Louise
Primavera 1947

Era seduta al tavolo da toeletta, di fronte a una scatola di cartone dai bordi bassi e a una bottiglietta di solvente per unghie. Nella scatola c’erano cinque minuscole tartarughe i cui carapaci erano ricoperti di uno spesso strato di vernice verde o giallo intenso. Le aveva comprate quella mattina da un ambulante che le reggeva su una specie di vassoio all’angolo tra Madison Avenue e la Quarantottesima. Costavano cinque centesimi l’una e lei le comprava solo per salvarle, perché con tutta quella pittura i carapaci non potevano respirare. Prese un batuffolo d’ovatta dal cassetto e lo imbevve nell’acetone. Ci voleva tempo: dalla cupola superiore del guscio lo smalto veniva via in un attimo, ma ne rimaneva sempre una certa quantità negli interstizi e nelle crepe. La bestiola ritirava il capo nel suo guscio, ed era un bene perché le esalazioni dell’acetone potevano esserle nocive. Dopo averla ripulita per bene, la portò in bagno e lavò il carapace con acqua calda e un po’ sapone. La tamponò col suo asciugamano e infine versò un po’ di olio di mandorle nel coperchio di un vasetto di crema, vi bagnò il dito e prese a massaggiare la corazza. Poi la tartaruga andò a raggiungere le altre – già trattate allo stesso modo – nella vasca da bagno. Erano in quell’albergo da quasi tre settimane e ne aveva già trentacinque.

Michael era stato molto comprensivo al riguardo. Tutti i giorni le tartarughe andavano tolte dalla vasca in modo che loro due potessero fare il bagno, e Louise le metteva in una delle numerose scatole che aveva accumulato facendo acquisti. Da mangiare dava loro della lattuga tagliata a pezzetti che ordinava appositamente a colazione. «Un’insalata verde senza condimento», chiedeva. Aveva intenzione di portarle in Inghilterra con la nave e affidarle allo zoo. Michael le aveva fatto notare che più lei le comprava più gli ambulanti di strada ne avrebbero messe in vendita altre, e anche se Louise capiva perfettamente il ragionamento proprio non ce la faceva a passare davanti a quelle povere creature ridotte in quel modo senza fare nulla. E poi lavare le tartarughe era un modo di passare il tempo.

Erano venuti a New York per la mostra di Michael in una galleria sulla Cinquantasettesima Est. La mostra aveva avuto grande successo: la gente comprava ritratti di persone famose e ne commissionava degli altri. Michael stava fuori tutto il giorno per completare i suoi lavori (sarebbe comunque tornato per ulteriori incarichi). Quel giorno, per esempio, ritraeva Mrs Roosevelt per un’organizzazione di beneficienza da lei sostenuta. La mattina Louise stava a letto fino a dopo colazione e si alzava con estrema calma. Aveva quasi sempre mal di stomaco perché in America si mangiava troppo. Se chiedeva un uovo sodo per colazione, gliene mandavano due, e non mangiarli sembrava uno spreco imperdonabile. La sera, poi, venivano invitati quasi sempre a sontuose cene piene di gente molto più vecchia di lei, dove venivano servite cibarie in quantità luculliane: grosse bistecche succulente, pesci accompagnati da salse cremose, complicati gelati dal sapore delizioso. Ci si sedeva a mangiare dopo almeno un’ora e mezza di aperitivi e Louise aveva notato con sorpresa che molti degli uomini pasteggiavano con una specie di latte molto denso servito a bicchieroni. Porzioni illimitate di burro avevano contribuito al suo malessere. Le sembrava un lusso straordinario potersene servire a volontà, spalmandolo su fette di un pane che chiamavano “francese”. Anche le insalate erano stupefacenti, per una persona abituata a poche foglie di lattuga floscia, una fetta di barbabietola bollita e mezzo pomodoro. Queste insalate invece avevano tanti cubetti di pane abbrustolito e condimenti a base di formaggi freschi o maionese. Per la prima volta in vita sua mangiò un avocado, riempito di gamberi e ricoperto di una densa salsa rosa. Assaggiò anche le melanzane, il cui sapore, così diverso da qualunque altro, le piacque moltissimo. E poi quei vassoi di ostriche e vongole che venivano serviti come antipasto! Per i primi due o tre giorni mangiò con entusiasmo tutto quello che le veniva messo davanti, ma in seguito fu costretta a stare più attenta. Nonostante queste cautele, soffriva di nausea e anche di mal di schiena. Michael era stato incredibilmente generoso; le aveva dato carta bianca in fatto di acquisti e Louise, prima di partire, si era appuntata le misure di tutti quanti, con l’intenzione di fare man bassa di regali. Calze di nylon, splendida biancheria, pantaloni, un numero imprecisato di graziose camicette, degli adorabili scarponcini di pelle di canguro e vestitini per Sebastian, che gli sarebbero bastati per almeno un paio d’anni. I negozi erano enormi e inebrianti, non dover contare le tessere rendeva tutto più semplice, ogni cosa sembrava lussuosa eppure a buon mercato. Sapeva che una sterlina valeva cinque dollari, ma i soldi parevano non avere un valore reale, come quando si gioca a Monopoli. Per sé comprò un soprabito di vellutino e una giacca di tela rosa – ne prese una anche per Polly, rifinita di velluto a coste blu scuro. C’erano cinture di cuoio di ogni colore possibile e immaginabile: ne comprò una per tutti quelli che conosceva. Comprò metri e metri di seta grezza, sottile e soffice, per zia Zoë e Polly e Clary, e un taglio intero per sé. Prese anche delle vesti da casa trapuntate, per sé e per le ragazze. Ogni mattina tornava barcollando sotto il peso di scatole e sacchetti pieni di roba, e aggiornava di conseguenza la sua lista di doni. Comprò anche pigiami e camicie per Michael. Camminava per chilometri, fino allo sfinimento. Tutti erano molto gentili con lei. Il suo accento era motivo di stupore. «Non parla inglese?», le domandò una volta un conducente d’autobus, dopo aver cercato invano di capire dove dovesse andare. Lei aveva risposto di no e lui era scoppiato a ridere, dicendole che era un vero spasso.

Per una decina di giorni non aveva quasi fatto altro, a parte le volte in cui qualcuno incontrato in una galleria oppure a una cena l’aveva accompagnata a visitare la città: al Radio City Music Hall, in traghetto a Ellis Island, dove un tempo facevano sbarcare gli emigranti e li smistavano, al Frick Museum, dove le opere erano esposte come fossero gioielli. Le librerie erano piene di volumi stampati su carta bianchissima, bianca come il pane. Era primavera, il cielo era azzurro, l’aria fresca e inebriante, e quando camminava per le strade più strette, in mezzo ai palazzi altissimi, faceva ancora freddo. Si fermava spesso a pranzo nei drugstore e beveva alti bicchieri di succo d’arancia, che ai suoi occhi erano il non plus ultra del lusso.

Si ricordò di sua cugina Angela quando mancavano solo un paio di giorni alla partenza. Non aveva mai avuto un vero rapporto con lei, ma sentiva lo stesso il dovere di andarla a trovare. La cercò sugli elenchi del telefono. C’erano pagine e pagine di gente che si chiamava Black di cognome, ma alla fine trovò quello giusto: Earl C. Black. L’indirizzo era Park Avenue, e ormai era a New York da tempo sufficiente per sapere che si trattava di un quartiere elegante.

Angela le rispose al telefono e la invitò subito a pranzo.

«Oggi?».

