Gli altri
Estate 1947
Era davvero esausta e ne aveva ben donde. Si era alzata nel cuore della notte perché, oltre a essere andata in bagno piuttosto spesso, aveva anche dovuto rifare daccapo le valigie. Si era messa a prepararle la prima volta subito dopo che Kitty aveva annunciato la partenza, ma una volta che ci ebbe infilato le cose che teneva sulla mensola del camino e dopo averci svuotato dentro entrambi i cassetti, la valigia s’era riempita completamente. «Ma come faccio a sapere di cosa avrò bisogno?», aveva chiesto in tono accorato poco dopo, mentre Rachel vuotava la valigia e la riempiva d’altra roba.
«Starai via solo per un paio di settimane, forse tre, zia cara. Non ti servono tutte le tue foto, e anche i cagnolini di porcellana credo sia meglio lasciarli qui. Vuoi portarti solo quello grazioso che era di Flo?».
E aveva acconsentito. Flo se ne era andata, adesso lo sapeva, e di lei non le restava che una foto in cui indossava quell’abito estivo che a lei, a Dolly, non era mai piaciuto molto, insieme alla collana d’ambra che – ricordava bene di averglielo fatto notare ai tempi – era un monile prettamente invernale.
Aveva dovuto lasciare che fosse Rachel a prepararle la valigia, e anche lei aveva ammesso infine che ce ne volevano due. Poi però, dopo aver cenato e aver ricevuto la buonanotte, aveva ricominciato a pensarci. Altro che due settimane, sarebbe stata via molto più a lungo. Perciò doveva portarsi appresso più roba possibile.
Era davvero molto tardi quand’ebbe rifatto le valigie che non fu in grado di chiudere. Ci avrebbero pensato i domestici, anche se le pareva che da un po’ di tempo la evitassero accuratamente. Quando finalmente tornò a letto, la borsa dell’acqua calda s’era freddata e dovette farne a meno. Una volta aveva tentato di riempirla dal rubinetto del bagno, ma doveva aver sbagliato qualcosa nel riavvitare il tappo perché poi l’acqua era uscita in gran quantità durante la notte.
Rachel le aveva detto che a volte capita, quando si ha una certa età, di dimenticarsi le cose, e quell’osservazione l’aveva esasperata e ferita in egual misura. Non era vero. Forse non si ricordava precisamente ogni singola cosa che accadeva, ma i ricordi che aveva erano nitidi e dettagliati. Quella sera era troppo sfinita per pensarci, e per un po’ le parve che la stanchezza le impedisse perfino di dormire, ma alla fine gli occhi doveva averli chiusi perché quando li aprì c’era Rachel che le portava il vassoio della colazione e le diceva che era una bellissima giornata.
Quando tornò in camera sua dopo essersi lavata, trovò le valigie chiuse e si tranquillizzò. Era tuttavia nervosa perché ancora non era riuscita a capire se andavano a Stanmore o a Home Place, o magari in un altro posto ancora. La sua pena era tale che decise di scoprirlo.
«Chissà come sarà ridotto il giardino di Stanmore dopo un’assenza così lunga!», disse a Kitty mentre aspettavano in salotto che l’autista finisse di caricare in macchina i loro bagagli.
«Oh, cara, non saprei proprio. Immagino che i nuovi inquilini se ne siano occupati. Ma non vogliamo tornare laggiù a controllare, no?».
«Oh, no. No di certo. Di sicuro non sarà come Home Place. Il giardino, intendo».
«Oh, non vedo l’ora di rivedere le mie rose! Saranno già sbocciate o sul punto di farlo. Sarà bello, eh?».
Home Place, dunque. C’era già stata con Flo e avevano condiviso la stanza; Flo si era presa il letto vicino alla finestra perché aveva quella fissazione dell’aria fresca.
Solo quando salirono in macchina si rese conto che Rachel non sarebbe andata con loro. «Andrà in vacanza con Sid», le spiegò Kitty. Le sembrava strano che Rachel avesse tanto bisogno di una vacanza. Lei di vacanze non ne aveva mai fatte, a meno di considerare vacanza la breve gita al mare, a Rottingdean, dopo che lei e Flo avevano avuto il morbillo. «Si trattava piuttosto di una convalescenza», disse ad alta voce, e Kitty replicò: «Be’, la povera Sid è stata tanto male».
A questo non replicò. Non era colpa sua se Kitty confondeva le persone, anche se in fin dei conti aveva due anni meno di lei e un piccolo sforzo di memoria poteva anche farlo.
Il viaggio in macchina però fu bello. Tonbridge guidava piano, e una volta raggiunta la campagna si vedevano i campi punteggiati di ranuncoli, cerfoglio e casette di campagna piene di fiori. Kitty guardava fuori dal finestrino e le indicava di continuo cose che lei non riusciva a vedere perché, ovviamente, il tempo di indicarle e già erano passati oltre, già si vedevano altre cose. Tuttavia fingeva di averle viste, per non rovinare l’entusiasmo di Kitty. Le era morto da poco il marito, anche se lei non si mostrava poi così tanto addolorata; una ragione in più, si era detta Dolly, per rallegrarsi di essere rimasta nubile. Pensò al fatto che ultimamente si trovava a dover fingere sempre più spesso: fingere di sentire quel che la gente le diceva, fingere (qualche volta) di capire di cosa accidenti parlassero, fingere di sentirsi bene quando non era così, fingere di non aver bisogno degli occhiali (non li trovava mai ed era stufa di chiedere in giro dove fossero), fingere di aver dormito bene e di riconoscere tutti quelli che andavano a trovare Kitty o che vivevano da lei.
Sapeva che appartenevano tutti a quella enorme famiglia che aveva sua sorella, ma questo non la aiutava a districare la confusa trama delle parentele. E soprattutto doveva fingere quasi sempre di non essere stanca. Quella era una bugia bella e buona: si sentiva stanca per gran parte del giorno, certe volte anche appena alzata. E poi, certo, bisognava fingere di riuscire a digerire. Quando era giovane, Flo le diceva sempre che aveva lo stomaco come quello di un cavallo. Non suonava certo come un complimento, ma era comunque meglio di non riuscire a mandare giù nulla, come le capitava adesso. «Basta coi pensieri», disse a voce alta, al che Kitty la guardò e replicò: «Sì, basta. Godiamoci l’aria di campagna».
Fu contenta di arrivare; presero il tè sul prato, anche se a lei sembrava piuttosto freddino e Kitty chiese ad Eileen di prenderle il suo cardigan pesante, su cui sfortunatamente fece cadere della marmellata di fragole, ma era sicura di averne uno di riserva da qualche parte nelle valigie.
Dopo il tè volle disfare da sola i suoi bagagli, ma Eileen si offrì di aiutarla. Fu stancante, ma così almeno avrebbe saputo dov’erano le sue cose. Non c’era nessun altro oltre a loro in casa, a parte i domestici, così chiese di cenare con Kitty, che altrimenti avrebbe mangiato da sola. Subito dopo però disse che andava in camera sua a riposare. Kitty l’accompagnò, il che volle dire dover salire le scale più in fretta di quanto avrebbe voluto, e dopo aver ricevuto il bacio della buonanotte si lasciò cadere sul letto, stremata. La cena era stata ottima: Mrs Cripps aveva fatto servire del pollo arrosto – il piatto della festa, quando lei era bambina – con patate novelle e spinaci dell’orto. Lei poi aveva un debole per la torta di rabarbaro, ma doveva mettersi in testa che ormai non la digeriva più. Ce l’aveva ancora sullo stomaco. Si sedette sul letto per qualche minuto. La finestra era aperta e il cielo era di un dolce color lavanda: c’era ancora un po’ di luce. Era davvero stanca, esausta, avrebbe detto suo padre, ma in bagno doveva andarci per forza, quindi si alzò. Mentre disfaceva le valigie aveva avuto la sensazione che mancasse qualcosa in quella stanza, anche se proprio non riusciva a individuare cosa fosse. Ora invece, di ritorno dal bagno, lo vide con chiarezza. Non c’era il letto di Flo. Era lì vicino alla finestra, dove ora c’era uno spazio vuoto. La cosa la addolorò: era come se qualcuno, togliendolo di mezzo, avesse inteso negare l’esistenza di Flo. Non la sua esistenza ora: lei sapeva che Flo se ne era andata, aveva raggiunto il creatore, mamma, papà e il loro adorato fratello morto in guerra, ma il fatto che fosse esistita almeno in passato. Quella stanza l’aveva sempre condivisa con sua sorella, e il fatto che non ci fosse più nemmeno il suo letto la faceva sentire più sola. Poi ebbe un’idea brillante. Spostare il suo letto nel posto dove prima c’era quello di Flo. Certo, in questo modo si sarebbe creato un vuoto nel posto dove ora c’era il suo, ma questo non aveva importanza perché Dolly non aveva dubbi sulla propria esistenza. Osservò il letto e si chiese se aveva la forza necessaria per spostarlo. «Non lo saprò mai se non ci provo», disse a voce alta, e si mise all’opera. Il letto era montato su ruote orientabili, perciò si muoveva abbastanza bene, salvo impigliarsi talvolta nelle pieghe del tappeto. Lei però lavorò con tenacia, spostando di pochi centimetri un’estremità alla volta, e alla fine il suo letto era esattamente nel punto dove anni prima c’era stato quello di Flo.
Si lasciò cadere. Lo stomaco le mandò una fitta tremenda all’altezza del torace, e dovette chiudere gli occhi per sopportarla. Quando li riaprì la stanza sembrava piena di moscerini minuscoli – dovevano essere entrati dalla finestra aperta. Si voltò a guardare. La luce era diventata di un violetto più scuro e non si vedevano insetti, ma il petto le doleva ancora, e sistemò i cuscini così da sedersi con la schiena dritta. Quando lo fece, fu come se qualcuno la colpisse violentemente al petto con un oggetto molto pesante, da toglierle il fiato... Sentì una voce lontana, concitata, che le diceva di stare calma (era Flo?) e si voltò di nuovo verso la finestra: adesso il cielo era scuro, incolore, e poi fu invaso da una luce bianca e accecante e lei vi sprofondò con un grido di paura, perché ormai aveva capito...
* * *
«Sei sveglia?».
Da sotto non venne risposta. Non c’era da stupirsi. Era stata una giornata ricca di emozioni per entrambe, ma la parte più faticosa era toccata a Rachel. Dopo aver finito di preparare Dolly e Kitty per la partenza verso Home Place e averle salutate, non le restava che fare i suoi, di bagagli. Poi aveva dovuto chiudere casa e raggiungere lei in Abbey Road per aiutarla a fare più o meno le stesse cose. Sid doveva ancora fare il riposino pomeridiano e aveva pregato Rachel di fare altrettanto, ma lei naturalmente aveva dedicato quel tempo a mettere tutto in ordine, buttare via il cibo che sarebbe andato a male durante la loro assenza, lavare le tovagliette da tè e andare dal giornalaio per pagare il conto. Le portò il tè alle cinque, proprio mentre si svegliava da una lunga, tonificante dormita. Era stato allora che Rachel le aveva spiegato i nuovi piani della Duchessa. All’inizio Sid aveva pensato che, come diretta conseguenza, Rachel si sarebbe ritrovata reclusa a Home Place e che si accingesse adesso a enumerare gli sporadici e brevi momenti d’intimità che la situazione avrebbe concesso loro. Rachel invece le disse che la Duchessa intendeva starsene nel Sussex per conto suo, con figli e nipoti che l’avrebbero raggiunta nel fine settimana. Rachel poteva restare nell’appartamento di Carlton Hill Flat oppure venderlo e comprarne un altro dove voleva lei. Sid era ancora molto debole e ogni emozione intensa la faceva piangere, ma Rachel la anticipò con tenerezza e si sedette sul letto per abbracciarla. «Abbiamo tutto il tempo per parlare», disse. «Adesso pensiamo a non perdere il treno». Erano dirette in Scozia: avrebbero dormito in un vagone letto dopo aver caricato la macchina sul treno per Inverness, e una volta lì non avevano piani, se ne sarebbero andate in giro senza meta dormendo nei posti che più piacevano loro, per due intere settimane. Rachel la portò a cena in un ristorante francese di gran classe in Charlotte Street, consigliato, disse, da Rupert, e si sedettero a un tavolo con una lampada dal paralume rosso nel mezzo, dove consumarono una cena deliziosa. Sid doveva avere ancora l’accortezza di non assumere troppi grassi e non poteva bere, ma non gliene importava niente. Era inebriata dal senso di avventura e libertà e dall’espressione felice sul volto della sua amata Rachel. «La mia amica è stata poco bene», aveva detto al cameriere. «Perciò ci vuole qualcosa di leggero». Lui aveva capito la situazione e le aveva aiutate a scegliere; consommé julienne, sogliola alla griglia e lamponi. Poi erano andate a King’s Cross in macchina, l’avevano caricata sul treno ed erano corse nel vagone letto. Appena il tempo di prepararsi per la notte che il convoglio era partito.
