Gli altri
Gennaio-aprile 1946
Se durante quei sei anni di guerra che sembravano non voler finire mai qualcuno gli avesse detto che, quando fossero finiti, lui li avrebbe rimpianti, l’avrebbe presa come un insulto, una provocazione. Adesso che conduceva una vita insulsa in quella casa giocattolo che Jessica reputava tanto comoda, doveva ammettere invece che sì, quella vita gli mancava da molti punti di vista. Il primo contraccolpo lo aveva subito quell’autunno, quando era tornato a vedere come andavano le cose nella sua casa a Frensham. Naturalmente, anni prima aveva acconsentito di buon grado a che Nora e Richard vi si trasferissero dopo le nozze: in quel modo avevano evitato che la casa venisse requisita dal governo, dal momento che Nora intendeva avviare una casa di cura per ex soldati disabili. Per lui però doveva trattarsi di un progetto limitato al periodo della guerra: aveva sempre immaginato di stabilirsi a Frensham un giorno, fare il signorotto di campagna, condurre insomma il genere di vita che sentiva come il più adatto a sé. Jessica lo aveva avvertito che avrebbe trovato il posto diverso da come se lo ricordava, ma lui non l’aveva presa molto sul serio. In treno aveva cominciato a rimuginare sulla possibilità di ricavare dalla proprietà un piccolo appartamento per Nora e Richard (Jessica gli aveva detto anche che per Nora sarebbe stato un problema se l’avessero estromessa).
Durante quel tragitto così familiare pensò con tenerezza a sua zia Lena che gli aveva lasciato quella casa e a quante volte aveva preso proprio quel treno, quello delle 3,35, per andare a passare una settimana di vacanza in campagna. Quanto gli piaceva stare con lei! Zia Lena, che non aveva figli, lo viziava. Alla stazione veniva a prenderlo Parkin, che lo chiamava “signorino Raymond” e gli dava ragione qualunque cosa dicesse. Al suo arrivo correva a baciare la guancia soffice della zia. In qualunque periodo dell’anno trovava un bel fuoco scoppiettante e, poco dopo il suo arrivo, la cameriera cominciava sempre a servire una sontuosa, squisita merenda. Tramezzini all’uovo, pan di zenzero, pasticcini e dulcis in fundo, insieme a una torta di ciliegie, un meraviglioso dolce glassato con sopra la scritta «BENVENUTO RAYMOND» fatta con della glassa di un colore diverso. C’erano tazze poco profonde con draghi disegnati sopra. Zia Lena di solito diceva di non avere fame, ma assaggiava un po’ di tutto, e lui veniva incoraggiato a fare altrettanto. Dopo la merenda, una volta che la cameriera aveva sparecchiato, la zia gli leggeva qualche brano di The Water Babies o di un vecchio libriccino che raccontava le avventure di un folletto, una specie di fiaba birichina ma piena di buone intenzioni. Più tardi, quando fu più grandicello, giocavano, a dama o Halma o a qualche gioco con le parole. Sulla mensola del camino c’era un orologio smaltato che suonava anche i quarti d’ora con delicati rintocchi argentini, e alle sei in punto zia Lena chiamava Barker, la sua cameriera personale, che veniva a prenderlo perché facesse il bagno, dopo il quale veniva condotto in una stanza inspiegabilmente chiamata “sala studio” e lì trovava una ciotola di pane e latte con zucchero di canna e un uovo sodo. Dopo che si era messo a letto, la zia veniva a dargli la buonanotte. A quell’ora di solito si era cambiata e indossava un abito di seta nera con uno scialle di cachemire bianco ed elaborati orecchini di perle di fiume a forma di cestini di fiori. Gli faceva dire le preghiere e gli dava un bacio sulla fronte; qualche volta chiamava di nuovo Barker: «Il bambino ha i capelli bagnati, ci pensi tu ad asciugarglieli, Barker?». Poi la sentiva ritirarsi col suo passo faticoso e irregolare, accompagnata dai colpetti del bastone contro i gradini della scala. Cominciavano così sette giorni di pura felicità in cui veniva vezzeggiato e fatto oggetto di ogni attenzione da zia Lena e dai suoi domestici, che lo accoglievano grati di quel piccolo ma benedetto diversivo dalla soporifera monotonia delle loro vite. Gli preparavano i suoi cibi preferiti, lo portavano nei posti più divertenti – il giorno più bello era la gita a Guildford con zia Lena per scegliere i regali di Natale e di compleanno – ma più di tutto gli piaceva essere oggetto di quell’adorazione completamente acritica. Tutto ciò che faceva era bello e lodevole; era “un così bravo bambino!”, diceva a chiunque zia Lena, e lui sguazzava nell’estasi di quella stima incondizionata. Tutto il contrario di quel che succedeva in casa sua, dove suo padre si lamentava con tutti e con dovizia di dettagli delle sue scarse doti, dei suoi mediocri risultati scolastici, della sua paralizzante incapacità di fornire la risposta giusta a quelle domande inquietanti che suo padre definiva “elementari” e che erano i suoi argomenti di conversazione preferiti a tavola. «Non so cosa vi insegnino a scuola», finiva sempre per dire. «Mai vista tanta ignoranza in vita mia!». Sua madre non lo criticava, si limitava a curarsi di lui il meno possibile. Le attenzioni le dava tutte a suo fratello, Robert, che poi era morto in guerra. Una volta Robert era andato con lui da zia Lena, ma aveva detto di essersi annoiato. Era stato anche pestifero in modo inspiegabile (o almeno lui non era mai riuscito a farselo spiegare da nessuno). «Tutto il contrario di un bravo bambino, temo», aveva commentato zia Lena la sera in cui se ne era andato, rispedito a casa per punizione (lui, invece, Raymond, aveva avuto il permesso di restare).
In seguito aveva avuto il monopolio di Frensham e di zia Lena e lei, pace all’anima sua, morendo gli aveva lasciato tutto: la casa a cui era tanto affezionato e che sentiva come la sua vera casa e tutto il suo contenuto, oltre a una serie di investimenti sicuri. Lui, che non era mai riuscito ad arricchirsi davvero, adesso di colpo era relativamente ricco. Ma proprio quando stava per insediarsi nella sua nuova proprietà per goderne gli agi, era scoppiata la guerra, lui si era sentito in dovere di offrire i suoi servigi e il posto che gli era stato assegnato escludeva che potesse vivere laggiù. Era stato confinato, era il caso di dirlo, a Woodstock e poi a Oxford per tutta la durata del conflitto. Dato che Jessica non aveva voluto saperne di abitare da sola a Frensham, la casa era rimasta chiusa finché Nora non si era sposata con quel poveretto, Richard, e aveva proposto di mettere su a Frensham una casa di cura per paraplegici. Era parsa la soluzione ideale. Benissimo, ma adesso che la guerra era finita tutto doveva tornare alla normalità. Sarebbe stato ben felice di ristrutturare le stalle e il capanno delle carrozze per ricavarne un alloggio per Nora e Richard, ma rivoleva indietro casa sua, checché Jessica ne pensasse. Lei invece voleva restare in quella casa minuscola in Paradise Walk dove, le aveva fatto notare, c’era a malapena lo spazio sufficiente per loro due ed era impossibile viverci quando Judy tornava per le vacanze. Dare una festa d’addio per Angela lì dentro, poi, era proprio fuori questione.
Al pensiero di Angela gli sfuggì un respiro – forte e chiaro, si rese conto, perché il passeggero di fronte a lui alzò gli occhi dal libro all’improvviso e lui, imbarazzato, si mise a guardare fuori dal finestrino. L’imminente matrimonio di Angela era stato un duro colpo sia per lui sia per Jessica, seppure per motivi diversi. A Jessica non piaceva che il fidanzato di sua figlia avesse quasi vent’anni più di lei; questo a Raymond non sembrava un grosso problema: ad Angela serviva qualcuno che la tenesse a bada. Non le piaceva che fosse già stato sposato in precedenza, e su questo Raymond era in parte d’accordo, ma del resto, se il maggiore Black – o il dottor Black, come doveva chiamarlo adesso – fosse arrivato all’età di quarantaquattro anni senza aver mai preso moglie, la cosa sarebbe stata ben più preoccupante. Jessica si era lamentata anche del fatto che non era un bell’uomo (Black era partito per gli Stati Uniti prima che Raymond avesse la possibilità di conoscerlo) e Raymond, ricordando con amarezza la sua squallida tresca con quel vermiciattolo di Clutterworth, aveva pensato che ci voleva una bella faccia tosta da parte sua. La professione di Black – uno psichiatra – era di certo un punto a sfavore: lui provava una profonda diffidenza verso gli strizzacervelli e tutte quelle buffonate psicologiche, però era pur sempre un medico e aveva avuto il grado di maggiore nell’esercito americano, credenziali più che rispettabili. Certo, Raymond c’era rimasto male nell’apprendere che le nozze non sarebbero state celebrate lì da loro, né a Londra né a Frensham, così come sarebbe stato giusto. E questo non perché il dottor Black si fosse rifiutato di tornare in Europa per celebrare le nozze, ma perché Angela aveva rifiutato con fermezza la cerimonia in grande, con tutta la famiglia riunita, no, lei voleva andare subito a New York e sposarsi lì, in modo discreto e senza tanto clamore, diceva. Perciò, entro un paio di settimane, si sarebbe imbarcata sull’Aquitania, tutta sola, e sarebbe partita verso una vita nuova, il che significava, Raymond lo capiva bene, che probabilmente non l’avrebbe rivista mai più. Era questo ad addolorarlo più di tutto il resto. Voleva dire che non avrebbe avuto altre opportunità di risanare il loro goffo e difficile rapporto, un pensiero che l’assillava da quel disastroso pranzo al Lyons Corner House, cinque... no, sei anni prima, l’ultima volta che era stato da solo con lei. In seguito l’indifferenza e l’evidente fastidio da parte di sua figlia lo avevano sempre scoraggiato; due o tre volte aveva tentato di vedersi con lei ma Angela aveva sempre detto di no, oppure, peggio, gli aveva dato forfait all’ultimo momento, cosicché Raymond aveva perso la pazienza e ci aveva rinunciato. Non aveva mai avuto la possibilità di dirle che si rendeva conto che era cresciuta e che lui non era più semplicemente un genitore, ma che voleva esserle amico, in un rapporto alla pari, che non chiedeva altro che affetto e fiducia e che non sopportava di essere trattato come un estraneo, per giunta non particolarmente simpatico. Ma le cose tra loro stavano così, o così erano diventate. Si ricordò del momento in cui aveva preso pienamente coscienza del fallimento del suo rapporto con Angela: era l’estate del ‘43, la sera di quel giorno che aveva pranzato con Villy per tentare, invano, di ottenere un po’ d’aiuto da lei per quella cattiveria che gli aveva fatto Jessica. La vergogna, la disperazione di aver scoperto che sua moglie aveva una relazione con altro uomo! Sarebbe stato orribile, chiunque fosse stato il suo amante, ma il fatto che avesse scelto quello schifoso omiciattolo era stata l’umiliazione suprema. Jessica, la sua Jessica, che andava a letto con quel tizio! E non una ma molte volte, per quasi un anno! Doveva averlo reputato un cretino, forse non le era mai importato un fico secco di lui, l’amore di sua moglie Raymond se lo era solo immaginato: Jessica aveva sopportato la sua adorazione, tollerato il suo amore senza ricambiarlo. Allora era precipitato in un abisso di infelicità e solitudine. La rabbia inconcludente che provava per lei quando era da solo non lo sosteneva per niente. Sentiva di aver fallito come marito e anche come padre, e che cosa poteva essere in questa vita se non un padre e un marito?
Giunto a Oxford, era sceso dal treno e aveva trascorso l’intero torrido pomeriggio in un pub dove non era mai stato prima e che supponeva, a ragione, non fosse frequentato dai suoi colleghi. Se ne era stato per ore seduto al bancone a tenere in mano il bicchiere che il gestore, non avendolo mai visto prima, era stato disposto a riempirgli solo due volte; poi l’ulcera di cui soffriva da un po’ di tempo aveva cominciato a dargli un tormento tale che era dovuto andare a cercarsi un posto dove gli dessero da mangiare.
Le settimane successive erano state le peggiori della sua vita. Aveva invitato a pranzo Villy perché sentiva il bisogno di parlare con qualcuno, sfogare la rabbia e lo stupore, e Villy gli era parsa la persona più adatta, che di certo avrebbe reagito al comportamento della sorella con il suo stesso sdegno. Poi, mentre andava all’appuntamento, gli era sorto il terribile, e sempre più concreto, sospetto che lei sapesse già, che tutti sapessero, che non solo Jessica ma il mondo interno ridesse alle sue spalle. Ma poi aveva avuto la prova che Villy non ne sapeva niente: era parsa anzi adeguatamente sconvolta dalla notizia, cosa di cui le fu grato. Mentre le spiegava i suoi sentimenti al riguardo, gli era venuto in mente che forse Villy poteva parlare con sua sorella, ma lei si era mostrata piuttosto refrattaria. Dopo quel pranzo e dopo quella prima miserabile serata al pub, aveva telefonato a sua cognata e le aveva detto di non fare nulla. «Magari tutto si concluderà così come è cominciato», aveva detto fingendosi fiducioso e ottimista. Villy aveva acconsentito (del resto, probabilmente non avrebbe fatto nulla comunque) e la cosa era finita così. Certo, fra sé e sé aveva continuato a immaginare di fare una scenata a Jessica, dirle punto per punto cosa pensava della sua abominevole condotta. Ogni volta però, esauriti la foga iniziale e il senso di liberazione, incappava nell’incognita di come avrebbe reagito lei. E se fosse stata davvero innamorata di quello spregevole individuo? E se gli avesse chiesto il divorzio e se ne fosse andata con Clutterworth? Il solo pensiero lo paralizzava. L’idea che Jessica potesse lasciarlo era semplicemente oltre il limite del sopportabile per lui. Un divorzio sarebbe stato una pubblica umiliazione da cui era certo che non si sarebbe mai ripreso; ma al di là di questo, la visione angosciosa del deserto che sarebbe stata la sua vita senza Jessica lo terrorizzava al punto che si guardò bene non solo dal farle delle scenate ma anche solo dal darle il più piccolo indizio del fatto che era a conoscenza della sua tresca.
Così cominciò ad avvisarla puntualmente e con largo anticipo delle sue venute a Londra, le disse anzi con chiarezza che il mercoledì era il suo solo giorno libero, nemmeno tutte le settimane. Quei brevi soggiorni erano altrettanto penosi, ma in modo diverso. La portava a teatro o al ristorante, avendo sempre cura, in quest’ultimo caso, che fossero in compagnia di amici. Una volta tentò di fare l’amore con lei e non andò bene. Aveva bevuto troppo, si giustificò, forse gli stava venendo l’influenza; lei gli credette e fu molto buona e comprensiva. Lui si girò dall’altra parte e restò a fissare il buio, teso e angosciato; le lacrime gli bagnavano la faccia e il collo al punto che si sentiva gelare. In seguito aveva sempre fatto ricorso a scuse varie, come il fatto di dover prendere l’ultimo treno per tornare al lavoro o di avere tremendi spasmi allo stomaco, da cui il dottore gli aveva diagnosticato l’ulcera. Avrebbe dovuto smettere di bere e fumare, ma prostrato com’era non seppe compiere queste rinunce e l’ulcera gli si aggravò. A lavoro era scontroso e sapeva di non essere simpatico ai suoi colleghi, ma non gli importava. Il lavoro diventò la sua unica fonte di piacere: vi si buttò anima e corpo, inaspettatamente con buoni risultati. Scoprì in sé la capacità di affrontare e analizzare i problemi in un modo che ne favoriva spesso in maniera decisiva la soluzione. Quelle briciole di autostima non ebbero altro effetto che rendere ancora più debordante il suo senso di inadeguatezza.
