempre creduto che quando uno non riesce a decidere cosa fare è perché in fondo non sa cosa vuole. Che sciocchezza, pensava ora percorrendo il ben noto vialetto, il tratto di strada che attraversava i boschi e poi la stradina che conduceva alla stazione. Quattro chilometri. Faceva ancora in tempo a tornare indietro, ma era ben deciso a non farlo. Avrebbe proseguito invece sulla mesta, monotona, fin troppo familiare strada che portava ai sobborghi di Londra e poi al suo appartamento vuoto e in disordine. Sei settimane non erano poi tante, disse tra sé come se si stesse rivolgendo a un’altra persona. Gli sembrava un periodo interminabile. Ma l’incidente di quella mattina era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Vederla nuda in cucina con la mano ustionata – e aver tanto immaginato quel corpo non toglieva nulla all’impatto di vederlo davvero – gli aveva fatto capire con chiarezza finora ineguagliata che non poteva proseguire oltre con quella vita fatta di verità sottaciute.
Anche se si sforzava, non riusciva a collocare con precisione il momento in cui aveva cominciato ad amarla. Certo, quando era tornato dalla Francia e l’aveva trovata in quello stato, disperata e sofferente, aveva lasciato tutto per occuparsi di lei ed era riuscito a mettere da parte, o almeno a nascondere, il suo odio furente verso l’uomo spregevole che l’aveva ridotta così. Questo era amore? Forse si era comportato così solo perché la conosceva bene: la sua disposizione ad amare in maniera totale e incondizionata, i lutti e le perdite che aveva già conosciuto. Era proprio la persona meno attrezzata a sopportare un brutale abbandono e una gravidanza. La prima cosa che aveva saputo di lei, prima ancora di conoscerla di persona, era che aveva perso sua madre. Quando Rupert era venuto in Francia da lui, subito dopo la morte di Isobel, c’era stato un momento in cui era riuscito a suggerire al vedovo che forse la bambina – Clarissa, vero? – doveva sentirsi smarrita e abbandonata, bisognosa del suo amore. Rupert aveva detto: «C’è anche il maschietto. Sono due». E Archie aveva replicato: «Lui è un neonato. La bambina invece è abbastanza grande per capire e sentire la mancanza della madre. Dovresti tornare per occuparti di lei».
Cosa che Rupert doveva aver fatto con un certo successo, perché la prima volta che Archie l’aveva incontrata di persona, Clary aveva sedici anni e soffriva acutamente la mancanza del padre, che tutti ormai, compreso Archie, credevano morto in guerra. Ma lei no. La fedeltà del suo amore lo aveva colpito in maniera profonda, mettendo in secondo piano il suo aspetto ancora infantile e trasandato. Lei non se ne curava; non aveva vanità. Ripensò alla prima immagine che aveva di lei, vestita per cena la sera del giorno in cui era arrivato a Home Place: una camicetta orba di diversi bottoni, le mani che sarebbero state aggraziate non fosse stato per le unghie rosicchiate e le macchie d’inchiostro, la frangia tagliata male sopra due occhi splendidamente espressivi. L’aveva osservata con occhio professionale, con un interesse amichevole. Era la figlia di Rupert, il suo migliore amico. E mentre si lasciava prendere nell’abbraccio di quella grande famiglia – di questo doveva ringraziare la Duchessa – e approfondiva la conoscenza di quella torma di bambini, perché tali erano allora, constatava come Clary fosse sempre un po’ più isolata degli altri. Non aveva la bellezza dei Cazalet, gli occhi azzurri dallo sguardo diretto, i capelli biondi o comunque chiari, la carnagione bianca, la statura, le gambe e le braccia lunghe; lei invece era piccola e robusta, con la faccia tonda, gli occhi di sua madre e sottili capelli scuri, sempre spettinati e bisognosi di uno shampoo. Allora non l’amava. Quando era arrivato quel francesino con il suo racconto e quel biglietto per lei e Archie aveva visto la sua reazione – gli occhi illuminati come stelle, la sua completa esultanza solo per poco adombrata dalla notizia che il biglietto risaliva a otto mesi prima, la fede incrollabile con cui aveva alzato lo sguardo per dire: «È solo questione di tempo... Solo questo. Aspettare che torni» –, si era commosso, perché ormai conosceva l’intensità dei suoi sentimenti, della sua nostalgia. Quando aveva la gamba rotta, lei andava in camera sua, perché era l’unico con cui potesse parlare liberamente di suo padre: era rimasto sorpreso dalle avventure dettagliatissime e fantasiose che attribuiva a Rupert disperso. Poi c’era stato quel diario che aveva scritto per lui. Una volta gli aveva lasciato leggere alcune pagine, e per Archie era stata l’occasione per imparare altre cose su di lei. Possedeva una grazia interiore, anche se era goffa nella vita di tutti i giorni, faceva cadere le cose, si rovinava i vestiti; si appassionava a piccole cose. La sera dopo la partenza di Pipette aveva scoperto di provare rispetto per Clary, per la sua salda conoscenza dell’amore, ed era stato allora, gli pareva di ricordare, che per la prima volta aveva temuto che questo suo amore potesse andare alle persone sbagliate.
Da allora, pensò con amarezza, aveva cercato di farle un po’ da padre. Non sapeva ancora che questa scelta gli si sarebbe ritorta contro. Quando le ragazze si erano trasferite a Londra, le aveva portate spesso fuori, a volte insieme e a volte separatamente... perché? Allora si era detto che forse per Clary era frustrante stare insieme a Polly, che era sempre bellissima, perfetta ed elegante. Ripensò a quel periodo un po’ patetico in cui Polly si era fatta la permanente e Clary aveva voluto farsela anche lei, con risultati drammatici almeno quanto i suoi tentativi di truccarsi, a seguito dei quali la si vedeva spesso con occhi simili a quelli di un panda, con tutto quel mascara che le si scioglieva sulla faccia perché piangeva o semplicemente si stropicciava o rideva. Il rossetto poi se lo mangiava in un batter d’occhio. E il cibo che le cadeva sui vestiti... a diciassette anni era ancora del tutto indifferente al proprio aspetto. Ma anche questo non era vero. Ripensò alla sera in cui l’aveva portata al Lyons Corner House e lei gli aveva chiesto se la bellezza è davvero così importante. La permanente per fortuna non l’aveva più e i suoi capelli erano di nuovo corti e lisci. Poi Archie doveva aver detto qualcosa che l’aveva infastidita e aveva peggiorato ulteriormente la situazione osservando che a lui Clary piaceva così com’era; lei allora gli aveva dato una rispostaccia – faceva così quando le veniva da piangere – e gli aveva raccontato di una volta in cui Rupert le aveva detto che era bellissima e per un po’ lei ci aveva creduto. Avrebbe dovuto puntare sul carattere, aveva aggiunto poi. Gli aveva riferito anche un dialogo fra lei e Neville grazie al quale aveva scoperto che invece le sarebbe piaciuto eccome essere bella. Era stato allora che aveva cominciato a volerle bene, vedendola così vulnerabile. E i suoi tratti, di cui lei parlava con disprezzo, lo conquistarono completamente, insieme alla sua implacabile onestà. Gli era venuta voglia di abbracciarla e dirle tutta una serie di frasi fatte, contenenti almeno quel minimo di verità sufficiente a nascondere le bugie, ma lei per fortuna glielo aveva impedito dicendogli che stava diventando melenso. Non si era mica innamorato di lei, per caso?