E adesso era distesa lì al buio ad ascoltare il ritmico avanzare del treno e a pensare a quanto è straordinaria la vita.
Appena un anno prima, quando Rachel era venuta a stare a Londra coi suoi e il Generale era morto, credeva che la loro relazione non avesse più alcun futuro. Le sembrava che Rachel la evitasse, come se avesse paura di lei e fosse al tempo stesso molto angosciata da qualcosa. Per Sid era stato straziante assistere a tutto questo senza poter fare nulla che non peggiorasse le cose. Alla fine le aveva scritto una lettera dicendole che forse era meglio non vedersi per un po’. Scriverla le era costato molto, ma era stato un estremo rimedio a cui era dovuta ricorrere dopo averla sentita, stravolta, che si accusava di essere una persona spregevole. Ricevette in cambio una lettera breve e alquanto incongrua. Rachel scriveva che sì, forse era meglio allontanarsi «per un po’»; sperava che col tempo avrebbe imparato ad «accettare le cose come stavano»; sosteneva anche di non essere degna di un briciolo della considerazione di Sid e si scusava profusamente dei dispiaceri che ora capiva di averle dato. «È che io non valgo proprio niente», concludeva. «E mi vergogno».
E così per tutta la primavera e l’estate non ebbe notizie di Rachel, a eccezione di un breve avvistamento per la strada. Lavorava, insegnava e alla fine trovò una donna di una certa età che veniva a farle le pulizie in casa, che era caduta nel consueto stato di degrado dopo che, grazie al cielo, Thelma era scomparsa dalla sua vita. Poi, quell’autunno, le era piombata tra capo e collo sua sorella Evie. Il suo ultimo amante l’aveva piantata in asso e lei era al suo peggio, esasperante e piena di pretese. Sid l’aveva aiutata a trovare lavoro. Per un po’ aveva lavorato da HMV, vendeva dischi a Oxford Street, ma non faceva che rinfacciare a Sid di averle trovato un impiego tanto meschino e cominciò presto a millantare malanni vari che le impedivano di andare a lavorare, e di conseguenza fu licenziata. Poi si ammalò davvero, di ittero, e toccò a Sid accudirla. E proprio quando Sid cominciava a temere che non si sarebbe mai liberata di lei (l’appartamento in Abbey Road era suo per metà e Sid non aveva certo i mezzi per liquidarla), Evie ereditò una piccola somma da un direttore d’orchestra con cui aveva avuto una breve relazione all’inizio della guerra. Di colpo era un’altra donna. Cinquemila sterline! Decise di andare in America, dove c’erano tante orchestre e musicisti presso cui poteva trovare impiego. Si rifece tutto il guardaroba usando le tessere del vestiario di Sid oltre alle sue e partì. Che sollievo!
Quella prima sera di solitudine, quando di Evie non restava che l’effluvio pungente del suo profumo, Evening in Paris, Sid bevve tre generosi bicchieri di gin e si beò per ore nell’ascolto di Brahms. Prima di andare a letto, senza cena perché non aveva nessuna voglia di prepararsela, aprì le finestre del primo piano per mandare via quell’odore che le dava la nausea. Era febbraio, l’aria era gelida. Dovette alzarsi nel mezzo della notte per chiudere le finestre.
Era talmente stanca, tra il lavoro, la casa e i grattacapi che le dava Evie, che la mattina dopo se la prese comoda e restò ad ascoltare la radio a letto. Evie aveva voluto l’apparecchio in camera sua quando era ammalata, e una volta guarita Sid l’aveva spostato nella propria.
La notizia del giorno era che la Gran Bretagna aveva annunciato il proprio ritiro dall’India entro giugno nel 1947. Alla Camera dei Comuni s’era levato un gran parapiglia in seguito alla decisione di Attlee di rimuovere Lord Wavell e mettere al suo posto Lord Louis Mountbatten perché sovrintendesse al passaggio del paese dallo stato di colonia a quello di nazione autonoma. Mr Churchill, capo dell’opposizione, era fuori di sé, ma non era riuscito a spostare di un centimetro le decisioni di Attlee. Sid si chiedeva se quell’uomo sapesse quello che faceva. Nonostante la nazionalizzazione delle miniere, il carbone scarseggiava; i razionamenti alimentari si erano inaspriti, anche se adesso avevano due penny di manzo sotto sale a settimana; quell’inverno era stato un susseguirsi di scioperi e interruzioni della corrente elettrica. Insomma, tante restrizioni e difficoltà non erano esattamente quello che ci si aspettava per una nazione uscita vittoriosa dalla guerra.
Quel giorno – mentre andava a fare la spesa, sfidando il tempo orribile, imbottiva di fogli di giornale gli spifferi delle finestre e beveva tè caldo a intervalli regolari per scaldarsi – si chiese come mai non si sentiva più felice dopo l’insperata partenza di Evie. Avrebbe dovuto fare i salti di gioia, invece si sentiva sempre più depressa, al punto da non riuscire a mangiare. O almeno, le sembrava di aver fame, ma quando poi provava a mandar giù qualcosa non ci riusciva. Aveva la nausea, e di sera anche un forte mal di testa e la febbre. S’infilò a letto, e il giorno dopo stava ancora peggio. Non riuscì nemmeno a raggiungere la cucina, giù nel seminterrato, e bevve solo acqua di rubinetto dal bicchiere degli spazzolini.
Dovevano essere passati due o tre giorni, difficile dirlo con esattezza, quando il campanello si mise a suonare con insistenza. La folle idea che potesse essere Rachel le diede la forza di alzarsi e arrivare malferma alla porta, dove invece trovò la Duchessa, imbacuccata fino al mento e con un mazzo di bucaneve in mano.
«Sono passata queste mattine», le disse, «e ho visto le bottiglie di latte accumulate accanto alla porta. Sid!».
La vista di un volto familiare e quella voce calma e gentile piena di una sollecitudine indirizzata a lei la sopraffecero. Riuscì a dire che non stava bene e poi perse i sensi, e si svegliò con la testa tra le ginocchia e la Duchessa accanto a lei che parlava al telefono.
«Ho chiamato il dottore. Se ti aiuto, pensi di riuscire a tornare a letto? Mia cara, perché non ci hai telefonato? Siamo qui a due passi, saremmo arrivate in un secondo». Notò che la Duchessa non si riferiva mai a Rachel direttamente.
Restò fino all’arrivo del dottore, il quale diagnosticò a Sid l’ittero. La Duchessa andò in cucina a preparare un tè leggero. «Non c’è latte purtroppo», disse. «Ma qualcosa di caldo ti farà sentire meglio».
Poi se ne andò dicendo che sarebbe tornata l’indomani. «Dammi la chiave, però», aggiunse. «Così non dovrai alzarti».
Invece al suo posto arrivò Rachel, e non il giorno dopo ma quel pomeriggio stesso. Si presentò con del brodo in scatola e della frutta fresca, e non ci furono ricongiungimenti commossi. Sid si sentiva troppo male anche solo per esprimere sorpresa o piacere, mentre Rachel prese subito ad accudirla con il piglio di chi non faceva altro da mesi. Prese delle lenzuola pulite e le rifece il letto; le portò una bacinella d’acqua calda perché si lavasse; le pettinò i capelli con delicatezza. Poi scaldò il brodo e la esortò a berlo. «Non sforzarti di parlare», le disse. «Devi sentirti molto debole. Una delle infermiere che lavoravano con me alla Casa dei Bambini ha avuto l’ittero, e stava malissimo. Ti ho preparato dell’acqua d’orzo: il dottore dice che devi berne il più possibile».
La mattina dopo, al suo risveglio, Sid la trovò ancora lì, ed era chiaro che aveva dormito nella stanza di Evie.
«Non devi restare da sola», le disse.
Rachel si prese cura di lei per settimane. Sid diventò di quel brutto colorito giallastro tipico degli itterici ed era così debole da starsene ferma per ore a chiedersi se avrebbe avuto la forza di allontanarsi una ciocca di capelli dalla fronte. Rachel era un’infermiera instancabile. Non parlarono mai della loro separazione. Ma una volta, quando Sid fece per ringraziarla di tutte le sue premure, Rachel avvampò e disse: «Non sai che gioia sia poter fare qualcosa per te».
Sid si lasciò andare all’abbraccio di quelle cure affettuose. Quando cominciò a stare meglio, Rachel prese a passare alcuni pomeriggi a casa sua. Alla fine Sid fu in grado di alzarsi, camminare per casa e sedersi in giardino nei giorni di bel tempo, con la Duchessa che mandava mazzi di tulipani e frutta sciroppata proveniente da Home Place. E a Home Place ci andò, anche, una meravigliosa settimana di aprile con Rachel e sua madre. Andarono in treno e Tonbridge venne a prenderle alla stazione. La Duchessa passava le giornate in giardino e qualche volta lei e Sid suonavano insieme, con Rachel semidistesa sul divano ad ascoltarle e a fumare. Dormivano in camere separate, e dopo essersi ritirata la sera Sid si sedeva alla finestra a sentire l’odore delle violacciocche salire su dalle aiuole insieme al suo ormai antico desiderio di Rachel, dei suoi baci, della sua presenza ininterrotta... Più a te ne concedo, più ne possiedo, perché l’uno e l’altro sono infiniti. In quelle serate solitarie di primavera pensò spesso a quei versi. Poi, quando era trascorsa poco più della metà del loro soggiorno, la Duchessa era dovuta tornare a Londra all’improvviso. La donna che era stata assunta per badare alla vecchia zia Dolly non poteva restare fino alla fine del suo incarico per via di un problema di famiglia. Aveva telefonato affranta per annunciarlo. Sid aveva temuto che questo mettesse fine alla vacanza. Rachel non avrebbe lasciato sola sua madre. Invece la Duchessa fu di tutt’altro avviso.
«Tu devi restare per tutta la settimana», disse a Sid. «Stai già meglio. State meglio tutt’e due», aggiunse senza staccare da Sid quel suo sguardo diretto e franco.
Quella sera Rachel era andata in camera sua e si era seduta sul letto, tutta tremante. «Questa notte voglio stare con te», disse. «L’ho sempre voluto, ma sono stata un’egoista».
«Cara, tu sei la persona meno egoista che io co...», fece per dire, ma Rachel le mise una mano sulla bocca e proseguì: «Voglio dire, quando si vuole bene a qualcuno, ci sono cose che...». Qui la voce l’abbandonò del tutto. Riprese fiato e disse: «Dovrai insegnarmi come si fa, perché io non lo so. Davvero, non ne so niente, e quelle poche cose che ho in testa probabilmente sono sbagliate». E Sid sapeva esattamente che sforzo fosse per lei guardarla dritta in faccia mentre le diceva: «Probabilmente sono una frana...».
In quel momento Sid si era resa conto che sarebbe stato meschino non accettare quella proposta, quel dono d’amore. Se fosse rimasta ferma sul suo orgoglio – non accettare un sacrificio, per quanto amoroso fosse il suo intento – non sarebbe cambiato nulla. Rachel aveva avuto il coraggio di correre un rischio, e doveva farlo anche lei. Tirò indietro le lenzuola e quando Rachel si fu coricata accanto a lei le abbracciò le spalle tremanti e disse: «Ti amo, e anche se non dovesse venirne niente, ti amerò lo stesso, per sempre. Siamo entrambe spaventate, ma non c’è niente di cui aver paura».
Più tardi pensò alla Vergine di Ghiaccio e alla Bella Addormentata – un singolo bacio non poteva bastare, ma era pur sempre un inizio.
* * *
«Hai detto che dovevi dirmi una cosa importante».
Glielo disse.
«Ma... dove andrai?».
Glielo disse.
«Ma cosa farai? Come ti guadagnerai da vivere? Insomma, non credo tu sia in grado di pagare Nannie».
«Ho pensato che la cosa migliore sia che Sebastian e Nannie restino con te. Io potrei stare con lui nei giorni liberi di Nannie».
Lui ci pensò su un attimo. «Questa proprio non me l’aspettavo, cara», disse. «Ma immagino che tu ci abbia pensato bene. Alle conseguenze, intendo. Non potresti stare da uno dei tuoi genitori per qualche tempo? Pensarci su un po’ meglio?».
«No. La mia matrigna, o come devo chiamarla, non mi vuole. E a trasferirmi da mia madre non ci penso neanche».
«Capisco. Non posso permettermi di mantenere due case, questo lo sai».
«Lo so. Non ti chiedo di mantenermi».
La guardò. Era una giornata calda e grigia, e lei indossava un abito di lino senza maniche color caffè con dei sandali bianchi, i lunghi capelli setosi erano tenuti indietro da un nastro di velluto marrone. Aveva ventiquattro anni, erano sposati da cinque, eppure la sua bellezza non cessava di allietargli lo sguardo, anche se si era rivelata inadeguata sotto tutti gli altri punti di vista.
«Mi dispiace che non mi ami», disse, e lei gli rispose educatamente: «Anche a me».