Poi di punto in bianco capitò qualcosa, e la vita prese tutta un’altra piega.
Una mattina ricevette un promemoria scritto talmente male che quasi non aveva senso. Non era la prima volta durante la settimana, ma quel giorno ne ebbe abbastanza e decise di andare in cerca del colpevole per fargli – o farle – una reprimenda.
Era una ragazza. Era seduta nel seminterrato, in un locale che un tempo doveva essere stato un retrocucina e che adesso aveva l’aria di una cella, con spesse sbarre alle finestre e il pavimento di pietra. Era china sulla macchina da scrivere e piangeva. Quando Raymond entrò come una furia nell’ufficio, la giovane alzò gli occhi e tutto quello che aveva da dire gli si congelò in bocca. Aveva il viso arrossato e fradicio di pianto, e una guancia era gonfia come quando si hanno gli orecchioni. Uno spettacolo disgustoso.
«Che diavolo ti è successo?».
Aveva il mal di denti, disse, un mal di denti tremendo.
«Dovresti andare dal dentista».
Aveva preso un appuntamento, ma non si era presentata.
«E perché mai?».
Le era mancato il coraggio.
«Adesso gli telefoni, ti scusi per il ritardo e dici che stai arrivando».
L’appuntamento era per il lunedì della settimana precedente.
«Vuoi dire che hai il mal di denti da... più di una settimana?», domandò Raymond facendo un veloce calcolo.
Aveva sperato che il dolore se ne andasse da solo, spiegò lei. Fu scossa da nuovi singhiozzi. «Lo so, sono una fifona senza speranza, ma proprio non ce l’ho fatta! Sapevo che dovevo andarci... e non ci riuscivo!». Provò a soffiarsi il naso in un fazzoletto già zuppo e fece una smorfia. Si toccò la guancia gonfia ed emise un piccolo gemito.
Le domandò dove si trovasse lo studio del suo dentista e lei disse che era a Oxford.
«Ti ci porto io», decise lui. «Mi faccio prestare una macchina e andiamo».
E così fece. In altre circostanze si sarebbe trovato in difficoltà e in imbarazzo a chiedere in prestito la macchina a qualcuno – la benzina scarseggiava e lui non aveva l’indennità perché la loro macchina la usava Jessica – ma quella volta invece fu pratico e risoluto: quella poveretta doveva essere portata da un dentista e lui se ne stava occupando. Telefonò al vicecapo del suo dipartimento e disse che una delle segretarie stava male e che l’avrebbe portata lui dal medico, poi andò a procurarsi le chiavi e tornò a prenderla. Era ancora seduta alla sua scrivania.
«Hai il pass?».
Annuì. «Ce l’ho nella borsa». Tremava. In macchina gli disse: «È davvero molto gentile da parte sua». E poi aggiunse, dopo qualche secondo. «Non mi lascerà sola, vero? Resterà lì con me?».
«Certamente».
«Lei è davvero molto, molto gentile».
«Come ti chiami?».
«Veronica. Veronica Watson».
Lo studio del dentista era in Headington Road, nella zona nord di Oxford. Dovettero attendere un bel pezzo, con una segretaria che guardandoli male li informò che Mr McFarlane al momento era con un paziente, ne aveva un altro alle 2,30 e poi sarebbe andato a pranzo. In quel momento Veronica chiese di poter usare il bagno e in sua assenza Raymond riuscì a rabbonire la segretaria, facendo sfoggio di una sicurezza della quale tra sé e sé si compiacque.
Ne conseguì indirettamente che, quando venne il turno di Veronica, gli fu concesso di entrare con lei nello studio del dentista e di starle seduto accanto mentre il dente veniva estratto. «Ha un bruttissimo ascesso. Doveva venire la scorsa settimana, lo sa? Avremmo potuto salvarle il dente». E quand’ebbe finito, mentre si lavava le mani, disse anche: «Lei è davvero una ragazza fortunata ad avere suo padre che la accompagna».
Raymond la vide sul punto di correggerlo e la zittì portandosi un dito alle labbra: stettero entrambi a guardare la schiena di Mr McFarlane che si strofinava le mani con l’asciugamano.
Per strada, Veronica gli disse. «Mi spiace per l’equivoco. Spero non si sia offeso».
«Nient’affatto. Dopotutto, ho l’età per essere tuo padre».
«Non gli somiglia per niente però».
«Ti senti meglio?».
«Eccome! Sono un po’ indolenzita, ma non ho più quel dolore pulsante».
L’accompagnò a casa. Di tornare in ufficio non se ne parlava, le disse, doveva prendere un paio di aspirine e mettersi a letto, e lei disse che avrebbe fatto così.
Scoprì che la stanza della ragazza era nel suo stesso edificio.
«Le sono tanto riconoscente!», disse Veronica scendendo dall’auto. «Non so proprio come ringraziarla».
«Non è niente, cara».
«È molto invece!». Si era voltata, gli occhietti di velluto lucidi dall’emozione. «Mi sento come se mi avesse salvato la vita!».
Mentre guidava verso Woodstock provò una contentezza che non sentiva da settimane, anzi da mesi. Non era solo un cervello lui, era un uomo che di fronte a un’emergenza improvvisa sapeva cosa fare, sapeva indirizzare un’altra persona verso la giusta soluzione con mano sicura e rassicurante. Ripensò a quegli occhi ardenti su quel viso a pera, e fu lui a emozionarsi: non c’entrava il fatto che fosse una bella ragazza, non aveva agito in vista di secondi fini ma per pura bontà d’animo. La poverina aveva bisogno che qualcuno prendesse in mano la situazione, e lui era accorso. Come un padre, ecco!
Due giorni dopo trovò un pacchetto sulla scrivania. Era una scatola di gelatine di frutta con un bigliettino. «Non sapevo come ringraziarla. Spero che queste le piacciano. Sua per sempre, Veronica».
Ah, quanto lo commossero quel regalo e quel biglietto con un uccellino azzurro posato su un ramo nell’angolo in alto a destra! La calligrafia era ampia e tonda, fanciullesca. Aprì la scatola, scelse una gelatina verde e la mise in bocca. Uvaspina – non era affatto male. Decise di andare a ringraziarla di persona.
Quello era stato l’inizio della loro amicizia, che per lei si trasformò fin troppo in fretta in qualcosa di più. In breve tempo Veronica s’innamorò follemente di lui, che all’inizio ne fu commosso; poi, con altrettanta rapidità, i suoi sentimenti travalicarono la commozione. Lei era giovane! Ed era così bello essere adorati da una creatura giovane e anche nient’affatto brutta! Il suo viso, quando era sereno, era di un bell’ovale, le gote rosate. Aveva capelli ricci e scuri, che portava con una frangetta ondulata, e una piccola bocca carnosa spesso imbronciata. Il suo punto forte erano gli occhi, sebbene fossero spesso stravolti dall’ansia. Quando non era con lui naturalmente, perché altrimenti si addolcivano in contemplazione. Era come una violetta scura o un cucciolo di spaniel, le disse lui quando raggiunsero quella deliziosa fase in cui ci si scambia impressioni l’uno sull’altra.
All’inizio la considerava alla stregua di una figlia, e lei lo guardava con quella fiducia affettuosa da creatura indifesa che Raymond aveva sempre sperato di vedere negli occhi di Angela. Quando si accorse che la ragazza stava maturando altri sentimenti nei suoi confronti, Raymond le disse che era sposato – e che non era un volgare traditore, lui. «Lo immaginavo», disse Veronica, ma dalla sua voce si capiva che la notizia l’aveva scossa profondamente. Raymond si rammaricò di non averglielo detto prima, ma per qualche ragione l’argomento non era venuto fuori. Questo cambiò le cose, se in meglio o in peggio Raymond stesso non avrebbe saputo dirlo. Aggiunse una nuova sfumatura al ruolo che aveva Veronica nel suo rapporto con se stesso: adesso non leniva soltanto il suo senso di fallimento come padre, ma influenzava anche la percezione di se stesso come marito, come uomo. Scoprì com’è piacevole essere oggetto di una passione romantica, e questo spinse Jessica in una zona meno centrale della sua coscienza, ridimensionando anche la sua dolorosa gelosia che si ridusse a un senso di disgusto. Disse a Veronica che le voleva molto bene e che era bello stare con lei (ormai passavano insieme praticamente ogni sera, passeggiavano lungo il canale, passavano ore seduti ai tavoli esterni dei pub, bevevano cioccolata calda in camera di lei). In ufficio, poi, c’era il gioco eccitante di fingersi semplici conoscenti, rivolgersi in modo formale l’uno all’altra, usare un linguaggio in codice per darsi gli appuntamenti. L’ulcera gli dava molto meno fastidio adesso, e alla fine gli guarì del tutto. Venne il compleanno di lei, il ventunesimo, e lui le regalò un foulard Jacqmar giallo con piccole falci e martelli rossi – andavano di moda i motivi russi – e un braccialetto d’argento con inciso «VERONICA». Lei ne fu entusiasta. Disse però che doveva andare a casa dai suoi genitori per festeggiare il compleanno. Lo invitò ma lui declinò. Poi tornò con una macchina, una MG-Morris rosso chiaro che le avevano regalato i suoi. Era cominciato un periodo meraviglioso: lui era riuscito a rimediare della benzina e poterono allontanarsi da Oxford e Woodstock verso luoghi dove non correvano il rischio di incontrare qualcuno che li conosceva.
Un giorno che lei era andata a casa dai genitori, Raymond ne aveva approfittato per recarsi a Londra e lì, siccome per una volta era arrivato senza preavviso, si era trovato faccia a faccia con Clutterworth. Sembrava che lui e Jessica stessero solo bevendo il tè insieme, ma Raymond sospettava che prima fosse accaduto dell’altro. La cosa gli provocò un turbamento che non si aspettava: riuscì solo a farfugliare qualcosa su certi importanti documenti che aveva dimenticato l’ultima volta e che era venuto a recuperare. Corse di sopra, entrò nella stanza in cui aveva dormito e aprì e chiuse rumorosamente alcuni cassetti a caso. La stanza di lei era dall’altra parte del pianerottolo. La porta era chiusa, il letto intatto. Evidentemente prendevano il tè prima. Scese le scale e uscì, lasciandoli soli. Raggiunse la fermata della metro, prese il primo treno per Piccadilly, entrò in un cinema e restò lì seduto a guardare due volte di seguito lo stesso cinegiornale. Poi andò nel primo ristorante che incontrò e ordinò da mangiare: il cibo gli dava la nausea, ma la annegò in una bottiglia intera di rosso e in un bicchiere di brandy spagnolo. Quando arrivò a Paddington per prendere l’ultimo treno, era ubriaco e febbricitante. Tornato al suo alloggio trovò un messaggio: «Ha telefonato tua moglie. Ti prega di richiamare». Nemmeno per sogno! Andò a letto e si svegliò dopo due ore con la bocca come una sabbiera, i crampi allo stomaco e il mal di testa. Passò il resto della notte a fare su e giù tra la sua stanza e il bagno, e dopo la vana ricerca di un’aspirina si lasciò cadere sul letto con la testa che gli risuonava di frammenti di dialogo: «Credi che sospetti qualcosa?», «Oh, per l’amore del cielo, no! Non ne ha la più pallida idea!», «Sei sicura? Sicura che non tornerà?», «Oh, il caro Raymond... non è mai stato particolarmente perspicace». E poi sorrisi di scampato pericolo e risate trattenute per il suo scarso acume...
Veronica fu di ritorno la sera del giorno dopo. Lo aspettò alla fermata dell’autobus con la macchina, nell’orario di uscita dal lavoro. «È mia!», annunciò. «Un regalo per il mio ventunesimo compleanno. Non è meravigliosa? Adesso ti porto a fare un bel giro... possiamo andare al Three Pigeons a bere qualcosa. Ah, sono così contenta di essere tornata... ma che succede?». Nel frattempo lui era salito in auto. «Hai un aspetto terribile!».
«Non qui», le disse. «Usciamo dalla città».
Non appena il traffico urbano si fu diradato, dopo che lei gli ebbe lanciato diverse occhiate colme di sincera preoccupazione, Raymond provò a raccontare ma non ci riuscì, e scoppiò in singhiozzi. Diede sfogo incontrollato alla sua disperazione, alla rabbia e al risentimento, tanto nei confronti di se stesso quanto nei loro. Si coprì la faccia con le mani e pianse senza riuscire a dire una parola.
E lei fu tanto cara! Tenera e preoccupata, completamente dalla sua parte. Poco dopo le raccontò tutto, dall’inizio alla fine: fu un sollievo indescrivibile dirlo a qualcuno a cui importava di lui, qualcuno che condivideva il suo sdegno. «Deve essere terribile! Come si può fare una cosa del genere a una persona come te?», aggiunse fra le altre cose.
«Mi dispiace averti riversato addosso tutto questo», le disse più tardi, ma in realtà non gli dispiaceva per niente, era solo incredibilmente sollevato di essersi tolto quel peso dal cuore e di potersi rilassare ora nel caldo abbraccio della comprensione e della devozione di lei. Perché fu in quell’occasione che si rese conto che lei lo amava davvero. «Povero caro! Ti amo così tanto. Farei qualunque cosa per renderti felice. Sei la persona migliore che abbia conosciuto in vita mia».
«Davvero? Lo pensi davvero?».
«Certo che lo penso! Oh, caro, non mi stupisce che tu sia tanto sconvolto. Qualunque persona con la tua sensibilità e il tuo coraggio lo sarebbe».
Sensibilità, coraggio. Mai nessuno gli aveva attribuito quelle virtù. E invece di coraggio ne possedeva davvero e ne aveva dato prova in Francia anni prima, in trincea, quando quel maggiore per tre settimane aveva fatto di tutto perché restasse ammazzato. Lui aveva partecipato a tutte le missioni assegnategli da quello svitato – doveva essergli esplosa qualche bomba vicino – ed era sopravvissuto. Ed era sensibile, anche, solo che nessuno della sua famiglia se ne era mai accorto. Lei invece sì. Questa ragazza giovanissima lo vedeva per quello che era in realtà. L’abbracciò. «Ti amo anch’io», le disse. «Non so cos’avrei fatto senza di te».
Fu un punto di svolta nella loro relazione, anche se Raymond sul momento non se ne accorse. Quando finalmente, dopo avergli lasciato diversi messaggi a casa, Jessica riuscì a raggiungerlo in ufficio, per lui non fu difficile dire che era dovuto scappare per prendere il treno; gli sembrava di averlo detto con chiarezza.