«Se sei libera». L’appartamento era all’interno di un palazzo enorme. «Prendi l’ascensore fino all’undicesimo piano», le disse Angela al citofono dopo che Louise ebbe pigiato il bottone con la scritta «BLACK». Si ritrovò davanti sua cugina non appena uscì dall’ascensore. Portava una corta gonna nera con sopra un grembiule rosso. «Che bellissima sorpresa! Sì, dovrebbe nascere fra due settimane», le disse. Perché Louise, nell’abbracciarla, aveva trovato l’ingombro del pancione.

L’accompagnò in un vasto soggiorno con una finestra che occupava un’intera parete. Il pavimento era ricoperto di una moquette chiara; una parete era occupata da una gigantesca credenza con le ante in vetro, piena di porcellane bianche e azzurre, mentre dall’altra parte, sopra il caminetto, era appeso un ritratto di Angela con una camicia da uomo verde e i capelli sciolti, seduta su una poltrona. Aveva un che di familiare.

«L’ha dipinto Rupert», le disse Angela, accorgendosi che lo guardava. «È stato il suo dono di nozze. Io non ci tengo, ma Earl ne va pazzo. Perciò». Si strinse nelle spalle tutta contenta, lasciando intendere che se una cosa andava bene per Earl andava bene anche per lei. «Hai un aspetto magnifico, Louise».

«Anche tu. Non ti ho mai vista meglio». Era vero. La pelle chiara riluceva di salute, i capelli erano luminosi. Non portava trucco a parte un velo di rossetto rosa chiaro.

«Non mi sono mai sentita così felice. Sono grossa quanto una casa, ma non m’importa nemmeno di questo!».

Chiese se c’erano novità in famiglia e Louise, nel cercare di farle un resoconto, si accorse di quanto si era allontanata dai suoi cari. «Avrai saputo della morte del Generale».

«Sì. Me ne ha parlato mamma in una delle sue lettere. So anche che Christopher ha lasciato la fattoria e si è trasferito da Nora e Richard. Come sta il tuo bambino? Ormai ha circa tre anni?».

«Sì. Sta bene. Parla e cammina».

«Oh, io non vedo l’ora! Devo farti vedere la cameretta che sto preparando. Earl mi ha lasciato carta bianca, e l’ho finita giusto in tempo. Per pranzo abbiamo dell’insalata di pollo. Spero vada bene. Earl ha pensato di lasciarci sole», le spiegò mentre andava a prendere i due vassoi posati sul banco della cucina. «Ti saluta e spera che tu ti stia divertendo qui a New York».

«Non è più nelle forze armate?».

«Da un pezzo. Ha ricominciato a esercitare».

«Ma certo... è un dottore».

«Uno psichiatra. Ha un piccolo appartamento in questo edificio, ed è lì che riceve i pazienti. Ne ha così tanti che spesso deve mandarli da qualcun altro. Dice che presto potremo permetterci una casetta in campagna, così il bambino potrà stare all’aria aperta. Sono davvero fortunata, Louise!».

«Io credo che tu abbia avuto un gran coraggio a venire quaggiù da sola e a sposarti senza la tua famiglia».

«Oh, è stato un viaggio indimenticabile, credimi. Il peggiore che si ricordi, secondo il capitano della nave, con tutti a vomitare tranne me. E non ho mai saltato un pasto! Eravamo centinaia».

«A cosa ti riferisci?».

«Spose di guerra. Solo che io non ero ancora una sposa. Ero solo fidanzata. È stato un viaggio terribile. Ma poi Earl è venuto a prendermi e mi ha portata qui, e il giorno dopo eravamo sposati. È stato meraviglioso. No, io non sono coraggiosa. Sapevo solo che volevo sposare Earl. Sapevo che ero innamorata di lui».

Più tardi le mostrò la camera del bambino e disse: «L’ho voluta azzurra, perché rosa sarebbe ridicola, nel caso fosse un maschio. Non pensavo di poter essere più felice, fino a quando sono rimasta incinta. Ti sentivi così anche tu?».

«Non proprio».

Angela le lanciò una breve occhiata e poi tacque. Le aveva chiesto di Michael poco prima e Louise le aveva risposto che la mostra era stata un successo. «Che ne diresti di venire a cena con lui qui da noi?», domandò Angela, con una certa cautela.

«Partiamo fra due giorni, e ha già degli impegni per le prossime sere. È meglio se vengo da sola».

Poi, forse perché si trovava in un paese straniero e stava per ripartire, ma soprattutto perché la sua vita le sembrava irreale da tanti punti di vista, sbottò: «Non mi sono sentita affatto come te. Quando ho avuto mio figlio non lo desideravo per niente. E non sono sicura di volerlo nemmeno adesso. Non amo Michael, non lo amo affatto. Forse dovrei lasciarlo». Poi fu come sopraffatta dall’enormità di quanto aveva appena detto e scoppiò in lacrime.

Angela le si avvicinò – nel frattempo erano tornate in soggiorno – e le tolse la tazza di caffè dalla mano tremante, poi l’abbracciò e la tenne stretta senza dire nulla finché non si calmò. «Mi dispiace tanto», disse. «Deve essere terribile per te, difficile e terribile. Vorrei poter fare qualcosa».

Poi, quando Louise si fu asciugata gli occhi, le disse: «Vorresti parlarne con Earl? Potrebbe esserti d’aiuto confrontarti con qualcuno che veda le cose dal di fuori. È davvero bravo e gentile».

«No. Ci ho già provato. Non lo dirai a nessuno della famiglia, vero? Insomma... non ho ancora deciso cosa fare. E devo decidere da sola».

«Ma certo. Non lo dirò a nessuno. Restiamo in contatto, però?».

Disse di sì.

Sulla porta, quando stava per andarsene, Angela ribadì: «Dicevo sul serio, a proposito di restare in contatto. Puoi venire a stare qui da noi».

«Grazie. Me ne ricorderò».

La felicità migliora le persone, pensò mentre scendeva in ascensore. E io allora?

Decise di tornare in albergo a piedi, così da non dover parlare col tassista. Il suggerimento di Angela di avere un colloquio con Earl aveva riportato a galla dei brutti ricordi. Earl era uno psichiatra, proprio come il dottor Schmidt, e il solo pensiero le procurò un’ondata di nausea. Aveva riposto tanta fiducia in lui: un uomo anziano coi capelli bianchi, i baffi e penetranti occhi marroni segnati da occhiaie scure. Riceveva i pazienti in uno studiolo buio al piano terra. Era anche freddo, e la luce che filtrava dalle sporche tendine di tulle sembrava nebbia. Lui però appariva buono e saggio. E l’ascoltava davvero, un’esperienza che Louise non aveva mai fatto in vita sua. Sedevano su delle seggiole dallo schienale alto, piuttosto scomode, con in mezzo un tavolino rotondo traballante. Non era stata Stella a indirizzarla dal dottor Schmidt, sebbene fosse stata lei la prima a suggerirle di tentare quella strada, ma Polly e Clary, che avevano un’amica austriaca che avrebbe potuto consigliarle un esponente di quella categoria. Così aveva chiesto a loro adducendo la scusa che fosse «per un’amica». Clary le aveva lanciato un’occhiata, ma nessuno aveva fatto commenti. Pochi giorni dopo una delle due le aveva telefonato per darle indirizzo e numero di telefono del dottor Schmidt. Aveva detto a Michael che sarebbe andata a parlarci e lui era parso favorevole. «Buona idea», aveva detto. «Potrebbe esserti d’aiuto, cara».