Poi gli venne in mente la volta in cui Lydia aveva detto quanto le sarebbe piaciuto andare in Francia con lui, e questo gli aveva fatto venire in mente che forse Clary – che ormai doveva avere diciannove anni – poteva venire laggiù con lui per superare la morte di Rupert, una volta che questa fosse stata confermata. E più o meno nello stesso periodo si era ritrovato invece a dirle di non abbandonare le speranze. Era accaduto in una caldissima serata di maggio, in cui lei si era presentata a casa sua accaldatissima, con un abito di lino, ed era arrossita di piacere quando Archie le aveva detto che era molto, molto contento di vederla. Era stata la prima volta che lei gli aveva dato l’impressione di vederlo come un uomo, una persona a tre dimensioni. «È incredibile quanto poco io ti conosca», aveva detto. Gli era parso quasi un complimento.
Avevano parlato della sua decisione di non aggiornare più il diario e lui l’aveva rimproverata. Lei allora era andata in bagno – probabilmente per piangere. Al suo ritorno, Archie aveva cercato di rassicurarla su Rupert e l’aveva involontariamente indotta a credere che lui pure lo credesse vivo, un equivoco che doveva prevedere e che riuscì in qualche modo a chiarire.
E poi la sera della vittoria. Era arrivata al ristorante con un aspetto insolitamente curato: stava crescendo, aveva un taglio di capelli migliore, una gonna nera e una camicia da uomo che le stavano bene e i capelli bagnati, segno evidente che almeno se li era lavati. Era stata una serata bella e fuori dal comune: erano rimasti in mezzo alla folla ai piedi del palazzo più a lungo di quanto lui avesse voluto, perché lei sembrava così contenta, e Archie prevedeva già che la gamba gli avrebbe dato da penare durante la lunga camminata verso casa. Si erano fermati a riposare un po’ su una panchina in Hyde Park e in quell’occasione si era reso conto di quanto lei lo considerasse vecchio. Gli aveva detto che era al corrente dei sentimenti di Polly nei suoi confronti e aveva affermato di trovare ridicolo il fatto che la cugina si fosse innamorata di uno della sua età. «Mi consideri proprio vecchissimo!», aveva osservato Archie, e lei si era ripresa dicendo che non era vecchissimo, no, e che dal giorno in cui si erano conosciuti invece non era invecchiato affatto. Aveva capito di averlo ferito, e si era scusata. Non voleva dire che era vecchio in assoluto, ma che era troppo vecchio per Polly (che poi aveva la sua stessa età).
Aveva passato la notte da lui perché quella sera le sarebbe stato impossibile tornare a casa. Archie le aveva portato a letto la cioccolata calda, che aveva bevuto seduta sul letto con il pigiama di lui addosso. Gli aveva anche raccontato che suo padre soleva togliere e mangiare al posto suo la pellicina di panna sopra il latte caldo, un gesto che per lei rappresentava l’amore; Archie allora, per non essere da meno, lo aveva replicato. Se davvero Rupert era morto, lei avrebbe avuto bisogno di lui.
Subito dopo, senza saperlo, lo aveva colpito al cuore. Gli aveva detto che Zoë voleva darle le camicie di Rupert e che lei aveva preso solo le più rovinate perché prenderle tutte avrebbe significato rassegnarsi. Allora gli aveva proposto un patto, che se Rupert non fosse tornato entro un anno da allora, lei si sarebbe data pace. Gli aveva anche detto come era andato cambiando in quegli anni il suo amore: prima sentiva dolorosamente la sua mancanza, adesso invece lo voleva vivo per il suo bene. Archie non aveva saputo replicare a quella frase. Ma qualcosa disse, e quando alla fine le augurò di dormire bene, lei era tornata a essere una bambina che gli porgeva la guancia per il bacio della buonanotte. «Dopotutto, Archie caro, ci sei sempre tu qui con me», aveva detto. Quella notte, sveglio nel letto, aveva pensato che quelle parole lo avevano commosso così tanto perché in un certo senso desiderava che fossero riferite a lui. Un qualche genere d’amore era nato quella notte, pensò. Aveva fatto un patto con se stesso che se Rupert era morto, lui avrebbe fatto tutto il possibile per prendere il suo posto. Nel caso, pur remoto, in cui invece fosse tornato, le cose avrebbero potuto avere sviluppi molto diversi. Sì, era stato quello l’inizio, o almeno il momento in cui si era reso conto di non voler essere un padre per lei.
E Rupert era tornato. Archie aveva nutrito la speranza che questo cambiasse radicalmente il suo rapporto con lei. Non accadde, e lui diede la colpa a Rupert: era troppo assorbito da problemi suoi, problemi che secondo lui erano del tutto inventati. Ma del resto, tutti quanti si arrovellavano intorno a problemi inventati di sana pianta; perché Rupert avrebbe dovuto fare eccezione?
Era andato in Francia, e ne era stato deluso; non sapeva nemmeno lui cosa gli mancasse, sapeva solo che la prospettiva di vivere lì da solo non lo allettava. Quando poi Polly gli aveva mandato quel telegramma e c’era stata quella difficile conversazione al telefono in cui era riuscito a capire soltanto che Clary era nei guai, allora aveva avuto la certezza di essere innamorato di lei.
E che colpo era stato vederla ridotta in quel modo, appena arrivato all’appartamento in Blandford Street! Sembrava devastata, reduce da un colpo mortale. Del resto erano mesi che aveva quell’aria tirata: come c’era da attendersi, aveva vissuto il suo amore con sfiancante intensità, e l’antipatia istintiva di Archie verso l’uomo che aveva scelto e verso l’intera squallida situazione ebbe un’impennata. Adesso però doveva essere successo dell’altro. Per un attimo aveva pensato che la storia fosse semplicemente finita e che le servisse un po’ di conforto nel periodo uggioso che di solito si attraversa in queste circostanze. Mai avrebbe pensato che fosse incinta, e ancora meno che quei due di comune accordo l’avessero abbandonata al suo destino. Quando aveva scoperto che Numero Uno non voleva avere più niente a che fare con lei aveva provato una grande rabbia mista a sollievo, ma soprattutto si era sentito responsabile della questione della gravidanza. Aveva deciso che non avrebbe tentato d’influenzarla. L’aveva tranquillizzata, convinta a riposare un po’. Dopo aver dato di stomaco tante volte, bisognava che mangiasse qualcosa e Archie percepì che uscire di casa in sua compagnia le avrebbe fatto bene. Naturalmente non voleva che Clary mettesse al mondo il figlio di quel disgraziato, e scoprì quel giorno stesso che Polly la pensava come lui. Ma erano entrambi decisi a non interferire e a lasciarla scegliere da sola.