Quell’autunno fu per Raymond una specie di periodo magico. Il tempo passato con lei era piacere puro e incontaminato. Si beava nel riflesso della trepidazione, dell’innamoramento di lei. Non era bella quanto Jessica, nemmeno lontanamente desiderabile quanto sua moglie, e tuttavia gli piaceva: era tenera e graziosa, sempre di buonumore e ansiosa di piacergli, e questa era per Raymond un’esperienza nuova. Con Jessica era sempre stato lui ad avere qualcosa da dimostrare e a doversi guadagnare con fatica il rispetto e l’ammirazione di lei; con Veronica era il contrario. Consapevole di cosa volesse dire essere la parte debole di un rapporto, lui era molto attento con lei: ci teneva a dimostrarsi responsabile e magnanimo. Il che voleva dire non andarci a letto. All’inizio non era stato difficile: la riempiva di baci e coccole e lei era contenta, e nel corso di quell’autunno gli era parso che quell’equilibrio andasse bene per entrambi. Quando però un giorno Veronica corse a raccontargli che qualcuno aveva cercato di entrare in camera sua di notte, quando stava per mettersi a dormire, ammettendo per giunta che non era la prima volta che subiva delle molestie, Raymond decise di correre ai ripari e trovò un alloggio per entrambi fuori da Keble, dove vivevano gran parte dei loro colleghi: un appartamento dall’altra parte di Oxford. L’appartamento, il secondo piano di una casetta a schiera, si componeva di due camere da letto, un bagno e un piccolo soggiorno con cucinino. L’arredamento era ridotto al minimo necessario. Aveva dovuto pagare una certa somma per installare un contatore del gas, per il riscaldamento dell’ambiente e dell’acqua; i letti erano del tipo che si trova nei collegi: stretti, fatti di ferro e crine di cavallo, con coperte rigide e infeltrite che non promettevano molto calore. I tappeti erano sporchi e frusti, le sedie in uno stato tale che sarebbe stato incauto sedercisi sopra.
Veronica sembrava non vedere nemmeno uno di questi difetti. «Potrò cucinare per noi due!», esclamò quando vide la minuscola stufa e il lavandino. «Sei stato davvero bravo a trovare un posticino così bello!».
La prima sera disfecero le valigie e consumarono una cena da asporto a base di uova alla scozzese e insalata di barbabietole, fornita dal pub dove andavano di solito. Mangiarono in soggiorno, accanto alla stufa a gas. Lui si era sistemato sulla vecchia poltrona, con lei seduta accanto sul pavimento, ed erano entrambi leggermente ebbri di whisky e spirito d’avventura e, per quanto riguardava lui, anche della sensazione di averla salvata, mentre lei continuava a cinguettare di quanto Raymond fosse stato bravo a trovare così in fretta un’efficace soluzione ai suoi problemi...
Poi a un certo punto scese il silenzio.
Dopo un po’ lui le accarezzò gli scuri capelli ricciuti. «Che c’è?».
«Niente... Niente, davvero».
«Andiamo», replicò lui in tono suadente, «non hai segreti con me. Stavi per dire qualcosa. Ti conosco». Le accarezzò il viso e poi le sollevò il mento con due dita.
«Ecco, stavo pensando», disse come se non le fosse mai passato per la mente di dare voce a quel pensiero, «che adesso che siamo solo noi due...». Gli teneva gli occhi fissi addosso e lui cominciò ad arrossire. «...ecco, nulla ti impedisce di fare l’amore con me. Non lo saprebbe nessuno».
In un anfratto della coscienza di Raymond si accese un campanello d’allarme: impegno, responsabilità completa, divorzio, un’altra famiglia, Jessica che lo lasciava definitivamente...
«Ascolta, tesoro, dobbiamo fare un discorso serio...».
Ed era serio davvero. Le disse che essendo sposato, quale che fosse lo stato attuale del suo matrimonio, non poteva assolutamente approfittare di lei, sarebbe stato perfido e scorretto da parte sua, dato che lei era così giovane e aveva tutta la vita davanti (adesso cominciava a crederci, e il suo eloquio guadagnò forza e convinzione). Sua moglie non gli avrebbe mai concesso il divorzio, disse, e lui non si sognava di iniziare un rapporto clandestino con lei senza nessuna prospettiva. Il problema non era (le si stavano riempiendo gli occhi di lacrime) che lui non l’amasse: Veronica doveva capirlo (lei annuiva con le guance striate di lacrime); c’erano cose che le persone come lui non facevano. Per quanto lo desiderasse, per quanto fosse difficile...
Lei si rizzò sulle ginocchia e lo abbracciò. «Oh, Raymond, Raymond! Non volevo renderti le cose più difficili! Sei tanto buono e onesto! Uno dei motivi per cui ti amo è la tua grande forza d’animo! Con te non è solo una questione di sesso, come succede con tanti uomini. Tu sei diverso, lo so!».
E mentre lui le asciugava il viso col fazzoletto, aggiunse: «Sono fortunata ad averti».
Dovevano entrambi essere forti, replicò lui.
Questo introdusse una nuova nota, una nota scura che in un modo o nell’altro cambiò le cose tra loro. Non del tutto, certo, e non sempre, ma era come se intorno a quello che era stato il loro innocente giardino d’infanzia ci fosse adesso un territorio incolto, una terra di nessuno. S’incontravano ancora a pranzo e andavano al cinema o al pub (ormai era inverno) e di tanto in tanto anche a cena fuori, per spezzare la routine delle indigeste cenette preparate in casa da Veronica; giocavano a carte o ascoltavano la radio o scrivevano lettere, lei stirava e si rammendava le calze. Adesso però, quando la baciava o le carezzava i piccoli seni appuntiti che, come aveva constatato nei momenti più arditi, erano di un candore invitante, lei si faceva silenziosa e poi cominciava a tremare e infine a piangere. Dopo si scusava, gli dichiarava il suo amore e quanto l’ammirava per il suo autocontrollo. E di autocontrollo adesso gliene serviva parecchio, perché dall’istante in cui si era proibito di averla la trovava ancora più desiderabile. In un certo senso gli andava bene così: era sempre meglio che dover difendere l’onore di lei solo con atti e parole. Eppure una nota falsa e retorica si insinuò nei loro scambi: la tendenza a mettere in scena a parole ciò che avrebbero avuto se solo le circostanze fossero state diverse, un copione che presto si logorò e cominciò a infastidirlo, anche perché lei non se ne stancava mai. Poteva passare al massimo un paio di giorni senza tornare sulla tragica ineluttabilità della loro situazione. Raymond scoprì che c’erano due modi per mettere fine a quelle tiritere. Uno era fare l’amore a parole invece che con il corpo e, come accadde un paio di volte, questo aveva l’effetto di eccitarla fino a farle prendere l’iniziativa: gli si buttava fra le braccia, gli afferrava la testa con le mani e schiacciava la fresca boccuccia contro la sua; lui stesso si ritrovava sovente a morire di voglia e a supplicarla di trattenersi prima che diventasse troppo per lui.
Quando Raymond tornò da una delle sue visite a Londra – Jessica ci teneva – con la notizia che Nora stava per sposarsi, Veronica mise il broncio e non mostrò alcun interesse. «Oh, allora era per questo che voleva vederti», fu il suo commento. Non fece domande sul fidanzamento e si comportò in maniera insolita, evitando il suo sguardo e sparendo in cucina dove fece un gran chiasso con pentole e padelle. Raymond immaginò che stessero per venirle le sue cose – spesso le causavano dei fastidi –, ma dopo che si fu cambiato e si fu infilato lo spesso maglione a costoni col collo alto che lo teneva caldo – la stufa era troppo piccola per quella stanza piena di spifferi –, lei uscì dalla cucina e si scusò. «Sai, pensavo che forse ti avesse chiesto di andare lì per un motivo diverso».
«Davvero? E quale?».
«Be’, lo sai. Il matrimonio».
«È di questo che abbiamo parlato».
«Non parlo del matrimonio di Nora, ma del tuo». Era arrossita. «Che sciocca. Avevo sperato che...».
«Ma cara, te l’ho detto. Non succederà mai». La cinse con le braccia e l’attirò a sé. Ogni volta che le negava un futuro insieme, sentiva il bisogno di essere almeno affettuoso nel presente.
Aveva preparato un abbondante e acquoso stufato di coniglio, e mentre mangiavano lui le raccontò del fidanzato di Nora.
«Significa che non potranno mai avere dei figli?».
«Temo di no. A quanto pare non avranno proprio nulla».
«Vuoi dire che lui non potrà avere rapporti con lei?».
«Esatto».
«Poverina!». Ci pensò qualche istante. «Deve essere una persona meravigliosa». In seguito s’informò premurosamente su Nora e sul suo matrimonio.
L’anno seguente Raymond venne a sapere per vie traverse che la relazione di Jessica si era diradata e poi era finita. Provava per lei sentimenti contrastanti. Primo fra tutti il sollievo, quando un giorno Jessica gli parlò con evidente disprezzo di «quella povera Mercedes, la moglie di Clutterworth». Perché povera? Aveva domandato lui. Oh, doveva sopportare costantemente ragazze del coro e studentesse che s’infatuavano di suo marito. «Dev’essere una gran seccatura».
Ah ah, pensò lui. L’ha scaricata, dunque. Fu il suo trionfo. Un trionfo di breve durata, perché fu presto inquinato da altri sentimenti meno compiaciuti. Se Jessica era stata lasciata, il che era probabile visti i suoi modi sprezzanti, non era allora il momento di ritornare a vivere insieme? Ma in questo caso, che cosa doveva fare con Veronica? E se avesse lasciato Veronica per riprendere la sua vita coniugale con Jessica e dopo un po’ Jessica se ne fosse trovato un altro? O se semplicemente avessero ripreso i normali rapporti tra marito e moglie e lui avesse fatto cilecca come l’altra volta? Che avrebbe fatto in quel caso? Lei lo avrebbe disprezzato, poco ma sicuro, se si fosse rivelato impotente. Alla fine decise di non fare niente, a parte andare a Londra un po’ più spesso per tenere d’occhio la situazione.
Alcuni mesi dopo, Jessica aveva annunciato che lei e Villy avevano deciso di vendere casa Rydal in St John’s Wood e che lei ne avrebbe affittata una molto più piccola con la sua parte di ricavato. L’aveva già trovata, a quanto pareva, a Chelsea.
A Oxford la sua vita con Veronica continuò immutata, almeno in apparenza, però man mano che Raymond acquistava sicurezza con Jessica, le lusinghe di Veronica avevano sempre meno presa su di lui, e a volte ne era perfino infastidito. Era talmente giovane!, pensava, solo che la cosa adesso gli faceva un effetto completamente diverso. Se prima la giovinezza di lei era stata un balsamo per la sua vanità, ora invece era una circostanza che richiedeva la sua pazienza. Era talmente prevedibile! Gli sembrava di sapere già quello che pensava e provava in relazione a qualunque cosa, il che rendeva inutile la conversazione. Povera piccola! Non poteva farci niente: per lui stava tornando al ruolo di figlia.
Nel corso di quell’anno si era consolato col pensiero che con la fine della guerra tutto sarebbe cambiato, e in meglio. Il suo lavoro sarebbe finito e non avrebbe più avuto motivo di restare a Oxford. Sarebbe tornato a casa e Jessica avrebbe dovuto rigare dritto, con lui sempre intorno. Alla fine sarebbe riuscito a portarla a Frensham e si sarebbero dati a una tranquilla, stabile routine di campagna...
Nessuno di questi auspici si era infine avverato. L’Ufficio di Guerra lo trasferì a Londra, per uno strano incarico che doveva svolgere, ironia della sorte, in Wormwood Scrubs. Naturalmente non mancarono scene di disperazione da parte di Veronica. «Potrai venire qui nei fine settimana?», «Non potresti chiedere che venga trasferita anch’io?». Ma lui non poteva, né voleva, fare nessuna delle due cose. Pianse a lungo, come Raymond si aspettava che facesse. (Un’intera notte la passò sveglio, a stringerla a sé nel suo lettino mentre piangeva, si addormentava per un po’ e poi si svegliava per piangere ancora). Le spiegò più e più volte che non poteva lasciare sua moglie. Lui l’avrebbe amata per sempre, ma poiché non c’era futuro per loro era necessario che Veronica iniziasse una vita sua, nella quale, ne era certo, avrebbe trovato una persona con cui essere felice.
Pochi giorni dopo, di ritorno da un soggiorno di una notte a Londra in cui aveva detto a Jessica del suo nuovo lavoro, annunciando la sua intenzione di lasciare l’alloggio di Oxford, trovò Veronica riversa in una pozza di sangue sul pavimento della cucina. Si era tagliata le vene di entrambi i polsi, ma grazie al cielo l’aveva fatto in modo maldestro. Ciò nonostante, il panico e l’orrore che provò Raymond furono pari solo al panico e all’orrore che aveva conosciuto durante la prima guerra mondiale. La ragazza giaceva faccia a terra e sulle prime lui la credette morta, ma quando riuscì a poggiare a terra un solo ginocchio (l’altro non voleva saperne) e la prese per le spalle per rigirarla, vide che respirava ancora. Aveva un terribile colorito grigiastro; su un polso aveva una crosta di sangue rappreso, ma dall’altro ne fuoriusciva ancora un debole rivolo. Lo legò con forza col fazzoletto e chiamò un’ambulanza. Poi andò a prendere due coperte dal suo letto e si mise ad aspettare. Si sentiva un assassino: se fosse morta, sarebbe stata colpa sua. Quei minuti prima dell’arrivo dell’ambulanza furono i peggiori della sua vita.
Furono meravigliosamente professionali e rassicuranti. In men che non si dica la misero su una barella, le tolsero il bendaggio di fortuna e le misero il laccio emostatico. «Starà bene, signore. Non ha perso così tanto sangue. Sembra sempre più di quanto sia in realtà. Può venire con noi, se vuole». Così fece. In ambulanza gli dissero che erano tenuti a informare la polizia, e che gli avrebbero chiesto una dichiarazione. «È sua moglie, signore?». Rispose di no.
In ospedale la ragazza fu portata via e a lui fu chiesto di attendere in una stanzetta, dove si sedette in preda a dubbi angosciosi su cosa mai la polizia gli avrebbe chiesto. Sapeva bene che sarebbe venuto fuori tutto quanto, e quindi anche il fatto che vivevano insieme. Avrebbero scoperto che era già sposato e sarebbero giunti alla conclusione che lei era la sua amante. Avrebbero informato i genitori di lei, Jessica l’avrebbe saputo, probabilmente l’avrebbero licenziato. Veronica l’aveva fatto perché lui la trovasse? Poco ma sicuro, ma come poteva essere certa che l’avrebbe trovata in tempo? Quando andava a Londra, tornava sempre con lo stesso treno del mattino e quasi sempre passava da casa prima di andare in ufficio. Cominciò a pensare che Veronica avesse voluto solo fargli prendere un grande spavento, senza desiderare davvero di uccidersi. Cominciò a provare una rabbia sorda nei suoi confronti. Aveva rovinato tutto con uno gesto sciocco e avventato. Poi pensò alla possibilità agghiacciante che invece avesse avuto proprio intenzione di uccidersi, che non volesse affatto essere soccorsa, e in tal caso avrebbe potuto rifarlo in qualunque momento. Questo lo fece sentire in trappola, incapace di concepire un pensiero lucido.
Venne la polizia e Raymond rilasciò la sua dichiarazione. Si attenne ai fatti per quanto riguardava il ritrovamento. Che altro poteva fare? Ma quando gli fu chiesto se aveva idea dei motivi che avessero spinto la ragazza a un atto simile, giocò d’astuzia. Se ne andarono con l’idea, se non la certezza, che la poverina fosse molto fragile e impressionabile e che avesse maturato nei confronti di Raymond sentimenti che lui non poteva in alcun modo ricambiare, e che data la differenza di età lui avesse cercato di essere paziente, un po’ come un padre. Non gli era mai passato per la testa che potesse commettere un gesto simile. «Ha sempre saputo che sono sposato», disse. Spiegò che l’Ufficio di Guerra lo aveva trasferito a Londra, aggiungendo che forse quella prospettiva l’aveva sconvolta più di quanto lui avesse immaginato. Fece capire, con delicatezza e con ripetute allusioni, che la ragazza non era mai stata la sua amante.
Finalmente lo lasciarono andare a casa. Lei dormiva e stava bene, gli dissero. Avrebbe potuto farle visita quella sera stessa se voleva.