«E se volesse vedere anche te?», gli aveva chiesto.

«Oh, non credo che lo farà. Lo trovo improbabile».

Così gli telefonò.

«E come ha avuto il mio nome?», le chiese.

Gli disse dell’amica austriaca.

«Ach so! Una cara amica». La voce dall’accento straniero suonava cordiale. Le diede un appuntamento di lì a pochissimo.

La prima volta non sapeva cosa dire e si sedette a torcersi le dita fissando un punto sopra la sua spalla. «È nervosa», osservò il dottore. «Be’, è naturale. Non mi conosce».

«Non so da dove cominciare».

«Può cominciare da dove vuole. Mi dica se le piace la sua vita».

In seguito le cose da dire le vennero in mente senza alcuna difficoltà. Sulle prime, temeva così tanto di essere giudicata malvagia o indegna che a ogni racconto aggiungeva un commento per anticipare il suo giudizio negativo. Cose come: «Perciò, capisce, io un bambino non lo volevo, anche se sapevo bene che Michael poteva restare ucciso» o, a proposito della storia con Rory: «Ecco, ho tradito Michael dopo nemmeno due anni che eravamo sposati». Si lanciò in un resoconto inclemente delle sue malefatte, non seguendo un ordine cronologico ma secondo la gravità. Spiava attentamente le reazioni del dottore, ma lui aveva in viso sempre la stessa espressione di solerte interesse. Andava da lui due volte alla settimana per un’ora, e dopo le prime due o tre sedute cominciò ad aspettare con ansia un suo pronunciamento, un suo consiglio su cosa fare. Cosa che però non avveniva mai: di tanto in tanto faceva qualche domanda, ma per il resto stava in silenzio. Louise cominciava a trovarlo irritante e quando, dopo circa sei settimane di sedute, lui le domandò di punto in bianco, e senza alcun legame con quanto lei gli stava dicendo, che rapporto avesse con suo padre, qualcosa in lei scattò. «Perché mi fa solo domande? Se pensa che io sia stata una cattiva persona non m’importa, tanto lo so già. E allora perché non mi dice quello che pensa?».

Lui restò a guardarla per un pezzo senza dire una parola. Poi sorrise. «Io non sono qui per giudicarla», disse. «Mi pare che i giudizi pesino già molto sulla sua vita, soprattutto il suo. Io però mi astengo».

«E allora... allora cos’è che fa?».

«Il mio compito è ascoltare, in modo che lei possa dire tutto quello che le passa per la testa e farsene finalmente un’idea. Se io dicessi sempre: “questo è giusto” o “questo è sbagliato”, lei non potrebbe farlo. Mi pare che abbia già delle notevoli difficoltà al riguardo».

«Davvero?». Cominciava a spaventarsi.

«Io credo che lei non mi abbia ancora detto cos’è che davvero l’ha resa così infelice, cosa l’ha turbata di più».

«No».

«Respiri», disse lui. «Respirare fa bene».

Si sforzò di espirare. «Non gliel’ho detto, no. Non l’ho detto a nessuno. Una sola persona sa che è successo, ma non sono stata capace di dirle tutto, non ce l’ho fatta. Ci sono stata così male, ho sofferto per così tanto tempo e poi, alla fine, è stato come se una parte di me fosse morta, come se non fossi più capace di provare quel tipo di sentimenti». Sentì la gola serrarsi e deglutì. «È stato tremendo! Atroce! Lo amavo tanto».

«È naturale amare un padre».

«Padre? Non sto parlando di mio padre! No! Io sto parlando di un uomo di nome Hugo. Le ho detto di Rory, che non aveva nessuna importanza per me, ma non le ho detto di Hugo».

E gli raccontò tutto. Tutti i dettagli che le vennero in mente. Quando arrivò al momento della loro separazione, a quegli ultimi minuti trascorsi insieme, le lacrime cominciarono a scorrerle sul viso, ma proseguì: il soggiorno a Holyhead, poi Michael che distruggeva l’unica lettera che le aveva scritto Hugo, fino a quel disgraziato pranzo a Hatton, mesi dopo, quando aveva appreso della morte di Hugo da un commento casuale a tavola. Fu un crollo completo: pianse tutte le sue lacrime. Dopo un po’ il dottore le disse che doveva andare, ma che poteva restare per un po’ nella stanza accanto, per riprendersi. «Se lo desidera». Andò a sedersi in un ambiente ancora più buio dove c’erano un divano, un armadio con un’anta a specchio e una custodia di violino aperta, vuota, sopra un tavolo. Passati un minuto o due si stufò di stare lì e se ne andò. Dentro si sentiva leggera, asciutta, piena di silenzio.

Alla seduta successiva il dottore le chiese di dirgli di più sull’affaire Hugo, come lo chiamava lui. Lei non voleva, le sembrava di avergli detto tutto quel che c’era da dire al riguardo, ma lui ribadì che voleva sapere come si era sentita nelle varie fasi di quella vicenda. Ci fu un’impasse. Louise si adombrò e lui restò in silenzio fino alla fine della seduta. La volta dopo gli domandò cos’altro poteva esserci da sapere su quella faccenda, e lui disse: «Quello che ancora non so».

«Oppure», aggiunse, dato che lei non replicava, «le cose che mi ha detto ma che non ho capito».

Così ricominciò da capo: stavolta, a parte certi momenti di commozione, non perse il controllo. Quando arrivò al punto in cui Michael distruggeva l’unica lettera di Hugo, stavolta il rancore nei confronti di Michael prevalse sul cordoglio. Dopo quella seduta si sentì alleggerita e sommamente grata al dottor Schmidt, che considerava ormai l’uomo più intelligente, saggio e buono che si potesse incontrare. Era straordinario avere qualcuno a cui poter dire ogni cosa, in cui poter riporre una fiducia incondizionata. Ormai sapeva di lei cose che, prima, non si sarebbe mai sognata di condividere con nessuno. Il fatto che non le era mai piaciuto andare a letto con Michael, per esempio. «E con Rory?», le aveva chiesto lui. «Nemmeno con lui», aveva risposto. «La maggior parte delle persone non sono così, vero? Così come me».

«Quando dice “la maggior parte delle persone”, sottintende che lei dovrebbe fare parte di questa maggioranza. Perché lo dà per scontato?».

«Penso che così sia più facile adattarsi».

«Ach so! Ma certe volte noi non siamo come le altre persone. Dunque?».

«Non lo so. Mi sembra che continui a farmi domande di cui conosce perfettamente la risposta. Non capisco perché».

Lui la guardò senza rispondere. La pelle sotto gli occhi scuri somigliava a buccia d’uva nera, pensò. «No, invece lo so. È perché vuole che sia io a dare le risposte».

Poi un giorno, prima della seduta, gli annunciò che sarebbe partita per New York. Per alcune settimane, credeva, non lo sapeva di preciso. Lui non replicò: pareva come assente. Alla fine della seduta le chiese di cambiare l’orario delle successive. Sarebbe stato un problema per lei venire alle cinque invece che alle tre? Per lei era indifferente. Ormai aveva imparato a capire quando la seduta finiva, perché suonava il campanello, lui si alzava ad aprire e ad accompagnare il paziente successivo nella saletta e poi tornava per congedarla. Non aveva mai incontrato nessuno degli altri pazienti.

Ma all’appuntamento successivo vide che il dottore portava un completo diverso, col cravattino, e che il tavolo che solitamente stava in mezzo a loro era stato spostato e ricoperto con una tovaglia ricamata a colori; sopra c’erano due fette di torta e due bicchieri di vino.