«Forse è stato per via della guerra. Avremmo dovuto aspettare che finisse. Tu credi che avrebbe fatto qualche differenza?».
«Non credo». Si stava accendendo un’altra sigaretta. Fuma troppo, pensò lui.
«Che cosa farai?», le chiese. «Tenterai di nuovo con il teatro?».
«No, probabilmente no. Non credo di essere brava. Mi troverò un lavoro. Immagino che ci sarà un divorzio».
«Non hai motivi per chiedere il divorzio. Non ti sto chiedendo io di andartene».
«Lo so. Immaginavo che tu preferissi così. A me non importa. Ci sarebbero due cose...».
«Sì?».
«Mi chiedevo se potessi darmi qualche soldo. Sai, per quando sono con Sebastian. Per prendere l’autobus, portarlo allo zoo... questo genere di cose. Perché, almeno per i primi tempi, dovrò stringere la cinghia».
«E l’altra cosa?».
«Ecco...». La vide arrossire un poco. «Siccome non ho nessuna competenza per trovare lavoro, forse potresti essere disposto a comprarmi una macchina da scrivere, così potrei imparare a usarla con uno di quei manuali che vendono apposta. Non so quanto costino, ma andrebbe bene anche una di seconda mano».
«Nient’altro?».
«No».
«Vedo che non sentirai la mia mancanza», disse con una punta di amarezza. «Ma Sebastian? Non è strano da parte tua abbandonarlo in questo modo?».
«Immagino di sì. Ma io non potrei mai mantenerlo com’è abituato adesso. Non posso permettermi Nannie, e come farei a trovarmi un impiego, se lo avessi sempre con me? E comunque non sono un granché come madre. Questo lo sai».
Ripensò ai numerosi commenti di sua madre sullo scarso istinto materno di Louise e restò in silenzio. Quello era uno degli aspetti in cui era più carente e snaturata.
«Dirò alla mia segretaria di cercare una macchina da scrivere usata», disse. «E ti darò il necessario per passare del tempo con Sebastian».
«Grazie, Michael. Ti sono molto grata. Mi dispiace di essere stata un tale fallimento come moglie. Mi dispiace», ripeté con voce meno ferma.
«Quando pensi di andare via?».
«Entro questa settimana. Probabilmente domani stesso. Polly starà una settimana da suo padre prima del matrimonio e mi mostrerà come funziona la casa».
«E sarai sola?». Gli era venuto in mente che una simile prospettiva doveva spaventarla molto.
«All’inizio sì, per forza. Ma forse Stella verrà mandata a lavorare a Londra, e allora potrei condividere l’appartamento con lei. Altrimenti troverò un’altra persona. Per via dell’affitto. Ma se me ne vado, dovrò farmene una ragione, no?».
«Sì, credo di sì».
Fu tutto.
* * *
«Povero caro! Deve essere terribile per te!».
«Oh be’, mamma, io credo che sia la cosa migliore. Non avevamo più una vita insieme da tanto tempo».
«E Sebastian?».
«Louise acconsente che resti con me».
«Che ragazza incredibile! Sebastian potrà venire a passare l’estate a Hatton con Nannie. Non la trovi una buona idea? E anche tu, caro, naturalmente, ogni volta che vorrai». Intinse una fragola nello zucchero, poi nella panna e gliela porse. Stavano prendendo il tè nel giardinetto sul retro, al sole.
«Naturalmente chiederai il divorzio!».
«Sì. Lei è d’accordo».
«Intende tornare da sua madre?».
«Andrà a stare nell’appartamento dove prima abitava sua cugina... quella che si sposa la prossima settimana».
«Col figlio della povera Lady Fakenham? Quello bruttino?».
«Proprio lui».
«Non la sento dall’ultima volta che le ho scritto, in occasione della morte dell’altro figlio, il maggiore. Poverina, era completamente devastata... restare prigioniera in quella casa mostruosa col figlio brutto e quel marito di una noia mortale, lei che era così vivace, così mondana... da giovane almeno. Ma torniamo a te, Mikey caro. Come farai coi soldi? Ne ha chiesti molti? È stata molto viziata e spendacciona quando era eravate a New York!».
«È vero. Ma ha comprato soprattutto regali. E non aveva mai avuto molte occasioni di comprarsi dei vestiti... credo che tutti quei negozi senza razionamenti le abbiano dato alla testa. Comunque», aggiunse, «aveva il mio permesso».
«Ma adesso cosa succede?».
«Non pretende che la mantenga. Ha chiesto pochissimo per sé, davvero».
«Immagino abbia un amante».
«No. Non credo. Lei mi ha detto di no e io le credo. Non dovresti essere così dura con lei, mamma. Almeno per amore di Sebastian, se non altro».
«Hai ragione. Non dovrei. Tu sei molto più buono di me. Io sono una specie di tigre».
Questo gli strappò una risata. «Be’, mio caro», gli disse lei congedandolo, «guardiamo il lato positivo. Hai un figlio adorabile, mio nipote. Credo che per me il momento più brutto sia stato quando ho temuto che non facessi in tempo ad averne uno. Sono una donna felice. Una nonna felice».
* * *
«Che genere di novità?».
«Dipende dal punto di vista, immagino, come la maggior parte delle novità».
«Come ti senti?», gli chiese lei dopo che le ebbe raccontato tutto.
«Non lo so. Sollevato, in un certo senso. Ma, in un altro senso, è un po’ un fallimento...».
Avevano cenato a casa di Rowena ed erano ancora in sala da pranzo. Le finestre erano aperte, ma non c’era un filo di vento: le fiamme delle candele in mezzo al tavolo erano dritte e immote. Tra loro due c’erano una ciotola di panna e delle rose chiare voluttuosamente prossime all’appassimento. La cameriera aveva servito loro il caffè ed era stata congedata. Rowena si sporse verso di lui e Michael vide i suoi seni muoversi con grazia nella scollatura.
«Mi dispiace tanto, Mikey. Deve essere stato terribile per te. E anche per lei».
«Sì. Probabilmente sì». In realtà non si era affatto soffermato a pensare ai sentimenti di Louise: la separazione era una sua iniziativa, perciò non si era sentito in dovere d’interrogarsi sui motivi che l’avevano spinta a quella decisione.
«E il bambino?».
«Lo lascia a me. Mia madre lo porta a Hatton per l’estate».
«Oh».
«Sono felice di avertene parlato».
«Puoi dirmi tutto quello che vuoi».
E così fece. Le disse che Louise gli aveva dato la notizia di punto in bianco quella mattina, che era andato nel suo studio ma non era riuscito a lavorare, aveva chiamato sua madre e lei gli era stata di enorme conforto. E poi com’era stato felice di scoprire, quando le aveva telefonato, che Rowena non aveva impegni per quella sera.
«Deve essere spaventoso. Voglio dire, anche se uno un po’ se l’aspetta, quando accade davvero è un duro colpo», disse lei.
Si era alzata dal tavolo una volta sola mentre lui le raccontava l’accaduto, ma solo per prendere il brandy e versarlo a entrambi.
«Quando se ne va?».
«Domani», disse lui. «Stavo pensando... ecco, l’idea di tornare a casa per un’ultima orribile notte... non so se ce la faccio».
Lei s’illuminò tutta. «Mikey caro! Non c’è bisogno che ci giri tanto intorno! Sei sempre il benvenuto».
* * *
Se qualcuno gli avesse detto due anni prima che il lavoro sarebbe stata la parte più semplice della sua vita mentre tutte le altre si sarebbero rivelate complicatissime, be’, non ci avrebbe creduto.
Stava percorrendo il solito, faticoso tragitto a piedi dal molo, che non era distante da Tower Bridge, alla sua casa di Tufnell Park, e aveva alle spalle una settimana d’inferno. I temporali si alternavano alle giornate afose, col risultato che qualunque cosa indossasse a fine giornata era zuppo di sudore. Bernie si era detta stufa di lavargli le camicie, perciò da qualche tempo gli toccava farlo da solo. Il fatto era – ci stava riflettendo – che ogni volta che lui pure le concedeva qualcosa, subito lei se ne usciva con qualche nuova pretesa. Aveva la spiacevole sensazione che non lo rispettasse più molto, anche se a letto con lui ci andava ancora volentieri. Era lì, a letto, che il loro rapporto funzionava meglio; forse era stato così fin dal principio: quando gli chiedeva le cose senza acrimonia, riusciva a essere perfino affettuosa. Ma adesso cominciava a capire che quelle notti di passione avevano un prezzo salato. Lei ne voleva in continuazione, e quando lui le diceva che era stanco si dava fare per eccitarlo. Cosa in cui era troppo brava. Ma poi lui finiva per svegliarsi già stanco, e se non si sbrigava ad alzarsi dal letto rischiava che lei si svegliasse con la voglia di farlo di nuovo. Qualche volta era anche arrivato tardi in ufficio, e non di rado ci era andato senza aver fatto neppure uno straccio di colazione. Doveva ammettere che Bernie non era un tipo facile da addomesticare. Teneva il bagno pulito, anche se era straripante dei suoi cosmetici, ma il resto dell’appartamento versava nel più completo marasma. Inoltre odiava cucinare, anche se in Arizona gli aveva fatto un gran parlare delle varie specialità americane che avrebbe preparato. A Londra la sua scusa era che non aveva la possibilità di procurarsi gli ingredienti. Come casalinga era un tale disastro che da un po’ di tempo Teddy andava a fare la spesa il sabato mattina.
E poi c’era il grosso problema dei soldi. Papà lo aveva cavato d’impaccio una volta e anche la mamma gli aveva allungato qualche extra, ma Teddy era molto refrattario a chiedere ancora aiuto ai suoi genitori. Di recente si era risolto a mettere da parte l’affitto e una piccola somma, su un altro conto, ma questo naturalmente significava avere di meno da dare a Bernie. Alla quale la cosa proprio non andava giù. «Mi avevi detto che i tuoi erano ricchi!», diceva. «Non facevi che parlarmi delle vostre due case, dei domestici... e questo vuol dire essere ricchi, ricchi davvero... poi vengo qui e mi ritrovo in questa topaia!». Lui non ricordava di essersi vantato tanto. Le aveva solo accennato qualcosa le volte in cui lei lo aveva interrogato, con una certa insistenza, sulla sua famiglia, su casa sua e via dicendo. Non ne poteva più di giustificarsi per l’appartamento e perché non potevano permettersi di andare a ballare o nei locali, e di andarci in taxi per giunta, perché Bernie portava sempre certe scarpe con cui sosteneva di non poter camminare, anche se poi ballava per ore e ore con quelle stesse scarpe ai piedi. Voleva andare dal parrucchiere ogni settimana, e non da uno qualsiasi ma in un salone del West End, la zona più cara. E poi non faceva che comprare cosmetici e lamentarsi di non poter fare altrettanto con i vestiti. «Ma se hai già quintali di vestiti!», aveva esclamato lui.
«Ma sono usurati! In America non conserviamo i vestiti vecchi come fossero pezzi d’antiquariato. Li buttiamo via e ne compriamo di nuovi!». Quando era da sola andava spesso al cinema perché si annoiava a non avere niente da fare tutto il giorno. Anche questo aveva un costo. Si era ridotto a impegnare – o meglio a vendere, dato che non aveva mai avuto la possibilità di riscattarli – i gemelli d’oro che gli aveva regalato papà quando si era arruolato, un set di coltelli, regalo di nozze della Duchessa, e altri oggetti di piccole dimensioni. Aveva cominciato a temere il momento in cui rientrava in casa e se la trovava di fronte, immusonita e certe volte ancora in camicia da notte, senza niente per cena e pronta a litigare perché non si poteva andare al ristorante. Spesso finiva per uscire lui da solo, in cerca di un cartoccio di pesce fritto e patate
Quello era un venerdì sera e gli si prospettava un fine settimana ben poco invitante. L’appartamento diventava un inferno nei mesi caldi: era affacciato a sud e alcune finestre nemmeno si aprivano. Aveva tentato di convincerla a fare una scampagnata in Hampstead Heath insieme. A lei piaceva starsene sdraiata al sole e lui sarebbe forse riuscito a dormire un po’, perché con tutta la gente intorno Bernie non avrebbe preteso di fare l’amore.
Scese dall’ultimo autobus in Holloway Road e percorse Tufnell Park Road fino alla stradina laterale dove abitavano, all’ultimo piano di una casa alta e stretta. Aprì la porta d’ingresso – per le scale aleggiava sempre un puzzo di gatto e talvolta di cucina: il caseggiato ospitava quattro appartamenti – e salì fino alla loro porta, all’ultimo piano. Quant’era stato eccitante la prima volta! Appena sposati, un appartamento tutto per loro...
C’era silenzio in casa. Di solito Bernie teneva la radio accesa.
«Bernie! Sono tornato!».
Nessuna risposta. Non era in salotto né nel cucinino adiacente, perciò doveva essere in camera da letto oppure nel minuscolo bagno. Ma non era nemmeno lì. Che fosse uscita era improbabile, se non per andare a una proiezione serale in qualche cinema.