E aveva scelto di abortire. Lui l’aveva accompagnata, aspettata, riportata a casa. In seguito Clary era caduta in un altro baratro d’infelicità. Archie l’aveva portata sulle isole Scilly, in una splendida isoletta, l’aveva fatta camminare a lungo, le aveva insegnato complicati giochi di carte e le aveva letto dei romanzi a voce alta, chiedendole di fare altrettanto, ma soprattutto l’aveva spinta a parlare di Numero Uno e di sua moglie. Ma se da una parte questo parve aiutarla, dall’altra peggiorava le cose. Scoprì in fretta che mettere in ridicolo Noël indeboliva il suo amore per lui ma acuiva anche la sua umiliazione. Così cambiò strategia e cercò di risvegliare in lei l’interesse alla scrittura, che Noël aveva mortificato. Lei allora gli si rivoltò contro, si rifiutò di mangiare come si deve e prese a chiudersi in silenzi risentiti per ore. Poi alla fine, un giorno in cui lui le rispose per le rime, gli disse: «Che devo fare? Io non voglio essere così, ma che devo fare?».
Finita la vacanza, Archie aveva preso in affitto quel piccolo alloggio in campagna da un conoscente che trovava utile che ci stesse dentro qualcuno. «Non ci sono comodità e d’inverno è umidissimo». L’affitto era di venticinque sterline l’anno. L’aveva sistemata nella casa nuova e poi era tornato a quel lavoro che detestava e da cui si era assentato fin troppo. Prevedeva di andare da lei il fine settimana, ma lei aveva sparigliato le carte piombandogli in casa il lunedì sera dopo appena un giorno di solitudine. E a completare il quadro, quella sera stessa si era presentato di punto in bianco Rupert e c’era stata quella scenata tremenda in cui l’aveva creduto responsabile della sua gravidanza. Quello che lo aveva ferito, eccome se lo aveva ferito, era stato il fatto che a Clary la supposizione di Rupert fosse sembrata una completa assurdità. E poi Rupe aveva rigirato il coltello nella piaga dicendogli, sull’uscio di casa, che Clary non aveva bisogno di un altro padre perché aveva già lui! Avrebbe voluto gridargli in faccia che se fosse stato per lui... ma il buon senso aveva prevalso. Il buon senso, pensò amaramente, non sembro capace di nient’altro.
Quella sera aveva dato inizio alla sua personale battaglia per renderla indipendente. Avevano litigato, le aveva detto che se la trattava come una bambina era solo perché lei si comportava da tale; le aveva detto di smetterla di autocommiserarsi e anche molte altre cose. Il guaio era che se pure lui riusciva a recitare con impegno questa parte, lei se ne usciva con qualcosa che lo colpiva al cuore, e allora doveva fare un grosso sforzo di autocontrollo per mantenere la fermezza e il distacco. Perché per il resto stava funzionando. L’aveva rispedita in campagna da sola, e quando era andato a trovarla il venerdì successivo trovò che aveva cucinato un buon pranzo e che era tutta assorbita dal suo nuovo libro, anche se non voleva parlarne.
Archie aveva informato Rupert delle novità e Rupe, che in quel periodo aveva dei problemi con sua suocera, aveva detto: «Ti ringrazio tanto, amico mio. Fammi sapere ce c’è qualcosa che posso fare».
Durante l’autunno la raggiunse tutti i fine settimana. Adesso ripensava a quanto era stato difficile per lui rimandarla in campagna da sola la prima volta. Era stato sul punto di saltare in macchina per andare a sincerarsi del suo stato, ma in questo modo avrebbe vanificato tutti gli sforzi fatti. Clary doveva imparare a cavarsela da sola.
L’aveva esortata ad andare a trovare Polly a Londra, ma quella non era stata una buona idea. Quando la mattina dopo si era reso conto che non era in Blandford Street, dato che non rispondeva al telefono, si era preoccupato e aveva chiamato Polly al lavoro. Polly gli aveva detto che era tornata in campagna, e sulle prime era stato sollevato, ma poi aveva cominciato a stare in pena e alle sei era salito in macchina per raggiungerla e l’aveva trovata febbricitante. L’aveva svegliata da un incubo ed era stato sul punto di prenderla tra le braccia e dichiararle il suo amore, ma lei svegliandosi lo aveva scambiato per suo padre e questo aveva spento i suoi ardori.
Non era il momento: era malata e spaventata, e quando Archie la prese fra le braccia, si mise a piangere e a raccontargli i frammenti sconnessi del sogno. Lui restò per assisterla e all’ufficio raccontò una sfilza di bugie. Ormai aveva già dato le dimissioni e non gliene importava più niente.
Lei intanto cominciava a maturare. Si era resa conto di non avere un soldo e, anche se gli piaceva considerarsi responsabile per lei in quel senso, Archie riconosceva che era un passo nella giusta direzione. Se le servivano soldi, adesso che stava scrivendo il libro, era a suo padre che doveva rivolgersi. Così l’aveva mandata da Rupert e lei era tornata con duecento sterline, ma arrabbiata con lui per qualche motivo. Aveva scoperto poi che il motivo era la possibilità che lui ripartisse per la Francia. Archie le aveva detto che si era licenziato e aveva anche menzionato la possibilità di un suo ritorno in Francia, ma malgrado ciò adesso lei lo rimproverava di aver fatto programmi senza dirle niente.
Il primo pensiero di Archie era stato: ecco, ci risiamo. Si aspetta che io sia sempre qui a sostenerla. Il guaio era che, pur non avendo preso decisioni al riguardo, doveva tenere la Francia tra le possibili opzioni; gli serviva insomma una specie di piano di riserva, nel caso in cui le cose si fossero messe male. Perché le cose sembravano volersi mettere male davvero: Clary lo aveva chiamato “secondo padre” proprio mentre stava per andare a trovare il primo. Tuttavia era chiaro che l’idea che lui se ne andasse la riempiva di timore, o addirittura di panico. Quando gli aveva detto che non poteva restare in quella casa senza di lui, Archie era stato sul punto di esplodere e dirle tutto, ma si era trattenuto. L’aveva trattata invece con una certa durezza, dicendole persino che presto si sarebbe innamorata di un bravo giovanotto, com’era normale per una persona della sua età. Lei allora gli aveva messo il broncio, un atteggiamento che Archie riusciva a gestire meglio della paura.