«Ha ospiti stasera?», gli domandò, lieta di constatare dei segni di una sua normale vita sociale.

Sorrise. «Oh, sì! Be’, vedremo».

Le saltò addosso senza il minimo preavviso. Un momento se ne stava seduto di fronte a lei con la testa lievemente incassata nelle spalle, il momento dopo era in ginocchio e con le braccia di una forza sorprendente la stringeva cercando di spingerle la nuca verso di sé, finché non riuscì a premerle la bocca su una guancia e a spostarla poi verso le labbra. Lo stupore di Louise fu tale che, durante tutte queste manovre, restò come paralizzata, ma non appena la bocca di quell’uomo fu sulla sua cominciò a difendersi, tentò di respingerlo con le braccia ma lui gliele teneva bloccate, così gli morse la lingua e lo colpì in faccia con la fronte. Lui allora indietreggiò e Louise ne approfittò per spintonarlo con forza, facendolo ruzzolare a terra. Si alzò in piedi mentre lui tentava di mettersi a sedere.

«Aspetta!», le disse. «Non hai capito. Io ti amo alla follia...».

«Io ti odio!», avrebbe voluto gridare lei, ma come accade negli incubi, dalla bocca non le uscì un suono.

Senza preoccuparsi di recuperare il soprabito e la borsa, corse in corridoio, armeggiò con la porta d’ingresso e si precipitò in strada. La percorse fino in fondo e solo allora si voltò per controllare che lui non l’avesse seguita. Girò l’angolo e si rimise a correre e quando arrivò sulla strada grande, vicino al parco, si rese conto di non avere i soldi né per il taxi né per l’autobus. Era tardi, il parco stava per chiudere. Si appoggiò a una cassetta postale a riprendere fiato, le tornò la paura che lui l’avesse seguita e fermò il primo taxi di passaggio. Avrebbe preso a casa i soldi per pagarlo, fu il suo primo pensiero coerente. Arrivata a casa chiamò Nannie, che le diede il denaro per pagare il tassista e poi osservò che la mammina quel giorno aveva davvero l’aria stanca. Si offrì di portarle il tè in camera di Sebastian. «Il piccolo sarebbe davvero felice di fare merenda con la sua mamma».

«Mi dispiace ma non mi sento bene. Forse mi sta venendo qualcosa. Voglio solo andare a letto». Michael non era ancora tornato dallo studio: si buttò sul letto e restò lì, mentre sopraggiungeva il buio.

Non lo aveva più rivisto. Il giorno dopo borsa e soprabito le erano stati recapitati da un giovanotto che non aveva mai visto ma che si presentò come Hans Schmidt. «Mio padre mi ha chiesto di riportarle questi», le disse. Louise si riprese la sua roba e gli chiuse la porta in faccia senza dire una parola.

Quando Michael le chiese come andassero le cose col dottor Schmidt, gli disse che quell’uomo non le piaceva e che aveva interrotto le sedute, notizia che lui accolse con una specie di indulgenza stizzita: i soliti capricci, mai una volta che portasse a termine qualcosa.

In seguito aveva avuto una serie di incubi con lo psichiatra come protagonista, tutti simili ma con delle variazioni, così da darle una scossa di spavento ogni volta. Lei faceva le sue cose in giro e lui si materializzava come dal nulla, e puntualmente le veniva incontro. In un sogno, lei scendeva una scala mobile e di colpo lo vedeva sulla scala in salita, che la fissava coi suoi occhi scuri, pieni d’intenzione. Quando s’incrociavano, sembrava sparire nel nulla, ma poi il tale che era in piedi davanti a lei un gradino più in basso si voltava ed era lui. In un altro sogno Louise scappava dal dottor Schmidt attraverso una fila di stanze comunicanti, poi raggiungeva la porta di casa per uscire, la apriva e lo trovava lì ad aspettarla. Ogni sogno s’interrompeva nell’istante esatto in cui tentava di gridare e se ne scopriva incapace. Quegli incubi, seppur con frequenza digradante, l’avevano tormentata per tutto l’inverno. A ripensarci ora, si rendeva conto che quella vicenda aveva cambiato la sua vita. Ripensò a quel periodo in cui lei e Michael partecipavano spesso a grandi cene, e lei osservava gli uomini seduti al tavolo, alternati alle donne, e si chiedeva se tutti fossero più o meno inclini a comportarsi come il dottor Schmidt. Se era così, le sarebbe toccato adattarsi in qualche modo. Una soluzione poteva essere fare in modo di risultare talmente sgradevole, nell’aspetto e nel comportamento, da scoraggiare qualunque approccio, ma quell’idea aveva un grosso limite. Louise si sentiva così abietta e colpevole, sia nei confronti di Sebastian che di Michael, che i complimenti e le attenzioni maschili erano l’unica sua fonte di conforto. Sapeva che le persone la giudicavano bella e, anche se non era d’accordo (si considerava troppo ossuta e banale), quei piccoli complimenti sporadici erano un effimero balsamo per la sua autostima. Sapeva che la consideravano intelligente, e anche questo non era vero, eppure in qualche modo le era d’aiuto che qualcuno lo pensasse. Dunque non poteva permettersi di diventare inavvicinabile. Sembrava un vicolo cieco.

Quell’inverno si era ritrovata spesso sola: Stella aveva ottenuto un lavoro presso un quotidiano di Londra ed era stata mandata subito all’estero come corrispondente, perciò veniva a Londra di rado e per periodi brevissimi.

Qualche volta era andata a trovare Polly nel suo appartamento, ma Clary non c’era quasi mai e, anche quando c’era, parlarle era un’impresa. Mentre Polly, cosa confortante, era sempre la stessa. Qualche volta, dopo aver passato una serata con lei, si scopriva invidiosa della vita di sua cugina: una casa tutta sua, un lavoro dove la prendevano tanto sul serio da riconoscerle uno stipendio, la possibilità di decidere in assoluta autonomia cosa fare del proprio tempo libero. Tutti i tentativi di Louise di ottenere un impiego avevano dato risultati scarsi o nulli: una lettura pubblica di versi di poeti comunisti a Ealing, due piccole parti in radiodrammi e tre audizioni per commedie a teatro, tutte e tre fallite. Di comparsate nei film non ne erano capitate, né lei le aveva cercate.

Il primo Natale del tempo di pace lo avevano trascorso a Hatton. Lei avrebbe preferito restare a casa, ma Michael non aveva sentito ragioni e, dato che Louise sapeva, sebbene nessuno ne facesse parola, che Michael gliene voleva perché aveva smesso di andare dal dottor Schmidt, non aveva osato o non se l’era sentita di litigare con lui.