Poi lo sguardo gli cadde sull’armadio aperto: mancavano tutti i suoi vestiti. Il letto era disfatto ma sul cuscino, puntato con uno spillo, c’era un pezzo di carta. Lo prese e lo lesse.
Me ne vado. Non ne posso più. Non volevo dirtelo questa mattina per non ferirti. Settimane fa ho chiamato mia madre per farmi mandare i soldi per tornare a casa. Sono arrivati ieri. Sono certa che è meglio così per entrambi. Spero che tu capisca e non me ne voglia.
Bernie
Lo lesse due volte per essere certo di quello che c’era scritto. Se ne era andata? Sì. Così, dal giorno alla notte. Sapeva che lo avrebbe fatto dal momento in cui aveva chiamato sua madre, che peraltro aveva sempre affermato di detestare, ma a lui non aveva detto neanche una parola. Ebbe la curiosa sensazione di essere sopraffatto da un’ondata di sentimenti senza sapere ancora di che genere fossero. Lo aveva lasciato senza dirgli niente. Significava che gli aveva mentito, perché solo la sera prima discutevano di cosa avrebbe indossato Bernie al matrimonio di sua cugina Polly (le piaceva coinvolgerlo in quel genere di decisioni), eppure doveva essere al corrente già allora che lei a quel matrimonio non ci sarebbe venuta affatto. Erano sposati, e l’aveva lasciato con un biglietto! Che faccia tosta! Adesso lo sapeva, cosa provava. Rabbia, per essere stato preso in giro e tenuto in così poco conto da non fare nemmeno il più piccolo sforzo per il bene del loro matrimonio. Era una bugiarda. Gli aveva mentito sulla sua età: quando erano partiti dall’America, aveva sbirciato il suo passaporto e aveva visto che si era tolta più di dieci anni. Un gesto così patetico che l’aveva spinto a perdonarla.
Adesso vagava per la casa con quel pezzo di carta appallottolato stretto in mano. Il lavello della cucina era pieno di tazze sporche e degli avanzi della sera prima. La tazza da cui aveva bevuto lei aveva un grosso residuo di rossetto sul bordo. La prese e la scagliò contro la parete opposta, dove andò in mille pezzi scontrandosi con la stufa. Non le era mai importato niente di lui, ormai era chiaro. A parte il sesso, lui non le serviva a nulla. Ovviamente aveva creduto di fare un buon affare, sposandolo: una bella casa grande, domestici, disponibilità di denaro. Le cose che le lui le aveva spiegato non l’avevano neppure sfiorata. Lo aveva abbindolato con mille moine, gli aveva detto che con lui sarebbe arrivata anche in capo al mondo, e non aveva nemmeno fatto lo sforzo di sopportare il piccolo inconveniente di vivere a Tufnell Park per un po’ di tempo! Dovette sedersi sulla poltrona, quella che non aveva le molle, perché si era accorto di essere in lacrime.
Trascorse il resto della serata nella più cupa disperazione. Aveva una gran voglia di parlare con qualcuno, ma il telefono non funzionava perché non era riuscito a pagare la bolletta. Era stanco, aveva fame e sete e (ovviamente!) in casa non c’era nulla da mangiare. Si trascinò in un pub e bevve una pinta di birra amara, ma non sopportava il vocio degli avventori che bevevano e ridevano e fumavano e chiacchieravano come se nulla fosse successo. Andò al chiosco a prendersi il solito, pesce fritto e patate, che andò a mangiare a casa. Ma il pesce, avvolto in una spessa impanatura unta, gli diede la nausea. Mangiò parte delle patate e andò a stendersi sul letto disfatto. Le lenzuola avevano ancora l’odore dei loro corpi, il che lo fece stare peggio. Si alzò e si mise a pulire la cucina e il soggiorno, finché fu vinto dalla stanchezza e crollò sul letto vestito, incurante dell’odore.
Si svegliò tardi e si ricordò di essere solo. Provava già un sentore di sollievo, ma lo censurò. Il sollievo non si addice a un marito abbandonato.
Si alzò, fece il bagno e si rase, e dopo si sentì molto meglio. Poi, mentre capiva che se voleva fare colazione doveva uscire, dato che in cucina non c’era nemmeno un avanzo di latte, sentì il campanello. Devono aver sbagliato porta, pensò. Non era mai venuto nessuno a trovarli. Andò giù ad aprire.
Aprì la porta e trovò Simon.
«È stato papà a darmi il tuo indirizzo», disse. «Ho provato a chiamarti ieri sera, ma credo che il tuo telefono non funzioni».
Teddy era felicissimo di vederlo, e la sorpresa aumentava il suo piacere. Lo portò di sopra e, senza nessun preambolo, gli raccontò cos’era appena successo.
Simon fu molto solidale. «Che mi venga un colpo!», esclamò più di una volta. «Un po’ crudele da parte sua darti la notizia in questo modo. Però ho l’impressione che starai meglio senza di lei. Da quello che mi raccontano i miei amici, c’è poco da fidarsi delle donne... insomma, cambiano idea dal giorno alla notte, se capisci cosa intendo».
Simon appariva molto elegante, con un vecchio completo di tweed, un farfallino a pois e calze azzurro cielo. Teddy, al confronto, si sentiva uno straccione.
«Sono a Londra per il matrimonio di Polly, e a casa c’è una baraonda tale che mi è venuta voglia di uscire. È una vita che non ti vedo e...».
«Hai fatto benissimo, davvero».
Quando Simon venne a sapere che Teddy non aveva ancora fatto colazione, gli propose di andare in un pub a mangiare, anche se mancava ancora un po’ di tempo all’ora di pranzo.
Andarono in un locale vicino a Hampstead Heath e poi fecero una passeggiata nel parco discutendo del futuro, che appariva a entrambi deliziosamente incerto. Simon aveva appena completato gli studi a Oxford – «Come ho fatto ancora non lo so» – e adesso lo attendeva il servizio di leva, prospettiva di cui parlava con una sorta di fastidio sdegnato ma che, Teddy ne era certo, in fondo lo terrorizzava. Tornò poi sul gesto di Bernardine e disse che probabilmente avrebbe chiesto il divorzio. «È così che si fa, credo», disse ostentando conoscenza del mondo quanto più poteva, ma in realtà avvilito e spaventato da quella prospettiva. Tanto per cominciare non aveva la più pallida idea di cosa si dovesse fare. Ci sarebbero voluti degli avvocati, immaginava, e probabilmente sarebbe stato costoso. Le cose, belle o brutte, lo erano sempre.
«Il fatto è», disse Simon mentre erano seduti su un pendio che guardava verso il bosco, «che dovrai stare attento a non farti beccare con altre donne troppo presto. O almeno non devi sposarti».
«A un certo punto però devi sposarti, di solito», rispose lui. «Ho scoperto che le ragazze ci tengono moltissimo». Non c’era bisogno di far sapere a Simon che Bernardine era l’unica ragazza con cui fosse stato, a parte contare qualche sporadico bacio ai balli della RAF. Suo cugino era più giovane di due anni, e tradizione voleva che il maggiore dovesse sempre saperne di più.
«Ne vale davvero la pena?», gli domandò più tardi Simon, mentre risalivano in macchina.
«Cosa?».
«Il sesso... con un’altra persona. Una volta ci sono andato vicino», aggiunse con studiata noncuranza. «Ma quando siamo arrivati al dunque... be’, ecco, mi è sembrato tutto... troppo complicato. Ho pensato che potesse farsi un’idea sbagliata».
In qualche modo Teddy subodorò che non era andata proprio così, ma voleva bene a Simon e sapeva anche, dall’esperienza alla RAF, che in tema di imprese galanti la gente mente più che su qualsiasi altro argomento.
«Può essere bellissimo», disse. «Ma devi trovare la persona giusta. Ovvio».
«Sì. E può volerci anche una vita», disse Simon.
Poi passarono ai pettegolezzi sui vari membri della famiglia.
«Polly è molto, molto felice. Solo che adesso che si sposa davvero comincia a essere un po’ nervosa. Tu farai da usciere, come me, no?».
«Già».
«Possiamo andare insieme da Moss Bros a prendere i soprabiti. Dovrebbe farlo anche Neville, ma poiché continuava a chiamare Polly “Lady Fake” lei s’è arrabbiata».
Avevano di nuovo fame, perciò entrarono in una sala da tè dove consumarono un’abbondante merenda, dato che la cameriera continuava a portare loro fette di torta e brioche in più.
«Scommetto che muore dalla voglia di fare sesso», disse Simon. «Siamo gli unici uomini qui dentro».
Teddy chiese a Simon di venire a casa con lui. L’idea di tornarci da solo cominciava a inquietarlo.
«Certo! Sei preoccupato che abbia cambiato idea e sia tornata?».
Non ci aveva proprio pensato. Ma si rese conto in quel momento che sperava ardentemente di no.
Quando vide che non era successo nulla del genere e che l’appartamento era vuoto esattamente come lo aveva lasciato, provò un gran sollievo. Il pranzo e il tè li aveva pagati Simon, perciò uscì a prendere pesce fritto e patate per cena, mentre Simon provvedeva alla birra.
«Ti ricordi il campo che avevate allestito tu e Christopher senza di me, poco prima che cominciasse la guerra?».
«E voi due faceste a botte. Mi ricordo, sì».
«Non volevo fare a botte. Ma non mi piaceva che mi aveste escluso».
«Io non volevo scappare di casa davvero e vivere al campo. Lui invece ci teneva tanto».
«Che gli è successo?».
«Papà mi ha detto che è andato a stare da sua sorella... sai, quella che ha sposato quel poveretto».
«Uh, non mi sembra un gran bel vivere».
«Quasi mi scordavo! In macchina ho una bottiglia di whisky. L’avevo portata per te. Faccio un salto giù a prenderla».
Ne bevvero due generosi bicchieri e furono subito in vena di confidenze.
«Com’è lavorare nell’azienda?», domandò Simon con noncuranza.
«Credo che tutto andrà bene... quando mi daranno un ruolo un po’ più in alto. Perché? Vuoi venire anche tu a lavorarci?».
Simon scosse la testa. «Dio mio, no! Non voglio fare il capitano d’industria».
«E che vuoi fare?», gli domandò Teddy un poco offeso dallo spregio con cui Simon parlava del suo lavoro.
«Non lo so. Be’, insomma, un’idea ce l’ho. Vorrei entrare in politica. Diventare un membro del Parlamento. Cambiare le cose, ecco».
«Vuoi sconfiggere questo governo?».
«Oh no. A me piace questo governo! Entrerei nel Partito Laburista».
«Vuoi dire che sei favorevole a tutte queste nazionalizzazioni?».
«Certo. Ma non si tratta solo di questo. Ce l’ho a morte coi Tory. Lo sapevi che la BMA ha creato un fondo per aiutare i medici che non vogliono cooperare col servizio sanitario nazionale? Dicono che vogliono modificare la legge, ma la verità è che non la vogliono proprio. Sono un gran covo di reazionari!».
«La BMA?», ripeté Teddy. «Oh, la British Medical... qualcosa, vero?».
«Association. I Tory sono contro il progresso in qualunque forma. Non gli importa niente della classe lavoratrice».
«Però alcuni conservatori lavorano, no? Guarda me!».
«Sì, ma tu sai bene che presto o tardi ti ritroverai in un ufficio a comandare tutti gli altri. Invece migliaia di altre persone non avranno mai questa possibilità».
«Ma deve pur esserci qualcuno che comanda e qualcuno che esegue! Non si può essere tutti capi, qualunque cosa si faccia».
«No. Però si possono creare condizioni di vita migliori per i lavoratori. Condividere con loro i guadagni. Ecco il perché delle nazionalizzazioni. Le ferrovie sono di tutti. Le miniere di carbone sono di tutti».
Continuò su questa china per un bel pezzo. Teddy all’inizio lo ascoltò ma poi smise, e andò a prendere una caraffa d’acqua di rubinetto per allungare il whisky. Cominciava a rimpiangere di non essere andato all’università. Non c’erano campi in cui lui fosse così esperto da poter parlare così a lungo e con autorevolezza come stava facendo Simon. Certo, poteva parlare degli aerei da caccia Hurricane, ma non era un argomento molto spendibile in tempo di pace. Un giorno sarebbe stato esperto di legnami, però, come suo padre.
Quando Simon smise di parlare di politica, biascicando qualche debole frecciata verso Teddy perché non era interessato, bevvero entrambi un altro bicchiere e tornarono sull’argomento per Teddy ben più interessante delle loro vite.
Cominciarono a parlare dei rispettivi padri. Disse a Simon che suo padre era stato molto malato e aggiunse che lui e Hugh ultimamente non andavano molto d’accordo, osservando anche che era un po’ una cattiveria da parte di Hugh intestardirsi tanto dopo l’operazione e tutto.