Tornò all’appartamento, dove trovò la pozza di sangue sul pavimento e una lettera di sei pagine sopra il suo letto. Si versò un whisky per calmarsi un po’ e passò mezz’ora ad asciugare il linoleum della cucina, poi lesse la lettera.
Ma anche dopo averla letta due volte non riuscì a farsi un’idea chiara di quali fossero state le intenzioni di Veronica. Da una parte la lettera faceva credere a un reale proposito suicida; ma d’altra parte, se il suo reale proposito fosse stato di spaventarlo o ricattarlo perché facesse quello che voleva lei, avrebbe scritto comunque una lettera del genere per fargli credere che faceva sul serio. Be’, non aveva funzionato né in un senso né nell’altro, pensò con amarezza. Adesso non desiderava altro che uscirne. I suoi sentimenti nei confronti di lei, qualunque fossero stati in passato, adesso si riducevano al più riluttante senso di responsabilità. Si versò altro whisky. Passato lo shock iniziale, prese il sopravvento quello che Raymond descrisse a se stesso come “tornaconto illuminato”.
Prese la macchina di lei e andò a lavoro, dove chiese un colloquio col suo capo al quale fornì un breve – e secondo lui corretto – resoconto dell’accaduto. Anstruther era un tipo sbrigativo, sprezzante verso qualunque tipo di emozione o sentimento. Lo trattò con una sorta di burbera solidarietà. «Brutta situazione. Isteria, suppongo. Brutta idea, però, invischiarsi con lei, non crede? Si è messo in contatto coi genitori? Glielo consiglio, perché è probabile che lo faccia la polizia oppure l’ospedale. Ed è meglio se arriva prima lei».
«Non ci avevo pensato. Sì, credo sia meglio».
«Non è incinta, vero?».
«No. Assolutamente». E gli spiegò senza troppa delicatezza per quale motivo escludeva questa possibilità.
A quel punto Anstruther si fece scettico e impaziente, disse che i dettagli non lo interessavano e che gli bastava la parola di Raymond.
«Farò in modo che Miss Watson goda di un lungo periodo di congedo, e conto su di lei perché chieda ai genitori di venire a prenderla. Non vogliamo altre grane. Quando comincia a Londra? La prossima settimana? Be’, si prenda qualche giorno anche lei».
Farfugliò che non voleva far preoccupare sua moglie.
«Naturalmente».
«Grazie, signore».
Telefonò ai genitori di Veronica e parlò con la madre, fornendole la versione più edulcorata possibile dell’accaduto. Veronica aveva lavorato molto e forse si era affezionata a lui un po’ troppo, pur sapendo bene che lui era sposato e aveva quattro figli; quando aveva saputo che lo avevano trasferito altrove per lavoro, aveva commesso quel folle e disgraziato gesto. Sarebbe guarita perfettamente, ripeté dopo averlo detto al principio della conversazione, ma il loro superiore riteneva opportuno che trascorresse un periodo di licenza a casa. Potevano venire a prenderla al più presto?
Mrs Watson non riusciva proprio a capacitarsi. «Io non capisco», continuava a dire. «Veronica è sempre stata una ragazza assennata. Tagliarsi i polsi... con un coltello... non posso crederci!».
Raymond si dichiarò profondamente dispiaciuto e riferì l’ipotesi di isteria già avanzata da Anstruther. Mrs Watson disse che si sarebbero recati a Oxford, lei e il marito, l’indomani stesso. Fu tutto.
Usò la macchina di lei per tornare all’appartamento e fece le valigie. Era deciso a non lasciare tracce del fatto che aveva vissuto lì, perciò ci volle un po’ di tempo. Disfece il letto lasciando solo il nudo materasso dal rivestimento a strisce, tolse dal filo in cucina le sue calze e le sue camicie lasciandovi solo il vaporoso maglioncino rosa che gli suscitò un moto di fastidio, appeso lì in mezzo alla stanza. Passò in rassegna anche i cassetti di lei, dove trovò un fascio di biglietti che le aveva scritto lui. Li bruciò insieme alla lettera. Adesso però si sentiva come un fuggiasco: l’idea di andare a trovarla in ospedale lo innervosiva. Chissà cosa poteva uscirle di bocca, a portata d’orecchio di chiunque... Dopotutto non ci sono andato a letto, ripeteva a se stesso. Nel tempo necessario a finire i bagagli e chiamare un taxi, aveva quasi del tutto rimosso il senso di colpa.
Non andò a trovarla.
In seguito, quando ripensò a quell’”episodio”, come prese a chiamarlo, lo fece con disagio e con una dose residua di senso di colpa che imparò a razionalizzare senza troppa fatica. Molti degli impiegati fuori sede a Oxford avevano iniziato relazioni extraconiugali – giravano voci di gravidanze, aborti e anche un paio di secondi matrimoni. A lui non era successo che questo, con la differenza che si era comportato in modo più corretto. Aveva solo avuto la sfortuna di capitare con una persona che non aveva voluto accettare la situazione per quella che era, che si era ostinata a vedere la loro relazione in una prospettiva impossibile. Sentì delle voci su di lei, che era andata a casa e non era tornata mai più, era stata congedata. Tornò a Londra, con Jessica, con cui inaugurò un regime di coppia quasi del tutto casto. Il sesso coniugale non era appagante né allettante per nessuno dei due. Raymond diede la colpa al suo lavoro, che gli prendeva molte energie, e a quell’orrenda casetta dove Jessica aveva voluto trasferirsi a tutti i costi: una casa delle bambole, dove non c’era nemmeno il posto per girarsi. Le cose sarebbero cambiate in meglio, quando la guerra fosse finita e loro fossero tornati a Frensham.
E così fu, ma la prima visita a Frensham era stata a dir poco deludente, per usare un eufemismo. Nora aveva mandato a prenderlo in stazione John, il vecchio giardiniere che era stato il garzone di giardino ai tempi di zia Lena. Sembrava invecchiato di vent’anni dall’ultima volta che Raymond lo aveva visto: si muoveva a fatica per via dei reumatismi e sentiva la metà di quello che gli si diceva. «Troverà molti cambiamenti», disse più di una volta durante il breve tragitto in macchina.
E aveva ragione. Nel momento in cui la macchina imboccò il vialetto di ghiaia, fu già chiaro che erano cambiate molte cose. Dove prima c’era un bel prato adesso c’era una distesa di fango punteggiata qua e là dai germogli puntuti dei cavoletti di Bruxelles. Non c’era traccia della bella vite americana che un tempo adornava la facciata, e la calda tonalità dei mattoni era stata sostituita da un’orrenda vernice gialla. Nessuna traccia neppure della vetrata istoriata della porta d’ingresso, sostituita da un vetro opaco e biancastro, di quelli che di solito si usano per le porte dei bagni.
Dentro era ancora peggio. In piedi nell’atrio osservò il linoleum verde scuro con cui era stato ricoperto il parquet e la pittura giallo chiaro delle pareti su cui un tempo c’era stata la bella carta da parati a salici di zia Lena. Regnava un odore misto di disinfettante, stufato di castrato, sapone al fenolo e paraffina.
Apparve Nora. Indossava un grembiule blu scuro e scarpe da tennis coi calzini corti che le lasciavano scoperte le gambe tozze. «Ciao, papà. Non aspettarti il tè, perché è finito. La cena però la serviamo alle sei e mezza, così non dovrai attendere troppo. Mangiamo tutti insieme, perché ci vuole del tempo per rimettere a letto alcuni dei ragazzi. Ti accompagno in camera tua, e poi potrai andare a trovare Richard».
«La trovo da solo, la mia stanza».
«Davvero? Oh, bene. È su all’ultimo piano, la mansarda sulla destra».
Senza parlare, prese la valigia e s’incamminò zoppicando su per le scale. La mansarda? Per quale motivo doveva dormire in una mansarda? Ci dormivano i domestici, lì sopra, due per camera. Un ingombrante corrimano di metallo cromato era stato fissato alla parete lungo la scala. Era chiaro che Nora si era presa molte libertà con la casa: decise di aspettare di trovarsi faccia a faccia con lei con un bicchiere in mano per scoprire che intenzioni avesse.
La sua mansarda era arredata coi mobili della cameriera. Un piccolo e vecchio comò, il letto con la testiera di ferro e le vecchie imposte da oscuramento che nessuno si era preoccupato di togliere. La stanza era gelida – del resto era appena sotto il tetto. Lui si era immaginato di prendere il tè con Nora e Richard in salotto, di fronte a un bel fuoco. Non gli sembrava un auspicio così irragionevole, visto che erano le cinque e mezzo del pomeriggio. Lasciò la valigia sul letto e ridiscese le scale zoppicando in cerca di un bagno. Anche il bagno aveva subito sostanziali modifiche, con un sedile alto nel gabinetto e una sorta di seggiola pure nella vasca. Sul davanzale della finestra erano allineate delle padelle piene di una sostanza lattiginosa.
Nora lo aspettava in corridoio. «Temevo ti fossi perso».
Perché poi doveva perdersi in casa sua, pensò stizzito Raymond. Ma aveva deciso di affrontarla solo quando si fossero seduti con calma a bere qualcosa.
La cosa si rivelò più difficile del previsto. Nora non si fermava mai, andava sempre su e giù per la casa o perché qualcuno veniva a chiamarla o semplicemente perché, sospettava Raymond, s’immaginava che ci fosse bisogno di lei da qualche parte. Stette seduto mezz’ora con Richard in quello che un tempo era stato il salotto e che adesso Nora chiamava “il nostro piccolo rifugio”. L’aria era viziata e satura del lezzo della stufa a petrolio, che ardeva di malavoglia producendo pochissimo calore.
«Perché non accendete il fuoco? C’è un bel camino».
«Nora dice che sarebbe troppo lavoro per il personale. È difficilissimo trovare gente. Lo dice lei».
Richard era seduto sulla sedia a rotelle. Portava una camicia di flanella aperta sul collo con sopra un pesante cardigan, le maniche vuote cucite con cura sulle spalle. Sul vassoio, posato sui braccioli, c’era una tazza di bachelite con una cannuccia. Di tanto in tanto chinava il capo e succhiava un sorso di gin tonic. «Mi spiace che non ci sia ghiaccio», disse. «Ma anche senza ghiaccio un gin tonic è comunque una manna dal cielo, te lo dico io».
«È ancora difficile procurarsi del ghiaccio in campagna?».
«Non credo sia difficile. Credo piuttosto che qualcuno lo reputi un lusso non necessario».
«Oh».
«Dato che sei in piedi», ma non era in piedi, «me lo riempi di nuovo? Prima che torni il capo».
Raymond lo accontentò e versò altro liquore anche per sé.
«Fossi io il capo, qui», disse Richard dopo aver succhiato un altro sorso, «il gin non mancherebbe mai. Ma che ci vuoi fare? Non sono nelle condizioni di imporre la mia volontà su nessuno...».
Scese il silenzio, e Raymond si sentì riempire di disagio e pietà al punto da non riuscire e dire nulla.
«Eppure noi siamo più fortunati di questi altri poveri diavoli. Con loro è meglio non parlarne nemmeno, del gin. Perché se non viene qualche parente a fargli visita non ne buscano nemmeno un goccio», lo informò suo genero.
Un altro silenzio.
«Saresti così gentile da prendermi il pacchetto di sigarette che dovresti trovare dietro il dizionario, su quello scaffale dietro di te, e accendermene una? Prendine una anche tu, se ti va. Però sbrigati, potrebbe tornare da un momento all’altro».
Raymond trovò il pacchetto quasi vuoto, con dei fiammiferi accanto, e accese una sigaretta che poi mise tra le labbra di Richard. Aspirò profondamente due volte e poi gli fece cenno col capo di togliergliela di bocca.
«Scusami tanto. Se avvicini la sedia, almeno non dovrai stare in piedi. Fammi dare un altro tiro. Dopo che hai acceso la tua, rimetti a posto il pacchetto se non ti dispiace».
Nora fu di ritorno che Richard stava ancora fumando.
«Povero Leonard! È caduto dalla sedia e Myra non riusciva a tirarlo su da sola. Meno male che ho sentito il tonfo e sono andata a vedere... caro! Dove hai preso quella sigaretta?».
«Me l’ha data Raymond».
«Oh. Non deve fumare, papà. Credevo lo sapessi».
«Tanto vale che la finisca», disse Richard fissandolo con una determinazione tale che Raymond gli mise la sigaretta in bocca senza fiatare. Richard aspirò con forza e si mise a tossire.
«Te l’ho detto, caro!». Nora gli strappò via la sigaretta e la spense. «Ti fa solo tossire. Deve stare attento coi polmoni, perché non fa abbastanza movimento».
«E come vedi, è molto importante che io sia in buona salute».
L’ironia di quella frase era inequivocabile. Nora non la colse. «Certo che è importante!», disse tutta briosa. Sollevò la tazza di lui e la scosse. «Ma guarda! Non hai ancora finito il tuo drink».
«Per l’amor del cielo, non togliermi anche questo!».
«Non lo farei mai, lo sai», disse Nora con dolcezza. «Sbrigati a finirlo però, perché la cena è pronta».
La cena fu servita nella vecchia sala da pranzo, ora occupata da un lungo tavolo a cavalletti lungo il quale vennero sistemate le sedie a rotelle alternate a quelle dei vari aiutanti. Nora ne assisteva due. Nessuno degli ospiti era messo male quanto Richard, poté constatare Raymond. Molti erano in grado di mangiare da soli, anche se un paio di loro dovevano usare il solo cucchiaio. Nora servì a ognuno una porzione di stufato, specificando che la carne era stata disossata, e poi imboccò Richard. Il tappeto sotto il tavolo era stato tolto, perché gran parte del cibo veniva fatto cadere sul pavimento. La conversazione fu limitata e spasmodica. I pazienti non parlavano molto tra di loro, né dimostravano particolare interesse per qualunque cosa si dicesse. Erano concentrati sul cibo: dopo lo stufato venne servita una torta con pandispagna e melassa.
Solo dopo un po’ che avevano finito di cenare riuscì a parlare con Nora da solo. I pazienti erano stati portati tutti nel vecchio salotto, un’altra stanza che era stata spogliata dei suoi arredi vittoriani e dove ora c’erano dei poster piuttosto lugubri appesi ai muri con le puntine da disegno («La carta da parati era così squallida, dovevamo fare qualcosa!») e tavolini coperti di panno verde sparsi sul linoleum, dove si poteva giocare a carte ascoltando la radio, che a quanto pareva era accesa in modo permanente. Gli fu spiegato tutto questo e poi Richard disse che sarebbe rimasto ad ascoltare il notiziario delle nove. Allora Nora acconsentì a tornare al “rifugio” affinché potessero parlare, come Raymond le aveva chiesto.
L’esito di quel colloquio riuscì a deprimerlo ancora di più. Scoprì che Jessica aveva lasciato credere a Nora che poteva continuare a gestire lì la sua casa di cura, trasformandola in una residenza fissa per gli ospiti attuali. «Mamma diceva che comunque non avresti voluto vivere qui, adesso che siamo tutti grandi... a eccezione di Judy, naturalmente, che tornerà presto. Lei trova meravigliosa la mia idea! Ed è davvero utile, papà. Se non fosse per noi, queste persone vivrebbero in grossi istituti, noi invece cerchiamo di farli stare in un ambiente familiare». Era chiaro che aveva raccolto un bel po’ di soldi per quelle che chiamava “migliorie” alla casa. «Com’era prima non andava affatto bene per loro. Naturalmente ho avuto il denaro necessario solo perché c’era la prospettiva di una lunga permanenza».
