Archie
Maggio-giugno 1946

«Capisco che è tardissimo, Archie, ma non so cosa fare! Mi sembra di diventare matta! Io...».

«Edward dov’è?».

«Proprio di Edward si tratta! Mi ha lasciata! Se ne è andato! Così, come se niente fosse! Di punto in bianco mi ha detto così, che se ne va... se ne va a stare da...». A questo punto la voce le tremò e Archie non sentì altro che i suoi vani tentativi di soffocare i singhiozzi. Guardò l’orologio: erano le due di notte passate.

«Vuoi che venga lì». Non era una domanda. Sapeva che era questo che gli stava chiedendo.

Una volta salito sul taxi, che era riuscito chissà come a reperire, si domandò perché proprio lui. Perché non sua sorella, invece? Inutile stare a lambiccarsi: ormai i Cazalet contavano su di lui quando avevano bisogno di una spalla su cui piangere o di quel tipo di consigli che uno cerca quando ha già deciso cosa fare ma gli serve un po’ d’incoraggiamento. Archie, una spalla su cui puoi contare sempre!, pensò, e poi si vergognò di se stesso. Povera Villy! A parte tutto, gli era parsa davvero sconvolta. C’erano state delle voci: gli aveva accennato qualcosa Rupe, ma facendogli anche capire che secondo lui Edward non avrebbe avuto cuore – se di cuore si poteva parlare – di andare fino in fondo; aveva anche notato che Hugh gli rivolgeva la parola molto di rado durante le riunioni familiari. Un sentore di guai in vista doveva pur esserle arrivato. Certo però che dirglielo la sera della festa di benvenuto per Teddy e Bernardine era stato davvero esagerato da parte di Edward! Anche Archie era stato alla festa, ma se ne era andato via presto perché sentiva i prodromi di un’influenza, e inoltre c’era così tanta gente nel soggiorno della nuova casa di Villy che gli era toccato rimanere in piedi, il che non faceva bene alla sua gamba. Quasi tutti i membri della famiglia erano venuti a conoscere la moglie di Teddy, che aveva senza dubbio offerto uno spettacolo sensazionale. Si era presentata con un abito da sera di crêpe aderente alla figura, con tanto di spacco alto, sandali dorati e una specie di coccarda d’oro tra i capelli acconciati in maniera complicata. Quando però gli era stata presentata, mentre gli diceva come fosse stata accolta bene da tutti quanti, Archie si era accorto che doveva avere almeno dieci anni più di Teddy, il quale se ne stava tutto raggiante al suo fianco. Era truccata pesantemente, come un’attrice di teatro, e gli occhi tondi e grigi lo avevano guardato ammiccanti, con un carico di sottintesi sessuali che lasciava intuire una considerevole esperienza in quel campo. Portava dei lunghi pendenti, una spessa collana d’oro, due braccialetti con i ciondoli, e le unghie lunghe erano dipinte di rosso. Sembrava preda di una violenta euforia, e rideva forte dopo aver detto qualcosa. Archie pensava queste cose perché lei non gli piaceva, e durante la serata aveva scoperto che non piaceva nemmeno a Rupe. «Una donna pericolosa», disse. «Ma per fortuna, vedendola arrivare da lontano, sei riuscito a evitare la botta».

«Teddy invece no», replicò lui.

«No, lui no». Ed entrambi si volsero verso Teddy, il quale si stava lasciando crescere i baffi nell’evidente e piuttosto riuscito intento di somigliare a suo padre.

Archie notò anche che Edward usava tutto il suo fascino con la nuora e che questa ne era debitamente colpita. Se anche lui la trovava inadeguata, di certo non lo dava a vedere e si comportava come sempre da perfetto padrone di casa.

Quando fu trascorso un lasso di tempo adeguato, Archie se ne andò con discrezione. Chiese alle ragazze se volevano un passaggio e Polly disse di sì. Clary invece declinò, e alla fine anche Polly cambiò idea e decise che avrebbe aspettato Clary. Così Archie uscì zoppicando su Abbey Road e fermò un taxi; arrivato a casa fece un bagno caldo e bevve del whisky, sperando di bloccare sul nascere il raffreddore o quel che era. Si era appena addormentato quando era arrivata la telefonata di Villy.

Venne lei ad aprire. Il corridoio era buio. Lo precedette fino al soggiorno senza dire una parola, ancora pieno dei resti della festa. Sul tavolo dove aveva allestito il buffet c’erano mucchi di piatti sporchi e un vassoio pieno di bicchieri macchiati di vino, e i tavolini, così come i braccioli delle poltrone, erano gremiti di posacenere traboccanti. Il fuoco ardeva ancora nel camino – doveva essere stato acceso da poco – mentre le piantane gettavano la loro luce burrosa su quel mesto panorama.

Villy chiuse la porta portandosi un dito alle labbra. «Non svegliamo Miss Milliment», disse, poi gli fece cenno di sedersi. «So che non ti piace stare in piedi». Gli offrì prima da bere e poi una sigaretta, e Archie rifiutò entrambi. Villy disse: «Sei stato davvero buono a venire». Sorrise, e parve rattrappirsi dalla vergogna. «Tu ne sapevi qualcosa?». Si era messa vicino a un tavolo pieno di bottiglie e la domanda le uscì come un borbottio.

«No». Archie ci aveva pensato in taxi e aveva stabilito che, dal punto di vista di lei, lui non ne sapeva nulla. Del resto non aveva mai saputo nulla di certo. «Che ne dici di sederti con calma e raccontarmi tutto?».

«Ti prendo da bere».

Tornò con un bicchiere di whisky e un sifone da seltz. «Ho pensato che preferissi preparatelo da solo». Un altro penoso sorrisino di circostanza. Gli porse il proprio portasigarette di legno di rosa, ma lui rifiutò di nuovo.

Poi si lasciò cadere di colpo, come priva di forze, sulla sedia di fronte e lo guardò piena d’angoscia. «Non riesco a crederci. È come un sogno orribile... un incubo! Dopo che se ne sono andati tutti, mi ha detto che c’era una cosa che dovevo sapere. Chi se l’aspettava?». Sbottò in una risatina amara. Con quei capelli bianchi e quelle sopracciglia scure sul viso gonfio e stravolto dal pianto, sembrava una bambola impazzita. «La mia vita è in pezzi! Il mio matrimonio non era che una farsa!». Archie non provò che pietà per lei.

«Ma perché...», fece per chiedere, ma fu subito interrotto.

«Oh, un’amante, una donnaccia ansiosa di sistemarsi, che gli ha messo gli artigli addosso e non l’ha mollato più! Una vera nave da guerra, ecco come dovrei chiamarla... la Nave da guerra! È andata avanti per anni, alle mie spalle! Non ha fatto che ingannarmi e raccontarmi bugie! Immagino che tutta Londra l’abbia saputo prima di me. Dio, che umiliazione! Non c’è mai stato nessun altro nella mia vita! Ho rinunciato a tutto per lui, a tutto! Mi sono occupata della sua casa, ho cresciuto i suoi figli e adesso mi butta via come una scopa vecchia! Ha comprato questa casa solo per sistemarmi qui, da sola! E sola resterò, per il resto della vita...».

Queste furono alcune delle cose che disse e su cui tornò più volte. Oscillava tra la totale disperazione e l’effimera convinzione che si potesse far cambiare idea a Edward. Proprio non sapeva come avrebbe fatto a perdonarlo, ma naturalmente doveva farlo per forza. Lui non poteva scaricarla in quella maniera! O forse era possibile parlare con quella donna e farle capire che non ci si comporta così.

Diana, si chiamava, Diana qualcosa. L’aveva anche incontrata, una volta. Edward l’aveva portata in Lansdowne Road una sera che non si aspettava di trovarci sua moglie. Le veniva la nausea al pensiero delle risate che dovevano essersi fatti, dopo averla passata liscia! Ma come gli era venuto in mente di fare una cosa del genere? Lui, Archie, riusciva a capirlo?

Le spiegazioni che gli venivano in mente, Archie pensò bene di tenerle per sé, e si limitò a scuotere il capo (meno male che alla fine aveva accettato del whisky). Non sapeva proprio cosa fare: sentiva quanto era sconvolta, ma la sua sofferenza era tale da non lasciare spazio ad alcun gesto di conforto, a nulla che non fosse la constatazione dell’infelicità. E fu questo che le offrì per un tempo che gli parve ore, finché Villy non si placò­, temporaneamente e per sfinimento.

«Mi dispiace davvero tanto», le disse Archie alla fine mentre le accendeva la quinta o sesta sigaretta.

«I ragazzi», disse lei. «Cosa dico adesso ai ragazzi? A Teddy e a quella donna assurda che ha sposato. Lydia per fortuna è in collegio. E Roly è troppo piccolo per capire. A Louise non credo importi molto, ma Roly, povero piccino, resterà senza padre! Perché non deve nemmeno pensare che io permetta a Roly di avvicinarsi a quella donna!».