Quel pomeriggio però gli parve sbagliato lasciarle credere di aver fatto grandi progetti alle sue spalle – e le chiese scusa.
Ormai era arrivato al suo appartamento, scaricò la valigia ed entrò. Gli parve infinitamente deprimente. Chissà cosa stava facendo Clary, pensò. Aveva fatto bene a non richiedere la linea telefonica, perché adesso la tentazione di mettersi in contatto con lei sarebbe stata troppo forte.
E comunque, parlando di sapersi reggere sulle proprie gambe, che doveva dire di se stesso? Doveva ancora decidere cosa fare, come guadagnarsi da vivere al di là della sua piccola eredità, dei suoi risparmi e dell’occasionale tela che riusciva a piazzare. Rupert ne sapeva qualcosa di come si sopravvive dipingendo, e decise di cominciare da lì.
La sua amicizia con Rupert era cambiata notevolmente negli ultimi mesi. Soprattutto perché durante quel fine settimana a Home Place, quello in cui Diana era stata introdotta in famiglia, Archie aveva preso il coraggio a due mani. «Ti sarei così grata se potessi venire anche tu!», aveva detto la Duchessa. «Ci conosci bene ormai, e poi sei talmente diplomatico!». Aveva accettato l’invito, e una volta che Zoë aveva mal di testa e gli altri non avevano voglia di camminare, era uscito a fare una passeggiata con Rupert, loro due soli.
«Non che camminare sia il mio forte», gli aveva detto. «Ma c’è una cosa di cui devo parlarti a quattr’occhi».
«Bene».
«Ecco», disse alcuni minuti dopo, «forse è meglio se ci sediamo un attimo».
E si sedettero sul vecchio albero caduto nel boschetto dietro casa, quello dove andavano sempre a giocare i bambini.
«Sembri preoccupato. Che è successo? Lo sai che di me puoi fidarti».
«Tu cosa immagini?».
Rupert allora lo aveva guardato, gli aveva sorriso e aveva detto: «Io credo che tu ti sia innamorato, e non sei certo che sia la cosa giusta. Ma scommetto che lo è».
«Al posto tuo non ci giurerei».
«Allora ho ragione?».
«Sì. Si tratta di Clary», disse tutto d’un fiato. «Aspetta un attimo. Non le ho detto niente. Non ne ha idea».
«Clary? Misericordia! Non sei serio, vero?».
«Certo che sono serio. Sennò perché verrei a dirti una cosa del genere?».
Ci fu un silenzio. Poi Rupert, nell’evidente sforzo di usare un po’ di tatto, disse: «Non ti sembra di essere un po’ troppo vecchio?».
«Sapevo che l’avresti detto. Zoë ha un bel po’ di anni meno di te, no?».
«Dodici anni. Ma tu... ne hai quasi venti più di Clary, o sbaglio? Fa differenza, non credi?».
«Fa differenza, sì. Ma non necessariamente in peggio».
Un altro silenzio. Poi Rupert domandò: «Da quanto va avanti?».
«Non c’è proprio niente che vada avanti. Vuoi dire da quanto tempo sono innamorato di lei? E chi lo sa... Da quando aveva diciotto anni, credo. Solo che allora non me ne sono accorto».
«E quali sono i suoi sentimenti?».
«È questo il problema. Ho fatto le tue veci per tutto il tempo che sei stato via. E lei mi vede ancora come una figura paterna». Lo guardò e vide che gli occhi gli si inumidivano. «Non si scelgono queste cose», disse Archie. «Lo sai. Succede e basta».
«Sì. Archie. Non so davvero cosa dire. Deve essere tremendo per te. Tutto questo tempo, dopo Rachel... che succeda di nuovo...».
«Non sta succedendo nulla», ripeté stancamente. «Non credo che abbia intuito alcunché».
«Be’, ecco... io credo che la cosa migliore per te sia parlarle. Almeno così saprai cosa vuole».
«Non posso, per ora. So che non è il momento giusto. E poi, lo ammetto, non ce la faccio. Se le parlassi e lei non ne volesse sapere, sarebbe la fine di qualunque nostro rapporto, e non potrei sopportarlo».
«Perché lo hai detto a me?».
«Speravo che tu non fossi troppo contrario. Insomma, volevo comunicarti le mie intenzioni, che sono del tutto onorevoli». Abbozzò un sorriso, che gli si spense subito. Fino a quel momento non si era reso conto del peso dei suoi sentimenti e di quanto si fosse isolato nel coltivarli. Tentò di dirlo a Rupert che era un ottimo ascoltatore. Lo lasciò parlare di queste cose e di tante altre, senza interromperlo e senza contraddirlo. «La posta in gioco è alta», disse Archie. «Io l’amo davvero, amo tutto di lei, ma lei deve crescere, prendersi la responsabilità della propria vita e delle proprie scelte, non può continuare a dipendere da me».
Alla fine Rupert disse: «Da quello che dici capisco che le vuoi bene davvero. Abbiamo la stessa età, noi due. Io credo che al posto tuo farei le stesse cose».
Archie avrebbe voluto dargli un bacio dalla gratitudine; si abbracciarono. Rupe aveva giurato che non lo avrebbe detto a nessuno. «Nemmeno a Zoë?». Nemmeno a Zoë.
In quel momento decise di chiamarlo per proporgli un incontro.
E s’incontrarono, ma Rupert non seppe essergli molto d’aiuto sulla questione di come guadagnarsi da vivere dipingendo. «Nella mia esperienza arte e guadagno si escludono a vicenda. Io, dato che ho famiglia, ho optato per il guadagno. Tu potresti informarti per un posto da insegnante in una scuola d’arte, per esempio».
«È una buona idea».
Gli spiegò poi che aveva lasciato deliberatamente Clary da sola per sei settimane e che si sarebbero rivisti solo alle nozze di Polly. «Quel giorno dovrò correre il rischio, immagino. Staremo a vedere».
Rupe, che per carattere rifuggiva dalle decisioni definitive, gli disse che lasciarle un po’ di tempo e aspettare era la cosa migliore. Ormai gli sembrava di averlo dalla sua parte, un po’ anche perché considerava la sua una causa persa in partenza.
Dopo quel fine settimana a Home Place era tornato da Clary un poco alleggerito dal fatto di aver parlato con Rupert e non aver ricevuto da lui un rifiuto o una reprimenda. Non che questo avrebbe minimamente cambiato i suoi sentimenti nei confronti di Clary, ma era un bene che Rupert ne fosse al corrente.
E al ritorno l’aveva trovata tutta assorbita dal suo libro e gli aveva chiesto addirittura di leggerne una parte. Lui aveva acconsentito e la lettura del primo capitolo era stata un’inaspettata delusione: non sembrava scritto da lei, così artefatto e involuto com’era. Poi gli aveva detto quante volte lo aveva riscritto e lui aveva voluto leggere la prima stesura, e lì finalmente aveva trovato Clary, la sua chiarezza, la sua semplicità, il suo talento. E che gioia era stato poterle dire con sincerità che il suo scritto gli era piaciuto! Ma, anche lì, aveva dovuto ammonirla perché non desse troppa importanza al suo giudizio, o a quello di chiunque altro, sul proprio lavoro.