«Non lo sapevo. Ultimamente mi sono fatto vedere poco, in effetti. Ma papà mi sembra molto più felice. Credo che abbia finalmente superato il dolore per la morte di mamma. O forse è solo tanto felice per Poll».
«Comunque, se dovesse capitarti l’occasione, potresti dirgli che mio padre sarebbe molto felice di vederlo. Non mi riferisco all’ufficio, naturalmente, ma a un incontro tra loro due e basta».
«Va bene. Ma non pensi che siano abbastanza grandi da sbrigarsela da soli?».
«Forse quando uno diventa vecchio non ne è più capace».
«Un po’ come la vita. Passi la giovinezza costretto a fare cose orribili, poi immagino ci siano un po’ di anni in cui finalmente puoi fare come ti pare, prima di diventare troppo vecchio per goderti qualunque cosa».
«E quando puoi fare come ti pare, fai le scelte sbagliate», soggiunse Teddy. Ricominciava a sentirsi in pena per Bernie: chissà dov’era e se era giusto che lui tentasse di scoprirlo e di fermarla. Disse queste cose a Simon, il quale gli consigliò di non fare nulla.
«È lei che se ne è andata», disse. «È improbabile che cambi idea. E anche tu mi sembri un po’ dello stesso avviso. Posso sempre sbagliarmi», disse col tono di chi lo ritiene tuttavia molto improbabile, «ma io penso che tu stia meglio senza di lei. Che ne dici se restassi per la notte? Non sono in grado di guidare fino a casa... sono troppo sbronzo».
Teddy disse di sì e andò con passo malfermo a cercare delle lenzuola pulite. Poi Simon si offrì di aiutarlo a preparare il letto, ma nessuno dei due era in condizioni di riuscirci. Tiravano entrambi nella direzione sbagliata, cosicché le lenzuola finirono sul pavimento e loro pure, piegati in due dalle risate.
«Ti ricordi quando ci siamo ubriacati con quella schifezza in mezzo al bosco? Abbiamo brindato alla salute di Strangeways Senior!».
«E di Bobby Riggs! Mi ricordo. Abbiamo anche fumato un pezzo di sigaro del Generale».
«Hai fumato solo tu! Io stavo troppo male. E tu dicesti che era colpa del pesce che avevamo mangiato a cena!».
«Lo sapevo che non era vero! Ma tu stavi così male che volevo tirarti un po’ su».
«E stavolta sono io che tiro un po’ su te», replicò Simon con un’affettuosità che fece salire le lacrime agli occhi a Teddy.
«Hai avuto un tempismo perfetto», disse. «Perfetto. È più facile intendersi tra maschi che con le donne», disse quando si furono sistemati sul letto.
«Questo è certo. Non ti puoi sbagliare. Almeno non si fa tanto chiasso per delle sciocchezze».
«Che sciocchezze?».
«Oh, lo sai. Matrimoni. Ragni. Tante storie su come si è vestiti... quante donne conosci con cui sia possibile parlare di nazionalizzazioni? Perché io non ne conosco nemmeno una. Questo letto ondeggia, o cosa?».
«A Bernie non interessavano gli aerei da caccia. Ho provato a parlargliene, ma niente. Che ha che non va, il letto?».
«Si muove».
«Non è il letto che si muove. Sei tu che sei ubriaco. E io pure», aggiunse.
«Siamo sbronzi tutti e due. Ci siamo scolati l’intera bottiglia, sai? Senza contare le birre che abbiamo bevuto prima di cena. È meglio se dormiamo un po’».
«Se chiudo gli occhi è peggio».
Ma Simon si addormentò quasi subito, perché non sentì l’ultima frase che gli disse Teddy. Lui invece temette di stare sveglio tutta la notte pensando a Bernie e al suo matrimonio fallito, ma perse i sensi quasi immediatamente.
* * *
Jemima sapeva che doveva avere a che fare con la sua leggera stanchezza – fra le altre cose – ma per qualche motivo da circa una settimana aveva la sensazione che la sua vita fosse fatta di faccende da finire, chiudere, archiviare, come a far posto a qualcosa di completamente nuovo che non era ancora cominciato. Il giorno prima aveva fatto pulizia in ufficio. Era il genere di ambienti datati che non reagiscono nemmeno ai più accurati lavori di riassetto. Sembrava un po’ più vuoto ma tutto sommato uguale a prima, con quelle pareti rivestite di pannelli scuri, tappezzati di vecchie foto stinte custodite in sottili cornicette nere, la vasta scrivania di mogano, il lungo divano nero da cui spuntavano qua e là fastidiosi crini di cavallo, le grosse sedie da pranzo coi braccioli incisi a mano, la finestra che aveva ormai assorbito la fuliggine londinese dietro la tenda verde che si chiudeva solo a metà e il tappeto turco, un tempo sgargiante e ora frusto e scolorito sul pavimento lucido. Ogni cosa sembrava progettata per una specie di gigante depresso. Lì dentro si sentiva minuscola – be’, piccola lo era, però si sentiva ridicola. Perfino gli oggetti sul tavolo risultavano rimpiccioliti: la carta assorbente, il calendario nella cornice d’argento che lei stessa aveva provveduto ad aprire sulla data del 18 giugno, le fotografie di famiglia. C’erano tutti i suoi figli da piccoli: Simon, in pantaloncini e con una barchetta giocattolo sulle ginocchia; Polly, che si era sposata appena una settimana prima, una bimba dal volto serio con un vestito estivo senza maniche, e William che ancora non camminava, tenuto in piedi da sua madre in mezzo a un prato. Lei portava un abito a fiori estivo un po’ informe e doveva esserci un po’ di vento perché alcune ciocche di capelli le sfuggivano dallo chignon all’altezza della nuca. William sembrava sul punto di tentare la fuga e lei lo guardava con una specie di rassegnazione affettuosa. L’altra foto di lei, quella più grande in cui era sola, non c’era più, se ne era accorta in quel momento.
C’erano anche dei portacalamaio, dei campioni di legname e vaschette portadocumenti per i vari stadi di lavorazione. Aveva sistemato tutte quelle cose in bell’ordine, in foggia perfino simmetrica, aveva sbrigato per quanto poteva la corrispondenza del mattino e riposto quella che doveva essere sottoposta a lui in una cartellina che poi aveva posato sul blocco di carta assorbente. Le era parso strano eseguire questi gesti con la consapevolezza che sarebbe stata l’ultima volta, e che nessuno lì in ufficio ne era al corrente.
Poi aveva coperto la sua macchina per scrivere nell’ufficietto attiguo a quello di lui, aveva preso cappello e borsa ed era uscita. «Oggi va via presto», l’aveva apostrofata il garzone d’ufficio.
«Sì. Mr Hugh non c’è», aveva replicato lei. Perché darsi tanto disturbo, poi? Non erano affari di Alfie.
Andò a casa a preparare i bagagli per i ragazzi. Da ormai sette anni chiamava casa la metà inferiore di un edificio in Blomfield Road, vicino al Regent’s Canal. L’aveva scelta perché l’affitto era basso e perché sul retro c’era un giardino piuttosto spazioso dove i ragazzi potevano giocare. C’erano due camere da letto e un soggiorno al piano terra, e una sala da pranzo col cucinino nel seminterrato. Era una casa umida e difficile da scaldare, e nell’appartamento di sopra vivevano degli individui molto singolari che le incutevano un certo timore, ma era casa loro fin da quando Ken era rimasto ucciso.
Arrivò in largo anticipo sul ritorno da scuola dei bambini, il che le permise di preparare i loro bagagli con molta più tranquillità che se li avesse avuti intorno. Erano molto eccitati per quelle due settimane di campeggio: l’unica loro preoccupazione era che ci fossero sufficienti foglie di pioppo per le loro larve di sfinge della vite. Prese la vecchia, malandata valigia di cuoio appartenuta a Ken. Non si chiudeva più bene e bisognava stringerla con una cintura di cuoio. Quel fine settimana aveva lavato tutto, perciò si trattava solo di controllare che ci fosse il necessario per entrambi. Due canottiere, due paia di pantaloncini, quattro camicie e un maglione per ciascuno. Potevano indossare le scarpe da ginnastica durante il viaggio e mettere in valigia i sandali. Un paio di calzini a testa, magari? Ma era sicura che non li avrebbero indossati. Anche gli impermeabili potevano tenerli addosso durante il viaggio, ma se li sarebbero tolti ben presto e doveva raccomandare loro di non dimenticarli sul treno. Dovevano portarsi anche le tessere annonarie, e Jemima vi appuntò un biglietto con sopra il suo indirizzo e numero di telefono, in caso di necessità. Dopo aver aggiunto i cappelli, gli accappatoi e un asciugamano a testa, il bagaglio fu completo. Avrebbero messo i loro libri, i coltellini e altre minuzie nella borsa più piccola. Tom aveva una lente d’ingrandimento che moriva dalla voglia di usare per accendere un fuoco e Henry voleva portarsi la sua macchina fotografica Brownie. E poi naturalmente non potevano mancare Hoighty, la scimmietta grigia di Tom, e Sparker, l’orsacchiotto di Henry. Come e dove avrebbero viaggiato le larve, Jemima non lo sapeva. La cosa più strana, pensò, non era che se ne andassero per due settimane, ma il fatto che in quella casa non ci sarebbero più tornati. Lo sapevano e ne erano entusiasti ma lei, osservando quella stanza in disordine, piena delle loro cose e dei loro interessi, ebbe una fitta di nostalgia. Si chiudeva un’era.
I ragazzi arrivarono. La loro camera affacciava sulla strada, e Jemima vide Elspeth, la ragazza che pagava per portarli e riprenderli da scuola, al cancelletto d’ingresso. Lo aprì e i due invasero l’appartamento come un’ondata di marea. Elspeth le fece un cenno di saluto e si voltò per tornarsene sulla strada. L’aveva già pagata, dicendole che si sarebbero risentite l’autunno a venire, e si affrettò ad accogliere i bambini.
«Dobbiamo preparare i bagagli!», esclamarono. «Dobbiamo metterci dentro tutto!».
«Non tutto. Solo il necessario per due settimane. Non è così tanta roba, sapete».
Si scambiarono un’occhiata. «Oh, sì invece».
«Perché non sappiamo ancora che cosa vorremo».
«Avete una valigetta. Una volta riempita quella, basta. I vestiti ve li ho già preparati io».
«Quelli non ci servono. Mr Partington dice che c’è un grandissimo lago e che ci andremo quasi ogni giorno».
«A fare il bagno», precisò Henry.
«Andate di sopra a lavarvi. È l’ora della merenda».
«Che c’è per merenda?».
«Pane e fagioli in scatola».
«Oh, mamma! Ancora?».
«A voi piacciono i fagioli in scatola».
«È vero», ammise Tom. «Ma a forza di mangiarli sempre, adesso non ci piacciono più».
«Non posso farci niente. Ci sono solo quelli. Le uova le metto da parte per la colazione».
«Ho un’idea», disse Henry seguendola in cucina. «Mangiamoci le uova adesso e i fagioli in scatola per colazione. È lo stesso, no?».
L’intero pomeriggio passò così. Certe volte Jemima tenne il punto, altre volte cedette; i ragazzi accettarono le sconfitte con buona grazia e salutarono le vittorie con salti di gioia. Erano talmente su di giri che li mandò in giardino a sfogare un po’ di energie. Fece in modo che preparassero le loro cose, riempì la vasca e li convinse a entrarvi, e alla fine della giornata era sfiancata da tutte quelle serrate negoziazioni. L’indomani dovevano svegliarsi molto presto: alle otto dovevano essere a Paddington, e lei doveva ancora preparare la sua, di valigia. Li lasciò nella vasca, andò a rassettare la cucina, e quando tornò li trovò in pigiama, seduti vicini sul letto di Tom, che smontavano una torcia per vedere come funzionava. Avevano i capelli umidi e non dovevano essersi asciugati con particolare cura, ma avevano quell’aria di purezza rosea tipica dei bambini appena lavati.
«Henry ha fatto finta di essere cieco», annunciò Tom. «È riuscito ad abbottonarsi il pigiama a tentoni, ma andava sempre a sbattere sulle cose. Ci vuole tempo a imparare a essere ciechi».
«Sì, a imparare a fare le cose. Ma se uno si esercita ogni giorno, quando poi diventa cieco è tutto a posto», osservò Henry.
«Pensa però a quante cose ci sarebbero da imparare», gli disse lei. «Immagina ad avere una gamba sola, come Long John Silver, per esempio».
«Non parliamo di lui la sera, mamma. Lo sai che poi ho paura».
«Però sarebbe divertente fingere di avere una gamba sola», disse Henry. «Mamma, si può nuotare con una gamba sola?».
«Sì, se uno ti tiene a galla», gli rispose Tom.
Erano davvero identici, pensò, eppure lei capiva all’istante chi era dei due a parlare. Sapeva distinguerli quasi sempre, ma per gli altri era difficile. Tom proteggeva Henry e Henry ascoltava Tom.
