Edward
1946

Era seduto nell’ufficio che lui considerava ancora quello del Generale. Non aveva fatto modifiche: resistevano la grossa scrivania, l’armadietto dei liquori in legno di lauro, pieno di belle caraffe e calici di vetro intagliato, le file di foto che ingiallivano nelle cornici – vari membri dell’azienda in piedi accanto a grossi tronchi, i primi camion, ce n’era perfino una con un carro trainato da cavalli carico di legname, e poi numerosi alberi mastodontici che avevano colpito l’immaginazione del Generale, a Kew o in qualche possedimento o arboreto, oppure lui, il Generale, immortalato in groppa a diversi cavalli, e infine quelle della famiglia. Ce n’erano due in particolare da cui Edward non riusciva a staccare gli occhi, che ritraevano lui e Hugh in uniforme, poco prima di partire per la Francia nel 1914. Una delle tante cose orribili di quella guerra era stato il pensiero di Hugh, il non sapere se se la stesse cavando o meno. Ripensò a quel loro assurdo incontro, quando erano entrambi al fronte da mesi e non si erano mai visti: i loro cavalli pareva si fossero riconosciuti, su quella strada per Amiens. E poi, quando gli era giunta la voce che Hugh era stato ferito ed era in ospedale, era riuscito chissà come a trovare il modo di andare a trovarlo. E lo spavento che si era preso a vederlo in quello stato! La testa e il braccio fasciati, la faccia smunta e pallida, e quell’espressione spaurita che non se ne andava nemmeno quando sorrideva. In quel momento gli aveva voluto un bene tale che nel congedarsi, sapendo che poteva essere l’ultima volta che lo vedeva, gli aveva dato un bacio. Nessuno dei due aveva mai parlato, nemmeno in seguito, di che inferno fosse stata la guerra, ma quell’esperienza in comune era stata l’ennesimo filo che li aveva uniti.

E adesso quel terribile contrasto fra loro! Gli faceva una tale rabbia che Hugh disapprovasse la sua scelta di lasciare Villy e andare a stare con Diana. Edward non poteva farci niente. Ed era anche profondamente ferito. Lui e Hugh erano sempre stati molto uniti; qualche volta avevano litigato, certo – Hugh era testardo come un mulo –, ma alla fine avevano sempre trovato un accordo. Insieme avevano lavorato, fatto vacanze, passato il tempo giocando a scacchi, golf, squash. Quello con Hugh, si disse, era stato il legame più stretto e duraturo della sua vita.

Aveva provato a mettersi in contatto con lui tramite la linea interna pochi minuti prima, ma gli avevano detto che era già andato via, e Edward si era ricordato che era in corso una festicciola per Miss Pearson. Lui aveva deciso di non andarci. Non vorrà vedermi, pensava amaramente. Proprio mentre si alzava dalla scrivania, bussarono alla porta e apparve Teddy. Fu così contento di vederlo che gli propose di bere un bicchiere insieme. «Una cosa veloce. Poi me ne devo andare».

Teddy accettò di buon grado.

Mentre prendeva il whisky si stupì di quanto Teddy somigliasse a lui quando era un giovanotto della stessa età: gli stessi capelli ricci, un po’ crespi, gli stessi occhi azzurri, perfino i baffi erano uguali. Il ragazzo sembrava stanco, ma la combinazione di una lunga giornata di lavoro (aveva detto a Hartley non solo di non risparmiarlo, ma anzi di farlo lavorare più degli altri impiegati, quelli che di cognome non facevano Cazalet) e di una moglie che, secondo Edward, a letto doveva essere insaziabile avrebbe messo a dura prova chiunque. La settimana prima li aveva portati entrambi a cena fuori con Diana: erano andati anche a ballare, e mentre ballava con Bernardine, Edward aveva avuto la netta sensazione che a sua nuora piacessero molto gli uomini.

«Tutto bene a casa?».

«Sì, grazie».

«E il lavoro? Tutto bene col nuovo capo?». Hartley era stato trasferito a Southampton quella settimana.

«Mi sembra di sì. A proposito di questo, volevo parlarti...».

«Sì?», lo incitò preoccupato.