Seguì un breve silenzio e si udì un pezzo di carbone cadere fuori dalla grata.

«Ho abbandonato la danza, per Edward», disse, e per la prima volta la sua parve semplice tristezza. «Ma non ha senso adesso rimpiangere di averlo fatto, perché sarei comunque troppo vecchia. È tardi per qualunque cosa».

Archie sapeva che aveva cinquant’anni – c’era stata una festa a casa di Hugh, nel gennaio di quell’anno.

«Che cosa dovrei fare secondo te?».

«Secondo me dovresti farti una bella dormita prima di cominciare a pensarci».

«Non posso andare di sopra, in camera nostra...».

Fu un sollievo poter condividere la sua tristezza, anche solo per un secondo. Le disse che non era necessario. Poteva stendersi sul divano, lui avrebbe ravvivato il fuoco e l’avrebbe coperta con lo scialle che era sopra il pianoforte. Si offrì di prepararle qualcosa di caldo... davvero, era bravo a trovare le cose. La fece stendere sul divano. Il pianto era cessato e con esso il gonfiore, lasciandole il viso smunto ed esausto. Ma mentre le sistemava il cuscino, lei alzò gli occhi e con una specie di grottesco eroismo che gli fece cascare le braccia disse: «Tanto fra cent’anni sarà tutto uguale». Non replicò. Le sistemò addosso lo scialle e poi s’inginocchiò per ravvivare il fuoco – la stanza stava diventando fredda. Villy si fece silenziosa, Archie si alzò pian piano e le lanciò un’occhiata sperando che si fosse addormentata. Meglio prepararle lo stesso una tazza di tè, si disse, e s’avviò verso la porta. Mentre la apriva Villy disse: «Archie! Parlerai con Edward? Magari riesci a convincerlo...».

«Farò quel che posso», replicò. Che altro poteva dire?

Quando tornò in salotto con il tè, la trovò addormentata. Se ne versò una tazza e la bevve con sollievo. Gli dolevano la testa e la gola: si sentiva a pezzi. Erano quasi le sei. Gli restava giusto il tempo di tornare a casa, lavarsi, radersi e correre in ufficio. Le scrisse un biglietto e se ne andò.

Mentre era in taxi si rese conto che in tutte quelle ore, mentre dava sfogo alla rabbia, allo stupore, all’umiliazione, Villy non aveva mai fatto parola del proprio amore nei confronti di Edward. E allora si domandò non tanto perché Edward l’avesse lasciata, ma perché l’avesse sposata. Gli era sempre parsa una donna ammirevole, ma decisamente poco amorevole.

* * *

«Avresti dovuto telefonarmi prima. Davvero».

Fece per dire che non le aveva telefonato affatto e il termometro gli cadde di bocca.

«Sta’ buono», gli disse mentre lo raccoglieva. Glielo ficcò in bocca e continuò: «Se non mi avesse telefonato Marigold non ne avrei saputo nulla. Da quanto tempo sei in questo stato?».

Si tolse di bocca il termometro per dire: «Quattro giorni», e lo rimise a posto. Gli disse che usciva un momento, ma lui doveva restarsene tranquillo.

Si tolse il termometro. Aveva 38,3°. La febbre stava scendendo. Il giorno dopo la nottata con Villy era andato in ufficio in uno stato penoso e aveva trascinato le ore a forza di aspirine e tazze di tè che gli portava un impiegato archivista, uno che già in passato gli aveva fatto numerosi favori. Verso le quattro, quando ormai si apprestava a levare le tende, fu mandato a chiamare. L’ometto irrequieto per cui lavorava disse che quel pomeriggio c’era stata una riunione molto importante e che i moduli in uso per la documentazione dei congedati dovevano essere modificati, il che a suo dire avrebbe avuto un’onda lunga di ripercussioni. Archie attese in silenzio che gli venissero elencate, ma non serviva molta immaginazione: le conseguenze riguardavano praticamente solo lui. Doveva rifare tutti gli ultimi moduli – un lavoraccio noioso e ripetitivo che avrebbe preso un paio di settimane. Quella sera e l’indomani bisognava far pervenire una minuta in tutti i dipartimenti interessati: i moduli che erano usciti dall’ufficio dovevano essere annullati mentre i nuovi dovevano essere messi in opera non appena il capo dipartimento li avesse approvati. Non era chiaro quando questo dovesse avvenire di preciso, ma Archie doveva prepararsi a giornate di lavoro intenso.

Archie aveva fatto il saluto militare ed era uscito dall’aria viziata dell’edificio. Pioveva. Non era in grado di prendere l’autobus e fare l’ultimo tratto a piedi, così fermò un taxi. Nonostante fosse maggio, il tempo era pessimo – cielo grigio, pioggia e temporali, uno dei quali si scatenò proprio mentre lui era in strada. Quando finalmente varcò la soglia dell’appartamento, aveva i brividi e desiderava solo mettersi a letto e scaldarsi. La notte ebbe la febbre alta, la mattina telefonò in ufficio per dire che non poteva andare e staccò il telefono. Passati tre giorni avevano suonato al campanello ed era Nancy. Gli era uscito di mente che la sera prima dovevano vedersi fuori dal cinema Curzon. Era una brava ragazza – una donna, in effetti. Non lo aveva sgridato ed era parsa solo ansiosa di essere d’aiuto. Aveva scoperto presto che in casa non c’era niente da mangiare ed era andata a fare la spesa. Gli aveva preparato il bagno, e mentre lui lo faceva aveva cambiato le lenzuola. Adesso stava tornando in camera con un piatto di brodo e del pane tostato. Archie le fu grato, perché aveva una gran fame.

«È brodo di tartaruga», disse Nancy. «Pare sia molto nutriente. Te ne ho comprate due scatole. Immagino tu non abbia chiamato un dottore».

«Non ce n’è bisogno. È solo influenza. E sono in via di guarigione, comunque».

«Il tuo telefono non funziona. Ho informato la compagnia».

«Non può funzionare. Ho staccato la spina».

«Vuoi che resti per la notte? Posso dormire in soggiorno».

«Sei molto gentile, davvero, ma preferisco restare solo».

Parve delusa, ma non stupita. «Va bene. Ma riattacca il telefono. Così domattina posso chiamarti per sapere come stai».

Raccolse col cucchiaio i minuscoli pezzetti di carne di tartaruga sparsi nel brodo e li mangiò. «Ti ringrazio tanto, davvero».

«Non dirlo nemmeno. Lo sai che ti voglio bene».

Lei lo disse con disinvoltura, ma Archie cominciò a preoccuparsi. «Non c’è bisogno che tu venga anche domani. Mi hai portato provviste a sufficienza e potresti dire al capo che lunedì sarò di ritorno al buon vecchio Ammiragliato».

«Se sarà passato tempo a sufficienza dall’ultimo giorno di febbre».

Gli tolse dalle ginocchia il piccolo vassoio. «Lavo questa roba e me ne vado». Si era messa l’impermeabile, che le copriva le ginocchia altrimenti lasciate nude dalla gonna corta alla tirolese.

«Non ti bacio», gli disse. Suonò come una specie di concessione. «Allora io vado!», annunciò per la terza volta, ormai sull’uscio, mentre si annodava intorno al collo un foulard di seta blu con una fantasia di chiavi di violino color senape.

«Grazie di cuore. Sei stata gentile a venire fin qua».

«Di nulla», disse lei.

«Appena sto bene ci andiamo, a vedere quel film», le gridò dietro.

«Bene».

Dopo che se ne fu andata, Archie se la immaginò che camminava verso South Ken, prendeva la Circle per Notting Hill Gate, saliva sul 31 fino a Swiss College e poi si faceva un altro tratto a piedi fino a una stradina di case di mattoni scuri, dove c’era il suo piccolo appartamento. Le ci sarebbe voluto più di un’ora.

Aveva ancora fame. Si alzò dal letto e andò in cucina dove, malfermo e con la testa che gli girava, si bollì un uovo e abbrustolì altro pane.

Aveva staccato il telefono perché non voleva discutere coi vari Cazalet del tradimento di Edward. Ma sapeva anche che Nancy, se le avesse detto che stava male, sarebbe accorsa in men che non si dica. Stupido da parte sua non aver pensato che sarebbe venuta a saperlo comunque, dal momento che lavorava nel suo stesso edificio. L’aveva conosciuta quasi un anno prima in mensa, aveva steso lei il verbale di una riunione particolarmente inutile a cui aveva partecipato. Si erano scoperti sodali nell’odio verso il loro comune superiore e nell’interesse per i vecchi film. Lei era iscritta al cineclub e lo invitava allo Scala Theatre la domenica pomeriggio, per una rassegna di classici del cinema. Dopo, Archie la invitava a mangiare – una cosa a metà fra una merenda abbondante e una cena leggera – al Lyons Corner House in Tottenham Court Road. Col tempo era venuto a sapere alcune cose sul suo conto: fidanzato ucciso a El Alamein, fratello fatto prigioniero in Birmania e poi tornato a casa ridotto a uno straccio. Era diventato un ubriacone, non riusciva a tenersi un lavoro ed era sempre lì a chiedere soldi. Aveva anche un gatto siamese che amava sopra ogni cosa e che si chiamava Moon. Nancy aveva chiesto poco alla vita e aveva ottenuto ancora meno; era una persona semplice, senza artifici, di buon cuore. Non diceva cose molto sciocche né cose troppo intelligenti, anche se inizialmente la sua considerevole cultura in ambito cinematografico l’aveva fatta apparire più sofisticata di quanto fosse in realtà. (In modo simile, era piuttosto ridicola quando parlava di Moon, e lui all’inizio l’aveva scambiato per senso dell’umorismo).