Subito dopo Archie aveva cominciato a portare alcuni dei suoi lavori a Londra, nella speranza di suscitare l’interesse di qualche gallerista. Ma niente da fare, o quasi. La sua vecchia galleria si era detta disposta a esporre un paio di paesaggi in una mostra collettiva.
La prima settimana senza di lei la passò alla vana ricerca di un impiego: niente dalle scuole d’arte, niente dalle altre gallerie che visitò. Uno dei maggiori difetti del suo appartamento era che non poteva dipingere. Il fine settimana fu uno strazio. Era in pena per lei, sentiva la sua mancanza e aveva voglia di raggiungerla in campagna. Era solo e non voleva la compagnia di nessuno. Andò a vedere Annie Get Your Gun da solo e si chiese che cosa ne avrebbe pensato Clary; andò nei pub dove, a parlare con la gente, s’imbarcava puntualmente in discussioni sterili su come il governo avrebbe affrontato il problema della penuria di moneta americana o sulle voci secondo le quali i razionamenti stavano per subire un inasprimento e per giunta c’era chi voleva imporre una tassa di dieci sterline l’anno sul possesso di automobili... e chi era il responsabile delle bombe carta che erano state recapitate al segretario agli Affari Esteri? «Devono essere i rossi oppure gli ebrei!», continuava a dire un tizio mezzo ubriaco e dall’aria fosca. Archie capì che se non voleva prenderlo a pugni non gli restava che andarsene. E poi c’era la questione dell’India. La gente nei pub considerava l’idea dell’indipendenza dell’India come (a) un crimine e (b) un affare di nessuna importanza perché, insomma, erano pur sempre dei maledetti forestieri.
Smise di andare al pub da solo. Leggeva, mangiava fuori, andava a letto stanco per il troppo camminare: perché quando era a Londra la gamba gli faceva più male? La domenica sera si ritrovò a riflettere sul fatto che potevano non essere solo sei settimane, ma era possibile che lo attendesse un’intera vita così. E pensò: eccomi qui, a preoccuparmi tanto che lei sia indipendente da me, quando forse avrebbe più senso il contrario.
Così, quando il lunedì successivo Rupert gli telefonò annunciando che era morta la vecchia Dolly e che sarebbe stato bello da parte sua andare a dare un po’ di conforto alla Duchessa, accettò di buon grado.
Però aveva fatto bene ad allontanarsi da lei, si disse il mattino dopo mentre guidava verso Home Place. Non sarebbe riuscito a recitare a lungo la parte dello zio benevolo, a dare un’impressione di calma imparzialità quando ciò che provava era tutt’altro. Cominciò a ripensare a quell’incidente in cucina. La sua bellezza, la paura che si fosse ustionata gravemente e la totale indifferenza di lei alla sua persona gli avevano fatto toccare il fondo. Se fosse rimasto, avrebbe finito per dirle tutto, e le probabilità di successo in quella fase erano nulle. E così se ne era dovuto andare.
Ritrovarsi nella vecchia dimora di campagna gli fu di conforto. La Duchessa fu sinceramente lieta di vederlo. «Credo sia morta all’improvviso», disse. «Un attacco di cuore o un’ischemia. Non credo abbia sofferto».
«Però ti mancherà», le disse lui.
«Oh, be’, non più di tanto in realtà. Era diventata così dipendente... è difficile mantenere un rapporto quando si fonda principalmente su questo, ti pare?».
«Molto difficile».
Dopo che i vari membri della famiglia venuti per il funerale ebbero ripreso le loro strade, mentre Archie si preparava a fare altrettanto, la Duchessa gli disse: «Rupert mi ha detto che hai lasciato il lavoro e che vuoi ricominciare a dipingere. Dove ti stabilirai?».
Le disse che ancora non lo sapeva. A Londra no di certo, aggiunse.
«Tornerai in Francia? Hai una casa laggiù, se non sbaglio».
«Una specie. Due piani sopra un caffè. Non lo so. Resterò comunque qui fino al matrimonio di Polly».
Ci fu un silenzio. La Duchessa era intenta a spalmare una minuscola quantità di burro su una fetta di pane tostato. «Se vuoi venire a stare qui per un po’, posso farti preparare una stanza. Mi piacerebbe molto avere la tua compagnia la sera a cena».
E accettò l’invito. Andò e tornò subito da Londra per prendere la sua attrezzatura artistica. Ci sarebbero stati solo loro due per tutta la settimana; la Duchessa si dedicava al giardino e lui dipingeva all’aperto tutte le volte che il tempo lo permetteva; c’erano frequenti temporali, ma quando finivano emergeva la bellezza caratteristica della campagna dilavata da piogge violente, come rivitalizzata e lucente sotto il sole. La mattina c’era molta rugiada e i prati parevano intrisi di minuscoli diamanti che si scioglievano a scoprire le margherite che si aprivano vigili alla luce. La sera, nelle giornate calde, una nebbiolina perlacea velava il terreno. Tutto il giorno aveva la sensazione che le cose intorno a lui si trasformassero, fossero in continuo movimento. Prese a lavorare a due o tre tele alla volta, una per ogni fase della giornata o evenienza atmosferica. Per la prima volta, come artista, pensava intensamente a ciò che non vedeva con gli occhi. Questo gli ricordò le molte volte che aveva tentato di ritrarre Clary, senza mai arrivare a un risultato che lo soddisfacesse. Aveva a che fare con il fatto che quando si vede per la prima volta qualcosa bisognerebbe cercare una visione d’insieme, piuttosto che registrarne singoli elementi. La Duchessa gli domandò come procedeva il lavoro e lui le riferì quelle sue riflessioni a proposito del paesaggio. E trovò in lei un’inattesa comprensione.
«Tutto sta anche nell’avere fiducia in quella prima visione, no?», osservò. «Ci si impelaga nelle singole parti e ci si scorda di tutto il resto».
Archie era talmente sorpreso che non seppe trattenersi dal domandarle: «Come sai queste cose? Per caso dipingevi, in passato?».
«Oh, un po’ come tutti, da bambina. Sì, avrei voluto farlo più seriamente. Mi sarebbe piaciuto iscrivermi a una scuola d’arte, ma mia madre non volle saperne. Poi, una volta sposata, risultò più semplice dedicarmi al pianoforte. Era considerata un’attività più utile».
La sera lei suonava e lui la ritraeva a matita, e una volta che pioveva a dirotto Archie le domandò se poteva farle un ritratto su tela mentre era al piano. Fu tirato fuori il telo che veniva usato di solito per proteggere il tappeto dai raggi del sole, e poté piazzare lì sopra il cavalletto.