«Il fatto è... mi chiedevo quand’è che avrò un aumento di paga». Seguì un breve silenzio durante il quale Teddy incontrò lo sguardo del padre e subito distolse il proprio.

«Ragazzo mio, lavori qui solo da... quanto sarà, tre mesi!».

«Lo so. Il fatto è che... sono arrivate le bollette del gas e della luce, e io non ho di che pagarle!».

«Ti rendi conto che prendi già uno stipendio più alto di qualunque nuovo impiegato e non hai nessuna esperienza in questo campo? Alcuni non li prenderanno mai in vita loro, tutti quei soldi».

«Lo so. O almeno credo».

«Prendi più di quello che chiedevano quei calciatori, quelli che minacciavano di scioperare. Quanto volevano... Sette sterline alla settimana, vero? Be’, tu ne prendi nove. Credo davvero che questo dovrebbe bastarti, caro mio».

«Lo credevo anch’io. Mi ero scordato di quelle bollette. E poi... vedi... Bernie non riesce a regolarsi con le spese. È abituata ai climi caldi, perciò tiene il fuoco sempre acceso, perfino in agosto. E anche le luci perché dice che l’appartamento è tanto buio».

«Allora devi farle un discorso serio riguardo alle spese di casa».

«Ci ho provato. Ma non mi piace insistere. Per lei le cose non vanno benissimo, con me che sto fuori tutto il giorno. Si annoia, sai...».

Oh, misericordia!, pensò Edward, guarda in che pasticcio s’è cacciato. Gli disse: «Quanto ti serve per queste bollette?».

Teddy si frugò nelle tasche e tirò fuori un piccolo fascio di fogli tenuti insieme da una graffetta. «Sono tutti solleciti», disse. «Minacciano di toglierci il servizio se non paghiamo. È questo il guaio».

«Fammele vedere».

La bolletta del gas era di ventotto sterline, una somma davvero esagerata per tre mesi in un piccolo appartamento. Quella della luce ammontava a dodici, mentre il telefono, che Teddy aveva evitato di menzionare, addirittura a trenta. «Telefonava negli Stati Uniti, ora le ho spiegato che non possiamo permettercelo».

«Fanno in tutto settanta sterline».

«Lo so».

«Nient’altro?».

«Be’, a giorni ci sarà da pagare l’affitto del prossimo mese. Sono sei sterline».

«Teddy, tu devi mettere da parte i soldi per queste spese. Ogni settimana».

«Ma se lo faccio, come le pago tutte le altre cose?».

«Parli del cibo?».

«Parlo del cibo, dei biglietti per venire a lavoro e poi, sai... tutte le cose di cui ha bisogno Bernardine. Per non parlare delle serate fuori una volta a settimana, che sembrano poca cosa, e le sigarette e le cene al ristorante ogni tanto. Bernie non ha molta esperienza in cucina e dice che con i razionamenti è impossibile. La roba non basta. Ogni tanto dobbiamo mangiare fuori».

Alla fine Edward si offrì di pagare quei conti, ma disse a Teddy che in futuro doveva pianificare le sue spese e farsi bastare lo stipendio. «Non posso darti di più adesso», spiegò. «Sarebbe favoritismo. I nostri dipendenti non hanno padri che li tirano fuori dai guai. Hai deciso tu di sposarti. Dovevi pensarci. Devi rinunciare a qualcosa». Lanciò un’occhiata sghemba a Teddy, che se ne stava lì a rigirarsi il bicchiere tra le mani; la sua espressione, da grata che era, s’era fatta imbronciata.

«Ci proverò», disse. «Ma non è facile come pensi». Si alzò in piedi. «È meglio che vada».

«Aspetta un attimo. Ti faccio un assegno. Vedi di usarlo per pagare quei conti».

«Grazie per avermi tirato fuori dai guai», disse dopo aver preso l’assegno. «Certo che lo userò per quello».

«Perché non proponi a Bernie di farsi aiutare da tua madre nella gestione della casa?».

«Ci provo». Dal suo tono Edward capì che era un’idea senza speranza.

Gli diede un passaggio fino a Tufnell Park e fece tardi con Diana.