Poi Moon era morto. Era uscito dall’appartamento, s’era dileguato per più di una settimana e quando finalmente era ricomparso aveva una bruttissima ferita che si era infettata. Nancy piangeva a dirotto, mentre con voce monocorde gli raccontava quanto era successo senza stare ad asciugarsi le lacrime. «È stato quel disgraziato dell’operaio del gas!», raccontò. «Ha lasciato lui la porta aperta, anche se gli avevo chiesto di starci attento, e Moon era talmente curioso! Il veterinario ha detto che era troppo tardi: ha cercato di pulire la ferita... Moon aveva un ascesso e l’infezione non guariva, così il veterinario alla fine ha detto che la cosa più caritatevole da fare era sopprimerlo. E così ha fatto. Io l’ho tenuto in braccio, ma lui non era più in grado di parlare. Non ho un giardino in cui seppellirlo, perciò non ha avuto nemmeno una degna sepoltura. Sarà bruttissimo tornare a casa e sapere che lui non sarà lì a discutere su quello che gli do da mangiare e a chiedermi dove diavolo sono stata tutto il giorno!».

Quella sera la portò a casa sua e passarono la notte insieme. «Sono un po’ fuori allenamento», lo avvertì mentre saliva sul letto. «Non faccio l’amore da quando Kevin è morto. Ma vedrai che ci rifaccio l’abitudine». Fu goffa, affettuosa e molto tenera.

E comunque, pensò in quel lungo fine settimana di convalescenza, non posso andare avanti così, perché sarà lei a un certo punto a pensare che non si può andare avanti così. Penserà che non mi sarei spinto così in là con lei se non fossi interessato a qualcosa di più. E lui non era interessato. Perciò doveva comunicare anche a lei, al più presto, questa sua mancanza d’interesse. Del resto lui sapeva sempre quello che non voleva, pensò esasperato – era entrato nella fase in cui la debolezza, in combutta con l’autocommiserazione, genera noia e cattivo umore – ma su quello che invece voleva non c’era altrettanta chiarezza.

La Francia per esempio: quando finalmente avrebbe lasciato il lavoro che faceva adesso, voleva davvero tornarci? Doveva provare a capirlo. Gli anni che aveva trascorso laggiù li aveva passati a desiderare Rachel e a cercare di dimenticarla, e questo l’aveva assorbito completamente. Be’, adesso l’aveva superata, e per lei provava un tenero affetto che si era presto esteso a tutta la sua famiglia, che era diventata quasi la sua. Se fosse tornato in Francia, molti di loro li avrebbe visti molto meno, qualcuno probabilmente mai più.

La domenica pomeriggio, sul presto, uscì a fare una breve passeggiata e a prendere un po’ d’aria fresca. Stare all’aperto gli fece bene. L’aria s’era fatta tiepida. Sui marciapiedi si vedevano di tanto in tanto i petali dei fiori dei meli selvatici e delle macchie di lillà sulla schiena della gente o nei giardini delle case. I gatti se ne stavano sopra i muretti a godersi i raggi di un pallido sole, che si riflettevano anche sulle finestre dei secondi piani delle villette a schiera, molte delle quali avevano un disperato bisogno di una mano di vernice. Ma quando si è impegnati nella costruzione di una ventina di nuovi agglomerati dove sistemare più di un milione di sfollati, quella di pitturare case che per il resto sono agibili non è certo una priorità. Si chiese quanto ci sarebbe voluto perché le tracce esteriori della guerra scomparissero, perché la gente apparisse di nuovo ben vestita, ben nutrita e meno stanca. Mentre tornava a casa, si disse che era il momento di riscuotersi e di fare qualche telefonata. Villy. O magari Rupe, per vedere che aria tirava. Per quanto ne sapeva, Edward poteva aver cambiato idea... ma no, non si sarebbe spinto fino al punto estremo di parlarne con Villy se non fosse stato assolutamente certo delle sue intenzioni. Poi avrebbe telefonato a Nancy per fissare un appuntamento al cinema, e dopo il film le avrebbe detto che non c’era futuro per loro due. Posso andarmene alla deriva io, pensò, ma non posso portarmi dietro anche lei. Forte di queste decisioni, che pure lo deprimevano, tornò con calma a casa.

Con Nancy stabilì di vedersi il venerdì successivo. Poi, giacché non se la sentiva di affrontare Villy direttamente, chiamò Rupert.

«Archie! È da venerdì che cerco di chiamarti. Credo che il tuo telefono non funzioni bene. Ci sono brutte notizie, purtroppo».

«Lo so. Sono stato da lei dopo la festa».

«Lei? Chi?».

«Villy».

«Ah, quello. No, si tratta di un’altra cosa. Il Generale». Ci fu un silenzio, poi aggiunse. «È morto giovedì».

«Misericordia!».

«Ha avuto una delle sue solite bronchiti ed è diventata polmonite. Gli hanno dato la sulfapiridina ma non ha funzionato. Hanno detto che anche il cuore era malandato. Insomma, il poverino è spirato senza soffrire troppo, nel suo letto, alle tre del mattino. C’eravamo tutti. Rachel e la Duchessa erano con lui. Non poteva parlare, ma lo sapeva. Ha avuto una vita lunga e piena, ma è brutto lo stesso. Difficile da credere. Rachel voleva che te lo dicessi».

«Sono stato male e ho staccato il telefono. Mi dispiace tanto. Come stanno?».

«La Duchessa sta reagendo, pare».

«E Rachel?».

«Lei non sta molto bene, no. E poi, gli ha fatto praticamente da infermiera, soprattutto la notte, perciò è molto stanca fisicamente. Si è rotta la schiena a forza di tirarlo su dal letto, poveretta».

Ci fu un breve silenzio.

«Che cosa posso fare? Qualsiasi cosa, lo sai», disse.

«Lo so, vecchio mio. Sei di famiglia, ormai». Dopo una pausa rispose: «Vieni al funerale. Purtroppo sarà una cremazione, ma lui ha voluto così. Alle due e trenta, Golders Green, venerdì. Non sarà piacevole, con tutto quello che sta succedendo, sai... Hugh ce l’ha a morte con Edward e non gli parla. E detto tra noi, spero tanto che Villy non venga al funerale perché, povera donna, è completamente fuori di sé. Ha convinto Hugh a parlare con Edward e ovviamente ne è venuta fuori una lite spaventosa. La famiglia, sai. Certe volte ti invidio. Se continua così, Zoë e io dovremo trovarci una casa per conto nostro. Altrimenti la sera a casa mi devo sorbire la stessa manfrina dell’ufficio». Poi si scusò. «Ma non sono problemi tuoi».

«Vediamoci una sera. Noi due e basta».

«Sarebbe bello, ma non questa settimana. Ti chiamo io dopo il funerale».

Archie prese in prestito un’auto per andare a Golders Green. Arrivò presto, parcheggiò e stette a guardare i piccoli gruppi di persone che convergevano sul posto. Pioveva e tirava vento, la gente aveva difficoltà a tenere fermi gli ombrelli; anche da dentro la macchina percepiva il senso di reciproca e sussurrata solidarietà che si respira in queste occasioni. Gli parve che ci fosse veramente molta gente, ma quando si decise a scendere dalla macchina e unirsi agli altri, capì che contemporaneamente si stavano celebrando diversi funerali.

Fu detto loro che dovevano aspettare la fine della funzione precedente. Era già arrivata gran parte della famiglia (mancavano la Duchessa e Rachel – probabilmente stavano aspettando in macchina). Arrivarono anche molti uomini dall’aria distinta in impermeabile con la fascia al braccio: gente dell’ufficio, immaginava. C’erano anche alcuni signori d’età davvero avanzata, membri dei vari club, e delle signore un po’ più giovani: segretarie, amanti, difficile dirlo. Erano vestite di nero, e una di loro aveva un mazzetto di viole finte appuntato al bavero del soprabito.

Si aprì la porta e tutti confluirono lentamente all’interno.

«Siediti con noi». Era Clary. Era vestita di nero da capo a piedi, indumenti che doveva aver preso in prestito perché le stavano davvero male. Era dimagrita ultimamente, e aveva l’aria stanca. Polly invece era elegantissima nel suo cappotto blu scuro. Gli sorrise senza troppo calore e si voltò dall’altra parte.