Lesse loro un capitolo di Bevis, un libro di cui non sembravano mai stanchi, e diede loro il bacio della buonanotte che erano ormai le otto passate.
Quella sera aveva davvero voglia di un drink, pensò mentre andava a cercare qualcosa da mangiare, ma non si era mai potuta permettere di avere in casa dei liquori. Con la pensione e il salario, aveva appena il necessario per tirare avanti, ma era una lotta quotidiana. Coi gemelli le cose si complicavano, perché avevano bisogno di vestiti nuovi simultaneamente. I suoi se li cuciva da sola e d’estate portava i ragazzi dai nonni. Sua madre faceva loro i maglioni e suo padre le aveva pagato un corso come segretaria dopo che Ken era rimasto ucciso. Lei era già incinta e quello le era parso un modo come un altro per trascinarsi avanti. Erano stati sposati per un anno, molto meno contando solo le licenze, ovvero il tempo che avevano effettivamente trascorso insieme. Per il resto era stata una sfiancante attesa: lei prestava servizio tra le Ausiliarie dell’Aeronautica e lavorava in una centrale operativa di bombardieri sulla costa orientale. Appena sposati avevano avuto dieci giorni di congedo, i più belli che ricordasse e il periodo di tempo più lungo trascorso con suo marito. Dopo, solo brevi licenze di quarantotto ore, a parte una settimana in cui lui aveva avuto l’influenza.
Ken i ragazzi non li aveva nemmeno conosciuti, perché erano nati cinque mesi dopo la sua morte. Aveva fatto in tempo a sapere che gli sarebbe nato un figlio, ma non che fossero due: lei stessa aveva saputo di aspettare dei gemelli solo una settimana prima del parto. Ormai non era più nelle WRAF, e la notizia l’aveva gettata nel panico perché proprio non sapeva come avrebbe fatto a cavarsela. Aveva pensato di trovarsi un lavoro subito dopo averli svezzati, ma quando fu il momento scoprì che nessun impiego alla sua portata le avrebbe mai dato i mezzi per pagare qualcuno che si occupasse dei piccoli. Sua madre si offrì di farsene carico, ma Jemima non sopportava l’idea di stare così lontana dai bambini né quella di tornare a casa dei suoi genitori, che per lei equivaleva a una dichiarazione di resa. Così accettò qualche lavoro di dattilografia a domicilio, da fare la sera, finché i ragazzi ebbero raggiunto l’età scolare, e poi fece domanda per un lavoro alla Cazalet, e l’ottenne.
Non aveva fame, così si preparò del tè e lo portò di sopra per berlo mentre preparava i bagagli. Non che ci volesse tanto: non aveva molti vestiti, ed erano quasi tutti piuttosto usurati. I suoi genitori le avevano dato i soldi per comprarsi un abito per l’indomani, e aveva scelto del misto lino color fiordaliso con cui si era fatta fare un tailleur molto semplice, giacca corta e gonna sotto il ginocchio. Aveva deciso di fare a meno del cappello e adesso temeva di aver commesso un errore, ma non c’era più tempo. La sua amica Charlie le prestava la sua borsa migliore, una cosina blu scuro di pelle morbidissima che suo marito le aveva portato da Roma. I loro mariti avevano prestato servizio nello stesso squadrone, ma George ce l’aveva fatta ed era diventato tenente colonnello: se Ken fosse vissuto avrebbe raggiunto lo stesso grado, pensò Jemima. La sua foto, in una cornice di cuoio, era sulla mensola del camino. Risaliva al periodo del loro fidanzamento; avevano entrambi ventidue anni. Lui era in uniforme, il berretto un po’ di sghimbescio, con un sorriso appena accennato e quell’espressione energica che lei ricordava bene, di chi è pronto ad affrontare qualunque cosa la vita gli metta davanti. Quante volte aveva guardato quella foto pregando che la sua morte fosse avvenuta in fretta e senza dolore! E quanto aveva pianto sapendo per esperienza indiretta che ciò era molto improbabile! Faceva il navigatore su un Wellington. Erano usciti per una missione diurna e il suo aereo era stato colpito molto prima di raggiungere l’obiettivo. Avevano perso uno dei motori e avevano dovuto scaricare la bomba nel Mare del Nord per poi cercare di tornare alla base col motore rimasto. L’artigliere era stato colpito e Ken era sceso a poppa per soccorrerlo. Erano atterrati alla base per il rotto della cuffia. Due membri dell’equipaggio erano riusciti a scendere prima che il velivolo, ancora carico di carburante, esplodesse, ma Ken non era tra questi. Era stato il suo capitano a venire di persona a dirle che era morto. Ricordava di avergli chiesto: «È morto subito?», e John aveva risposto: «Non si è accorto di niente». Ma ricordava bene che, nel dire queste parole, non l’aveva guardata in faccia. Quel pianto ormai antico le bagnò gli occhi un’ultima volta. Il tempo del lutto era finito: nulla poteva cambiare quanto era già accaduto. Prese la foto, la baciò e la mise nella valigia che non avrebbe portato con sé l’indomani. La foto l’avrebbe tenuta per i ragazzi.
* * *
«Non sei al settimo cielo? Devi esserlo per forza!». Charlie si rispose da sola. Era venuta per aiutarla a vestirsi. I ragazzi erano partiti: dopo colazione aveva chiamato un taxi – loro adoravano spostarsi in taxi, anche perché succedeva di rado. Li aveva accompagnati a Paddington, insieme alle larve infilate in una scatola da scarpe col coperchio bucherellato. In un sacchetto erano state messe delle foglie raccolte quel mattino nel loro giardino. «Prima di impuparsi mangiano tantissimo», aveva detto Tom. L’imminente separazione da lei non sembrava preoccuparli e Jemima era contenta di vederli semplicemente felici.
«Passate una bella vacanza», disse abbracciandoli uno alla volta.
«Anche tu mamma», replicò Tom, e Henry annuì.
«E se troviamo un coniglio addomesticato, possiamo portarlo a casa?».
«Solo se anche lui vuole venire», rispose. Poi il responsabile del gruppo disse che era ora di salire sul treno, e lei se ne tornò a casa.
Aveva fatto il bagno e si era lavata i capelli, poi era arrivata Charlie tutta elegante e con un mazzo di rose bianche e gialle. «Ti ho preparato un sandwich con le uova», disse. «Scommetto che non hai fatto colazione».
Non credeva di riuscire a mandare giù niente e invece lo mangiò con gusto. «Sei proprio cara».
«Sono solo tanto felice per te! Ti meriti delle cose belle. Aspetta che ti sistemo la frangia, è un po’ troppo lunga». Mise un asciugamano sulle spalle di Jemima e fece un taglio a metà della fronte. «Molto meglio. Pensiamo al trucco. Che cos’hai qui?».
«Non molto. Del rossetto».
«Ti serve anche una spolverata di rouge. Sei molto pallida, cara».
Così Charlie si mise a truccarla.
«C’è poco da fare. Sembri una ragazzina».
Quando fu vestita e venne l’ora di andare, Charlie l’accompagnò a Kensington in macchina.
«Ha ventun anni più di me», disse mentre si dirigevano verso Campden Hill.
«Ma questo non è un problema, no? Se lo ami».
«Lo amo», disse, e nel dirlo si sentì travolta da quel sentimento: la sua dolcezza, la bontà disinteressata che aveva mostrato verso i ragazzi, il modo in cui quell’espressione angosciata gli svaniva dal volto, sostituita da tenerezza e gioia, ogni volta che i loro sguardi s’incontravano, la sua disarmante sincerità («Voglio sapere sempre cosa provi», le aveva detto, «anche se non siamo d’accordo o la pensiamo in modi diversi su qualcosa, io voglio saperlo sempre»), la sua grande capacità di amare e di voler bene, una lealtà che non conosceva impedimenti e poi la scoperta recente, solo poche settimane prima, che era anche un amante perfetto, paziente, sensibile e appassionato. Le aveva chiesto se volesse andare a letto con lui prima del matrimonio, aggiungendo che doveva essere una sua scelta. «Io sono piuttosto sicuro», aveva detto. «Ma devi esserlo anche tu». E così, dato che nutriva timori striscianti a quella prospettiva – non aveva avuto uomini dopo la morte di Ken, né di certo il tempo e l’opportunità d’innamorarsi –, aveva acconsentito. Per una notte i ragazzi erano stati con Charlie e loro due erano andati in un albergo sul fiume, una calda sera di giugno, e mentre erano in camera lui aveva proposto: «Adesso mettiamoci a letto, a cena ci andiamo dopo». E lei aveva acconsentito, perché si sentiva molto tesa. Dopo, felice come non lo era più da tanto tempo, gli aveva detto che era stata un’ottima idea invertire le cose. «Be’, non volevo che la tensione rovinasse la serata», aveva detto lui aprendo una bottiglia di champagne – incredibile quello che riusciva a fare nonostante tutto – e mentre le porgeva il bicchiere le aveva chiesto: «Jemima cara, vorresti sposarmi?». E lei aveva replicato che, visto quanto era appena accaduto, non aveva scelta. Lui aveva detto che ci aveva sperato molto. Avevano bevuto lo champagne ed erano scesi a cena, durante la quale avevano parlato con entusiasmo della vita nuova e felice che li aspettava.
E adesso stava per cominciare davvero.
«Sì. L’amo tantissimo».
E Charlie rispose: «Allora non c’è niente di cui preoccuparsi. Sei sempre stata incline a preoccuparti troppo. Non devi farlo più».
Lui l’aspettava all’ufficio del registro con suo fratello minore e a sua moglie, che avrebbero fatto da testimoni insieme a Charlie. Nella piccola sala, più simile a un ufficio, Jemima posò la mano sul moncherino rivestito di seta nera dove una volta c’era la mano di lui, e camminarono insieme verso il funzionario, che diede inizio immediatamente alla cerimonia. Ci vollero pochi minuti: lui si chinò a baciarla, e poi anche gli altri si felicitarono con lei. Firmarono, e lei scrisse per la prima volta il suo nuovo cognome.
«È finita così in fretta», disse mentre raggiungeva la macchina con Hugh.
«Ma la parte più lunga e interessante è appena cominciata», rispose lui. Poi si fermò di colpo. «Sei preoccupata per i ragazzi, per caso? Possiamo mandare loro una cartolina stasera».
«Non sono preoccupata. Per niente», disse.
Era vero.
* * *
«Sicuro che non vuoi che ti accompagniamo alla stazione?».
«Sicurissimo».
Erano tutti e tre in piedi di fronte al ristorante dove i suoi genitori avevano voluto portarlo a pranzo, per un saluto prima della partenza. Non era stata una cosa semplice, ma ora capiva che per i suoi genitori era molto più dura che per lui, e faceva del suo meglio per tenere a bada la tensione. Aveva mantenuto la calma di fronte ai lugubri pronostici paterni sul suo futuro e aveva risposto con frasi rassicuranti alle preoccupazioni, piuttosto futili e fuori luogo, di sua madre. Li aveva distratti invitandoli a parlare di sé, un vecchio trucco, che però funzionava sempre con la maggior parte delle persone (una delle tante cose che aveva imparato da padre Lancing). Anche il matrimonio di Polly era stato una buona strategia diversiva: a sua madre era piaciuto moltissimo e suo padre era rimasto impressionato dal titolo nobiliare di Gerald. Che strano: quel padre che in passato era stato una forza soverchia e minacciosa nella sua vita, adesso non gli faceva più né caldo né freddo; il suo patetico snobismo glielo faceva apparire ancora più meschino. Ma su di lui, su Christopher, non aveva più alcun potere. Durante il pranzo tuttavia non erano mancati gli incidenti. Suo padre voleva che ordinasse un drink e al suo rifiuto aveva insistito, minacciandolo di farlo lui, che lo volesse o no. Allora era intervenuta sua madre. «Oh, Raymond, ma non vedi che non lo vuole?», e lui si era sentito catapultato nella sua infanzia, in tutte le situazioni in cui sua madre aveva cercato di proteggerlo, peggiorando le cose. L’aveva guardata allora con improvviso affetto: i soldi e la delusione nei confronti del marito (penosamente evidente) l’avevano invecchiata. Aveva quell’aria di sparuta allegria che si accompagna di solito a una profonda insoddisfazione. Si sentì triste per lei.
«Ti farai sentire qualche volta, vero?», gli stava ripetendo. Glielo aveva già chiesto diverse volte a pranzo.
«Vedrai che prima che tu te ne accorga sarà già tornato», disse allora suo padre. «Vuoi un taxi?».
«No, grazie. Prendo l’autobus».
«Da dove parti? Perché se parti da Victoria Station posso accompagnarti».
«No. No, da Marylebone. Mamma, sto bene, sul serio. Grazie per il pranzo. Era buonissimo. Buonissimo, davvero», ribadì. Strinse la mano a suo padre e cinse con le braccia le piccole spalle ossute della madre. «Ma certo che ti scriverò. Non vado in capo al mondo, sai?». Sorrise, le diede un bacio e vide i suoi occhi riempirsi di lacrime.