Ma quel commento della Duchessa sulla prima vista gli rimase in testa, tanto che un giorno ritrasse Clary a memoria, in pochi minuti. Il giorno dopo, quando la Duchessa venne a portargli il suo mazzo di fiori – ci teneva che ci fossero fiori freschi in ogni stanza in uso –, vide il disegno (aveva usato del carboncino su carta scura) ed esclamò subito: «È Clary! Non c’è alcun dubbio, è proprio lei. Quando lo hai fatto?».
«Oh, non molto tempo fa», disse lui con tutta la noncuranza che riuscì a mettere insieme.
Non si dissero altro. Ma qualche giorno dopo, mentre bevevano il tè, la Duchessa disse: «Mi pare che questo piccolo ritiro ti stia facendo bene, anche se vedo che lavori. Ne deduco che avevi bisogno di una pausa. È così?»
«Credo di sì».
«Mio caro, non voglio impicciarmi, ma mi pare che per tanti anni questa famiglia abbia potuto contare su di te, quando qualcuno aveva bisogno di sostegno o di affetto. Sarebbe molto triste per me se, nel momento in cui sei tu ad averne bisogno, non trovassi queste cose presso uno di noi».
«Perché dici questo?».
«Oh, ho l’impressione che tu non sia felice, e non posso che chiedermi perché».
Dopo un breve silenzio, durante il quale Archie soppesò freneticamente la possibilità di raccontarle tutto, lei disse: «Sei stato così buono, soprattutto con Rupert e la sua famiglia: Zoë, Neville per quel problema della scuola, e anche con Clary. Non lo dimenticherò mai».
E così si confidò – in parte. Le disse che era innamorato di una ragazza molto più giovane e che non sapeva come avvicinarsi a lei. Usò la massima cautela nel non fare nomi e nel mantenere la faccenda sul generico.
Lei mise giù la tazza e lo guardò con aria pensosa.
«Io ero troppo giovane quando mi sono sposata», disse. «Non sapevo nulla. Ero una bambina cresciuta, davvero. E William mi sembrava così vecchio! Aveva solo sette anni più di me, ma a me sembrava di un’altra generazione». Fece un vago sorriso e proseguì: «Non mi ha causato nessun problema. Quando è stato il momento, sono cresciuta. Guarda, sono perfino invecchiata!». Lo fissava ancora con quella franchezza disarmante; gli occhi ebbero uno scintillio che ad Archie ricordò Neville, anche se non gli pareva di aver mai colto una somiglianza fra loro prima, quando la Duchessa aggiunse: «Tu non ti stimi abbastanza. Ai miei tempi, si sarebbe parlato di te come di un “buon partito”».
Quella sera andò a dormire contento come non gli succedeva da settimane.
* * *
Arrivò in chiesa in lieve ritardo, e quando entrò le panche erano già gremite. La cercò con gli occhi lì dov’erano seduti Rupert e Zoë, ma non la vide.
«C’è un po’ di posto accanto a Neville», gli disse Teddy che vestiva i panni di usciere. Quando ebbe trovato il posto e ricevuto il saluto di Neville – «Non ci sarebbero matrimoni, se le ragazze avessero la possibilità di mettersi in ghingheri tutti i giorni» –, la vide seduta accanto a Louise e a un’altra ragazza magra e scura di capelli, dall’altra parte della chiesa.
«Siamo seduti qui perché Lord Fake ha meno amici di Polly», disse Neville abbassando la voce perché l’organista aveva attaccato il brano che annunciava l’ingresso della sposa. Non Wagner, pensò sollevato. Poi si alzarono tutti in piedi e Clary scomparve dalla sua vista.
Più tardi, mentre camminava lungo la navata verso l’uscita, Polly incrociò il suo sguardo e gli mandò un rapido sorriso, e Archie pensò che qualunque persona, felice come lo era lei in quel momento, sarebbe stata di una bellezza abbagliante.
«Muoviamoci», disse Neville. «Di questi tempi non si può mai dire quanto cibo si troverà a una festa».
Fuori dalla chiesa, mentre si scattavano le fotografie, aspettò di vederla uscire.
«Sei venuto con la tua macchina?», gli domandò Neville.
«Sì».
«Allora vengo con te».
«Be’, dovrai aspettare. Forse darò un passaggio a un’altra persona».
Finalmente lei uscì, insieme a Louise e all’altra ragazza. Portava un abito verde con la scollatura rotonda e le maniche strette che le arrivavano ai gomiti, la gonna un po’ gonfia lunga fin sotto alle ginocchia e un paio di scarpe nuovissime, eleganti ed evidentemente molto scomode. A rovinare il tutto il ridicolo cappello che s’era messa, una specie di paglietta con un nastro verde che le scendeva sulla schiena. Non aveva nulla che non andasse, solo che i cappelli proprio non le stavano bene. Lei parve rendersene conto, perché a un certo punto, uscendo, dopo essersi guardata intorno, se lo tolse e lo appese a un’asta della staccionata. Archie vide Louise ridere e recuperarlo. Poi tutte e tre contemporaneamente parvero accorgersi di lui. Aveva saputo dalla Duchessa che Louise aveva lasciato il marito. «Temo si stia avviando verso un deserto», aveva detto. «E come tutti sanno, il deserto è popolato di selvaggi».
Così salutò Louise per prima e lei gli presentò la ragazza magra, che si chiamava Stella Rose. «Andremo a stare nel vecchio appartamento di Polly», disse. Clary intanto se ne stava un po’ indietro, e quando incrociò il suo sguardo, Archie capì che lo stava osservando.
«Ciao», le disse facendosi coraggio e dandole un bacio poco impegnativo su una guancia. «Sei splendida, devo dire».
«L’ha scelto Zoë per me. Però mi ha fatto mettere anche il cappello». Era arrossita leggermente, e adesso che era lì vicino evitava di guardarlo. Orgoglio, pensò Archie. Non ammetterà mai che le sono mancato.
«Mi sei mancato», disse lei in tono noncurante. «Ma devo dire che la tua assenza mi ha permesso di lavorare meglio. Sai, niente cucina...».
«Forza!», stava dicendo Neville. «Adesso è proprio ora di andare!».
Li fece stringere tutti e quattro nella sua macchina. Neville davanti, perché secondo Louise seduto dietro avrebbe rovinato i loro vestiti.
Mentre guidava verso il Claridge, si disse che avrebbero avuto tutto il tempo di parlare una volta finito il ricevimento. E cominciò a immaginare che sarebbero tornati insieme alla casetta sul canale, quella sera stessa. Perciò non fece particolari sforzi per parlarle durante il ricevimento, e nemmeno lei.
Dopo aver salutato gli sposi e aver fatto la conoscenza di Gerald, si dedicò a studiare la folla degli invitati.