Aveva passato così tre settimane alla gogna: perché fumava, perché beveva alcolici, perché non era incinta, perché era una cattiva madre, tutte verità incontrovertibili. Poi erano tornati a Londra ed era ricominciata la solita vita: scegliere i piatti da far cucinare a Mrs Alsop, pensare alle cose da fare con Sebastian quando Nannie aveva il giorno libero e ogni tanto andarsene in giro per conto suo nei posti dove era stata con Hugo. Un giorno, in Portobello Road, nella vetrina del negozio dove avevano comprato il tavolo di Pembroke, vide della seta a strisce rosse e color panna drappeggiata su un tavolo apparecchiato. Era quel che restava di una tenda, le spiegò il commesso, coi bordi un po’ sfrangiati, ma comunque un bel tessuto. Costava tre sterline e Louise lo comprò solo perché le piacevano le strisce. Quelle rosse, morbide e brillanti, erano di raso, quelle bianche di taffetà marezzato. Lo portò al sarto, il quale disse che poteva farne un vestito, ma solo con la gonna dritta e il corpetto con le spalline sottili, a nastro. Un abito romantico, in uno stile vagamente reggenza, e la prima opportunità d’indossarlo si presentò quando Michael organizzò una grande cena alla quale erano invitati, fra gli altri, sua madre, il suo patrigno e un celebre direttore d’orchestra che era anche uno dei padrini di Sebastian. Costui insistette perché Louise lo accompagnasse a vedere il suo figlioccio. «Dorme di sicuro», lo avvertì mentre salivano le scale verso la cameretta.

E infatti dormiva. Stettero a guardarlo uno accanto all’altra, che dormiva nel suo lettino illuminato dall’unico filo di luce della porta aperta sul corridoio. Louise allora si voltò per tornare di sotto e sentì all’improvviso la mano pesante di lui che cercava di abbassarle la spallina del vestito. Nel ritrarsi bruscamente la strappò e si ritrovò a reggersi il vestito sul seno di fronte a quell’uomo. Il quale tentava ancora di allungare le mani. «Quanto sei bella...», farfugliò mentre Louise s’incamminava in corridoio e raggiungeva la stanza dei giochi, dove chiese a Nannie di sistemarle il vestito. L’incidente le tornò utile perché si rese conto che quel genere di situazioni non le provocava più panico, ma semplice rabbia. Più volte nel corso di quella serata si sorprese a guardarlo – i capelli neri unti che dovevano essere per forza tinti per quanto erano scuri, le mani schifose, grosse e nodose, mani da orco, i modi melliflui, ipocriti. «Un vero angelo, il mio figlioccio!», andava dicendo a Zee con la sua voce ambigua, e poi quegli occhi che la cercavano furtivi ogni volta che si credeva non visto...

Poi c’era stata la festa per la partenza di Angela. A ripensarci adesso, dopo averla rivista, si rese conto di quanto fosse cambiata. Quella volta era apparsa magra come uno stecchino, pallida, con pesanti strati di mascara e di rossetto vistoso, fredda e compassata nel ricevere le congratulazioni degli invitati. Sorrideva e parlava a stento. Adesso sembrava molto più solida: morbida, paffuta, di un calore naturale. Forse allora esistono i matrimoni felici, pensò Louise. Ma certo che esistono: sono io che ho sbagliato tutto.

Era quasi arrivata all’angolo dove stazionava il venditore di tartarughe. Aveva promesso a Michael che non ne avrebbe prese delle altre, perché secondo lui non ne sarebbero entrate di più nella scatola dove contavano di trasportarle. Era stato così comprensivo su quella faccenda che Louise sentiva di dover rispettare il suo volere. Dopotutto, si disse, se anche ne comprava altre tre, ne sarebbero rimaste almeno una dozzina nel vassoio e altre ne sarebbero comparse l’indomani. Proseguì sul marciapiede opposto, ignorando il venditore.

Michael era tornato nella stanza. «Si può sapere dove sei stata?».

«A trovare Angela, mia cugina. Sono stata a pranzo da lei».

«Ma se sono quasi le cinque!».

«Sono tornata a piedi. Era un bel po’ di strada. Comunque, che importa? Dobbiamo uscire alle otto, no?».

«E invece no. Prendiamo un aperitivo con Mamie e Arthur Kesterman... hai presente, li abbiamo incontrati dagli Ames». Non aveva presente, ma non c’era ragione di dirlo. «Perciò, cara, è meglio se cominci a cambiarti. Oh, accidenti! Sta venendo un tale per farci delle foto prima di cena. O lo riceviamo qui o ce lo portiamo dai Kesterman».

«Perché vogliono farci delle foto?».

«Be’», rispose lui annodandosi la cravatta nera, «perché siamo persone famose».

«Tu sei famoso. Io no».

«Certo che lo sei. Sei mia moglie». Incrociò il suo sguardo nello specchio della toeletta. «O almeno, io vorrei che lo fossi. Un po’ più di quanto tu sembri disposta a esserlo. Ti sei decisa?».

«A che proposito?», domandò lei stupidamente.

«A venire a letto con me, cara. È piuttosto sgradevole, sai, vivere fianco a fianco, con tutti che mi dicono quanto è bella mia moglie e lei che invece non vuole giocare con me».

«Sì, capisco. Mi dispiace». Dover sostenere quella conversazione mentre si svestiva la faceva sentire esposta, e si rabbuiò. «Credo che farò un bagno».

«Non ne hai il tempo. Dobbiamo essere lì fra tre quarti d’ora e lo sai quanto ci vuole a togliere tutte quelle tartarughe dalla vasca».

Così rinunciò. Si mise il vestito che aveva scelto lui: era bravo a scegliere la giusta mise per quel tipo di occasioni, che a lei sembravano pressappoco tutte uguali ma invece c’erano, insisteva lui, tante sottili distinzioni da fare.

Fu una lunga serata e quando finì Louise era un po’ brilla. I numerosi aperitivi prima di cena e poi lo sforzo di farsi venire in mente qualche risposta nuova alle domande che si sentiva rivolgere da circa tre settimane – «Le piace New York?», «Cosa si prova a essere la moglie di un uomo così famoso e affascinante?», «Quanti bambini ha?», seguita puntualmente da: «Chissà come le manca!» – la indussero ad alzare un po’ troppo il gomito a stomaco vuoto, e quando si sedettero a tavola non aveva più appetito.

Anche Michael aveva bevuto. Tornarono in albergo all’una, e mentre si spogliavano le disse: «Non metterti la camicia da notte. Voglio fare l’amore».

Non me ne importa, pensò lei quando lui ebbe finito e si fu voltato dall’altra parte a dormire. Non che mi piaccia, ma neanche questo importa. Non sento niente. Deve essere un passo nella giusta direzione. Indifferenza, qualunque cosa accada.

In nave, mentre tornavano in Inghilterra, successe altre volte e la sua reazione fu la stessa.

Tornò alla solita vita in Edwardes Square. Stella era sempre via, Polly stava per sposarsi, Mrs Alsop le annunciò le sue dimissioni la mattina dopo il loro ritorno. «C’è qualcuno, in questa casa, che pretende di essere servito e riverito, Madam!», e dato che fino a quel momento in casa oltre a lei c’erano stati solo Nannie e Sebastian, era chiaro a chi si riferiva. Dopo che Mrs Alsop l’ebbe lasciata sola nella camera in mezzo a una pletora di valigie – chiaramente delusa che il suo sensazionale annuncio non avesse prodotto l’impatto che si aspettava –, Louise si dedicò a suddividere i vari regali che aveva portato da New York. Michael telefonò all’ora di pranzo per farle sapere che sarebbe rimasto fuori anche la sera, e Louise decise di andare a trovare Clary e Polly nel loro appartamento.

Con sua grande sorpresa fu Neville ad aprirle la porta. Portava la giacca del pigiama e aveva la faccia ricoperta di sapone da barba. «Oh, ciao, Louise. Polly è al telefono, tanto per cambiare, e mi ha chiesto di venire ad aprire. Passo le vacanze qui», le spiegò mentre la precedeva su per le scale. Ormai la guardava da una statura ragguardevole – più di un metro e ottanta – anche se, tra i capelli crespi e le orecchie a sventola, la faccia era sempre quella. «Fammi compagnia mentre finisco di farmi la barba», le disse quando arrivarono alla porta del bagno. «Se vuoi sederti, dovrai accontentarti delle scale. Poll odia essere interrotta mentre è al telefono col suo Lord».