«Caro, ti auguro tanta felicità! Cerca di stare bene».
«Lo farò».
«Animo, animo!», disse suo padre cingendole le spalle con fare protettivo. «Ti porto a vedere un bel film, così non ci pensi più».
Si salutarono di nuovo, poi lui si voltò e prese la strada per la fermata dell’autobus più vicina. Era finita.
Sull’autobus diretto a Baker Street, non seppe impedirsi di pensare a Polly, a quanto l’aveva amata. Dopo quel fine settimana che avevano passato insieme, aveva sofferto per lei in tutti i sensi: lei pure aveva patito il dolore di un amore non ricambiato. Quando Oliver s’era ammalato e, nonostante l’intervento del veterinario e tutte le sue cure, era stato necessario abbatterlo, lui era tornato al suo caravan con il povero corpo senza vita tra le braccia e gli aveva dato sepoltura nel bosco vicino. Gli sembrava di aver perso il suo unico amico. Lo aveva stretto a sé negli ultimi istanti della sua vita, aveva sentito il peso del suo corpo martoriato, il costato spigoloso, il pelo opaco, e poi Oliver lo aveva guardato con quegli occhioni rossastri sempre pieni di fiducia e devozione totale, anche mentre il veterinario infilava l’ago. Questione di secondi e il corpo gli si era afflosciato tra le braccia. Era riuscito a non piangere mentre lo caricava sul sedile posteriore della macchina.
Il caravan diventò un luogo funereo senza Oliver. Christopher era in lutto e si tenne lontano anche dagli Hurst, che continuavano a invitarlo.
Poi un giorno Mrs Hurst – Marge – gli chiese di accompagnare in macchina un anziano vicino malato che voleva andare in chiesa. «Di solito ce lo porta Tom, ma ha un bruttissimo raffreddore. Preferirei che non uscisse».
Acconsentì. Si trattava di un vedovo molto in là con gli anni, sofferente di artrite. Ogni movimento gli costava forti dolori e usava le stampelle.
«È un bel gesto da parte tua», disse. «Non mi piace rinunciare alle mie preghiere la domenica».
Visto che era in chiesa, pensò di pregare anche lui. Pregò per Oliver, e dopo si sentì più calmo e sereno riguardo alla sua sorte.
Quella sera stessa decise di cogliere la palla al balzo e chiedere a Nora se poteva rendersi utile nella sua casa di cura. Tanto valeva fare qualcosa di buono per qualcuno, si era detto.
Sì, Nora l’avrebbe molto apprezzato. Di lavoro non ne mancava. «Io non mi fermo un attimo», gli disse. «Il tuo aiuto sarebbe prezioso».
Era stato molto diverso da come se lo aspettava. Non doveva accudire gli ospiti, gli disse Nora quando andò a prenderlo alla stazione, a parte magari sollevarli qualche volta, dato che lei a forza di farlo aveva la schiena a pezzi. «C’è l’orto», disse poi. «Sarebbe splendido se potessi coltivare degli ortaggi. E poi qualche volta potresti stare un po’ con Richard. Spesso si annoia perché io ho tanto da fare».
Vedere Richard lo lasciò sgomento. Dal di fuori non era molto diverso da come gli era apparso il giorno del suo matrimonio – forse appena un po’ più in carne, coi capelli più radi –, perché tutto il resto, la sua penosa infelicità, si percepiva solo in un secondo momento. All’inizio Richard gli era parso viziato e puerile: sembrava perfino che ci provasse un perfido gusto a provocare Nora. Il principale obiettivo nella sua vita era procurarsi le sigarette e fumarle senza farsi scoprire da lei, e bere più alcolici che poteva. Reclutò Christopher perché lo aiutasse in queste due missioni. «Non devi dirlo a lei. Voglio solo qualche piacere, e Dio sa quanti pochi piaceri ci siano qui dentro». Quando Nora aveva scoperto quell’alleanza, gli aveva fatto una reprimenda. «Gli fa male», aveva detto. «Quando uno non può muoversi, i polmoni ne risentono. Il fumo potrebbe essergli fatale». Oppure: «Non possiamo permetterci alcolici. E sarebbe molto ingiusto se Richard avesse delle cose che sono negate a tutti gli altri. Io ci tengo moltissimo».
Perciò la volta successiva che Richard gli aveva chiesto di comprargli un pacchetto di sigarette, Christopher gli aveva detto che non gli sembrava opportuno e gli aveva spiegato perché. Era stato così ingenuo da credere che questo chiudesse la questione, ma naturalmente le cose erano andate diversamente.
Era inverno e per buona parte della giornata aveva tagliato legna da ardere per riscaldare la sala comune. Un pomeriggio, sul tardi, entrò con una cesta di legna nel salottino che Nora aveva riservato per sé e il marito e trovò Richard riverso da un lato sulla sedia a rotelle. La sedia era orientata come al solito verso la finestra, in modo che potesse guardare fuori, come Nora sosteneva che gli piacesse. Quando si avvicinò per aiutarlo a sistemarsi, Richard gemette: «Ci ho provato... non è servito a niente... non riesco a fare niente».
Aveva il viso rigato di lacrime di rabbia e moccio. Christopher prese un fazzoletto e lo asciugò.
«Aiutami a soffiarmi il naso», disse, e in quell’istante sentirono arrivare Nora.
«Che freddo qui dentro!», esclamò entrando. «Christopher, non stava a te tenere calda la stanza? Non vorrai che il povero Richard si prenda la polmonite». Aveva appena starnutito.
«Sono entrato ora», si scusò lui, poi s’inginocchiò per attizzare il fuoco.
«Manca poco all’ora del tè», disse Nora. «Mrs Brown ha fatto i suoi buonissimi panini dolci e c’è anche quella marmellata di rabarbaro che ti piace tanto». Richard starnutì di nuovo. «Oh, caro, non ti starà mica venendo di nuovo il raffreddore?».
«Magari mi venisse la polmonite!», rispose lui nel tono puerile e sardonico che riservava solo a Nora e al quale lei, aveva notato Christopher, sembrava completamente impermeabile.
«Be’», disse con indifferenza. «Faremo tutto il possibile per evitarlo, ma se dovesse venirti anche solo una bronchite, il dottore dice che adesso c’è una medicina nuova che uccide il microbo. Perciò non c’è da preoccuparsi. Vado a prendere il tè».
Dopo che fu andata via, Richard disse in tono asciutto: «Non voglio che uccidano il microbo. Io voglio morire. È l’unica cosa che desidero». Aveva incrociato lo sguardo di Christopher sul finire della frase. Non c’erano dubbi su ciò che intendeva dire, e Christopher era sbigottito.
Andò a sedersi accanto a lui. «C’è qualcosa che posso fare per te?».
«Sì. Puoi aiutarmi a morire a forza di alcolici e sigarette, almeno sarà un po’ più piacevole della polmonite. Non credo che il dottor Gorley abbia una nuova medicina anche per questo. Credo che sia rimasta una sigaretta dietro quei libri là sopra. Abbiamo poco tempo prima che l’Angelo della Vita torni qui coi suoi meravigliosi panini dolci».
Gli prese la sigaretta. Era l’ultima del pacchetto. L’accese e la mise in bocca a Richard. Lui aspirò con forza e gli fece cenno di toglierla. Gli sorrise. «Tu sei un buon ragazzo, lo vedo. Una delle cose peggiori quando sei in questo stato è che la gente crede sempre di sapere cosa è meglio per te. E invece non lo sa affatto. Lo so soltanto io. Un altro tiro... Comincio a capire come deve sentirsi un orso polare allo zoo», disse dopo aver inalato ancora. «In trappola. Non può fare tutto ciò che normalmente fanno gli orsi polari quando non sono in cattività. Certo, io dispongo di risorse che l’orso polare, fino a prova contraria, non ha. Risorse spirituali e intellettuali... come direbbe padre Lancing. Ma sfortunatamente...», sorrise ancora, e per un attimo Christopher vide il bel ragazzo che doveva essere stato una volta, «...io non posso usufruirne. Non riesco neppure a tenere un libro in mano. Se fossi un cane me la caverei meglio».
Subito gli venne in mente la morte di Oliver, lui che lo teneva in braccio mentre gli veniva iniettato il farmaco fatale.
«Credo di capire di cosa parli», gli disse porgendogli la sigaretta per un terzo tiro. «Lei lo fa con buone intenzioni», aggiunse, perché un po’ gli dispiaceva anche per Nora.
«Oh sì», replicò stancamente. «È impossibile dimenticarsene. Un altro tiro. Sarà qui a momenti. Se non ti dispiace, quando arriva, mettila in bocca. Sente sempre l’odore del fumo, penserà che sia stato tu. Tu credi in Dio?», domandò dopo aver aspirato.
«Io... ci sto riflettendo».
«Tu sei un tipo sincero, vero?».
«E tu ci credi?»,
«Faccio del mio meglio per non crederci. Perché se esiste ed è responsabile della mia situazione... le implicazioni sono troppo orribili...».
«Eccoci qui!». Nora irruppe nella stanza col vassoio. «Christopher! Non sei molto gentile a fumare di fronte a Richard».
«Scusa». Buttò il mozzicone nel fuoco e scambiò un’occhiata veloce con lui, che aveva spiato con ansia i suoi movimenti e ora gli faceva l’occhiolino.
Al suo incontro con padre Lancing – aveva preso l’abitudine di fargli visita dopo cena – gli raccontò quell’episodio. «Sta davvero male. Quando mi ha detto che vuole morire, io l’ho capito».
«Sì».
«E anche se mi rendo conto che Nora è molto generosa, qualche volta credo che sbagli».
«Le due cose non sono in contraddizione». Padre Lancing stava riempiendo il serbatoio della sua piccola pipa nera.
«E capisco anche che non creda in Dio».
«Lo capisco anch’io».
«Nora ci crede. Una volta mi ha detto che il suo maggior conforto è parlare con Dio».
Ci fu un breve silenzio. «Sai, parlare è una bella cosa, ma quando si tratta di Dio la cosa più importante è ascoltare». Si stava accendendo la pipa. «La preghiera serve anche a questo. A indicare la disponibilità all’ascolto». Poi aggiunse meditabondo: «La gente spesso si reputa generosa perché si sobbarca quelle cose che nessun altro vuole fare. Ma la generosità è uno stato d’elezione. La maggior parte delle persone riesce ad accedervi solo ogni tanto e per breve tempo».
«Che cosa posso fare per loro?».
«Gli vuoi bene?».
Ci pensò. «No, non particolarmente. Però mi dispiace moltissimo per loro».
«Prova a volergli bene. E vedrai che ti verrà in mente un modo di aiutarli».
Al tempo in cui ebbe luogo questa conversazione conosceva ormai padre Lancing abbastanza bene. Dava la comunione ad alcuni degli ospiti della casa, e due o tre di loro erano anche in grado di essere condotti in chiesa la domenica. Era stato uno dei primi compiti che Nora aveva assegnato a Christopher. Lui aveva fatto la cresima in collegio, ma finiti gli studi non aveva più messo piede in chiesa, a parte una volta nel Sussex. Dopo qualche settimana padre Lancing lo aveva invitato a bere il tè e lui c’era andato.
Il sacerdote viveva in una vasta casa umida con una governante, una donnina che non diceva mai una parola e somigliava a un fantasma, perché le rare volte che apriva bocca si esprimeva in acuti sussurri. padre Lancing lavorava senza risparmiarsi: Christopher di primo acchito non si era reso conto che quell’invito era stretto in mezzo a pressanti incombenze parrocchiali e non gli era passato per la mente di chiedersi come mai era stato invitato; aveva ingenuamente immaginato che il prete patisse un po’ di solitudine, ma piano piano capì che non si trattava di questo. Quando non diceva messa, andava in visita ai fedeli oppure partecipava a riunioni; amava i bambini e la musica e si spendeva molto per promuovere il coro e aiutare la locale scuola elementare nelle varie uscite e festività. Era un anglicano ortodosso e ad alcuni in paese questo non piaceva, così frequentavano un’altra chiesa la domenica; ma la sua era comunque sempre ben piena e due volte alla settimana confessava i fedeli. La prima volta che Christopher era andato a trovarlo, padre Lancing gli aveva chiesto che cosa lo avesse portato a Frensham e lui gli aveva risposto che si era sentito inutile dopo la morte di Oliver e che aveva provato il bisogno di fare qualcosa per qualcuno. Durante quegli incontri parlava molto di sé, e si accorse in fretta che padre Lancing lo conosceva molto bene, meglio di chiunque altro, meglio perfino di lui stesso.
Le loro conversazioni sfociavano spesso nel filosofico, o piuttosto nella filosofia cristiana. Per esempio, quando Christopher gli aveva raccontato di Polly e di che colpo era stato per lui venire a sapere che, dopo quell’amore infelice, aveva incontrato un altro uomo e che stava per sposarlo, alla sua frase: «Perciò ora so che non mi avrebbe mai amato», padre Lancing aveva risposto: «Ma tu hai amato lei, e questo è un dono».