La cappella non era molto grande e fu presto gremita. In fondo c’era la bara con sopra un serto di rose rosse. Era triste, pensò, che quel posto dovesse essere così brutto e deprimente: una chiesa, una qualunque, sarebbe stata preferibile a quei rivestimenti di quercia, quegli ottoni, quelle finestrelle istoriate. Non era di cattivo gusto solo perché era priva di qualunque gusto. Cercò d’immaginarsi l’architetto a cui era stata commissionata: la praticità prima di tutto, dovevano avergli detto. La struttura doveva essere in grado di ospitare il maggior numero possibile di cerimonie. Ed ecco perciò una serie di cappelle senza una precisa identità, capaci di adattarsi alle esigenze di qualunque culto; dovevano essere discrete, il forno appena visibile; un bel prato tranquillo intorno all’edificio; un riparo per i dolenti che volessero fermarsi ad ammirare i fiori. Questo dovevano aver detto ai vari Cubitt, Nash, Kent e Sir Christopher che si erano presentati... i clienti poi, loro venivano perché dovevano, e ci restavano il minor tempo possibile. Non c’era una popolazione residente a cui rendere conto...

La Duchessa entrò al braccio di Hugh, seguita da Rachel. Furono accompagnate in prima fila. Sulla sinistra.

La vista di Rachel lo lasciò sbigottito: era pallida e tirata, pareva sul punto di avere un crollo. Archie si era seduto vicino al corridoio centrale per via della gamba, e lei gli passò così vicino che avrebbe potuto toccarla, ma non lo vide nemmeno: teneva gli occhi fissi sul feretro e non li volse verso nessuno.

La funzione ebbe inizio. Un sacerdote dall’aria esausta recitò una preghiera; fu intonato un inno. Poi ci fu un salmo, la Preghiera al Signore, e un altro inno durante il quale furono aperte le porte della cappella, e la bara cominciò a scivolare fuori. Archie, che non aveva staccato gli occhi da Rachel, vide il suo volto contrarsi in uno spasmo d’angoscia, soffocato in fretta. Era finita. Erano terminati i quindici minuti a loro disposizione, si aprì un’altra porta e tutti, cominciando dalla Duchessa con Hugh e Rachel, uscirono dalla sala.

«Gesù!», disse Clary. «Che brutta cerimonia. Povero Generale!». Aveva gli occhi gonfi di lacrime.

«Non credo che lui lo sappia», fece lui.

«E come fai a esserne sicuro?».

«Non lo sono».

Clary tirò su rumorosamente col naso e disse: «È la solita storia, no? Non credere in nulla non è divertente».

«Ai funerali non si va per divertimento, Clary», puntualizzò Polly, ma nel dirlo prese sottobraccio la cugina.

Fuori la gente cominciava a disperdersi osservando i mazzi e le ghirlande sparsi sul terreno. Archie vide Edward ma non Villy. Voleva parlare con Rachel. Mentre le si avvicinava scorse Sid che la raggiungeva e le posava una mano sul braccio. Rachel si riscosse: si guardò intorno nell’ansiosa ricerca di qualcuno, poi si accorse di lui e allora disse: «Vado con Archie. Ma grazie». E Sid si voltò.

Prese Rachel sottobraccio. «Vuoi andare via?».

Lei annuì. Non riusciva nemmeno a parlare.

Inciampò mentre raggiungevano la macchina.

«Ti fa male la schiena?».

«Mmh».

Quando furono in auto finalmente gli disse: «Portami via di qui».

E così fece. Guidò in direzione di Hampstead Heath, finché trovò un posto tranquillo dove fermarsi. Quando si voltò, lei sedeva rigida, lo sguardo fisso.

«Rachel, cara, ti fa tanto male la schiena?».

«Mi fa male tutto». Poi si mise a piangere. Piangeva come se farlo le procurasse dei dolori indescrivibili. Certo, era anche suo padre, pensò Archie. È stata una cosa improvvisa, un trauma, senza considerare che si è sempre presa cura di lui senza risparmiarsi.

«Sei stata così brava con lui. Non potevi fare di più». Poi capì che era meglio non dire niente, lasciarla piangere e basta. La cinse col braccio – com’era facile adesso! Tempo prima un gesto simile avrebbe significato per lui estasi e angoscia in pari misura. Dopo un po’ le diede il suo fazzoletto.

«Oh, Archie, sei una tale benedizione! Non c’è niente come un vecchio amico». Ma per qualche ragione questo la fece piangere ancora.

«Ha avuto una vita felice, con tante soddisfazioni, giusto?». Adesso aveva la sensazione che parlare un po’ le avrebbe fatto bene.

«Sì, è vero. Dovresti vedere le lettere che sono arrivate per la Duchessa! Le più belle sono da parte di quelli che hanno lavorato con lui. Il giorno prima di morire mi ha detto che aveva avuto tanta paura di andarsene senza sapere cosa ne fosse stato di Rupe. La malattia non è durata a lungo...».

Per un po’ andò avanti così, associando piccoli fatti confortanti, che però non sembravano confortarla affatto. Aveva smesso di piangere: Archie però aveva la sensazione che ci fosse dell’altro, che non avesse ancora detto tutto.

«Che ne dici, andiamo da Hugh? È meglio?». Era stato organizzato un piccolo ricevimento in casa di Hugh, con tè e liquori.

«Non posso. Davvero, non ce la faccio». Lo disse con una veemenza che lo stupì, e temette che le stesse venendo una specie di esaurimento.

«Ti porto a casa, allora», disse con tutta la calma e il buonumore che riuscì a mettere insieme.

«Ti ringrazio tanto, Archie. Ti dispiace se fumo?».

«Certo che no».

Erano arrivati a Hampstead. «Sai, credo che dovresti riportare a casa la Duchessa e Dolly e poi prenderti una bella vacanza. Sid non potrebbe portarti in qualche bel posto tranquillo, dove riposare?».

«Oh no!», disse, ma fu subito scossa da nuovi singhiozzi che la facevano contorcere dal dolore.

«Cara Rach! Adesso ti porto a casa e ti metto a dormire». Ci vorrebbe un dottore, pensava. Almeno le poteva dare qualcosa per quei dolori e sarebbe riuscita a riposare.

Arrivarono a casa, lui cercò le chiavi nella borsa di Rachel, poi la aiutò a scendere dalla macchina. I dolori erano terribili. Riuscì in qualche modo a portarla su per i gradini dell’ingresso, poi in soggiorno e quindi la sistemò sulla sedia che a quanto pareva era la più comoda per lei. «Con lo schienale alto». Gli chiese di prenderle dell’aspirina dal suo tavolo da toeletta, di sopra, in camera sua. La stanza era fredda e spoglia, sembrava la cella di una monaca, pensò. Archie le suggerì di chiamare il medico, ma lei disse di no, che aveva bisogno invece del suo osteopata. «Non ho avuto il tempo di andarci. Nemmeno di prendere un appuntamento». Archie gli telefonò e facendo appello a tutta la sua capacità di persuasione, strappò a Mr Goring un appuntamento per le sei di quel pomeriggio. «Ti ci porto io», disse. Andò in cucina e preparò del tè. Lei aveva ripreso a preoccuparsi per delle piccole cose, come il fatto che le sei del pomeriggio erano fuori dall’orario di lavoro di Mr Goring, e chiamarlo era stata un’ingiustizia nei suoi confronti. E la cena della Duchessa? Le piaceva cenare presto. «Sono talmente lenta in cucina!», gemette.

Archie telefonò a Hugh per dirgli dell’osteopata e Hugh gli assicurò che alla Duchessa avrebbe pensato lui. «Sono felice che ti occupi di Rachel», aggiunse.

Aveva provato a dare a Rachel un po’ di whisky insieme all’aspirina, ma lei aveva rifiutato con fermezza. «Se bevo il whisky a stomaco vuoto arriverò da Mr Goring ubriaca fradicia». Si rese conto che ciò che aveva detto Rachel significava che non aveva pranzato, e probabilmente non aveva fatto nemmeno colazione. Glielo domandò, lei fu evasiva e alla fine ammise di aver preso solo una tazza di tè al risveglio, e niente per pranzo. Disse di sì quando lui si offrì di accendere il fuoco e abbrustolire un po’ di pane, cose che lei e la Duchessa facevano di solito all’ora del tè.

Stava tornando alla normalità. Parlò con affetto, e con un ragionevole e appena accennato grado di commozione, del Generale e della sua buffa reazione alla pessima cucina di lei; parlò anche del problema di Dolly, che ormai non ci stava proprio più con la testa (quando il Generale s’era aggravato, era stata mandata dalla vecchia suor Crouchback, ormai in pensione, ma presto sarebbe tornata a casa).