«Perché ti radi a quest’ora?».

«Vado al lavoro fra un minuto. Comunque non ha molta importanza a che ora mi rado. Se penso che mi toccherà farlo per tutta la vita... Ho anche pensato di farmi crescere la barba, ma a Stowe non saranno d’accordo... a parte l’insegnante d’arte».

Si tagliò quasi subito. «Quando dovrò radermi tutti i giorni, avrò la faccia come un colabrodo», si lamentò.

«Che lavoro fai?».

«Lavo i piatti al Savoy. È un lavoro di una noia mortale, ma mi danno da mangiare gratis e pagano in contanti. Sto risparmiando per andare in Grecia e in Turchia, quei posti lì...».

«Ci vai da solo?». Le sembrava un’avventura meravigliosa.

«Ci vado con due amici, Quentin e Alex. Il padre di Quentin lavorava all’ambasciata di Atene, perciò lui conosce un po’ di greco. Compreremo una Oldsmobile da un tale di Bletchley. È vecchia, ma quel tipo dice che è la miglior macchina che gli sia mai capitata. Chiede solo novantotto sterline. Ecco perché lavo i piatti». Si asciugò la faccia con una tovaglietta da tè. «Che te ne pare del fidanzamento di Polly? Un Lord, nientemeno!».

«Non l’ho conosciuto. A te piace?».

Fece spallucce. «Mi sembra uno a posto. Certo, se senti Polly è una specie di fenomeno. Ma la gente pensa sempre così quando sta per sposarsi, no? Non si accorgono che in realtà la persona in questione è esattamente come le altre. Io non credo che vorrò mai sposarmi. Però se fossi in Poll lo farei perché così avrei l’opportunità di assistere a un’incoronazione. Anche se temo che alla prossima lei sarà troppo vecchia per divertirsi. Io non conosco nessuna che voglia sposarmi e che possa garantirmi l’ingresso...».

«Perché t’interessa tanto?».

«Un po’ è per le trombe. Ne hanno di stupende, e anche altri strumenti, mi hanno detto... cioè, me l’ha detto il mio insegnante di tromba. E poi sai... i vestiti, le pellicce, il velluto, i diademi. Sono assetato di esperienze fuori dalla mia portata, capisci? Quelle che posso permettermi mi sembrano di una noia mortale».

«Hai deciso cosa fare?».

«Fare? Io non voglio fare niente. Be’, all’università vorrei andarci se ci riesco, così mi levo di mezzo il dannato servizio militare; quando avrò finito a Cambridge o dove sarà, è possibile che l’abbiano abolito. Secondo Quentin ci sono delle buone probabilità. Simon lo detesta. Lui è nella RAF e dice che gli ufficiali stanno tutto il giorno a girarsi i pollici».

Si tolse il pigiama: sotto aveva una camicia.

«Polly è al telefono e io sto andando al lavoro. Non è che mi presteresti mezzo scellino per l’autobus? Non ho un soldo».

«Non cambi mai, eh?», gli disse Louise porgendogli il denaro. «Riguardo ai soldi, almeno».

«No, non ne vedo il bisogno. È tutta la vita che sono al verde».

«Sempre lì a scroccare». Polly aveva sceso le scale senza un suono e si era fermata a dare un bacio a Louise. «Se ne avesse avuto la possibilità li avrebbe chiesti anche a me, e coi soldi in più si sarebbe comprato qualcosa da mangiare».

«Va bene, va bene! Mi conosci». Sfoderò un sorriso insospettabilmente seducente, buttò in malo modo la giacca del pigiama sul pavimento della sua stanza e poi se ne andò.

«Vieni su, dai. Scusami, ero al telefono».

Era particolarmente carina, anche col suo vecchissimo maglioncino azzurro dai gomiti lisi e scoloriti e i capelli ramati tirati indietro da un nastro di velluto blu stropicciato. Fu raggiante per tutta la serata: pareva piena di luce che sprigionava a profusione. «Io non avevo proprio idea che ci si potesse sentire così», disse. «È come avessi di fronte a me una magica avventura. Ho avuto una tale fortuna a incontrarlo. E pensare che sono stata a un passo dal mancare l’occasione!».

A un certo punto Louise le domandò se era proprio sicura, sicura nel modo più assoluto, e lei rispose serena: «Sì. Lo siamo entrambi. Proviamo le stesse cose».

Polly le mostrò i suoi vestiti. «E la cosa migliore... il mio nuovo completo da giorno, della linea New Look. Se l’è inventato un tizio a Parigi, un certo Christian Dior. È tutto il contrario del vestiario di guerra! Una gonna bella voluminosa, a vita stretta, la giacca con le spalle arrotondate. L’ho ordinato di un bel pettinato azzurro pavone, con una treccia nera sulla giacca. Dovresti fartene fare uno, Louise. Ti starebbe d’incanto».

Più tardi le disse anche: «Sai quando ti senti sempre al settimo cielo, completamente a tuo agio con qualcuno? È questo che mi succede con Gerald». E poi aggiunse, con una punta di timidezza: «Tu ti senti così? O ti ci sentivi quando eri fidanzata?».

«Non ricordo. Credo di sì. Ma non so».

«Parlami di New York. È stato fantastico?».

Cercò di ricordare come fosse stato, ma non ci riuscì. «Be’... certo, era tutto completamente diverso. Ogni cosa pulita e splendente, un sacco di roba da mangiare, negozi pieni di ogni ben di dio». Mentre ne parlava, si accorse con crescente inquietudine che il tempo trascorso laggiù non si era impresso in lei, sembrava invece opaco e irreale come un sogno fatto tanto tempo prima, di cui non si hanno ricordi distinti, gli eventi sembrano non avere conseguenze dirette, le persone non sono che una folla senza volto, tutti con la stessa voce. Erano state quasi quattro settimane della sua vita, era trascorso poco tempo, eppure in lei non ne restava traccia.

«Ti ho preso delle cose», le disse o le parve di dire, perché le stava sorgendo l’atroce sospetto che in certi momenti lei semplicemente cessasse di esistere. Poi si ricordò delle tartarughe, ridotte a grotteschi giocattoli dai colori sgargianti, con le loro testoline dall’aria centenaria, gli occhi come minuscole perline nere, che si ritraevano spaurite quando le si sollevava ma che poi riemergevano se si carezzava loro con dolcezza la pancia: allora venivano fuori con movimenti acquatici anche le pinne e le zampine posteriori, e com’erano belli i carapaci una volta ripuliti dallo smalto! Di loro riuscì a parlare. «Costavano solo cinque cent», disse. «Ne he comprate a decine».

«E cosa ne hai fatto?».

«Le ho portate allo zoo di Londra. Ne ho tenute solo quattro per Sebastian. Ma non mi sembra che gli interessino molto».

Polly le disse che Gerald aveva un lago: era pieno di alghe e in stato di abbandono, ma se le tartarughe provenivano dal Nord America probabilmente si sarebbero trovate bene anche in un laghetto del Norfolk. Perciò, se Louise si stancava di loro, se ne sarebbe occupata lei.

Polly apprezzò moltissimo i regali. Parlarono un po’ anche di Clary che, le raccontò Polly, adesso conduceva un’esistenza da eremita in una casetta di campagna procurata da Archie. «Non le piace più stare qui. Le ricorda tutte le cose brutte che sono accadute».