Miss Milliment era infagottata in un pullover di un’indefinibile tinta bluastra che non dava il meglio di sé sullo sfondo salmone chiaro della poltrona damascata su cui si era parcheggiata. «Che bella festa!», gli disse quando la salutò. «Archie, vero? I miei occhi non sono più quelli di una volta». Poco dopo disse anche: «Archie, scusami, credo che mi sia caduto un pezzetto di panino, o forse solo il ripieno... forse riesci a vederlo lì accanto alla sedia? Ti ringrazio tanto, davvero. Ero certa che fosse lì...».
Lydia, vestita da damigella, e Villy.
«Mamma, se è possibile vorrei non dover avere più niente a che fare con Judy per il resto della mia vita. Ciao, Archie! Ti piace il mio vestito? Stavo parlando a mia madre di quella piattola di mia cugina. È furiosa perché non fa la damigella... se vuoi saperlo secondo me non si sposerà mai, perché chi può essere così stupido da volerla sposare?».
«Può bastare», le disse Villy. «Va’ a prendere un vassoio da portare in giro tra gli invitati».
«Come stai, Villy cara?».
«Meglio, credo. Ho sempre da fare. Zoë e io proviamo a mettere su una piccola scuola di ballo, dato che abbiamo entrambe una certa esperienza. Io non sono proprio convinta, ma per Zoë è molto positivo avere qualcosa a cui dedicarsi».
Rachel e Sid.
«La Duchessa era così contenta di averti tutto per sé», disse Rachel. «Ci siamo offerte di venire, vero Sid? Ma non ne ha voluto sapere».
«No. Non voleva dividerti con nessuno. Ma questa sera la riportiamo a casa noi e restiamo il fine settimana, così la consoliamo un po’ per la tua partenza».
«Sid mi sta insegnando a guidare», disse Rachel. «Finora, temo, abbiamo solo scoperto che non so distinguere la destra dalla sinistra».
«È piuttosto insicura», disse Sid. «E ha il senso dell’orientamento di un moscone».
«Cara! Sei proprio cattiva!».
Ma tra loro non c’era proprio niente di cattivo, si ritrovò a pensare Archie.
Poi fu la volta di Zoë, bellissima in un completo rosa chiaro stretto in vita, gonna lunga e un cappello di paglia che illuminava la sua carnagione di un rosa ancora più incantevole. «Archie!». Lo salutò con un bacio. «Che bella festa, eh?».
«Ho sentito dire che tu e Villy metterete su una scuola di ballo».
«Sì, una piccola cosa. Non so se funzionerà, ma la sola idea ha tirato su Villy. E questo è l’aspetto più importante».
«Archie, permettimi di presentarti Jemima Leaf». Era Hugh, con accanto una signora minuta, bionda e molto curata.
Quando Archie le domandò se fosse un’amica dello sposo, Hugh rispose anticipandola: «È una mia amica». E Archie ebbe l’impressione, dal suo tono, che lo considerasse di per sé un fatto straordinario. Hugh fu chiamato altrove e lui e Jemima restarono a scambiare due chiacchiere. Aveva due bambini, gli disse, e lavorava per la Cazalet, per Hugh in particolare. Archie ci ripensò in seguito. Alla fine Polly andò a cambiarsi e rimasero solo poche persone a complimentarsi per i discorsi e per come tutto era andato per il meglio. Archie aveva visto Clary con la coda dell’occhio e l’aveva osservata per un po’: parlava con Christopher, gli pareva proprio lui, il cugino che aveva avuto una specie di esaurimento ed era tanto affezionato al suo cane. Si avvicinò.
«Christopher, vero? Non ti si vede da un pezzo».
«Già, si può dire di tutti», osservò Clary.
«Come sta il tuo cane?», domandò dopo un breve silenzio durante il quale ebbe l’impressione di aver interrotto qualcosa.
«È morto».
«Oh, mi dispiace».
Ma Christopher, con un sorriso d’inaspettata dolcezza, disse: «Ha avuto una bella vita e sono certo che ora sta bene».
«Christopher crede nel paradiso dei cani», disse Clary. «Ma non credo che i cani si divertano molto senza i loro padroni».
«Allora chissà, può darsi che un giorno lo raggiunga anch’io... Ora devo andare», disse poco dopo. «Devo prendere il treno».
«Bene», disse Archie a Clary quando restarono soli. «Vogliamo mangiare qualcosa prima di avviaci?».
«Prima dobbiamo salutare Polly», si affrettò a dire, e poi imboccò la porta della grande sala. «Andiamo fuori», gli disse a voce alta. Lui le andò dietro.
Ma quando fu tutto finito e gli invitati smisero di salutare con la mano, si voltarono l’uno verso l’altra e le disse: «Possiamo parlare un po’ in macchina?».
«Perché no».
La fece sedere davanti e prese posto accanto a lei.
«Il fatto è questo», esordì lei senza guardarlo in faccia. «Ho quasi finito il mio libro e credo sia meglio se resto sola finché non ho finito. Se non ti dispiace».
Fu colto di sorpresa. «Non mi pare che la mia presenza ti impedisse di scrivere. Come mai ora è così?».
«Ecco... il finale è piuttosto difficile, e dovrò concentrarmi per bene. Ci vorranno solo un paio di settimane».
«Va bene. Se è quello che vuoi».
«Sì. Se va bene anche per te».
«Non continuare a dire così, se sai già che farai come hai deciso».
«Va bene. Non lo dico». E poi aggiunse: «Mi chiameresti un taxi? Così me ne vado. Non volevo venire, ma Polly ci sarebbe rimasta male».
«Ti accompagno in macchina».
«Posso prendere un taxi».
«Lo so che puoi. Ma io sono qui, ti accompagno».
Il tragitto fino alla stazione fu imbarazzante. A un certo punto Archie disse: «Che succede?».
«Niente. Voglio solo tornare al mio lavoro».
«Va tutto bene in casa?».
«È sempre tutto uguale, se è questo che intendi».
Fu quasi un sollievo arrivare a Paddington. Lei scese dalla macchina, lo salutò con la mano e disse: «Grazie per il passaggio». Poi si voltò per andarsene e Archie le gridò dietro: «Clary! Come saprò che hai finito?».
«Ti manderò una cartolina!», gli rispose e poi se ne andò senza voltarsi.
Se il suo obiettivo in quelle due settimane, pensò sconfortato, era stato renderla indipendente, be’, poteva ben dire di esserci riuscito. Quella ragazza era estrema in tutto, pensò. Le vie di mezzo proprio non facevano per lei. Almeno, se si fosse deciso a farsi avanti, non si sarebbe trovato di fronte una bambina smarrita e tremante: nelle ultime sei settimane era diventata più sicura di sé e aveva sviluppato una passione per il suo lavoro che, per quanto ammirevole, adesso lo scoraggiava.