Raymond disse che proprio non capiva perché non lo avesse consultato prima.
«Temevo che dicessi di no», disse. Era arrossita. «Il fatto è, papà, che quando ci si sente chiamati a fare qualcosa bisogna superare tutti gli ostacoli. Naturalmente tu potrai venire quando vorrai a stare qui con noi. Ogni volta che vorrai! Mamma lo trova deprimente, ma lei ha sempre avuto un lato egoistico. Non credo si sia mai fermata a pensare a cosa significhi vivere nelle condizioni di Richard e di chiunque altro fra loro. Richard è tutta la mia vita adesso. È mio compito occuparmi di lui. E io sento che per lui è un bene avere intorno altre persone nelle sue stesse condizioni. Lo aiuta a mettere le cose in prospettiva», disse. Poi dovette andare a metterlo a letto.
Quando fu di ritorno, Raymond le chiese se aveva del whisky.
«Dovrebbe esserne rimasto un po’. Lo tengo per le occasioni speciali». Ne scovò una bottiglia mezza vuota, ne versò una minuscola quantità nel bicchiere che Raymond aveva già usato prima di cena e glielo porse insieme a una caraffa d’acqua.
«Dopotutto paghiamo l’affitto per stare qui», disse.
«Non lo sapevo».
«Be’, lo pago a mamma. Non è molto, me ne rendo conto. Ma è quello che possiamo permetterci».
Sull’acqua c’era una patina di polvere.
«Del resto mamma ha comprato una casa a Londra. E dice che a te non mancano i soldi per comprarne un’altra, se lo desideri. I mobili e la roba sono tutti nella rimessa delle carrozze. Ora se non ti dispiace vado a dormire. Durante la notte devo alzarmi per Richard».
Le domandò a che ora si facesse colazione.
«Be’, io alle sei, perché la preparo per tutti gli altri. Loro fanno colazione in camera».
«Dobbiamo parlare ancora di questa storia».
«Domani non posso, perché accompagno Albert dal dentista la mattina presto. E inoltre, papà, non credo di avere molto altro da dirti. Credo che dovresti parlarne con mamma, lei sa tutto. Puoi spegnere la luce quando vai di sopra?».
E questo fu quanto. Nora gli aveva tolto il respiro. Possibile che non si rendesse conto di quanto fosse oltraggiosa tutta quella situazione? Trangugiò il whisky e se ne versò dell’altro. Gliene avrebbe comprata una bottiglia nuova, ma doveva bere per calmarsi. Salì le due rampe di scale per andare a dormire nella sua gelida stanzetta (come accidenti faceva a portare su e giù quei poveri diavoli, anche solo al primo piano?). Faceva talmente freddo che indossò il pigiama sopra gran parte dei vestiti che aveva. Restò sveglio fino a notte fonda, in preda a pensieri rabbiosi dall’andamento circolare. Gli sembrava di essere di fronte a un complotto ordito con astuzia allo scopo di sottrargli la sua casa. Il ruolo evidentemente avuto da Jessica nella faccenda lo faceva infuriare, ma nel contempo lo spaventava. Se lei continuava a rifiutarsi di lasciare Londra, lui come avrebbe fatto a vivere a Frensham? Non aveva mai pensato di andarci da solo.
La mattina dopo partì in tutta fretta, e in treno provò e riprovò tra sé il discorso con cui avrebbe affrontato Jessica e la sua perfidia. Benché fosse rimasto senza parole di fronte alla disinvoltura con cui Nora pareva arrogarsi il diritto di prendersi la sua casa, non poteva dare a lei tutta la colpa. La vera responsabile era proprio Jessica. Raymond passava dallo spavaldo proposito di “metterla al suo posto” facendole conoscere la sua giusta ira a dubbi e tremori su come avrebbe fatto a convincerla a trasferirsi in campagna, se non lo desiderava. Perché, se ne rendeva conto solo ora, in diverse circostanze lei gli aveva fatto capire senza mezzi termini che voleva restare a Londra. Raymond non aveva dato molto peso a quelle osservazioni quasi casuali che erano invece dei messaggi chiari indirizzati a lui. Frensham era casa loro ed era lì che avrebbero vissuto, pensava. Adesso però si rendeva conto che sua moglie aveva le idee chiare fin dall’inizio, e la sua determinazione lo spaventava.
«Potevi anche dirmi quello che stava succedendo!», fu quanto riuscì a dire alla prova dei fatti.
«Ma caro! Sapevo che avevi già tante cose a cui pensare. Cercavo di semplificarti la vita».
«Il modo in cui ha ridotto quella casa!».
«Ha fatto solo le modifiche necessarie perché i pazienti potessero viverci».
«Ha tolto la vite americana dalla facciata! Non credo che gli desse fastidio, quella».
«Ma la casa era terribilmente umida, caro. Hanno dovuto trattare i muri esterni con una vernice impermeabile», gli spiegò. «Però ho avuto un’idea!», aggiunse.
«Ma non mi dire!».
«Ho pensato che potremmo trasformare la rimessa delle carrozze in una casetta dove andare nel fine settimana. Sarebbe bello, non credi? Un posticino confortevole e facile da gestire».
«Non voglio vivere in un posticino confortevole e facile da gestire!».
«Lo voglio io, Raymond. Ho passato gran parte della mia vita a fare la donna di casa, tutto da sola, e adesso che posso permettermi di avere dei domestici probabilmente non ce ne saranno più. Perciò credo che ora dovrai metterti tu nei miei panni».
D’altronde non gli sembrava di avere scelta, disse stizzito. Ma lui probabilmente non era disposto a occuparsi della cucina e delle faccende di case, replicò Jessica zittendolo, e lei di quelle cose non ne poteva assolutamente più. «Voglio che in casa tutto sia semplice, in modo che rimanga il tempo per altre cose, almeno».
Poi, passate alcune settimane, Raymond osservò che però era un vero peccato non poter dare la festa di addio per Angela a Frensham. E Jessica ribatté: «Sarebbe stato comunque fuori questione, anche se avessimo vissuto lì. Non avremmo mai potuto dare alloggio a così tanta gente. L’avremmo organizzata a Londra in ogni caso».
Jessica non era sempre stata così, si ritrovò a pensare Raymond. Prima che quel vermiciattolo di Clutterworth entrasse nelle loro vite, aveva sempre cercato di adattarsi. Adesso invece era entrata nel Bach Choir e stava pure prendendo lezioni di canto.
«E Angela dove la vorrebbe fare la festa?».
«Non le importa. Il Claridge non mi sembra male».
«Quanti invitati vorrebbe?».
«Farà una lista. Una dozzina di persone, comunque. Senza contare i parenti, s’intende. Credo che alla fine saremo una cinquantina, compresi i bambini. E a cena solo noi della famiglia».
«Perché non invitiamo tutti quanti a cena?».
«Costerebbe un patrimonio!».
«Non importa. Voglio che sia una bella festa».
«Va bene, caro. Come desideri».
* * *
Si chinò per permettere alla cameriera di sistemarle i cuscini in modo che potesse mettersi seduta – mamma lo diceva sempre che bisogna agevolare in ogni modo il lavoro dei domestici – e aspettò che il vassoio con la colazione le fosse sistemato di fronte. Quella mattina era euforica.
«Lo sai che vado in India, Harrison?».
«No, cara. Non lo sapevo. E con chi ci vai?».
Non era Harrison: era la figlia più piccola di Kitty, come si chiamava... Beryl? Barbara? Cominciava con la B, ne era certa... Rachel, ecco come si chiamava! Quanto era cresciuta! Una crescita prodigiosa, avrebbe detto papà, e un po’ eccessiva per una ragazza così giovane. Tornò a guardare il vassoio. «L’uovo me l’hanno cotto bazzotto, vero? È molto più digeribile che sodo. Devo fare una colazione abbondante perché...». Ma il perché non se lo ricordava più, sapeva solo che c’era una validissima ragione.
«Lady Tregowan!», gridò alla fine trionfante. Le stava tornando in mente ogni cosa. «L’amica di mamma, Lady Tregowan, mi accompagna lei! Credo che col viaggio che mi aspetta dovrei mangiare almeno due uova».
«Non abbiamo molte uova. Lo so che la guerra è finita, ma è ancora difficile».
Guerra? Che c’entrava la guerra con le uova? Certe volte trovavano le scuse più ridicole per dirle di no. Non valeva la pena litigare. Con tale spirito conciliatore, permise a sua nipote di infilarle la giacca da notte e di legarle un tovagliolo intorno al collo.
«Veramente andiamo a Londra, zia Dolly. Non ti ricordi?».
Sorrise per nascondere la stizza. «Cara, non sono così rimbambita da credere che ci si possa imbarcare su una nave da qui. Qualunque nave. Certo che dobbiamo andare prima a Londra. Potremmo andare anche a Liverpool oppure a...», cercò di farsi venire in mente un’altra località costiera, «...oppure a Brighton. Questo io non lo so. Perché nessuno me lo ha detto».
«Vuoi che ti imburri il pane?».
«Saresti davvero gentile!». Poi prese il triangolino di pane da cui era stata tolta la crosta e che era stato imburrato, notò, con molta parsimonia, ma quando con tatto lo fece notare, Rachel tirò fuori un’altra scusa incomprensibile, a proposito di certi razionamenti... Forse era mamma che si preoccupava che non ingrassasse. Ah! Fra poco le si sarebbe chiarita ogni cosa.
«Maud Ingleby è una ragazza tanto cara, ma secondo papà parlare con lei è come parlare col muro. Detto fra noi, è difficile che faccia un buon matrimonio, anche in India». Vedendo la faccia perplessa di sua nipote spiegò: «Maud è la figlia di Lady Tregowan». Nel frattempo aveva scoperchiato il guscio dell’uovo e stava incidendo col cucchiaino la bianca cupola traslucida. L’uovo era di quelli col tuorlo molto piccolo.
«Flo è arrabbiata, sai, perché lei non ci viene. Ma Lady Tregowan poteva portare una sola di noi e papà ha detto che dovevo essere io. Le ho detto: “Con Kitty che si sposa, tocca a te restare a difesa del fortino”, ma temo che non abbia un buon carattere, perché non sta facendo nulla per trarre il meglio dalla situazione». Mise giù il cucchiaio. «Sai, temo che sia capitato qualcosa a Flo». Guardò intensamente l’espressione di Rachel per capire se le nascondeva qualcosa.
«Mi sembra che mi stia evitando».
Vi fu un silenzio. Rachel era andata alla finestra e stava tirando le tende. «È proprio una giornataccia, temo», disse ciarliera. «Finisci il tuo tè, zia cara, altrimenti si fredda», disse prima di uscire dalla stanza.
Rimasta sola, la testa le si riempì subito di pensieri inquietanti. Qualcosa non tornava, ne era certa. Non era a casa sua: quella non era Stanmore, si trovava in qualche altro posto. Ma sì, era andata a stare da Kitty! Era tutto qui. Ma dov’era Flo? Ricordava di aver sentito qualcuno, un tale che era certa di non aver mai visto, dire che Flo era andata a raggiungere suo padre, ma che cosa poteva voler dire? E comunque, lei dov’era? Tutti lo ascoltavano in silenzio, potevi sentire uno spillo cadere. Il padre di Flo, poi, era anche il suo. Flo non poteva essere andata da lui, perché era morto proprio quell’inverno e così alla fine in India lei non c’era andata, era dovuta restare con Flo a dare una mano alla povera mamma. Era ancora tutto un gran pasticcio. Se non era riuscita ad andare in India, allora non ci sarebbe riuscita nemmeno adesso... l’effervescente euforia di poco prima si dissolse del tutto e Dolly non provava che delusione e paura. «È stata la più grande delusione della tua vita», disse a se stessa. Ma almeno voleva dire che Flo non aveva motivo di tenerle il broncio, di tenerla a distanza in quel modo crudele! Avrebbe chiesto a mamma di parlarle. Ma pure questa non era una buona idea, perché nel frattempo si era ricordata che era morta anche lei.
Il guaio non era che non ricordava le cose – ne aveva molte da ricordare, più degli altri o così supponeva, per questo aveva difficoltà a tenere ordine nella memoria. Per esempio ricordava con certezza che prima, quando già viveva in quella casa, c’era anche Flo e dormiva in un letto vicino a quella finestra, perché le era sempre tanto piaciuta l’aria fresca. Mamma era morta dopo aver preso un’infreddatura, doveva essere un tratto di famiglia. Un funerale modesto, ricordava, con lei, Kitty, Flo, il medico di famiglia con la moglie e naturalmente i domestici. Era stata a funerali molto più fastosi in vita sua, ma non ricordava quando; in un certo senso le sembrava che risalissero a moltissimo tempo prima, in un altro sembrava fosse solo ieri. Ieri però non è possibile, pensò, ieri stavo facendo i bagagli: sceglievo le cose e le mettevo in valigia. Uno non fa i bagagli se non sta per partire, rifletté, e questo pensiero la gettò nella più totale confusione.
L’uovo le si era freddato, ma volle mangiarlo lo stesso perché partire per un lungo viaggio senza aver fatto colazione come si deve era pura follia, avrebbe detto papà. Ho ancora un po’ di buon senso, si disse mentre grattava via dai pezzetti di guscio qualche residuo di albume. Forse era semplicemente finito il suo soggiorno a casa di Kitty, e stava per tornarsene a casa. E forse Flo era partita prima per sistemare la casa. Lei aveva del buon senso, ma quella con più spirito pratico era sempre stata Flo, e chissà come era ridotta la casa, dopo che erano passati quei dannati palloni aerostatici! Ma certo! Ecco cosa intendeva la piccola Rachel (che tanto piccola non lo era più, anzi, pareva un campanile) quando parlava della penuria di uova, anche se continuava a sfuggirle il nesso tra le uova e i palloni aerostatici. Proprio non capisco!, continuava a ripetersi, contenta di aver trovato qualcosa di assurdo a cui imputare la propria perdita. Ma le cose stavano andando a posto. C’era stata una guerra terribile (ma era finita? Anche questo non le era chiaro), e vi erano morti tanti di quei galantuomini che una non poteva biasimarsi troppo se restava zitella: gli uomini scarseggiavano. Che poi lei, anche se le sarebbe piaciuto fidanzarsi, non credeva che il matrimonio fosse...
«Magari Flo è semplicemente andata via prima di me?», disse a Rachel quando venne a riprendere il vassoio.
Rachel si chinò a darle un bacio. «Sì», le disse. «Credo proprio di sì».
* * *
«Adesso guardi un momento verso di me, per favore. No, non muova la testa, soltanto gli occhi. Perfetto». Sorrise amabilmente. Lady Alathea represse uno sbadiglio e ricambiò il sorriso.
Aveva gli occhi molto piccoli, azzurro chiaro, ma per fortuna ben distanziati. Ci si poteva lavorare. Naturalmente li fece più scuri e più grandi, e al posto di quello sguardo vacuo dipinse un’espressione vigile e curiosa, come se Lady Alathea fosse sul punto di formulare una domanda molto intelligente. Il ritratto doveva essere somigliante ma in maniera lusinghiera, ecco il trucco. La signora aveva il naso un po’ tozzo e lui lo sfinò, e riuscì anche a dare definizione al volto schiarendo il colore della pelle sotto gli occhi. La bocca però era una sfida impossibile. Era piccola e sottile, simile a una fessura dai bordi taglienti, e questo sfortunato stato di cose era peggiorato dal fatto che la signora usava dipingersi praticamente un’altra bocca intorno a quella vera con del rossetto scuro. Durante le pose di solito se ne toglieva una gran parte, come adesso. Era mezzogiorno, e Michael doveva andare a pranzo con sua madre.