«Ma Rach cara, credi davvero di farcela con le due vecchie signore e senza nemmeno un aiuto in casa? Perché non ti prendi almeno una cuoca?».

«Oh, no. Mi farà bene darmi da fare una volta tanto».

«Qualcuno che faccia le pulizie, almeno?».

C’era stata una certa Mrs Jessup, che era rimasta per due settimane e poi era sparita nel nulla.

«Sid avrà di certo qualcuno. E se quel qualcuno non può venire anche da te, magari conosce qualcuno che può. Oppure potresti mettere un annuncio dal giornalaio. A volte funziona».

«Oh no!». Si stava chinando per rimettere il forchettone nella sua nicchia all’interno del focolare, ma quel gemito di dolore fece voltare Archie. Era accigliata e si mordeva il labbro, rigida nello sforzo di non gridare. Quando i loro sguardi s’incrociarono, gli rispose: «L’ho fatto. Ho messo un annuncio. È venuta una persona...». La voce le si spense in un sussurro e cominciò a tremare. Lui le andò vicino, ma quando l’ebbe raggiunta era già scoppiata in lacrime e si teneva la faccia tra le mani: un pianto sommesso e angosciato, che preoccupò Archie più di tutto quello che era successo prima.

Avvicinò una sedia a quella di lei. «Rachel, raccontami cos’è successo. Se ti ha ridotta in questo stato, devi parlarne con qualcuno».

«È vero, ma non so come fare. Una cosa così brutta... così orribile...».

Alla fine gli raccontò tutto. O meglio, fu lui a ricostruire l’accaduto a partire dai detti e non detti di quel confuso resoconto.

In risposta all’annuncio pubblicato dal giornalaio era venuta una ragazza; grazie al cielo Dolly e la Duchessa stavano riposando e il Generale era fuori. Rachel era sola. Almeno questo. Le era parsa una ragazza a modo, tranquilla, dall’aria per giunta vagamente familiare. Dopo che le aveva fatto le domande del caso, a cui lei aveva risposto in maniera adeguata, proprio quando stava per dirle che era assunta, la ragazza aveva detto di punto in bianco che in realtà era venuta per un altro motivo. «Non avevo proprio idea di cosa fosse, ma per qualche ragione ne avevo paura».

Poi era venuto fuori tutto. La ragazza conosceva Sid: forse Rachel si ricordava di lei? Ma certo: si erano incontrate una volta, proprio a casa di Sid. Perché erano anni che lei e Sid si frequentavano, anni! «Ha detto che credeva che io e Sid fossimo amiche. Solo amiche. Io le ho detto che era la verità. Che eravamo amiche da molto tempo, da prima della guerra».

La ragazza aveva detto poi che una cosa era essere amiche, ma che Sid le aveva mentito, le aveva fatto credere che lei – si chiamava Thelma – fosse il suo unico amore. «E poi mi ha detto che il giorno in cui io sono tornata a Londra, lei è stata cacciata da casa da Sid, estromessa dalla sua vita senza il minimo preavviso. Io proprio non ci capivo niente: perché fosse così arrabbiata e soprattutto perché Sid si fosse comportata così male con lei? Ma quando le ho detto che doveva esserci qualche ragione – non mi piaceva molto, quella ragazza, anche se un po’ mi faceva pena – di colpo mi ha urlato in faccia: “Tu! Tu sei la ragione!”».

Rachel gli lanciò un’occhiata e Archie capì quanto le costasse andare avanti con quel racconto. «Si è messa a parlare di lei e Sid, delle cose che avevano fatto insieme...». Un lento rossore le colorò le guance. «Non posso parlarne. È troppo orribile. Le ho chiesto di andarsene, ma non se ne andava. Ero seduta e avevo paura di alzarmi... voglio dire, avevo paura di non riuscire a stare in piedi...». Le mancò la voce e restò in silenzio, a deglutire come se avesse la nausea. Continuò a deglutire mentre si fissava le ginocchia.

Lui avrebbe voluto dirle che la gelosia era una brutta bestia, che era certo che Sid non amasse che lei, che quella ragazza gli sembrava un pessimo elemento e forse aveva raccontato un mucchio di frottole, o almeno aveva esagerato, ma qualcosa gli suggerì di astenersi. Le domandò invece: «Come hai fatto a liberarti di lei?».

«Mi ha chiamato mia madre dal piano di sopra. Quando si è resa conto che c’era gente in casa, si è alzata e ha detto che aveva sentito il dovere di dirmelo, di mettermi in guardia, se non volevo che Sid rovinasse la mia vita come aveva rovinato la sua. In effetti ha detto...», e qui il disgusto si tramutò in disprezzo, «...che le dispiaceva avermi turbata! Non credo che le dispiacesse davvero. Ha detto che avrebbe trovato l’uscita da sola, ma io sono andata lo stesso alla porta per dirle di non tornare mai più, e poi ho chiuso a chiave». Le si riempirono di nuovo gli occhi di lacrime. «Ora capisci che non posso incontrare Sid... non posso parlare con lei».

Ormai era ora di andare dall’osteopata.

In macchina riprese il discorso. «Grazie per avermi convinta a parlare. Credo sia un sollievo per me averlo fatto. Ma solo a te. Non deve saperlo nessun altro».

«Certo».

Mentre Rachel era nello studio di Mr Goring, Archie telefonò a Nancy per dirle che non sarebbe riuscito a presentarsi al loro appuntamento. Fu molto comprensiva. Seduto nella grigia sala d’aspetto – quattro sedie dallo schienale alto e vecchie copie di “Punch” – cercò d’immaginarsi come doveva essere la vita per Sid o per Rachel, ma fallì in entrambi i tentativi. Non capiva cosa avesse indotto Sid a tradire Rachel così a lungo, e meno ancora capiva Rachel e il suo netto rifiuto di affrontarla direttamente sulla questione. Capiva che Rachel aveva subito un trauma e che per lei il fatto che Sid l’avesse ingannata e le avesse mentito per tanto tempo era un’umiliazione intollerabile. Inoltre, dalla descrizione che Rachel gli aveva fatto della ragazza, si chiese cosa mai avesse trovato in lei Sid, che aveva sempre amato Rachel. Una domanda che non poteva per nessun motivo formulare ad alta voce: Rachel era una persona così integra e a modo suo innocente, che il fatto di dover tenere nascosta l’unica relazione sentimentale che avesse mai avuto doveva essere stato per lei un tormento intenso e prolungato. E poi, proprio quando le circostanze le avrebbero permesso di passare più tempo insieme al suo amore (era certo che non fosse un caso che la nuova casa per gli anziani genitori fosse stata scelta così vicina a quella di Sid), la scoperta del tradimento! E per giunta per bocca di una perfetta sconosciuta! Non c’era da stupirsi che fosse così sconvolta. Lo sarebbe stata in qualunque circostanza, ma il fatto che fosse coinciso con la morte del padre rendeva la cosa davvero eccessiva. D’altra parte, se Sid l’aveva mandata via era perché amava Rachel, e stando così le cose le speranze di riconciliazione erano tutte riposte nella disponibilità di Rachel a parlare con Sid, la quale, a giudicare dalla sua espressione e dalla sua condotta al funerale, doveva essere del tutto all’oscuro delle trame di Thelma. Decise di tentare di far capire a Rachel che parlare con la sua amante era l’unica cosa ragionevole da fare. Ormai è un’abitudine, quella di vivere la vita degli altri, pensò accorgendosi dell’autolesionismo che aveva venato tutti quei ragionamenti.

La terapia aveva funzionato, se ne accorse immediatamente. Rachel camminava in modo diverso e sembrava molto più rilassata.

«Devo tornare fra una settimana», disse. «Ma ha fatto miracoli! Mi era uscita una cosa e lui l’ha rimessa a posto».

«Il dolore ti è passato?».

«Abbastanza. Ma ha detto che ho un nervo infiammato e che ci metterà del tempo a guarire. Sono ancora un po’ indolenzita, ma va molto meglio. Grazie infinite, Archie, per avermi convinta ad andare e per avermici portata. Da sola non l’avrei mai fatto».

«Hai da mangiare a casa?».

«Oh, sì! Un sacco di roba. Sono brava a fare le uova al forno. E alla Duchessa piacciono, perciò faremo quelle. Ti fermi a cena?». Aveva l’aria preoccupata, e Archie fu certo che di uova ce n’erano solo due.

«Stavo pensando di portarti a cena fuori. Una cena un po’ più abbondante».

Rachel rifiutò l’invito perché non poteva lasciare sola la Duchessa, ma quando arrivarono in Carlton Hill videro una MG-Morris rossa parcheggiata fuori.

«Sid!», esclamò Rachel. «Deve aver riportato la Duchessa da casa di Hugh». La sua ansia crebbe immediatamente. «Non posso! Archie, non ce la faccio ad affrontarla. Oddio, che devo fare?».