In quel periodo pensò a lei in tutti i modi possibili. Pensò alla sua indole appassionata, alla sua determinazione, al modo in cui i capelli le si diramavano dalla scriminatura centrale un po’ storta, alla sua curiosità senza fine che si applicava a qualunque cosa e non trovava pace finché non era soddisfatta, alla breve visione che aveva avuto dei suoi piccoli seni bianchi e tondi, ai suoi bellissimi occhi che erano lo specchio di ciò che provava; solo che al matrimonio non aveva avuto modo di guardarli bene, perciò non sapeva cosa provasse adesso. Gli sembrava di aver perso una parte di lei. La sua fiducia forse? Con la dipendenza se ne era andata anche quella? Oppure era cambiata in qualche altra maniera misteriosa. Considerò perfino la possibilità che si fosse innamorata. Dio santo, e di chi stavolta? Laggiù non conoscevano nessuno; magari un escursionista di passaggio, nel fine settimana ce n’erano. Ma se davvero aveva lavorato tanto come diceva, non poteva aver avuto il tempo di frequentare nessuno. E poi glielo avrebbe detto. Non diceva bugie e non gli aveva mai tenuto nascosto nulla di cui le importasse veramente. Era una follia solo pensarlo.
Quando ricevette la cartolina – quattordici giorni pieni dopo il loro ultimo incontro, la mattina del venerdì in cui il giornale lo informò che finalmente «tramontava il sole sull’Impero britannico» – pensò che forse stava diventando matto.
Per ragioni che non erano chiare nemmeno a lui, volle arrivare alla casa sul canale solo nel pomeriggio. Era l’ennesima giornata calda e assolata, e quando scese dalla macchina assaporò con piacere l’aria limpida e tiepida, il sentore di caramello della paglia che si asciugava al sole e quello pungente delle erbe piantate da Clary lungo il sentiero ricoperto di muschio che portava alla porta della cucina. La chiamò ma non ebbe risposta. Scaricò dalla macchina le provviste che aveva portato e il materiale per dipingere e portò il tutto in cucina con un paio di viaggi: la porta non era chiusa a chiave, perciò lei doveva essere lì nei paraggi.
Anche la porta del soggiorno che affacciava sul giardino era aperta, e allora la vide, sdraiata sul prato con uno dei vecchi cuscini del divano sotto la testa. Avvicinandosi si accorse che dormiva, ma il suo arrivo la svegliò, e si mise a sedere con un sussulto. Portava la sua vecchia gonna di cotone nera e una specie di camiciola sbracciata che non le aveva mai visto addosso.
«Eccomi qua finalmente», disse Archie chinandosi sull’erba per salutarla con un bacio. Lei non lo ricambiò con un abbraccio, come faceva sempre, e in lui si accese un campanello d’allarme.
«Non sei contenta di vedermi?».
«Sì, in un certo senso».
«Sono felice che il tuo libro sia finito».
«Anch’io. In un certo senso».
«Che c’è che non va?».
«Be’, sai, è una specie di addio. Ai personaggi. Mi ci ero affezionata ormai. E io odio dire addio alle persone». Aveva le mani allacciate sulle ginocchia, e Archie cominciava a percepire una certa tensione.
«Ce ne saranno degli altri».
«Sapevo che avresti detto così», disse.
«Be’, devo dirti una cosa che di certo non immagini...», si decise a dirle. Non gli sembrava un buon momento, ma qualcosa lo aveva spinto a farlo.
Ma prima che potesse proseguire, fu lei a dire: «Anch’io devo dirti una cosa».
Archie aspettò, ma lei restò in silenzio, e nel silenzio lui sentì il battito del proprio cuore accelerare.
«Volevo chiederti se ti va di venire con me in Francia per una vacanza», disse arrendendosi alla disperazione: una vile mezza misura, ma ormai era davvero spaventato.
«No. Non posso, purtroppo».
Deve proprio essersi innamorata, pensò allora lui osservandole le mani (pulite), le unghie (non smangiucchiate), i capelli (appena lavati e lucenti). Dio, aveva proprio l’aria raggiante di una ragazza che ha finalmente incontrato l’uomo giusto!
«Clary, devi dirmelo, anche se è difficile, tu devi dirmelo...».
«Va bene!», strillò Clary in un tono stridulo di cui si stupì lei per prima. Finora aveva fissato l’erba, adesso alzò gli occhi e lo guardò dritto in faccia.
«Ti ricordi cosa è successo a Polly, tanto tempo fa?».
Lui non capiva dove volesse andare a parare.
La vide impallidire e deglutire a vuoto.
«Non posso venire in Francia con te e non posso continuare a stare qui con te come abbiamo fatto finora. È una cosa che ho scoperto mentre eri via. Prima non me ne rendevo conto, ma adesso sì».
«Ti prego, cerca di dirmi di cosa stai parlando».
«Se ti azzardi a ridere, giuro che ti ammazzo», disse tornando per un momento la vecchia Clary. «Ho scoperto che provo le stesse cose che provava Polly... per te. All’inizio non volevo crederci, perché non volevo che fosse vero. Ma lo è nel modo più assoluto». Tirò su col naso e le spuntò una grossa lacrima. «Non li sopportavo, quei fine settimana con te che mi facevi da zio, da maestro o che so io. È...». Adesso aveva gli occhi pieni di lacrime. «È una cosa tremenda, lo so. Almeno per me. Quando ti ho visto al matrimonio è stato come se avessi preso la scossa. Capisci?».
Per un secondo pensò di scoppiare in una grande risata, isterica e liberatoria. Invece le prese le mani e quando ebbe recuperato il controllo disse: «È una coincidenza davvero straordinaria, perché io volevo dirti la stessa cosa».
Immaginava che quella fosse la fine, che ora si sarebbero finalmente abbracciati; non aveva fatto i conti con la sua diffidenza, con la sua convinzione che nessuno mai avrebbe potuto amarla, con la sua tendenza a sospettare che lui volesse solo essere buono con lei, “indorarle la pillola”, come diceva sempre. Si alzò e l’aiutò a fare lo stesso.
«Ti amo», disse. «Ti amo da tanto tempo».
Baciarla gli diede una specie di vertigine, un senso di leggerezza. Fu lei a dire: «Che ne dici, andiamo di sopra?».
Si avviarono piano, inciampando perché non volevano smettere di guardarsi, e si fermarono in fondo alle scale perché erano troppo strette per salirle così affiancati. Le prese la mano e la baciò di nuovo. «Ti ricordi la sera in cui Pipette portò quel biglietto? E tu dicesti che era la seconda prova d’amore che ricevevi?»
Lei annuì, e lui vide che nei suoi occhi era scomparsa l’ombra del sospetto.
«Be’, questa è la terza».
«Tu però sei qui», disse lei. «Perciò non c’è bisogno di un biglietto».