«Credo che per oggi possa bastare», disse. «Posare è una faticaccia, lo so bene».
«Temo di non essere una buona modella», disse Lady Alathea scendendo dal palchetto a sistemandosi l’ampia gonna di raso azzurro. «Posso dare un’occhiata?».
«Se vuole. Ma non è ancora finito».
«Misericordia! Il vestito è magnifico. E la collana di diamanti della mamma l’ha resa benissimo! Immagino non sia facile dipingere i diamanti».
«È molto modesta», osservò lui. «Che mi dice di lei? Le sembra che ci sia una buona somiglianza?».
Guardò di nuovo la tela. Michael vide che ne era ammaliata. «Oh, non saprei», disse. «Su questo non mi pronuncio. Credo che piacerà ai miei genitori».
E questo è l’importante, pensò lui mentre la signora si cambiava nel camerino ricavato in fondo allo studio e coperto con una tenda. Si faceva pagare duecento ghinee, ed era necessario che i clienti fossero soddisfatti. C’erano tre figlie e finora, delle tre, solo quella carina aveva trovato marito. Sperava che gli venisse chiesto di ritrarre anche le altre. Mamma l’aveva aiutato a comprare la casa di Edwardes Square, ma si era trattato di un prestito che doveva restituire e le spese di casa erano ingenti: la bambinaia per Sebastian, la cuoca, la donna a ore, per non parlare della ragazza che pagava per fingersi la sua segretaria part time, ovvero addetta alla preparazione del caffè e factotum dello studio per cui pure pagava l’affitto. Fino a poco prima c’era stata anche la parcella dello psichiatra di Louise. Poi la settimana passata Louise aveva deciso di mettere fine alle sedute, annunciando che era inutile e non ci sarebbe andata più. Sospirò. In effetti Louise stava creando un mucchio di problemi; Michael temeva che mamma stesse cominciando ad accorgersene e presto avrebbe fatto domande imbarazzanti.
Lady Alathea riemerse indossando un twin-set e una gonna di flanella. Per fortuna non doveva ritrarle le gambe, pensò mentre l’aiutava a salire sul taxi, le baciava la mano e diceva: «Lei, fra parentesi, è una modella meravigliosa», come frase a effetto prima di congedarla.
Fuori faceva molto freddo e la neve sporca descriveva solchi e costoni sulla strada. C’era un tempo da lupi – pioggia, nebbia o gelo – e riscaldare lo studio per le sedute gli costava una fortuna. La stufa che aveva fatto installare era pressoché inutile dal momento che era impossibile procurarsi il carbone necessario per alimentarla. Almeno da mamma avrebbe mangiato meglio che a casa sua. Mrs Alsop era una cuoca terribile – non mangiavano che carne trita grigiastra, cavoli bolliti e patate piene di bitorzoli, terribili. Sembrava che a Louise non importasse. Il lato positivo, per Michael, era che così non mangiava mai troppo, dato che aveva la disgraziata tendenza a mettere su peso con facilità.
Sua madre era distesa sul solito divano vicino alla finestra che affacciava sul giardinetto all’italiana. Indossava quella che lei chiamava «giacca russa», tutta di velluto rosso con della pelliccia nera al collo e sui polsi delle ampie maniche. «Che bello!», esclamò quando Michael si chinò a darle un bacio. «Che bello averti tutto per me! Versati da bere, caro, e poi vieni qui e raccontami cosa stai facendo di bello».
C’erano caraffe di sherry e di gin sul tavolo, oltre a un bricco d’argento con dell’acqua. Si versò del gin e avvicinò una sedia al divano. «Stamattina ho lavorato al ritratto di Alathea Creighton-Green», disse. «Un lavoraccio».
Sua madre gli sorrise con solidarietà. «Povero Ione! Tre figlie femmine e nemmeno un maschio! E delle tre solo una è presentabile. Alathea è davvero così bruttina?».
«Sì, abbastanza».
Si scambiarono un sorriso. Di tanto in tanto Michael andava a letto con le sue modelle; in qualche modo sapeva che sua madre ne era a conoscenza, anche se non ne avevano mai parlato esplicitamente. Quella domanda su Alathea era il suo modo di chiedergli questo, e lui le aveva risposto consapevole del doppio senso.
«Adesso uno di noi dirà che la bellezza non è tutto».
Michael percepì che quello era un primo passo per arrivare a parlare di Louise, e deviò subito la conversazione. «Come sta il Giudice?».
«Impegnatissimo coi suoi comitati. E come se non ne avesse abbastanza dei suoi, lo chiamano anche da altre organizzazioni. La scorsa settimana è venuto a cena Horder. Il British Medical Council vuole creare un fondo per impedire che venga approvato il disegno di legge sulla sanità pubblica. Vogliono che Peter li spalleggi. E poi c’è un altro comitato per alzare i salari dei deputati. Un bell’aumento. Forse dovresti ripensarci, caro. Sono sicura che potrei procurarti un buon posto».
«Il pranzo è servito, Milady».
«Buongiorno, Sarah».
Sorrise all’anziana e solenne cameriera, che ricambiò con discrezione. «Buongiorno, signore».
Mentre aiutava sua madre ad alzarsi, lei gli disse: «Una cosa te la posso promettere. Non mangeremo pasticcio di scoiattolo».
«Pasticcio di scoiattolo?».
«Caro, non li leggi mai i giornali? Il ministro delle Derrate alimentari ha detto che bisogna mangiare gli scoiattoli e ha anche pubblicato una ricetta per farci il pasticcio. Che orrore, eh?».
Mentre mangiavano il soufflé al formaggio, lei gli chiese degli incarichi che stava per ricevere come ritrattista e degli accordi che stava prendendo per una mostra, e Michael sentì il proprio ego espandersi, crogiolarsi nel vivo e puntiglioso interesse di sua madre, nella sua convinzione che lui fosse un pittore di grande talento con una brillante carriera di fronte a sé. Fuori, la neve scendeva in grossi fiocchi da un cielo scuro, ma in quella sala da pranzo lei era riuscita a creare un clima diverso, eccitante e rassicurante allo stesso tempo. L’evidente orgoglio materno e la certezza che ostentava del suo valore lo riempivano di nuova fiducia – il senso di appagamento egoico che ricavava dalla compagnia di lei era come una deliziosa febbre.
Aveva fatto mettere in tavola una bottiglia di rosso, anche se lei bevve appena un goccio d’acqua, e quando furono arrivati al dessert Michael si accorse di esserselo scolato tutto. Dopo dovevano andare allo studio per scegliere insieme dei quadri da esporre, e anche esaminare alcune fotografie. «Non importa se più di un quarto delle tele sono già vendute», disse sua madre. «Lo scopo della mostra è ottenere altri incarichi».
«Ma dovremo dare alla galleria una percentuale anche su quelli».
«Troveremo un accordo. E adesso, una sorpresa!».
Sarah aveva sparecchiato ed era tornata con un piatto d’argento sul quale giaceva una misteriosa leccornia fumante.
«Profuma di banane!».
«Sono banane. Le prime. Le ho tenute per te. Peter ha anche rimediato un limone, all’Ammiragliato». Lo disse come se quello fosse il posto più normale dove andare a procurarsi un limone.
«Glielo ha dato Bubble James, non è stato gentile? Perciò per dessert abbiamo banane fritte con zucchero di canna e succo di limone!».
Erano squisite. Lei le assaggiò appena, perciò Michael ne ebbe una doppia porzione.
Ma quando tornarono in salotto per bere il caffè di fronte al fuoco e lei si fu risistemata sul solito divano, l’atmosfera cambiò. Cominciò a fare domande sul nipotino. «Non lo vedo da un mucchio di tempo».
«Sebastian? Sta bene. Ormai parla molto... il che è normale, immagino. Ha quasi tre anni. Vuoi che dica a Nannie di portarlo a fare merenda qui da te?».
«No, caro». Prese in mano un lavoro di ricamo. Poi domandò con noncuranza: «E come sta Louise?».
«Sta bene. Ha letto delle poesie per la BBC la scorsa settimana. Era molto emozionata».
«E che cos’altro ha fatto?».
«Che vuoi dire?».
«Be’, non credo che leggere un paio di poesie per un pomeriggio l’abbia impegnata per gli ultimi due mesi. Non la vedo da Natale».
«La intimorisci, lo sai».
«No, non lo so. E comunque no, non è vero che la intimorisco. È che non le piaccio». E senza dargli il tempo di protestare aggiunse: «Non le piaccio perché riesco a vedere dentro di lei».
«Mamma cara, che cosa stai cercando di dire?».
Lei smise di ricamare e lo guardò con fermezza. «Ho riflettuto a lungo se dirtelo o meno. Ma noi non abbiamo segreti l’una per l’altro, no?».
«Certo che no», si affrettò a rispondere lui, sapendo bene di mentire.
«Certo che no». Quando lei gli aveva tenuto nascosto qualcosa, era stato solo e soltanto per il suo bene.
Vi fu un altro silenzio carico di non detti.
«Temo che... come faccio a dirtelo?... Ecco, temo che Louise non si sia comportata bene».
«Oh, mamma, lo so che non la reputi una buona madre, ma è ancora molto giovane...».
«È abbastanza grande da commettere cose imperdonabili».
«Adesso cosa vuoi dire?».
Allora lo disse. Louise gli era stata infedele. Lui stava per replicare che non era andata a letto col povero Hugo, la morte del quale aveva del resto mitigato la sua ira per quella loro tresca, ma lei obiettò che no, era successo dopo Hugo, quando erano stati a Holyhead: un ufficiale di marina che aveva conosciuto lì e che aveva poi incontrato di nuovo a Londra. Sua madre gli disse chi era e lui riconobbe il nome.
«Ma come fai a sapere che...».
«Che hanno avuto una relazione? Figlio mio, sono stati visti entrare in un appartamento a tarda sera e poi uscire, separatamente, la mattina dopo».
Poi aggiunse: «Per quanto ne so, potrebbe essere ancora in corso».
«No. Sono certo di no. Rory si è sposato otto mesi fa. Siamo stati invitati alle nozze». La notizia tuttavia lo aveva scosso. Era stato un altro colpo: non credeva che sarebbe successo ancora, dopo quella sordida storia con Hugo.
«Oh, caro! Vedo che sei sconvolto. Mi dispiace tanto. E mi fa una rabbia... Che cos’hai fatto per meritare questo?».
«Lo sa Dio. Io no di certo».
Lei gli tese la mano e lui la strinse. Rifletté per la prima volta sul fatto che sua moglie, a letto, lo rifiutava sistematicamente. «Comunque sia, ormai è finita», disse dopo diversi secondi, ancora sgomento.
«Finita? Cosa?». Nel tono di lei c’era una nota dura che gli fece alzare gli occhi.
«Questa storia... con Rory. Sono andati a vivere in Cornovaglia».
«Ah!».
«A cosa credevi che mi riferissi?».
«Credevo parlassi di un’altra cosa. Non importa».
«È andata... ecco, per un po’ è andata da uno di questi dottori, uno psichiatra».
«Per un po’. Adesso ha smesso?».
«La scorsa settimana è stata l’ultima. Non so perché. Ha detto che non ci tornerà per nessun motivo al mondo».
«Perché non vai a parlare con questo dottore?».
«Non vedo a che pro. L’ho incontrato una volta e non mi è piaciuto particolarmente». Lo preoccupava una cosa che lei aveva detto prima. «Mamma, mi spieghi come facevi a sapere di Rory, dell’appartamento e via dicendo?».
«Oh, tesoro, me l’hanno detto. Ora non ha importanza. Quello che è importa è la tua felicità, la tua serenità. E quella di Sebastian. Sono preoccupata per lui! Louise non è semplicemente una madre pessima. Non lo è proprio!».
E poi di colpo proruppe in singhiozzi. «Oh, Mikey caro! È tutta colpa mia! Mi sento così in colpa!».
«Ma che dici, mamma? Non mi hai certo costretto tu a sposare Louise! L’ho voluto io». Ma già mentre lo diceva sentiva di essere caduto in una delle sottili trappole di sua madre.
«No, ma ti ho incoraggiato. E adesso tu stai soffrendo. Mi sembrava così giovane, malleabile. Come potevo sapere che si sarebbe trasformata in una donna egoista, che pensa solo a se stessa?».
«Oh, andiamo! Non va così male. Devi ricordarti che il nostro matrimonio è cominciato nel peggiore dei modi. Io ero via quasi sempre, tutto preso dalla mia nave. Capisco solo ora che per lei è stata molto dura».
«Aveva Sebastian».
«Lo so, appunto. Lei non voleva un figlio così presto».
«Non mi stupisce. Tu potevi restare ucciso, e allora niente figli!».
«Non tutte le madri sono come te».
Il piccolo orologio da carrozza sulla mensola del camino suonò le tre con un rintocco argentino. «Accidenti! Devo andare, mamma cara, ho un altro appuntamento».
Si chinò a darle un bacio e lei lo abbracciò. «Mikey, c’è una cosa che devi sapere. Qualunque cosa tu decida di fare, avrai sempre il mio appoggio. E se questo include anche Sebastian, allora tanto meglio». Lo fissò con quegli occhi penetranti che, le aveva detto una volta Michael, avevano il colore dell’acquamarina. «Non te lo dimenticherai, vero?».
«No. Certo che no». E si sentì di nuovo piacevolmente avvolto dal suo affetto.
Ma in macchina, mentre attraversava Londra, tornò a sentirsi scoraggiato e confuso. C’erano molte cose che aveva taciuto a sua madre, per esempio il fatto che Louise si rifiutava da tempo di fare l’amore con lui, col risultato che Michael le aveva messo il muso e lei aveva finto di non accorgersene. La trovava ancora irresistibilmente bella, anzi, in quei quattro anni era cresciuta e da goffa ragazzina tutta gambe si era trasformata in una donna dall’eleganza innata, che saltava subito all’occhio. Anche se la sua bellezza non era del tipo canonico, era pur sempre tale da far girare parecchie teste ogni volta che entrava in una stanza.
Era una valida risorsa, e lo rattristava non averla di più dalla sua parte, come amava dire. Per esempio, se lo avessero invitato a Sandringham, cosa possibile dal momento che aveva ritratto una delle giovani principesse e sperava di poter ritrarre anche la loro madre, Louise non si sarebbe entusiasmata, non si sarebbe fatta in quattro per aiutarlo, come, secondo lui, avrebbe fatto qualsiasi ragazza: no, lei probabilmente si sarebbe presentata vestita in modo inadeguato, avrebbe detto cose inappropriate e in generale si sarebbe comportata come se non avesse nessuna coscienza dell’importanza dell’occasione. Forse avrebbe fatto meglio ad andare senza Louise. Si ripromise di chiedere consiglio a sua madre in proposito. Sì, ottima idea. Un’altra cosa che non aveva detto alla mamma era che Rowena era ricomparsa nella sua vita. Si erano incontrati pochi mesi prima in King’s Road, mentre lui usciva dal laboratorio del suo corniciaio. Camminava sul marciapiede opposto al suo, tenendo al guinzaglio un barboncino color champagne.
L’aveva chiamata e lei si era fermata. «Michael!».
Lui schivò un autobus di passaggio e attraversò la strada per raggiungerla. Indossava una giacca di pelliccia corta sopra una gonna nera e un basco di velluto, nero anche quello, le copriva i capelli biondi. Era molto graziosa.
«Che bello vederti! Che ci fai da queste parti?».
Lei arrossì lievemente. «Abito qui dietro l’angolo. In Carlyle Square».
«È davvero una gioia rivederti!».