La portò al più vicino ristorante – che si rivelò essere un locale piuttosto equivoco – e telefonò alla Duchessa per dire dov’erano. Aggiunse anche che Rachel era esausta dopo la terapia e che non voleva vedere nessuno. Desiderava solo mangiare qualcosa e andare a letto. Non aveva idea di come l’avrebbe presa la Duchessa – non aveva mai capito bene quanto sapesse di quel che avveniva in famiglia – ma sperava che il messaggio arrivasse alle orecchie di Sid e che lei capisse l’antifona.

Riuscì a farle bere due bicchieri di un gin bello forte prima di mangiare, e tenne deliberatamente la conversazione su argomenti leggeri e poco impegnativi. Lei reagì bene, mangiò quasi metà del suo pollo lesso con riso e un intero crème caramel, e sul viso le tornò un po’ di colore.

Poi, mentre aspettavano il conto, Archie tornò sull’argomento che aveva occupato la mente di entrambi durante tutta la cena. «So che ora ti sembra la cosa più difficile del mondo», le disse, «ma se tu riuscissi parlarle sarebbe molto meglio. Se non lo farai, non saprai mai come sono andate veramente le cose».

«Ma cosa posso dirle?».

«Chiedile cos’è successo. Dille che l’hai saputo, che ne sei rimasta sconvolta. Potresti anche...», gli era venuto in mente solo adesso, «...potresti anche scoprire che non è vero niente, o che è vero solo in parte. La ragazza potrebbe aver esagerato per gelosia. Molte persone, anche se magari sono state a letto con qualcuno una volta sola, sentono di avere un diritto di proprietà. Lo capisci, vero?».

«Ma io non...». Si torse le mani sopra il tavolo, nel vano tentativo di bloccarne il tremore, arrossì di nuovo e poi disse con una vocina malferma: «Davvero le persone... la maggior parte di loro... anzi, tutti desiderano andare a letto con coloro che amano?».

«Cara Rachel, non puoi non saperlo. Certo che lo desiderano».

Lo guardò dritto in faccia. La pena che si agitava in quegli occhi gli fece distogliere lo sguardo per un istante. E mentre non la guardava, la sentì dire: «Non sono mai stata a letto con Sid. In quel modo. Mai».

Ci fu un silenzio, poi continuò: «Devo essere la persona più egoista del mondo, eh?».

La portò a casa. Pianse in silenzio per tutto il tragitto. Archie si voltò a guardarla diverse volte, nella luce intermittente dei lampioni, e le vide il viso pallidissimo rigato di lacrime.

La macchina di Sid non c’era più e la casa era buia, con la sola eccezione della luce accesa in corridoio. L’aiutò a scendere dalla macchina e a salire i gradini dell’ingresso. «Stai bene, Rach? Vuoi che venga con te?».

Scosse la testa. «Ma ti ringrazio». Si sforzò di sorridere. «Ti ringrazio moltissimo». Entrò in casa e chiuse piano la porta.

Durante il tragitto verso a casa, mentre beveva un whisky abbondante e faceva un bagno caldo per calmarsi, e poi anche durante le ore che passò sveglio nel letto, pensò a quelle due donne, non solo a Rachel ma anche a Sid. Nei mesi e poi negli anni che aveva trascorso in Francia, aveva desiderato Rachel sapendo bene che non l’avrebbe mai avuta. Aveva sopportato quel dolore e alla fine ne era uscito, e per farlo aveva dovuto allontanarla da sé, organizzare la sua vita in modo da non rivederla più. Ma la situazione di Sid era infinitamente più complicata. Rachel non aveva mai amato Archie, ma era chiaro che amava Sid, perciò non c’era nessuna ragione per cui dovessero separarsi: per tutti quegli anni Sid aveva amato Rachel senza, nella pratica, essere ricambiata. Capiva bene il perché di quella sordida relazione: ormai non provava che compassione per Sid. E quella domanda incredibile, incredibilmente ingenua di Rachel – se davvero tutti quanti vogliono andare a letto con la persona che amano – adesso gettava una luce del tutto nuova su quella relazione, una luce che, mettendosi nei panni di Sid, gli pareva al di là di ogni immaginazione. Dopo gli aveva detto anche che non era mai stata a letto con Sid e si era accusata di essere la persona più egoista del mondo. Quelle tre esternazioni continuavano a ripetersi nella testa di Archie: Rachel, la cui vita era stata un esempio di dedizione agli altri, che da quando lui aveva memoria si era preoccupata solo della felicità di chi le stava intorno, anteponendola alla propria, doveva convivere ora con la consapevolezza di aver negato alla persona che amava ciò che lei più desiderava, ciò di cui aveva bisogno. Ne avevano mai parlato? Chiaramente no. Ma perché no? Poteva solo supporre che Sid, sapendo come la pensava Rachel e com’era fatta, non avesse voluto rischiare quel poco che aveva. Ma perché Rachel aveva quei sentimenti, o quell’assenza di sentimenti? La prima volta che era tornato a Home Place dopo tanti anni e aveva visto Rachel, la Rachel che tanto aveva amato, insieme a Sid, aveva subito capito che non le piacevano gli uomini, ma le donne. Adesso invece cominciava a capire che Rachel, nella sua incorreggibile innocenza, aveva semplicemente creduto che amare una persona del proprio sesso volesse dire amare senza sesso.

Archie non riusciva a dormire. Che avrebbe fatto adesso Rachel, adesso che sapeva quanto Sid aveva sofferto (del resto non poteva capirlo davvero, dato che non riconosceva nessun valore a ciò di cui Sid era stata privata)? Amava davvero Sid: il suo non era stato un atto di deliberato egoismo, anche se Archie era certo che non si sarebbe concessa quest’attenuante. Ma come avrebbe potuto Sid, d’altra parte, accettare un qualunque gesto fatto per mero senso di colpa o per pura bontà di cuore? Forse, anzi di certo, un uomo se ne sarebbe fatto una ragione senza troppi patemi d’animo, ne aveva sentiti di discorsi da spogliatoio all’insegna della più gretta depravazione, ma Sid, oltre a essere una donna, non gli sembrava proprio quel tipo di persona.

Si alzò e andò a farsi un tè, che bevve seduto in cucina. Devo andarmene per un po’, pensò. L’aria si sta facendo stantia. Ho bisogno di una vita mia, qualcosa di più che tenere la testa sul pelo dell’acqua, cercando di restare a galla. Decise di sistemare le cose con Nancy e poi di tornare in Francia, almeno per una vacanza.

Mentre si rimetteva a letto, pensò che forse sarebbe stato bello portare con sé Polly e Clary. Nessuna delle due era mai stata all’estero: sarebbe stato divertente far conoscere loro le bellezze della Provenza.

Il giorno dopo incontrò Nancy in mensa. Pranzarono insieme. Le spiegò il motivo della sua defezione la sera prima e lei gli assicurò che capiva la situazione. Gli domandò quanti anni avesse la vedova e lui le disse che ne aveva settantanove. «Poverina!», disse. «Deve essere bruttissimo restare vedova a quell’età».

Si rese conto allora che, preso com’era dai problemi di Rachel, non si era minimamente preoccupato della Duchessa.

«È stato un matrimonio felice?».

«Veramente non lo so», rispose. Non sapeva nulla di quel matrimonio, non li aveva nemmeno mai sentiti parlare tra loro. Davano l’impressione di avere ben poco in comune, a parte i figli e i nipoti. I loro interessi non coincidevano mai: lei amava il giardinaggio, lui era appassionato di alberi e foreste; lei adorava la musica, a cui lui era del tutto indifferente: in vita sua aveva amato andare a cavallo e a caccia, starsene al club e invitare gente di ogni tipo, mangiare e bere – con una spiccata preferenza per il borgogna e il porto; lei non aveva interessi che la portassero oltre il giardino di casa, non usciva se non per andare ai concerti o per risolvere problemi di ordine domestico, non aveva amici al di fuori della famiglia, il cibo le sembrava sempre troppo o troppo pesante e non beveva. Da quando li conosceva, avevano sempre dormito in camere separate. Alla luce di tutto questo, non li si poteva certo definire una coppia affiatata e felice. E tuttavia, forse proprio grazie a quel velo di discrezione tutto vittoriano che celava ogni cosa, non lo si poteva definire nemmeno infelice. Non c’era mai stato quel vuoto, quel disagio carico di tensioni, che di solito si respira nei matrimoni infelici o mal assortiti. La famiglia era andata avanti, espandendosi, con quei due come capostipiti, e Archie era sicuro che nessuno, lui compreso, si fosse mai fermato a domandarsi se la coppia da cui era cominciato tutto fosse stata o meno una coppia affiatata.

«Sei fortunato ad avere una famiglia così numerosa».

«Non è la mia famiglia. Mi hanno praticamente adottato durante la guerra. In passato ero stato all’accademia d’arte con uno dei figli e avevamo fatto amicizia».

«Non sapevo fossi andato all’accademia d’arte». Archie fece spallucce e poi se ne pentì, perché aveva dato a intendere che non fosse così importante quel che lei sapeva di lui. «Sai, da qualche parte bisogna pur stare».