Dopo che Teddy fu sceso dall’auto, si ricordò che Bernardine aveva avuto due figli dal suo primo matrimonio che a quanto pareva aveva abbandonato. Non ne parlava mai. Forse significava che non le piacevano i bambini e che non ne voleva altri. Volesse il cielo, pensò con amarezza.

Quella sera poi un ritardo proprio non ci voleva, perché non avrebbe dato a Diana la notizia che voleva sentire. Aveva creduto che lasciando Villy e trasferendosi da lei avrebbe fatto finalmente contenta almeno una delle due, ma non era andata così, almeno non nella misura che si aspettava. Certo, Diana era stata al settimo cielo il giorno in cui le aveva detto di aver compiuto il grande passo e aveva portato la sua roba nella casa che lei aveva scelto per loro qualche mese prima. Era una casa grande e moderna, costruita negli anni Trenta, non proprio il suo genere, ma a lei piaceva tanto perché era pratica e facile da mantenere. C’erano tre piani; l’ultimo secondo lei era perfetto per ospitare una governante, e senza perdere tempo aveva assunto una certa Mrs Greenacre, una vedova che si occupava di fare la spesa e cucinare. Aveva preso anche una donna a ore per le faccende; Jamie era stato mandato a una scuola preparatoria, perciò c’era solo Susan, ma Diana aveva assunto anche una bambinaia a giornata, una ragazza che si occupava di lei dalle nove alle quattro del pomeriggio. Uno staff domestico in piena regola, senza contare che doveva mantenere anche Villy. Edward aveva dovuto attingere al suo capitale. Ma una volta ottenuto tutto questo, Diana aveva cominciato a preoccuparsi del divorzio. All’inizio aveva dato per scontato che ce ne sarebbe stato uno, e lui non aveva avuto cuore di dirle che invece non se ne era parlato affatto. Edward stesso si era basato sulla vaga supposizione che Villy lo avrebbe preteso, ma nel corso degli ultimi mesi, in molti modi indiretti, era stato chiaro che Villy non lo voleva, o comunque non sarebbe stata lei a chiederlo. Poi la settimana prima Diana aveva affrontato l’argomento di petto. Si stavano svestendo dopo una cena – amici di lei – e Edward aveva notato che era piuttosto taciturna.

«Sei stanca, tesoro?».

«Un po’».

«Simpatici i tuoi amici».

«Paddy e Jill? Sì. Peccato che i Carew non siano venuti, però».

«Già. E come mai?».

«Credo non vogliano frequentare coppie non sposate».

«Che stupidaggine». Andò in bagno per togliersi la dentiera e pulirla, una cosa che non faceva mai di fronte a Diana, a differenza di quanto accadeva con Villy. Quando tornò in camera, la trovò ancora seduta davanti alla toeletta.

«Edward! Che sta succedendo?».

«A che proposito?».

«Il divorzio».

Le disse che era troppo tardi per affrontare l’argomento, ma lei insistette, voleva sapere a tutti i costi. «Insomma, lo capisco che ci vuole del tempo, ma vorrei almeno sapere se hai cominciato. E non hai cominciato, vero?».

«Non formalmente, no».

«Vuol dire che non hai fatto niente. Sbaglio? Almeno hai parlato con gli avvocati? E con lei?».

«Se proprio vuoi saperlo, no. Non l’ho fatto».

«Ma se non cominci, non succederà mai niente!».

«C’è sempre la possibilità che lo chieda lei».

«E tu intendi aspettare che questo accada?».

Lui non rispose.

«E se non lo chiede?».

«Non lo so! Come credi che possa saperlo?».

Si sentiva messo all’angolo: gli pareva che tutti, perfino Diana, cospirassero per farlo sentire in torto. E lei – perdio, almeno lei! – avrebbe dovuto stare dalla sua parte. Proprio quando era sul punto di non farcela più, lei aveva cambiato atteggiamento: si era alzata ed era corsa ad abbracciarlo. «Povero caro! Lo so quanto è dura per te. Sei stato così bravo ad affrontare tutto questo!». Poi aveva detto tante altre cose di quel tenore e lui aveva cominciato a sentirsi meglio. Andarono a letto e fecero l’amore, e lei fu più vogliosa del solito e a lui piacque; più tardi, mentre la teneva abbracciata a letto, le disse che avrebbe preso un appuntamento con Villy per discutere della questione del divorzio.