«Sta ancora male per quel tizio, il suo datore di lavoro?».

«Non lo so. Ma lo sai com’è fatta Clary. Se ama qualcuno, lo ama davvero, con tutta se stessa».

Tutto il contrario di me, pensò Louise.

Un attimo prima di andarsene domandò: «Ora che Clary non abita più qui, devi pagare tutto l’affitto da sola?».

«No. Zio Rupert si è generosamente offerto di pagare la sua parte, dato che Neville ci viene spesso».

«Perciò quanto paghi?».

«La metà. Sono settantacinque sterline l’anno. Costa poco perché di sotto, nel seminterrato, spennano i polli. A volte c’è una tale puzza...».

In taxi, sulla via di casa, si rese conto di non sapere affatto se settantacinque sterline (centocinquanta, considerando l’affitto dell’intero appartamento) fossero tante o poche. Dovrei trovarmi una fonte di reddito in ogni caso, rifletté. E regolare, non una particina ogni tanto, perché con quelle non riuscirei a pagare nemmeno l’affitto, figuriamoci tutte le altre cose. Quella sera si accinse a compilare una lista di tutte le altre cose. Il gas, la luce, il telefono (di cui del resto poteva fare a meno), i biglietti dell’autobus, la lavanderia. Di vestiti ne aveva a sufficienza per un bel po’ di tempo, ma di tanto in tanto avrebbe dovuto farsi riparare le scarpe (averci pensato le procurò un moto di orgoglio) e poi c’erano altre piccolezze come le lampadine, la carta igienica, gli assorbenti, i cosmetici... Cominciò a pentirsi di non aver chiesto a Polly quanto guadagnasse; poi le venne in mente che zio Hugh le pagava una rendita di cento sterline l’anno, perciò qualunque fosse stata la cifra che guadagnava Polly, lei avrebbe dovuto guadagnare cento sterline in più...

A casa non poteva più andare, perché praticamente non ne aveva più una. Se pure sua madre l’avesse perdonata per aver saputo prima di lei che suo padre stava per lasciarla, Louise non avrebbe mai voluto stare in quella casa angusta, buia, triste. Ma adesso che suo padre s’era risistemato con Diana, dato che quest’ultima le era parsa ben disposta nei suoi confronti, forse poteva andare da loro a chiedere consiglio. Forse papà potrebbe pagarmi un corso da dattilografa, pensava. E con quella qualifica sarebbe riuscita a trovare un impiego.

Telefonò a casa di suo padre e le rispose Diana. «Temo non sia possibile parlarci», le disse. «È andato a letto presto. Non sta molto bene».

«Che gli è successo?».

«È stato operato di appendicite. Una cosa abbastanza seria. È molto prostrato e non permetto che riceva visite».

Louise disse che avrebbe richiamato l’indomani e così fece. Diana le negò ancora la possibilità di parlare con suo padre. Passati altri due giorni, si risolse a chiamare zio Rupe in ufficio.

«È stato molto male. Si è temuto il peggio, davvero. Un attacco di appendicite acuta, una cosa terribile, poveretto. È successo quando eri via, altrimenti immagino che Diana ti avrebbe avvertita».

«Ho l’impressione che non voglia che vada a trovarlo».

«Be’, avrà paura che si stanchi troppo». Poi aggiunse: «Fossi in te, ci andrei direttamente. L’infermiera mi ha detto che ha chiesto di te. Continuava a dire: “C’è mia figlia?”, e l’infermiera non sapeva che ne avesse una finché non gliel’ha detto la governante. Perciò forse faresti bene ad andare».

Ci andò quel pomeriggio, sul tardi, così da lasciargli il tempo di riposare, e gli portò un mazzo di lillà bianchi e giaggioli gialli. Dato che era probabilmente l’ultimo mazzo di fiori che comprava, pensò, tanto valeva non badare a spese.

La governante le disse che Mr Cazalet stava riposando e che Madam era fuori.

«Sono venuta a trovare mio padre».

«Oh. Sarà di certo contento!».

Giaceva su un letto ampio con diversi cuscini sotto la testa ed era sveglio. C’era un libro aperto sulla coperta, ma non lo stava leggendo. Parve molto felice di vederla.

La governante si offrì di preparare loro del tè.

«Perché no? Ti va un tè, mia cara? Ah, che gioia vederti!».

Louise si sedette accanto al letto. Era molto dimagrito e gli occhi sembravano più grandi, mentre tutto il resto pareva si fosse come ritirato.

«So che sei stata in America», le disse. «Diana mi ha detto che hai chiamato ma che non sapeva quando saresti tornata».

Era certa di aver detto a Diana che sarebbe stata fuori per quattro settimane, ma non lo disse.

«Comunque adesso sei qui. È questa la buona notizia».

Le tese la mano e Louise la strinse. «Non sapevo fossi malato. Sarei venuta appena sbarcata».

Le diede una debole stretta alla mano. «Lo so. Lo so che saresti venuta subito».

Ci fu una pausa, poi lui disse: «Per poco non ci restavo secco. A dirti la verità, ero convinto di avere il cancro e continuavo a rimandare la visita dal dottore, anche se stavo sempre peggio. È stata tutta colpa mia».

«Povero papà».

«E sai una cosa?», disse tentando di sollevarsi sui cuscini con una smorfia di dolore. «Dopo l’intervento mi hanno dato dei sedativi molto potenti e l’infermiera del turno di notte, una vera santa quella donna, mi ha detto che ho farfugliato tutto il tempo che dovevo lucidare le medaglie, perché il re sarebbe venuto a prendere il tè con me! Ha dovuto dirmi che ci aveva pensato lei, che le aveva lucidate per bene, anche se naturalmente le medaglie non erano certo lì, in ospedale, ma qui a casa. Buffo che le cose che ti vengano in mente in certe circostanze, no?». Fece un’espressione infantile, patetica, che Louise non gli aveva mai visto.

«Be’, immagino che dentro di te in un certo senso tu desideri prendere il tè con il re».

«Così potrebbe ringraziarmi», replicò lui. «Tutte le cose tremende che ci è toccato fare... erano per il re, per la patria. Non c’era davvero più niente da fare».

«Parli della guerra?».

«Ti dico una cosa: ho dovuto sparare a delle persone. Non al nemico, ma ai nostri. Sono dovuto uscire la notte a finirli con un proiettile in testa. Per mettere fine alle loro sofferenze. Non l’ho mai raccontato a nessuno. Nemmeno a Hugh». La guardò con gravità. «Forse ho sbagliato a dirtelo. Non voglio rattristarti. È l’ultima cosa al mondo che desidero».

«Non mi rattrista», disse lei. «Sono contenta che tu l’abbia detto a me. Ti prendo le tue medaglie? Vuoi vederle?».

«Sono nel cassetto». Glielo indicò.

C’erano tre scatole. Due grosse e squadrate, una lunga e sottile.

«Queste sono solo da indossare sulla giacca alle serate di gala», disse scartando quella lunga e sottile. «Eccole, quelle vere».

Aprì una delle altre due e rivelò, sul suo giaciglio di velluto frusto e livido, la Croce Militare di smalto bianco e oro.

«Vedi la fascetta? L’ho avuta due volte».

«Sei stato anche candidato alla Croce della Regina Vittoria, no?».

«Sì, invece poi mi hanno aggiunto una fascetta».

Furono interrotti da alcune voci provenienti dalle scale. Diana e la governante.