«Un dono?».
«Certamente. L’amore è un grande dono».
«Come la fede, intende dire?».
«Be’, potremmo dire che la fede è un dono un po’ diverso, no? Tu che ne pensi?».
E così via.
Dopo quella conversazione su Nora e Richard, tornò determinato a voler loro bene. E scoprì che volerne a Richard era più facile che volerne a sua sorella. Aveva tentato di parlarle, di dirle che forse bisognava concedergli qualche piacere, anche se non gli faceva bene alla salute, ma lei lo aveva zittito subito. «Lo so che hai buone intenzioni, Christopher», concluse. «Ma purtroppo non si tratta solo di questo. Ormai sono anni che lavoro con queste persone e solo io so di cos’hanno bisogno».
«Allora sei tu quella che ha buone intenzioni», non seppe trattenersi dal replicare, e lei allora sibilò: «Certo! Come può solo venirti in mente il contrario?».
Ormai in chiesa ci andava perché ne sentiva il bisogno. Disse anche a padre Lancing che voleva confessarsi, e il prete lo informò che ci si confessava il martedì e il venerdì. Gli diede anche un libriccino. «Ti darà un’idea di come si fa», disse.
Ci andò. All’inizio gli era sembrato di non avere poi molto da confessare, ma quando fu il momento scoprì che invece ne aveva eccome. Lo sorprese anche il fatto che padre Lancing non facesse mai commenti di ordine morale ma si limitasse perlopiù a porre domande di carattere pratico, tipo: «Quante volte è successo?». Poi, ricevuta l’assoluzione e la penitenza, rimase in chiesa a pregare, infiammato di buone intenzioni per il futuro.
Scoprì presto che queste non duravano, o meglio che nel tran tran e nella stanchezza del quotidiano finiva per scordarsene. Sentiva di essere circondato da persone tristi e tribolate, e una volta che ebbe capito quanto era difficile aiutarle, la loro infelicità cominciò a dargli sui nervi.
Poi un giorno – era nel capanno a segare un tronco di olmo particolarmente ostico – gli venne in mente una cosa che gli aveva detto padre Lancing, a cui a sua volta l’aveva detta un monaco. «Al centro dell’universo puoi mettere te stesso oppure Dio. Ma non un’altra persona». Sul momento aveva ascoltato per educazione ma non si era sentito d’accordo; adesso invece il senso di quella frase lo colpiva per la sua verità. Lui non voleva in nessun modo essere al centro del proprio universo, perciò doveva metterci Dio.
Corse da padre Lancing con quella rivelazione, che fu accolta con molta calma. Una calma tale che quasi lo irritò.
«E che cosa intendi fare?», gli domandò.
«Ho pensato di entrare in una comunità. Di farmi monaco, insomma».
«Così, di punto in bianco?».
«Sì. Non sono bravo nel mondo. Credo che farei di meglio fuori dal mondo».
Padre Lancing aspettò qualche secondo prima di rispondere. Era impegnato a svuotare quella sua pipa maleodorante. Poi disse: «Be’, ecco. Non credo che ti vorranno se il tuo obiettivo è fuggire dal mondo. Si tratta di andare verso qualcosa, non di fuggire da qualcosa».
«Verso Dio? Sì, è quello che voglio!».
Padre Lancing gli mise le mani sopra le spalle.
«Posso mandarti da qualcuno che ti spieghi alcune cose», disse. «Ti chiarirai le idee e non ti farà affatto male».
E così era andato a Nashtun Abbey. Era rimasto due giorni e aveva avuto due lunghe conversazioni riguardo alla sua possibile vocazione. Il luogo lo incantò e diede un’ulteriore spinta alla sua determinazione. In quell’occasione scoprì, tra le altre cose, che doveva passare dai due ai tre anni in convento come postulante prima di diventare novizio e che in quel periodo sarebbe stato libero di andarsene quando voleva.
Tornò a Frensham euforico; non aveva dubbi né paure; sapeva cosa voleva. Non gli restava che aspettare che lo accettassero.
Passarono settimane senza che avesse notizie. Andò da padre Lancing.
«Padre Gregory mi ha scritto una lettera su di te», disse. «Dice che a suo avviso hai bisogno di altro tempo e di altre informazioni per decidere cosa è meglio, per capire se hai veramente una vocazione. Vedo che sei deluso. Pensavi forse di sapere tutto? Sì, alle persone capita. Una fantasia spirituale è una fantasia come le altre. Basta ripetersela nella mente e ti sembra reale, vero?».
Fu un colpo allo stomaco. Sentì che arrossiva.
«Mi è stato chiesto di aiutarti a capire meglio, se vuoi. Perciò non disperare, san Cristoforo». Il suo sorriso era così fraterno che Christopher fu in grado di ridere con lui.
«Tu e padre Lancing. Cosa state combinando?», gli domandò Nora quando Christopher le chiese un po’ di tempo libero per andare a trovarlo.
«Mi insegna delle cose».
«Oh, bene. È un uomo eccezionale. E sono molto felice che tu abbia iniziato ad andare in chiesa».
Richard invece non la prese così bene. «Ti stanno indottrinando, è chiaro come il sole! Presto avrai tutte le ragioni del mondo per negare te stesso. E anche me».
«Niente affatto». Aveva deciso di aiutarlo con le sigarette e aveva comprato ogni mese una bottiglia piccola di whisky che fingeva di dividere con lui – in realtà di nascosto riempiva il proprio bicchiere di tè freddo.
Disse a padre Lancing che non intendeva parlare a nessuno della sua scelta. Adesso si trovavano sovente su posizioni opposte e una volta che avevano un appuntamento e il prete non si fece trovare, Christopher si arrabbiò moltissimo. Alla visita successiva padre Lancing se ne accorse subito.
«Ce l’hai con me perché ho dovuto fare un’altra cosa. Perché? Credi di essere più importante degli altri?».
«Poteva avvisarmi».
«Forse potevo. Ero in ospedale e non volevo lasciare la persona che ero andato a trovare. Ecco di che si tratta».
«Capisco».
«No. Non capisci. Ma capirai».
Adesso stava attraversando l’incrocio con la strada dove abitava Polly. Vi gettò uno sguardo dall’autobus, ma non era certo di quale fosse casa sua.
All’inizio aveva deciso di non andare al matrimonio, e quando padre Lancing gli aveva chiesto il motivo, gli aveva risposto che aveva paura di come avrebbe potuto sentirsi.
«Se è questo il motivo, allora devi proprio andarci. E poi, cosa mi dici di tua cugina? Hai detto che ti vuole molto bene. La rattristerà che tu non ci sia».
«Be’, sì. Ma ho pensato che non fosse questa la cosa più importante».
«Perché la cosa più importante sei tu, vero? E il tuo percorso spirituale?».
Guardò stordito il suo amico sentendosi in trappola, perché lui ragionava effettivamente così mentre padre Lancing no.
«Sto cercando di lasciarmi alle spalle queste cose», disse alla fine.
«Ah, ecco. Questo succede quando l’orgoglio spirituale ha il sopravvento. Dio può cavarsela anche senza di te che ti congratuli con te stesso per quanto lo ami». Ma anche questo lo disse con tale dolcezza che Christopher trovò la forza di sopportarlo.
«Ho capito», disse. «Ci andrò».
Per lui era stata un’esperienza davvero strana. In chiesa si era inginocchiato a pregare che Polly fosse felice, che avesse trovato la persona giusta. Era strano pensare che avrebbe avuto dei figli e lui non li avrebbe conosciuti, che dopo quel giorno non avrebbe più saputo nulla di lei. Era arrivata in chiesa ed era stata condotta all’altare da suo padre, seguita, gli parve, da Lydia e da una bambina che doveva essere la figlia più piccola di Rupert. Il volto era coperto dal velo. Ma la sua voce, quando pronunciò i voti, risuonò forte e chiara. Uscirono dalla sagrestia e Polly percorse la navata in senso opposto al braccio di suo marito. Adesso aveva il velo tirato indietro e la felicità le si leggeva in viso.
Quando al ricevimento fu finalmente il suo turno di congratularsi con lei, Polly si animò tutta vedendolo e lo baciò con calore dicendo: «Gerald! Lui è il mio caro cugino Christopher».
Forse era il raso bianco e lucente, o il velo, o le perle che aveva al collo, oppure i suoi radiosi occhi azzurro scuro o tutte queste cose insieme, ma sembrava emanare luce, e Christopher ne era incantato e stupefatto. Temette di provare ancora qualcosa per lei, ma stavolta seppe gioire del suo amore, e questo gli diede un senso di pace.
«...perciò devi venire a trovarci», stava dicendo Polly. E suo marito sorrideva e ribadiva che era il benvenuto.
Provò l’impulso di dire a Polly della sua decisione, ma non era il luogo né l’occasione adatta. Durante la festa – i discorsi, i brindisi, l’allegria generale – cercò di vedere più persone possibile della famiglia, per dar loro un silenzioso addio. Clary, magra, coi capelli lunghi e un vestito verde, fu l’unica che lo osservò con attenzione (prima Christopher non aveva mai notato che begli occhi avesse) e notò che qualcosa in lui era cambiato. «Non so in cosa esattamente, ma sei diverso. Sembra che tu abbia trovato qualcosa di bello», disse.
«Infatti l’ho trovato».
Allora gli sorrise e tornò la ragazzina che lui ricordava bene, con la faccia sporca e i vestiti perennemente strappati o macchiati di succo di frutta. La Duchessa sembrava un po’ rimpicciolita, ma per il resto era sempre la stessa. Poi c’erano zio Hugh, che sembrava un altro uomo tanto era contento – «All’ultimo matrimonio portavi i miei pantaloni, ti ricordi?», gli aveva detto –, e gli altri cugini. Simon e Teddy, elegantissimi nei loro abiti da cerimonia, furono felici di vederlo e gli parlarono entrambi di quella volta che si erano messi in testa di andare a vivere in una tenda in mezzo al bosco. Allora era in fuga. Aveva sempre vissuto in quel modo, finché non aveva trovato qualcosa verso cui camminare...
L’autista dell’autobus annunciò la fermata per chi doveva andare a Marylebone Station, e lui scese. Il mio ultimo autobus, pensò senza rimpianto, ma come un semplice dato di fatto.
«A me sembra un modo di non affrontare i problemi», era stata una delle obiezioni di suo padre durante quel pranzo.
Mentre camminava verso la stazione rifletté che curiosamente il congedo da Richard era stato il più difficile. A Nora aveva detto che andava a un ritiro temporaneo, ma lei conosceva bene queste cose e gli aveva chiesto per quanto tempo; lui aveva risposto che non lo sapeva – mesi, comunque – e lei aveva spalancato gli occhi ed esclamato: «Oh, Christopher! Adesso capisco. Spero tanto che tu abbia la vocazione». E poi gli aveva detto piano, quasi vergognandosi: «Una cosa... A Richard potresti non dire che te ne vai per sempre? Ti è molto affezionato e si rattristerebbe. È meglio se glielo diciamo quando ormai si è abituato alla tua assenza».
Lo ama, a modo suo, pensò. E perciò l’aveva accontentata. Avrebbe preferito essere onesto, ma l’inquietudine di Richard per la sua partenza era così lampante che pensò che forse, per una volta, Nora aveva ragione.
«Non posso dire che senza di te non sarà più la stessa cosa, perché invece lo sarà. Sempre la solita vita orrenda».
L’ultima sera Nora aveva avuto il tatto di lasciarli soli, un gesto di cui Christopher – ammise a se stesso con un po’ di vergogna – non l’avrebbe creduta capace. Avevano bevuto l’ultimo drink insieme e Richard aveva fumato tre sigarette.
«Non è solo per le sbronze e le sigarette», gli disse suo cognato. «È che mi piaceva parlare con te. Be’, se mai tornerai, almeno avrò qualcosa di bello da aspettare, che è sempre meglio di niente, no?».
Provò l’impulso di chinarsi e abbracciarlo e Richard sussultò come se gli avesse fatto male. «Continua così, allora», gli disse.
Forse qualche volta avrebbe potuto scrivergli. Ma Nora avrebbe dovuto leggergli la lettera, e questa consapevolezza avrebbe cambiato la natura della lettera stessa. Chissà poi se mi sarà permesso scrivere lettere, pensò con un lieve sussulto di terrore al pensiero della nuova vita che lo aspettava.
Ma una volta salito in treno e issata la piccola valigia sulla rete portabagagli, gli tornò un senso di avventura e di euforia al pensiero di quel viaggio spirituale che stava per intraprendere verso il centro del proprio universo, e allora pensò che ciò che doveva lasciarsi alle spalle non erano le cose o le persone che avevano fatto parte della sua vita passata, ma altre cose misteriose e a lui ancora ignote che gli si annidavano dentro, perché solo così sarebbe riuscito a fare spazio a un nuovo abitante.