Sapeva di doverle parlare seriamente e che la mensa non era certo il luogo adatto, ma nel frattempo trovava difficile intrattenere con lei una qualunque conversazione.

«Credo sia stata molto bella, da ragazza».

«Allora sarà stato triste per lei invecchiare».

«No, non penso. Non gliene è mai importato molto».

«Però ha una figlia, hai detto. Immagino le sia di conforto».

Annuì.

Si diedero appuntamento per andare a vedere il film, si salutarono e Archie si avviò verso il suo ufficio riflettendo sulla possibilità che l’unione del Generale e della Duchessa fosse rimasta in piedi a spese di Rachel. Avevano sempre dato per scontato che fosse lei a occuparsi di tutte le necessità del Generale, anche quelle cose che per senso comune sarebbero spettate alla moglie.

A metà pomeriggio aveva una riunione col suo capo, e lo trovò che dava in escandescenze contro il governo, come sempre.

«Attlee deve essere matto! Se ritiriamo le truppe dall’Egitto, quei musi neri ci fregheranno il canale da sotto il naso! E allora dove andremo a finire tutti quanti?».

«In fondo il canale è il loro, signore», si azzardò a replicare, e venne zittito subito.

«Assurdo! E in base a cosa, poi? Lo sa quanti soldi ha messo il governo egiziano nella costruzione del canale? Diecimila sterline! Che genere di canale si può costruire con diecimila sterline, secondo lei?». Fissava Archie con i furenti occhi azzurri.

«Dicono che hanno lasciato sul posto forze sufficienti a difendere il canale, signore».

Il comandante Carstairs sbuffò. «Sappiamo tutti cosa significa! Forze sufficienti a chiamare aiuto una volta che il palloncino sarà volato via. Glielo dico io, questo governo vuole dare via tutto. L’impero andrà in pezzi... guardi l’India! Questi socialisti stanno facendo di tutto affinché fra dieci anni ci ritroveremo come nel ‘37, senza uno straccio di esercito con cui far paura a una papera!». (La RAF non gli piaceva, perciò tendeva a lasciarla fuori dai suoi ragionamenti).

Il guaio con gli uomini come lui era che erano stati addestrati a stare in mare, a comandare equipaggi, e quando li si confinava in un ufficio con un mucchio di scartoffie, inacidivano di frustrazione e diventavano dei reazionari.

Lasciò che Carstairs sfogasse il suo livore fino alla fase adesso-in-questo-paese-avranno-tutti-una-cravatta-e-una-macchinetta, poi ebbe finalmente la possibilità di parlare del motivo per cui era lì.

Ecco cosa succede, rifletté, quando fai una cosa che non ti piace solo per guadagnare il denaro appena sufficiente ad andare avanti così... è questo che sto facendo, ed è ora di piantarla.

La Francia. La Francia voleva dire arte – e sentì un brivido solo al pensiero di quella parola. Ormai si era abituato a un reddito regolare, e non gli erano più familiari l’ansia e l’euforia di imbarcarsi in un progetto difficile con un considerevole margine di rischio. Con l’arte era così, cominciavi e non sapevi dove saresti andato a parare. Mentre lavorava a un quadro, a volte il divario tra ciò che aveva visto e ciò che riusciva a mostrare si allargava inesorabilmente, talora in misura tale che doveva abbandonare la tela. Altre volte valeva la pena insistere, e in quei casi il risultato non corrispondeva alla visione originale né se ne discostava completamente, era piuttosto un onesto compromesso. E poi, ogni tanto e senza preavviso, gli veniva fuori qualcosa... devo ricominciare, pensò, e raggiunse nervoso la grande finestra affacciata sulla piazza.

Era un pomeriggio ventoso. I fiori venivano strappati via dagli alberi per raggiungere altri petali appassiti sul terreno – aveva piovuto. Un bambino piccolo prendeva a calci un pallone di gomma su uno dei dritti viali di ghiaia.

I giardini dalle forme squadrate, rifletté, sono ciò che gli adulti ritengono adatto ai bambini. In essi il verde abbonda – prati, erba, arbusti, alberi, qualche fiore – ma così chiusi e ordinati come sono mancano completamente di mistero, non lasciano spazio all’avventura: è difficile entusiasmarsi per qualcosa che si può abbracciare con un solo sguardo. Allora ebbe una fitta di nostalgia per la doppia vista di cui godeva dalla sua casetta giù in Francia: da una parte le linde file di ulivi e albicocchi che sorgevano dalla terra rossiccia, seguite dalle strisce dei campi di girasoli e di granturco, dall’altra un panorama più vasto e spettacolare: la valle e le colline e le vigne distanti, terrazzate, sotto le quali scorreva il fiume, invisibile ma segnalato dalle file di pioppi che ne bordavano le sponde. Ma ciò che gli mancava di più era la luce, quello splendore limpido e trasparente che dava riposo agli occhi e sul quale si poteva fare affidamento giorno dopo giorno. Dipingere un paesaggio in Inghilterra, lui c’era passato, era un supplizio di false partenze e procrastinazioni, perché difficilmente la luce rimaneva la stessa per due giorni di fila, anzi, cambiava di ora in ora nell’arco di uno stesso giorno.

Sì, doveva tornare laggiù. Una vacanza, per cominciare, e avrebbe portato con sé le ragazze.

* * *

«È molto gentile da parte tua, Archie, ma non credo che verrò. Non so Clary... anzi, un po’ lo so, ma è meglio se glielo chiedi tu. Tornerà a minuti».

Stava stirando della stoffa per un lavoro di cucito e una ciocca di capelli castani le ricadeva su un lato del viso, nascondendolo alla sua vista. Portava una lunga gonna di cotone nero da cui spuntavano i piedi nudi. Erano bianchi come l’alabastro.

La stanza era bellissima: le pareti erano celeste chiaro – un colore simile a quello delle uova di rondine –, i mobili verniciati di bianco e sul pavimento sottili tappeti di corda gialli. Le tende erano state ricavate dai rivestimenti per materassi, grigio chiaro a strisce bianche, e guarnite con delle frange di lana gialle. Sopra il camino aveva appeso un quadro che le aveva regalato Rupe per il suo ventunesimo compleanno. Accanto al quadro facevano mostra di sé due grossi candelieri di porcellana di Delft, bianchi e azzurri, tutti incrinati. Li aveva comprati che era ancora bambina, alla modica cifra di mezzo scellino.

«Hai fatto un lavoro splendido in questa stanza. E quelle di Clary come vanno?».

«Ha voluto per forza la carta rossa a strisce. Perciò sembra tutto storto e troppo caldo. Comunque ha perso interesse per la faccenda, e credo che resterà tutto com’è».

Finì di stirare, depose la stoffa sul divano e ripiegò l’asse da stiro.

«Mi dispiace che tu non voglia venire in Francia».

«Davvero?».

Fece per replicare che naturalmente sì, gli dispiaceva, ma fu interrotto bruscamente. «Non ti vediamo per settimane, poi piombi qui senza preavviso – nemmeno una telefonata – e con tutta la calma del mondo mi proponi di venire in Francia con te! Come se... come se io non avessi sentimenti! O come se semplicemente non contassero nulla! Il fatto che io...». La porta d’ingresso, un piano sotto, fu sbattuta con forza. «Ecco Clary. Sarà meglio che tu vada a chiederlo a lei». Imbracciò l’asse da stiro e uscì dalla stanza.

Era stupefatto. Non l’aveva mai vista così in collera. Anzi, non l’aveva proprio mai vista in collera. Qual era il problema? Poi se ne ricordò e si vergognò della propria superficialità. Strappò una pagina dalla sua agendina e scrisse. “Mi dispiace molto, Poll. Per favore, perdonami”. Appoggiò il biglietto sulla mensola del camino. Poi andò di sotto, da Clary.

La porta era aperta e lei era in ginocchio di fronte a un cassettone: si era tagliata i capelli alla maschietta, notò.

«Sono io. Posso entrare?».

Quando si voltò, Archie vide altri cambiamenti in lei. Aveva la faccia coperta da una specie di cipria bianca, gli occhi neri di mascara e sulle labbra un rossetto così scuro che sembrava nero.

«Oh, Archie! Entra pure. Trova qualcosa dove sederti. Leva la roba da sopra quella sedia». Si alzò in piedi e si sentì il rumore di uno strappo. «Oh, no! È la mia gonna. Mi succede spesso».

Portava una gonna nera attillata, calze nere come quelle delle infermiere e una camicia da uomo con tanto di colletto e cravatta nera. Quegli abiti non le stavano affatto bene, pensò. Mise il pigiama sul letto non rifatto e si sedette sulla sedia.

«Il guaio è che la macchina da cucire di Polly fa solo il punto a catenella, così ogni volta che si strappa poi si scuce tutto. Devo avere un paio di pantaloni da qualche parte. Ci metto un secondo».