Così era andato a pranzo con Villy. Aveva scelto un ristorante che non frequentavano spesso, a Soho: non voleva incontrare amici né essere distratto da camerieri troppo solleciti. Le aveva telefonato dicendole che voleva discutere della situazione; lei gli era parsa guardinga ma aveva accettato.

Lo aspettava al tavolo, col solito completo blu e la bocca carica di rossetto color ciclamino. La salutò con cordialità e ordinò un Martini per ciascuno.

Il pranzo però fu un percorso minato. La conversazione sbandava imprevedibilmente tra gli argomenti che lui aveva scelto attentamente e le improvvise, amare uscite di Villy, dette con un tono di voce che Edward volle minimizzare come melodrammatico, ma che lo turbò profondamente. Per esempio, lui le chiese come fosse andata la sua vacanza estiva con la Duchessa e Rachel – aveva portato i bambini a Home Place – e lei lo interruppe di colpo per dire: «Immagino che dovrò vivere il resto della mia vita in mezzo alla compassione degli altri!». Quella prima volta, commise l’errore di domandare cosa volesse dire e lei lo guardò con quel suo tremendo sorriso da eroina tragica – si rese conto ora che lo aveva sempre irritato – e disse: «Che cosa voglio dire? Voglio dire che quando si è nella miseria non si può scegliere». C’era stato un silenzio penoso, lei lo fissava e lui non sapeva cosa dirle. Poi le disse di Teddy e dei suoi problemi finanziari, e aggiunse che Bernardine non gli sembrava un granché come moglie, e Villy sbottò: «Oh be’, ormai lo sappiamo bene cosa predomina in questa famiglia, no? La lussuria!». Lo disse con un tono talmente disgustato che Edward si sentì arrossire. No, non gli pareva proprio il clima adatto per mettere sul tavolo l’idea del divorzio. Ma l’aveva promesso a Diana, così glielo disse.

Non ne volle sapere. Nessuno nella sua famiglia s’era mai imbarcato in un affare tanto increscioso. Proprio non capiva per quale motivo lei dovesse essere la prima, magari al semplice scopo di assecondare gli istinti predatori di una donna che dopotutto le aveva rovinato l’esistenza. Lui suggerì che forse un divorzio avrebbe reso le cose più nette e semplici per i bambini, piuttosto che una situazione ambigua come quella attuale, al che Villy ribatté che per i bambini la cosa migliore sarebbe stata non incappare in alcuna delle due.

Le chiese di pensarci su, almeno.

«Quello che proprio non riesco a capire», disse lei dopo un certo lasso di tempo in cui erano rimasti in silenzio, «è per quale motivo mi hai fatto credere che stessimo scegliendo una casa dove vivere insieme, quando già da tempo non avevi nessuna intenzione di venire ad abitarci!».

«Pensavo che ti saresti sentita più sicura avendo una casa tua».

«Ma se avessi saputo che cosa stava accadendo alle mie spalle, magari avrei scelto di andare a vivere altrove, lontano da voi!».

«Se è questo che vuoi puoi farlo. La casa la sto facendo intestare a te, potrai venderla quando vorrai».

«Oh, che vuoi che me ne importi di vivere in un posto piuttosto che in un altro!», esclamò lei.

«Non è stata un’idea mia. L’ha detto Louise che per te sarebbe stato meglio avere un posto dove vivere».

«Louise? Vuoi dire che hai discusso di me con lei?».

Gesù, si pentì subito, come mi è venuto in mente di dirle questo? «Cercavo di fare le cose in modo corretto. Volevo fare la cosa più giusta».

«Non c’è “un modo corretto” di fare quello che mi hai fatto. Però potevi almeno evitare di parlare di me alle mie spalle con mia figlia. Non capisci quanto è umiliante?».

«Sì, sì, certo. Ora capisco. Mi dispiace moltissimo... non volevo ferirti».