I suoi occhi pallidi e distanziati lo fissarono, poi Rowena si chinò verso il cane che stava tirando il guinzaglio. «Smettila, Carlos! Ti ho visto uscire da Green and Stone. Non credevo che tu mi avessi vista».
«Ho lasciato delle tele da incorniciare. Perché non mi inviti a casa tua a prendere un tè?».
Lei si agitò un poco. «Oh! Non credo che...».
«Oh, ti prego! Sono passati tanti anni. Vorrei sapere cos’hai fatto nel frattempo».
«Non ho fatto molto. Ma sì... va bene. Andiamo».
Si ricordò allora della sua voce piatta, che era sempre la stessa di qualsiasi cosa parlasse e qualunque fosse la sua opinione. Povera piccola Rowena!, diceva spesso mamma. Quanto avrebbe voluto diventare sua moglie! Adesso si rendeva conto di non averla trattata bene. Ma come diceva mamma, lei non era proprio la ragazza adatta. Un’amabile nullità, la chiamava, ma erano passati sei anni, forse di più; nel frattempo doveva pur essere cambiata.
Casa sua gli fece una certa impressione: enorme e piena di mobili di gran pregio. Lo fece accomodare in soggiorno e andò a preparare il tè. Quando si tolse i guanti, Michael vide gli anelli: uno era una fede, l’altro aveva un grosso zaffiro e dei diamanti. Ma certo, si era sposata: ricordò vagamente che mamma gliene aveva parlato.
«Ho sposato Ralph Fytton», gli disse lei, dopo che ebbe servito il tè e lui gliel’ebbe domandato.
«Lo scienziato?».
Lei annuì. «È morto l’anno scorso. Ha resistito per tutta la durata della guerra e poi è morto di polmonite».
«Mi dispiace molto».
«Sì, è stato terribile per lui».
«Ma non per te?».
«Oh, certo. È stato triste anche per me. In un certo senso. Ma le cose non andavano bene. Tra noi, intendo. Io volevo dei figli, sai. E lui no». Versò il tè e gli porse una tazza.
«Che strano!», esclamò Michael.
«Lo so. Ma lui pensava che il mondo non fosse più un posto adatto ai bambini. Sapeva della bomba, capisci... ben prima che accadesse, intendo dire. Era molto depresso. Diceva spesso che era tempo che il genere umano si estinguesse. Io non potevo parlarci. Era troppo intelligente per me...».
«Deve essere stata dura». Avrebbe voluto chiederle: perché lo hai sposato?, ma se ne guardò bene. Le chiese invece: «Era molto più vecchio di te, vero?».
Lei gli rispose con la sua vocina monocorde: «Quasi trent’anni di differenza».
Lei ne aveva trentacinque, ricordò Michael. Solo tre meno di lui. Una delle ragioni che aveva usato sua madre per dissuaderlo dal fidanzarsi con lei. Secondo Zee era troppo vecchia.
«Tu invece», fece lei alzando gli occhi. «So che per poco non sei entrato in Parlamento. Un vero peccato».
«Oh, no. Non direi. Non era quello che volevo fare davvero».
«E hai un bambino! L’ho letto sul “Times”. Che cosa meravigliosa». Ci fu una breve pausa, poi aggiunse: «Tua madre molto gentilmente mi ha invitato al tuo matrimonio. Ma io non me la sono sentita».
E Michael si ricordò di quella loro ultima passeggiata dopo pranzo, a Hatton, quando lui le aveva detto che si sarebbe sposato con Louise e lei aveva replicato senza esitare: «Lo so. L’ho capito nel momento in cui sono entrata e l’ho vista. È bellissima e anche molto intelligente». E poi aveva pianto. Lui aveva provato ad abbracciarla ma lei lo aveva respinto e aveva continuato a piangere appoggiata a un albero. E mentre piangeva non finiva più di scusarsi: «Mi dispiace tanto... adesso mi passa... scusami, davvero...»; al che lui, imbarazzato e a disagio, aveva detto: «Non ho mai detto che... che avrei...».
«Lo so. So che non l’hai detto. È solo che un po’ ci speravo...». E a quel punto la piatta voce infantile le si era spenta in gola. Lui, come da copione, le aveva offerto il proprio fazzoletto, lei si era asciugata il viso e aveva detto che voleva andare a casa. Michael ricordava anche di averle detto che le voleva bene, che avevano trascorso dei bei momenti insieme. Poi erano rincasati, Rowena aveva ringraziato Zee per il pranzo e Michael l’aveva accompagnata alla macchina. Le aveva dato un bacio su una guancia e le aveva detto che gli dispiaceva. Dopo non le aveva più rivolto un pensiero. Adesso però gli tornarono alla mente, in gran numero, i bei momenti passati con lei: la prima volta che l’aveva spogliata – Dio, che corpo stupendo aveva! –, l’ammirazione incondizionata che provava per lui, il suo gusto nel vestire – anche adesso si cuciva i vestiti da sola –, il vivo interesse che mostrava verso qualunque cosa lui facesse...
Si sporse verso di lei e le prese le mani. «Ci siamo divertiti, giusto?».
«Io non l’ho mai vissuta come un divertimento», disse lei.
Dopo quell’incontro non la vide per settimane. La incontrò per caso mentre andava alla sua galleria in Bond Street. Scoprì allora che Rowena lavorava tre giorni a settimana in un’altra galleria. La invitò al Ritz, dove bevvero due Martini ciascuno e poi pranzarono senza fretta. Lei disse di dover tornare a lavoro, era già in ritardo, e lui d’impulso – Louise era andata a trovare i suoi nel Sussex – la invitò a cena. «Dopo potremmo andare a ballare da qualche parte», aggiunse. Rowena era sempre stata un’ottima ballerina, in grado di seguirlo in ogni evoluzione sulla pista da ballo.
Era cominciato tutto quella sera. Lui le disse che le cose tra lui e Louise non andavano bene; lei se ne dispiacque senza alcuna malizia – era sempre stata di buon cuore, non ricordava di averla mai sentita parlare male di qualcuno. Non gli portava rancore, come avrebbe potuto fare a buon diritto, Michael se ne rese conto man mano che cresceva la loro intimità. L’aveva trattata davvero male. Il pensiero di quella loro ultima passeggiata a Hatton, quando aveva tentato di giustificarsi dicendo che non aveva mai avuto intenzione di sposarla, adesso lo faceva vergognare, e un giorno glielo disse. «Sono stato egoista e arrogante... un vero pallone gonfiato», disse e lei replicò: «Oh Mike, tu esageri sempre in queste cose, solo per farti contraddire dagli altri».
La verità di quell’osservazione, insieme al fatto che raramente lei diceva qualcosa che lo sorprendesse in perspicacia, gli diedero per un breve momento la sensazione di essere un po’ innamorato di lei. Perché era davvero amabile. Aveva sempre avuto tratti ben proporzionati: la fronte ampia, grandi occhi ben distanziati di un colore che non era grigio né verde né azzurro ma variava fra le tonalità più chiare di queste tre tinte, il naso piccolo e la bocca generosa che si piegava agli angoli in due piccole virgole, dandole un’espressione grave che le si addiceva e ben si armonizzava con gli ampi piani inclinati che costituivano il suo viso. Aveva osservato tutte queste cose ritraendola, quando erano stati amanti la prima volta; adesso le riscopriva coi minuti cambiamenti che il tempo e l’esperienza vi avevano inciso, cambiamenti che avevano solo aumentato il suo fascino. Adesso aveva un portamento ancora migliore ed era più viva, e non più sempre e comunque d’accordo con lui.
Non si vedevano tanto spesso: lui lavorava molto e man mano che le giornate si erano allungate aveva avuto sempre più impegni sociali con Louise. Certe volte però Louise annunciava che avrebbe passato la serata con le sue cugine Polly e Clary o con la sua amica Stella, con cui lui non era mai andato d’accordo, oppure che voleva andare a vedere qualche commedia che a lui di sicuro non sarebbe piaciuta, e allora Michael chiamava Rowena dallo studio e programmava la serata con lei. Sembrava fosse sempre libera e disponibile e quando, una di quelle sere, lui osservò che doveva pur avere degli amici, lei gli rispose che rimandava gli altri impegni. Fu la sera in cui fecero l’amore per la prima volta, e fu un grande successo. Con lei era sempre stato facile: Michael riusciva a godere e a farla godere senza nessuna fatica. Rowena era passiva ma generosa nel dimostrare l’appagamento erotico: la combinazione perfetta per lui.
Subito dopo, distesi sul letto, ebbero una seria e standardizzata conversazione intorno al fatto che lui era sposato e che non intendeva mandare tutto all’aria – c’era il bambino e via dicendo –, con lei che lo stava a sentire e diceva di sì a tutto, proprio come voleva Michael. «Sono tanto felice!», disse. «Del resto non m’importa. Se tu mi vuoi, io ci sono».
Il suo matrimonio era a un punto morto. Però una galleria di New York che una volta, prima della guerra, aveva esposto i suoi lavori gli aveva scritto per proporgli un’altra mostra. Aveva discusso la proposta con sua madre, che l’aveva trovata un’idea eccellente, pur avendogli consigliato di chiedere con molta fermezza che la data fosse abbastanza in là da permettergli di accumulare un numero sufficiente di ritratti. Se la cosa fosse andata in porto, aveva deciso di portare con sé Louise: forse l’ambiente nuovo avrebbe migliorato le cose tra loro. L’avrebbe allontanata un po’ da quell’idea fissa del teatro e avrebbe dato loro la possibilità di stare da soli, insieme. Sebastian e Nannie potevano stare per un po’ a casa di sua madre a Hatton. Sarebbe stata una specie di seconda luna di miele e Louise, che non era ancora mai stata all’estero, ne sarebbe stata di certo entusiasta. In quei piani non trovava posto Rowena – come avrebbe potuto? – ma il pensiero che lei era lì, sullo sfondo, sempre a sua disposizione, gli dava il tipo di sicurezza di cui aveva tanto bisogno. La primavera del ’47, pensò, era un periodo perfetto per andare in America, e scrisse alla galleria per proporlo.
* * *
Mentre camminava lungo lo sterrato che portava dalla fattoria al caravan, Christopher notò con sollievo che il vento si era calmato ma non completamente – cosa che in quella stagione avrebbe rappresentato un sicuro annuncio di pioggia –, e s’era tramutato invece in una brezza leggera e carezzevole. Forse nel fine settimana ci sarebbe stato bel tempo. Lui lo sperava tanto. Aveva anticipato di un giorno il bagno settimanale e la cena dagli Hurst perché l’indomani Polly veniva a stare da lui per qualche giorno. Era la prima volta. A dirla tutta non aveva mai avuto ospiti nel suo caravan, e adesso l’euforia per quella novità cominciava a degenerare in ansia. Anche se era buio pesto non aveva bisogno di una torcia – avrebbe saputo muoversi in quel posto anche bendato. Ma a Polly ne sarebbe servita una. Doveva accertarsi che la vecchia torcia avesse una batteria funzionante, anzi, prima ancora doveva trovarla. Meno male che il giorno dopo sarebbe stato libero, perché doveva fare un mucchio di cose prima che arrivasse la sua ospite.
L’aveva invitata, così su due piedi, alla festa d’addio di sua sorella Angela, che stava per partire per l’America. Dopo il matrimonio di Nora, Christopher aveva deciso che le feste di famiglia non facevano per lui: lo rendevano depresso e solo, sentimenti che non conosceva nella sua vita di tutti i giorni. Ma ad Ange era molto affezionato, era sua sorella e si rendeva conto che forse non l’avrebbe rivista mai più. Memore dell’insuccesso dei vecchi indumenti che si era portato per il matrimonio di Nora (sua madre gliene aveva fatti prendere in prestito degli altri da zio Hugh, che pure non gli stavano, ma in un altro modo), era andato a Hastings in bicicletta e si era comprato un completo nero con una camicia di quelle fatte fare dal governo adesso che non c’erano più materie prime. Poi si era ricordato che la sua cravatta l’aveva usata per steccare la zampa della volpe, e allora se ne era comprata una nuova. Non era di seta, perciò il nodo non sarebbe venuto bene, ma non gli importava perché sapeva che non l’avrebbe indossata spesso. Mrs Hurst per Natale gli aveva regalato delle calze fatte a mano. Non aveva tessere sufficienti per comprarsi un paio di scarpe, perciò gli sarebbe toccato mettersi quelle vecchie, che gli andavano strettissime, oppure gli stivali da lavoro. Alla fine si risolse per gli stivali. Lui non faceva caso a quello che la gente aveva ai piedi, perciò concluse che non l’avrebbero fatto nemmeno gli altri. Doveva alloggiare a Londra la notte prima della festa, ma era deciso a non andare a casa dei suoi, così superò la sua avversione per il telefono e chiamò Angela per chiederle di poter stare da lei quella notte, visti i suoi rapporti con il loro padre. Angela fu molto buona e disse di sì, se si adattava a dormire sul pavimento. «In ogni caso non credo ci sarebbe stato posto in quella casetta minuscola dove abitano adesso. Viene anche Judy», disse.
Così, un sabato piovoso, aveva portato Oliver dagli Hurst ed era andato in bicicletta, controvento, fino alla stazione. Faceva molto freddo e piccoli chicchi di grandine gli tempestavano la faccia: meno male che aveva quella giacca impermeabile.
Viaggiare gli metteva sempre ansia: finché era in treno andava tutto bene perché doveva semplicemente starsene seduto fino all’arrivo nella stazione di Londra. Ma poi doveva trovare la fermata giusta dove prendere l’autobus che portava in Tottenham Court Road, e da lì proseguire a piedi per un certo tratto e poi girare a sinistra in Percy Street, dove abitava Angela. Ma quando finalmente arrivò da lei, fu bello incontrarla. Ange sembrava sinceramente felice di vederlo, e gli preparò il tè col pane tostato. Aveva i bigodini in testa e indossava una vestaglia, ma era evidentemente felice. Questo stato la faceva apparire così diversa che Christopher si rese conto che prima doveva aver sofferto molto.
Si sedettero vicinissimi alla stufetta elettrica a bere il tè, e lui le disse: «Ti ricordi quella volta che ci siamo incontrati sul vialetto per Mill Farm, dopo che era stato dato l’annuncio che non ci sarebbe stata la guerra, e tu stavi tanto male e non volevi dirmi perché?».
«Sì, mi ricordo. Adesso posso dirtelo. Credevo di essere innamorata di Rupert...».
«Zio Rupert?».
«Già. Mi sembrava la fine del mondo. Credevo che mi amasse anche lui... be’, insomma, me l’ero immaginato. Ovviamente non era vero».
«Povera Ange!».
«Non ti preoccupare. È tutto finito, ormai. Tocca a tutti un primo amore, e credo che sia per tutti una brutta esperienza».
«Dopo però le cose sono andate bene?».
«Non molto. Mi sono innamorata di un altro ed è andata molto peggio. Era sposato anche lui».
«Era quello con cui stavi per sposarti?».
«Sì... no. Era quello che mamma credeva dovessi sposare. Per la ragione più ovvia». Angela sondò il suo viso per vedere se capiva, e proprio quando lui stava per chiederle come mai la loro madre volesse farle sposare uno già ammogliato, gli disse: «Ero incinta».
«Oh, Ange! E hai perso il bambino?».
Non gli rispose subito, disse solo, piano, come per consolarlo: «Sono felice di non averlo avuto».
Gli offrì anche una sigaretta, ma lui non fumava.
«Adesso però», disse lui, «hai Lord Black, no? Non sapevo che anche in America ci fossero i Lord».