E sparì nella stanza adiacente, la più piccola.

Mentre la aspettava, si rese conto di aver perso da un po’ di tempo i contatti con le ragazze. Nel primo periodo dopo che si erano trasferite nel nuovo appartamento si era fatto vedere spesso, le aveva portate a cena fuori o al cinema. Erano usciti molte volte tutti e tre insieme, ogni tanto solo lui e Clary, ma non era mai uscito da solo con Polly.

Clary tornò con addosso un paio di larghi pantaloni neri che la facevano somigliare a un pagliaccio.

«Ti vesti sempre di nero adesso?».

«Più o meno. Hai già visto Polly? Di solito torna prima di me».

«Sì. Sono venuto a chiedervi se vi piacerebbe venire in Francia con me. In vacanza».

«Lei che ha detto?».

«Ha detto di no. Temo di aver fatto una gaffe imperdonabile. Credevo... be’, sai, credevo che ormai fosse acqua passata».

«Figurati! Hai una sigaretta?».

«Non sapevo che avessi cominciato a fumare».

«Oh, be’... aiuta». Il mascara faceva sembrare i suoi occhi enormi. Dopo che gliel’ebbe accesa, Clary si sedette per terra di fronte a lui e piazzò nel mezzo un grosso posacenere di coccio.

«È ancora innamorata di te, o così crede. Partire per una vacanza insieme sarebbe puro masochismo per lei».

«Povero me... e tu invece?».

«Io invece... cosa?».

«Be’, tutto. Perché ti vesti in modo così strano? Come va il lavoro? È un po’ che non ci sentiamo... e poi, la Francia?».

«In Francia non posso venirci per lo stesso motivo».

La fissò sconsolato.

«Oh, no, Clary, dimmi che non sei segretamente innamorata di me!».

L’idea la fece ridere. «Oh, Archie, ma che dici?», disse in uno scoppio d’ilarità. «Che razza d’idea, come se fosse possibile! Un po’ presuntuoso da parte tua, non ti pare?».

«L’hai detto tu che non puoi venire per la stessa ragione».

«Sì, perché sono innamorata, ma di un altro. Strano che non ti sia venuto in mente!».

«Già, strano», disse. La notizia lo distrusse: come aveva fatto a non pensarci? «Ma raccontami di lui, Clary. Che cosa fa? Come lo hai conosciuto?».

Glielo raccontò. Era il tale per cui lavorava. Si chiamava Noël ed era sposato.

«Oh, accidenti».

«Non ha importanza. Io non credo nel matrimonio. E nemmeno lui. Ha sposato Fenella solo per motivi pratici. Lei è una persona meravigliosa. Ha capito perfettamente cosa c’è tra Noël e me. Lui ha bisogno di ognuna di noi due. È tanto, tanto infelice, sai? Odia tutto del mondo moderno. È la persona più intelligente, dotata e straordinaria che abbia mai incontrato. Sa un mucchio di cose su tutto. Sta cercando di darmi un’istruzione. E ha tanta di quell’energia... due giorni con lui e ti senti esausto! E non solo io. Piace anche a Fenella. Non ha praticamente bisogno di dormire, e quando è sveglio succedono sempre mille cose. Lo condividiamo, in un certo senso».

«Non ha altri amici?».

«Non molti. Gli uomini non gli piacciono, sai. Secondo lui le donne sono molto più intelligenti, sensibili e piacevoli».

«Sembra un tipo molto serio, un po’ triste».

«Be’, è la vita che è triste. Una tragedia, davvero. Uno può cercare di prendere il buono che c’è».

«E non scherza mai?», domandò con scetticismo. Era certo di no.

«Noël dice che l’umorismo è una cosa a sé. Gli piace un sacco, l’umorismo. Oscar Wilde, per esempio. Ma le battute sciocche, secondo lui, sono solo un modo per mascherare la realtà. Come fa la mia famiglia».

«Non sempre, Clary».

«Mi riferisco al fatto di tenere nascoste le cose. Prendi zio Edward e zia Villy! Un perfetto esempio dell’inutilità del matrimonio e di come la gente non affronti le cose».

«Credo che dietro ci siano anche altre ragioni».

«Be’, certo. Il sesso. Noël dice che il sesso è una cosa importantissima, ma che nemmeno quello dura. Le persone romantiche lo capiscono. Bisogna essere preparati al fatto che tutto andrà male. Noël è un romantico, sai? Dice che non si può avere una relazione seria con qualcuno e farci dei figli ed essere economicamente dipendenti... quelle cose lì. Bisogna essere disposti a rischiare, a soffrire se necessario».

«Caspita!». Quello che andava dicendo era talmente allarmante che Archie ritenne necessaria la massima cautela.

«E sei... felice con lui?».

«Felice!», replicò piccata. «Non sono soltanto felice! Sono completamente, follemente innamorata di lui. È la cosa più bella che mi sia mai capitata!».

«Cara Clary, sono felice che tu me ne abbia parlato. E che ne dici... anche se sarà solo la trentaduesima delle cose più belle che ti siano capitate, verresti a cena con me?».

Accettò. Disse che andava da Polly, a chiederle se voleva venire. Va’, le disse lui.

Polly declinò. Portò Clary in un piccolo locale cipriota dalle parti di Piccadilly Circus.

«Siamo venuti qui il giorno della vittoria, ti ricordi?».

«Già».

«È qui che mi hai parlato di Noël per la prima volta».

«Davvero?».

Il rossetto nero sparì del tutto dopo che ebbe finito il kebab. Mangiò con appetito, evidentemente felice di aver condiviso i suoi sentimenti con lui. Con quei capelli corti, la faccia dipinta di bianco e gli occhi bistrati ricordava una minuscola scimmietta, e glielo disse. Aveva degli occhi bellissimi, aggiunse, nel caso in cui la somiglianza con una scimmietta le fosse parsa un tratto frivolo – la frivolezza sembrava essere il suo peggior nemico, al momento.

«Sono anche dimagrita».

«Eccome. Non dovresti dimagrire ancora, secondo me».

«Mangio molto. Ma a Noël piace fare queste lunghissime camminate e leggere a voce alta fino a tarda sera. La mattina la passa a dettare le lettere... lui e Fenella hanno un’agenzia letteraria, dove io faccio da segretaria. Poi mangiamo... è Fenella che cucina... e lavoriamo tutto il pomeriggio. Un fine settimana sì e uno no vado fuori con lui, e certe volte mi stanco un po’. Ma lo fa anche Fen», aggiunse come ad anticipare delle obiezioni. «È giusto fare un po’ per ciascuna».

«E il tuo romanzo? Stai scrivendo?».

«Un po’ a rilento. Ci lavoro nei giorni liberi, ma non ne ho molta voglia. Noël lo ha letto, ci ha trovato molti difetti e così ho dovuto ricominciare. Il fatto è che per scrivere ho solo un fine settimana su due, quando non sono con lui, e c’è sempre un sacco da fare... sai, lavare i vestiti, pulire la casa con Poll. E se anche ingrano, poi il lunedì ricomincia il lavoro. Anche per Noël è molto difficile scrivere. Mi ha consigliato di farlo di notte, ma io di notte ho sonno».

«Che ne pensa tuo padre di tutto questo?».

«Papà? Non gliene ho parlato. E per favore non dirgli niente. Lo sa solo Poll, nessun altro. Non credo che capirebbero».

«D’accordo».

«Tu capisci?».

«Non lo so», disse guardingo. «Mi interessa che tu sia felice. Sei felice?».

«Felice!», sbottò stizzita. «Non è l’unica cosa che conti. Lui non è felice, perciò come potrei esserlo io? Ha paura d’impazzire, sai? È solo la mia presenza a impedirglielo. E di Fenella, s’intende. Ha bisogno di me, ecco il punto».

Mentre l’accompagnava a casa le disse en passant: «Potrei conoscerlo? Mi piacerebbe».

«Temo di no. Non vuole conoscere la mia famiglia».

«Ma io non sono della famiglia, Clary. Io sono un amico».

«In pratica è lo stesso. Non vuole che le altre cose della mia vita si mettano tra noi».

Archie tacque. Non era il caso di dare voce ai pensieri che gli attraversavano la mente.

«Sento che non approvi, Archie. E mi dispiace».

«Non approvo questa robaccia che ti sei messa. Colletto e cravatta? Immagino sia lui a volere che tu ti vesta così».

«Gli piacciono le donne vestite così. E noi lo accontentiamo».

«Tu e Fenella».

«Io e Fenella».

«Bene», disse prima di darle la buonanotte. «Solo una cosa. Sono onorato che tu abbia voluto parlarne con me. Continuerai a farlo? Intendo dire, qualunque cosa succeda, mi terrai aggiornato?».

Lei ci pensò su un istante. «Va bene. Lo farò».

«È una promessa!».

Gli diede un abbraccio sbrigativo. «Ti ho detto di sì!».