«Non volevi ferirmi! Oh, Edward!». Sbottò in una risata amara e bevve un sorso di caffè che le andò di traverso. Le succedeva di tanto in tanto, quasi sempre in ristoranti e luoghi pubblici. La cosa non la metteva più in imbarazzo da anni. Edward le versò dell’acqua, le diede qualche delicato colpetto alla schiena e le porse il fazzoletto appena in tempo per la serie di starnuti che di solito seguiva l’accesso di tosse. Le sorrise con fare incoraggiante, mentre si soffiava il naso, starnutiva, si tamponava gli occhi – il trucco ormai s’era sciolto in strisce arancioni –, starnutiva altre due volte, chiedeva scusa, si soffiava il naso e starnutiva ancora. Era orrenda, familiare, totalmente indesiderabile e allo stesso tempo commovente. Capì per la prima volta da quando l’aveva lasciata quanto fosse importante per lei il suo amor proprio.

«Ho sempre ammirato il tuo contegno quando stai per strozzarti», le disse.

«Ho alle spalle anni di pratica». Sembrava più calma. Prese il portacipria e cercò di sistemarsi il trucco con piccoli colpetti piuttosto vani.

Adesso non sapeva davvero più cosa dirle. Tirare in ballo Roly sarebbe stato avventato: Villy aveva già messo in chiaro che per nessun motivo al mondo gli avrebbe permesso di portarlo nella sua nuova casa e di fargli conoscere quella donna. Alla fine le offrì una macchina e lei l’accettò di buon grado. «Sarà più semplice andare a trovare Lydia in collegio», disse.

E questo era stato tutto. Aveva pagato il conto e si erano salutati in strada, senza toccarsi: si era alzato il cappello sopra la testa come avrebbe fatto con un estraneo.

Quel pomeriggio, in ufficio, aveva chiesto a Rupert di venire a cena con Zoë in Ranulf Road. Vedendolo sul punto di declinare l’invito, aveva insistito: «Dimmi di sì, per favore! Questo semplificherebbe tanto le cose», e Rupert alla fine aveva acconsentito.

Questo almeno avrebbe fatto piacere a Diana, pensò dopo aver lasciato a casa Teddy. E visto come stavano andando le cose sull’altro fronte, una distrazione ci voleva.

Diana indossava un vestito nuovo, un affare blu scuro e verde smeraldo, e per sua fortuna Edward si accorse che era nuovo prima che lei glielo facesse notare. Aveva preparato un grosso shaker di Martini. Lui, avendo già bevuto con Teddy, avrebbe preferito del whisky, ma non ebbe cuore di deluderla.

«È stato buffo», gli raccontò. «Ho trovato questo vestito in uno di quei terribili negozietti di Finchley Road. Avevo con me Jamie, prima di riportarlo a scuola, e la signora del negozio gli ha detto: “Che dici, al papà piacerà la mamma col suo bel vestito nuovo?”. E Jamie ha detto: “Non è il mio papà. È l’uomo che vive con mia madre”».

«Santo cielo!».

«Quella poveretta non sapeva da che parte guardare!».

«Ho invitato a cena Rupert e Zoë », le disse.

«Oh, bene! Non vedo l’ora di conoscerli. Dammi l’altra metà, caro». Gliela versò. «E com’è andato il pranzo?».

«Non tanto male». La sentì fremere nell’attesa. «Ci penserà», disse Edward. «Non c’è davvero altro che io possa fare. Non posso chiedere io il divorzio».

«Le hai detto di Susan?».

«No. No! Non gliel’ho detto. È già furiosa, sai. Non c’è motivo di peggiorare ancora le cose».

Ci fu un altro silenzio. Non vorrei viverne, di serate così, pensò Edward.

«Non mi pare che le cose si mettano bene».

Si alzò dalla sedia. «Vado a lavarmi», annunciò. Voleva allontanarsi da lei prima che cominciasse un litigio, o qualcosa che ci si avvicinava molto.