«Prendile», le disse. «Voglio che le abbia tu. Non riuscirò a lasciarti nulla. Mettile nella borsa. Sbrigati!».

Fece come le diceva. Il fatto che dovesse farlo di nascosto la lasciò sgomenta.

La porta si aprì di colpo e apparve Diana con un vassoio.

Presero il tè in un’atmosfera tesa. Louise capì di non piacere a Diana: era gelosa? La disapprovava? Non seppe dirlo. Per giunta percepiva il nervosismo di suo padre e il suo sforzo di compiacerla, di placarla. Diceva continuamente che era stata meravigliosa con lui; entrambi raccontarono di quando si era sentito male e avevano chiamato l’ambulanza, senza omettere il dettaglio di una vacanza estiva in Francia che avevano dovuto annullare. Suo padre lo sottolineò più volte – Diana se la meritava, una vacanza! – mentre lei minimizzò l’inconveniente in un modo che a Louise ricordò curiosamente sua madre.

Non durò a lungo: avevano appena finito di bere il tè, quando Diana si alzò annunciando che per il malato era ora di riposare. «Tu resta qui e leggi un po’, caro. Ci penso io ad accompagnare Louise».

Lui lanciò un’occhiata al libro che era aperto sul letto. La storia del giudice, di Charles Morgan.

«Credo sia un po’ troppo complicato per me», disse. «Non mi appassiona molto. Farò un pisolino».

«Torna a trovarmi, mi raccomando», le disse mentre Louise si chinava a baciarlo, sotto la sorveglianza di Diana. Nel rialzarsi incontrò il suo sguardo supplice: sembrava davvero esausto. «Le mie due ragazze preferite», esclamò in un tono che diceva tutto il suo sforzo di comprenderle in un unico complimento. Louise sentì un nodo alla gola. Arrivata alla porta si voltò verso di lui e lo vide posarsi le dita sulle labbra, tentando il gesto di mandarle un bacio.

«Certo che verrò».

In corridoio, Diana le disse: «Si stanca molto in fretta. Ecco perché per il momento preferisco non riceva visite».

«Però va tutto bene, vero? Insomma, guarirà?».

«Ma certo! Ci vorrà solo un po’ di tempo». Sorrise come a mettere fine alla conversazione. «Come è andata in America?», domandò con esplicita mancanza di curiosità. Prima che Louise avesse il tempo di risponderle, una porta si aprì di schianto e una bambina disse: «Mamma, vieni o no a leggermi un libro? È un’ora che ti aspetto!».

«Lei è Susan. Di’ ciao a Louise».

«Ciao a Louise. Adesso, mamma».

«Sì, ora vengo. Dammi il tempo di salutare». Louise si sentì sfiorare una guancia dai suoi capelli. «Ti faccio sapere io quando sarà pronto per riceverti di nuovo».

No che non lo farai, pensò mentre si allontanava. Era sconcertata dall’atteggiamento ostile di Diana e molto in pensiero per suo padre. Non solo era molto più malato di quanto si aspettasse, ma sembrava anche infelice. All’arrivo di Diana il suo atteggiamento era cambiato dal giorno alla notte, in un modo che aveva turbato Louise; appariva vulnerabile, una caratteristica che mai gli avrebbe attribuito prima, e come in trappola. Che diritto aveva Diana di impedirle di vedere suo padre? Ripensò a quanto le era parsa amichevole la prima volta che l’aveva incontrata, al club di papà, e cominciò a detestarla. Il modo in cui lui le aveva parlato delle sue esperienze di guerra, come se si stesse confessando, le aveva permesso di vederlo giovane e vulnerabile come doveva essere stato un tempo. Qualunque cosa avesse fatto, per quanto sbagliate fossero state le sue scelte e le sue azioni, Louise scoprì di volergli ancora bene. Fu un gran sollievo.

Però era vano aspettarsi che suo padre potesse aiutarla adesso, o che Diana glielo permettesse. Doveva arrangiarsi da sola. Era difficile, ma giusto. Durante il lungo viaggio verso casa – due autobus, il secondo dei quali si fece attendere a lungo – le cose cominciarono ad apparirle più chiare.

Doveva andarsene. Lasciando Michael avrebbe dovuto lasciare anche Sebastian e Nannie. Non poteva assolutamente permettersi di portarli con sé, dato che non aveva ancora né un alloggio né un lavoro né dei risparmi. Se pensava a queste cose tutte insieme, le girava la testa. Meglio affrontare un problema alla volta. Risolvere quello dell’alloggio le sembrava un buon inizio. Se riusciva a racimolare il denaro sufficiente, forse poteva prendere il posto di Clary in Blandford Street, insieme a Polly. Polly però se ne sarebbe andata anche lei una volta sposata, e di pagare l’intero appartamento non se ne parlava di certo. Magari Stella sarebbe tornata e le sarebbe servito un posto dove stare... Possibile, ma non era una certezza su cui contare. Poi le venne in mente che una volta quell’inverno, mentre era al ristorante con Michael, qualcuno aveva fatto recapitare un biglietto al suo tavolo. «Sarebbe interessata a posare come modella per “Vogue”?». Il biglietto lo aveva perso, ma poteva sempre telefonare e vedere se erano disposti a darle un impiego. Oppure poteva fare lo stesso lavoro che faceva Neville. A lavare i piatti erano buoni tutti. Lei poi aveva fatto la scuola di cucina. Forse poteva ancora diventare cuoca.

Decise di scrivere a Stella per raccontarle la novità.

Fu molto bizzarro tornare in Edwardes Square quella sera – da Nannie e da Mrs Alsop che faceva le valigie – per poi andare a una cena in Markham Square insieme a Michael. Potrò vedere Sebastian ogni settimana, quando Nannie ha il giorno libero, sempre che io trovi un impiego che me lo permetta. Adesso trovare un lavoro non le sembrava più un’impresa così impossibile. Cominciava ad avere delle idee. Poteva scrivere una commedia; ne aveva sempre avuto l’intenzione. Oppure poteva intensificare la ricerca di una parte in teatro. Era quasi arrivata a casa quando si chiese come l’avrebbe presa Michael. A prescindere dalla sua reazione, Louise sapeva che in fondo non gli sarebbe dispiaciuto; forse ne sarebbe stato addirittura sollevato, soprattutto perché l’iniziativa sarebbe partita da lei e a lui sarebbe toccata la parte del buon marito abbandonato. L’ho deluso così tante volte, pensò, che lasciandolo gli farò un favore. Potrà chiedere il divorzio e sposare Rowena. Aveva scoperto che si vedevano poco prima di partire per l’America, e anche quello le era stato di conforto. Alleviava il suo senso di colpa, almeno nei confronti di Michael. Mentre non c’era proprio nulla che potesse lenire quello che provava verso Sebastian. Il solo pensiero le risultava doloroso. Con lui aveva mancato fin dall’inizio, fin dal momento in cui lo aveva messo al mondo. Forse avrebbe scontato questa mancanza per tutta la vita.

L’idea di andarsene però le dava la sensazione di respirare un’aria nuova – la libertà – un po’ come se si fosse lavata via lo smalto colorato dalla schiena e cominciasse a essere finalmente se stessa. Una donna divorziata di ventiquattro anni (anzi, quando avrebbe ottenuto il divorzio sarebbero stati un po’ di più), senza soldi, senza mestiere e senza qualifiche; non era una prospettiva rassicurante ma era una sfida, e lei sentiva di doverla raccogliere.