Aveva uno spogliatoio adiacente alla camera, con un accesso al bagno. Fece pipì, si sciacquò il viso con l’acqua fredda, si lavò le mani e poi si pettinò col suo set di spazzole d’argento. Stava perdendo i capelli. Si sentiva avvilito, cosa che per lui era una novità. Di solito non rifletteva su come si sentiva, ci si sentiva e basta, ma quel giorno – la riunione del consiglio, con Hugh che gli si era messo contro e il conseguente compromesso, il colloquio con la banca quando aveva scoperto che i termini del prestito che aveva chiesto erano insolitamente aspri, la decisione di prendere altre diecimila sterline dai propri risparmi per provvedere alle varie spese (le rette delle scuole di Jamie e Lydia, e adesso anche gli alimenti per Villy più la macchina che aveva promesso di comprarle) e anche Teddy che voleva più soldi – era stato tutto talmente prostrante da dargli l’acuta consapevolezza della propria stanchezza e del fatto che si trovava all’angolo, un angolo spiacevole e a lui sconosciuto. Si rese conto in quel momento di aver tralasciato il pranzo con Villy, che a suo modo era stato il momento peggiore perché, anche se di certo non poteva farne parola con Diana, si sentiva terribilmente in colpa nei suoi confronti: dopotutto erano stati sposati per ventisei anni, e il colpo per lei doveva essere stato durissimo. Certo, a lei non era mai piaciuto il sesso o quel genere di cose, ma era chiaro che le piaceva essere sposata, come a tutte le donne... bastava pensare a quanto ci teneva Diana; in effetti lui non si sarebbe mai nemmeno interessato al genere di donna che non dà importanza al matrimonio... invece un uomo poteva tranquillamente farne a meno... lui, per esempio, avrebbe volentieri lasciato la situazione con Diana così com’era. Il fatto è che ne era innamorato, come non era stato mai innamorato di Villy. Ripensò a lei: a quando l’aveva vista nel ristorante, truccata come faceva solo quando usciva di sera; quel rossetto dal colore acceso che rendeva più sottile e tagliente la sua bocca, tutta quella cipria scura che le metteva in evidenza le rughe tra il naso e la bocca. Da giovane, quel nonsoché di androgino le donava, ma non era una qualità che invecchiava bene. Era del tutto priva di femminilità e anche patetica, come quando era stata sul punto di strozzarsi. E poi, fuori dal ristorante, in strada, quando nessuno dei due aveva saputo cosa dire all’altro e lei gli aveva rivolto quel sorriso che non era affatto un sorriso, ma una smorfia piena di livore misto ad autocommiserazione. Certe cose le aveva rimosse e gli tornavano in mente solo ora. Ecco cos’aveva pensato: non posso baciarla, perché potrebbe crollare; non posso stringerle la mano, sembrerei freddo... e allora che devo fare? E si era sollevato il cappello ricambiando il sorriso, prima di voltarsi e andarsene. Adesso si chiedeva se lei lo avesse mai amato.

La voce di Diana che lo chiamava a cena lo distolse con sua grande gratitudine da quei pensieri. In sala da pranzo c’era un’atmosfera festosa, con candelieri e un vaso d’argento pieno di crisantemi bianchi e gialli, la tovaglia candida e la sua caraffa preferita piena di borgogna; Mrs Greenacre se la cavava bene con la cucina tradizionale inglese: arrosto d’agnello e ostriche avvolte nella pancetta – era noto che a lui piacessero i sapori decisi. E poi c’era anche dell’ottimo stilton, ma si accorse di avere pochissimo appetito, e anche se toccò appena le varie portate sentì i morsi dell’indigestione prima ancora di alzarsi da tavola. Diana fu molto cara: andò a prendergli del bicarbonato – una cosa dal sapore disgustoso ma talmente efficace che dopo si sentì in grado di bere del brandy con lei in salotto, prima di andare a letto. Fece l’amore con più generosità del solito, come per risarcirla del mancato divorzio e anche perché, raccontò a se stesso, aveva bisogno di averla dalla sua e lei c’era: Diana parve apprezzare molto il suo slancio, lo ricambiò e poi s’addormentò felice. Edward invece, e questo proprio non era da lui, restò insonne: gli tornò il senso d’indigestione e, dopo essere stato a letto sveglio per un po’, si alzò per andare in cerca del bicarbonato.