«Non è un Lord! Earl è il suo nome. Sarò la moglie di Earl C. Black. E vivrò a New York. Non vedo l’ora».
Christopher vedeva che Angela era felice, e l’importante era questo. Ma New York era così lontana! Angela disse che era ora di prepararsi per la festa – la festa «probabilmente orribile» che li aspettava – e gli mostrò dov’era il bagno.
«Dici che devo radermi di nuovo?».
Lei gli carezzò il viso. «Stamattina non ti sei rasato?».
«L’ho fatto ieri. Mi rado un giorno sì e uno no, di solito».
«Sei un po’ ruvido. E dovrai baciare un sacco di gente. Forse è meglio».
Christopher obbedì e riuscì a non tagliarsi.
La festa ebbe luogo in una grande sala di un sontuoso albergo. C’era tutta la famiglia, o così gli sembrava. Della sua, comunque, non mancava nessuno. Papà indossava lo smoking e mamma un lungo abito azzurro fluttuante. Misero Angela in mezzo a loro per salutare e scambiare qualche parola con tutti gli ospiti che arrivavano. Judy era ingrassata parecchio e indossava il vestito da damigella che aveva al matrimonio di Nora. Imperversava per la sala rimpinzandosi di roba che prendeva dal buffet o dai vassoi che le porgevano i camerieri. Christopher era molto fiero di Angela, che portava un abito di velluto rosso che le arrivava appena alle ginocchia e delle calze bellissime che le aveva mandato Earl. Aveva i capelli raccolti in cima alla testa e lunghi orecchini rossi e oro. «Sei semplicemente bellissima», le aveva detto prima di uscire, e lei gli aveva dato un bacio. Profumava come una serra piena di fiori.
Nora arrivò un po’ in ritardo, spingendo la carrozzella di Richard, che piazzò accanto ai due genitori. «Così vede tutti quelli che arrivano», disse a mo’ di spiegazione. Agli ospiti che entravano veniva offerto un bicchiere di champagne e Nora lo dava a Richard in piccoli sorsi, ma Christopher notò che non lo faceva spesso.
Si piazzò a una certa distanza dai suoi e osservò i Cazalet che stavano arrivando. Non li vedeva da tre anni, dal matrimonio di Nora. Per primi arrivarono zio Edward e zia Villy, che sembrava essersi ritirata tutta dentro il vestito. Con loro c’erano Lydia, molto elegante in un abito nero che sottolineava il suo vitino di vespa (tutto l’opposto di Judy, pensò con tristezza), Roland in calzoncini di flanella grigi e giacchetta in tinta, i capelli tenuti dritti dalla brillantina, e Wills, vestito esattamente allo stesso modo. Vide Wills e Roland confabulare e poi dirigersi verso Richard, che cominciarono a rimpinzare delle varie cibarie che i camerieri servivano in giro. Poi arrivarono zio Rupert e zia Zoë, e quest’ultima era bella quasi quanto Ange, in un abito a strisce bianche e verde scuro e pendenti di diamanti. Osservò zio Rupert e Ange che si salutavano con un bacio, ma lei sembrava tranquilla. Poi arrivarono la Duchessa e zia Rachel, vestite entrambe come lui le aveva sempre viste, di un celeste indefinito, ma con le gonne lunghe. Zio Rupert procurò una sedia alla Duchessa, mentre zia Rachel andò subito a parlare con Richard. Poi arrivarono altre persone che lui non conosceva, amici di Ange probabilmente. Alcuni avevano l’aria di conoscersi tra loro, ma nessuno dava segni di conoscere la famiglia. Poi arrivarono Clary e Polly, e la festa per lui cambiò completamente. Clary gli parve sempre la stessa, ma Polly, pur non essendo certo irriconoscibile, era di una bellezza così straordinaria che gli sembrò quasi di vederla per la prima volta.
Si diressero subito verso di lui. «Christopher! Ciao, Christopher!», gli dissero una alla volta. Si lasciò abbracciare, ancora stordito da quella visione. Polly indossava un vestito del colore delle foglie di betulla in autunno, ed emanava un profumo intenso e indefinibile.
«Hai un profumo davvero singolare», si ritrovò a dire.
«Si chiama Cuoio di Russia», lo informò Clary. «Io glielo dico in continuazione, che dovrebbe avere l’odore di una costosa poltrona di cuoio, e non di una dozzina!». Poi aggiunse: «In realtà è francese. In Francia lo chiamano Cuir de Russie».
«Se io dovessi scegliere un profumo, sceglierei Bacon Fritto». Alle spalle delle ragazze comparve un individuo alto.
«Neville, non si sceglie in questo modo un profumo! Si possono prendere solo quelli che già esistono».
«Non se sei un inventore di profumi, che deve essere un ottimo modo per fare soldi: ormai queste smielate essenze floreali le avranno usate tutte. E poi qualcuno potrebbe desiderare un odore che respinga la gente... che ne so, Fragranza di Biscia, oppure Sudore di Malvivente... oh, ciao Christopher».
Adesso Neville era alto quanto lui.
«Non fare lo scemo e non dire cose disgustose», lo redarguì Clary. «Questa è una festa. La gente ci viene per divertirsi».
Poi Clary andò con Polly a salutare Angela. Neville invece rimase là.
«Devo dirlo, le feste mi sembrano una cosa molto, ma molto sopravvalutata. La gente non ci va per avere delle vere e proprie conversazioni, ma solo per baciare guance repellenti e scambiarsi frasi fatte con gente altrettanto noiosa. Sei d’accordo?».
«Be’, non mi capita spesso di andare alle feste. Quasi mai».
«Davvero? E come ci riesci?».
«Dove vivo non ci sono feste». Mentre lo diceva, fu preso dal panico. Stava conducendo una vita da recluso: a parte gli Hurst e Tom, l’altro lavorante della fattoria, non vedeva mai nessuno. Certo, incontrava delle persone nei negozi quando ci andava, ma per il resto lui viveva con Oliver, con un gatto mezzo randagio che lo cercava quando gli faceva comodo e con altre creature di cui si prendeva cura, spesso reduci da brutte avventure, come la volpe che aveva trovato quell’autunno in un’orribile trappola, diversi porcospini prostrati dalle pulci, uccellini caduti dal nido oppure il leprotto che gli aveva portato una volta Oliver, a cui un uccello aveva beccato un occhio mentre era probabilmente sotto l’effetto di qualche veleno. Invece tutti quei cugini, con cui anni prima aveva trascorso le vacanze e che avevano costituito parte integrante della sua vita, loro si conoscevano bene, avevano continuato a crescere insieme, mentre lui era stato tagliato fuori. Si era tagliato fuori da solo, anzi, ammise: nell’ansia di allontanarsi il più possibile da suo padre, si era allontanato e isolato anche da tutti gli altri. Guardò Neville che sceglieva con grande attenzione un rustico alla salsiccia da un vassoio. L’ultima volta che l’aveva visto era un ragazzino.
«Quanti anni hai?».
«Sedici. E mezzo. Ma sto lavorando per essere più vecchio della mia vera età. Si tratta perlopiù di usare il frasario giusto e di non mostrarsi stupiti da niente».
Chinò la testa da un lato per dare un morso al rustico e una ciocca di capelli rossicci gli ricadde sulla fronte bianca e un po’ bitorzoluta, ma Christopher notò che in cima alla testa gli crescevano dritti, in due ciuffi.
«Teddy e Simon vengono?».
«Teddy è ancora in America, ma tornerà presto, portandosi dietro una certa Bernardine con cui si è sposato. Simon invece sta sgobbando sui libri per gli esami finali».
Di questo non sapeva se dispiacersi o essere contento.
A quel punto il padre di Christopher invocò il silenzio e fece un lungo discorso, non sempre udibile, su Ange. Christopher lo stette a sentire per un po’, ma poi gli tornò in mente Polly, e la sua incredibile bellezza lo colpì al punto che gli parve che in quella sala non ci fosse che lei. Lei lo stava ascoltando, il discorso di suo padre, perciò Christopher poté osservarla: i lucenti capelli ramati erano acconciati in un taglio alto che le lasciava scoperto il bianco collo slanciato, e quando Raymond fece una specie di battuta e gli altri risero – solo per educazione –, Polly si voltò verso di lui e gli arrivò una zaffata di quel profumo conturbante. Poi arricciò il naso bianco – allo stesso modo in cui lo faceva zia Rachel, si ricordò lui, quando voleva farti partecipe di qualcosa di buffo – e gli occhi azzurro scuro le brillarono maliziosi. Che significava? Che lei sapeva che entrambi sapevano che Raymond le battute non le sapeva fare? O soltanto che era contenta di vederlo?
In un modo o nell’altro, quando suo padre ebbe terminato il suo discorso e prima che Angela dicesse qualche parola in risposta, lui si fece coraggio e le chiese di venire a passare il fine settimana nel suo caravan.
E adesso stava per arrivare. L’aveva avvisata che non c’era una vera e propria stanza da bagno e nemmeno la luce elettrica. È solo un caravan, le aveva detto. Ma non l’aveva avvisata che c’era un gabinetto esterno che aveva costruito lui, praticamente in mezzo alla boscaglia, e che come giaciglio non aveva che una branda di legno fissata al muro nella minuscola cameretta ricavata in fondo al caravan. Il letto lo avrebbe ceduto a lei, lui poteva dormire sul pavimento nell’altro ambiente.
La giornata successiva la trascorse tutta a rassettare, a pulire e a cucinare un minestrone di verdure. Mrs Hurst, bontà sua, gli aveva preparato una torta di frutta e della crema al forno fatta con uova e latte, che avrebbe servito come dessert. Come pietanza principale decise di preparare un timballo al formaggio, usando il suo fornelletto da campo. Raccolse legna in abbondanza per la stufa, pulì le finestre – opache di fumo e condensa – e la dispensa esterna, una capannuccia con una porta di rete di zinco appesa al tetto del caravan. Lì avrebbe conservato gran parte del cibo per quel fine settimana. Andò diverse volte dagli Hurst a chiedere della roba in prestito, e quando fu la volta delle lenzuola, Mrs Hurst gli suggerì che forse sua cugina avrebbe preferito dormire in casa, alla fattoria. Ma a Christopher sembrava che questo avrebbe rovinato tutto. Man mano che passavano le ore, però, e si avvicinava il momento di andare a prendere Polly alla stazione, veniva assalito dai dubbi: forse lei avrebbe preferito dormire in una stanza vera, in un vero letto.
Le sue preoccupazioni si rivelarono infondate. Quando s’incontrarono sul binario del treno era già il crepuscolo. Polly portava i pantaloni, una giacca nera e un foulard intorno alla testa. Si scambiarono un bacio fraterno e lui prese la sua piccola valigia.
«Non sapevo che avessi una macchina!».
«Non è mia. È del fattore per cui lavoro. Me l’ha prestata per venire a prenderti», le spiegò.
«È tutto molto rustico», volle avvisarla di nuovo mentre guidava con cautela per uscire da Hastings – non guidava spesso e, a parte questo, aveva la sensazione di dover stare particolarmente attento con Polly: le sue guance gli erano parse di fresca porcellana, quando le aveva baciate.
«Sono certa che sarà bellissimo», affermò con tanta calorosa sicurezza che Christopher pensò che forse le sarebbe piaciuto davvero.
Ma quando parcheggiò nel cortile della fattoria e cominciò a scortarla nel buio lungo lo sterrato, tutte le sue paure tornarono a galla. Avrebbe dovuto accendere la lampada a olio, così avrebbero trovato una luce accogliente al loro arrivo; avrebbe dovuto portarsi dietro la torcia... «È meglio se mi dai la mano... ai lati della strada le canalette sono piuttosto profonde».
«Oliver è ancora con te, no?».
«Oh, sì. L’ho lasciato di guardia».
Aspettò tranquilla mentre Christopher armeggiava con un fiammifero e accendeva una morbida luce gialla.
«Che carino! La luce è così bella».
Oliver, che trovarono in piedi in mezzo alla stanza, le si avvicinò subito e le piantò addosso i suoi occhioni castani. Mentre Polly lo salutava, e l’iniziale simpatia del cane si tramutava in vivo affetto e poi in totale adorazione, Christopher passò in ansiosa rassegna la sua casetta, sforzandosi di vederla con gli occhi di lei. Il tavolo era grazioso, con la tovaglia a scacchi bianca e rossa e un barattolino di marmellata ai frutti di bosco al centro, ma il pezzo di moquette di fronte alla stufa, che si affrettò ad accendere, era frusto e sporco, mentre l’unica sedia comoda, di vimini con residui di vernice bianca, era grigiastra e malandata, con un cuscino di felpa lustra dal colore indefinito a coprire il buco al centro. Gli scaffali che aveva costruito erano gremiti di libri e di piatti e tazze scompagnati. Tutti i ganci e gli appendiabiti erano coperti dai suoi vestiti, pure questi in pessimo stato. Le pareti del caravan, a eccezione delle finestre, così come il séparé che nascondeva il letto, erano ricoperte di roba al punto che l’ambiente sembrava ancora più piccolo e saturo di come fosse in realtà. Il cesto di Oliver, inoltre, occupava gran parte dello spazio di fronte alla stufa. Lo spostò e prese una sedia da sotto uno scaffale.
«Oh, Christopher, che bello! È così accogliente!». Si stava togliendo la sciarpa e la giacca; i suoi capelli somigliavano alle castagne indiane una volta private della loro scabra buccia verde. Christopher appese la sua giacca e la fece accomodare sulla poltrona di vimini; portò la sua valigia nella cameretta adiacente, poi le offrì del tè. «C’è anche del sidro...» (non aveva pensato a procurarsi delle bibite alcoliche; di sicuro lei era abituata a bere cose come i cocktail), ma Polly disse che il tè andava benissimo. La presenza di lei in quel luogo, dove fino a quel momento era stato sempre solo, a parte la compagnia di Oliver, lo rendeva euforico; la buona disposizione d’animo di Polly lo riempiva di gioia e di buonumore, e a rendere il tutto ancora più esaltante c’era il fatto che non si trattava di un’estranea, ma di una cugina, una persona che conosceva da sempre. Se non l’avesse conosciuta da prima, rifletteva intanto che caricava il fornelletto per scaldare l’acqua, non avrebbe mai trovato il coraggio di parlarle alla festa di Ange. E se pure, volando alto con la fantasia, fosse stata lei a rivolgergli la parola e a chiedergli di poter stare da lui per qualche giorno, Christopher, incantato da tanto splendore, non sarebbe stato capace di proferire parola.
Bevvero il tè, e poco dopo fu pronto il timballo al formaggio.
Polly gli chiese dove fosse il bagno e Christopher l’accompagnò con la torcia, che poi lasciò a lei.
«Ho sentito un gufo», disse Polly quando rientrò. «Siamo proprio in mezzo alla natura, eh? Un po’ come il tuo rifugio a Home Place, ti ricordi? Ma molto più confortevole».
Si erano già scambiati molte informazioni sulle rispettive famiglie, lei gli aveva raccontato del suo lavoro in quello che doveva essere un negozio molto elegante e della vita con Clary nel loro appartamento. Le domandò se le piacesse vivere a Londra.
«Credo di sì. Quando eravamo a Home Place e c’era la guerra, non vedevo l’ora di tornare in città, avere un lavoro, una casa tutta mia e via dicendo. È strano, no? Le cose sembrano sempre più belle, quando sono di là da venire. Immagino sia per questo che la gente ha tanto bisogno di una visione a cui tendere. Sai, qualcosa che si vede ma in cui non si è dentro», spiegò.
Christopher ci pensò. «No», disse. «Capisco di cosa parli, ma non mi sento affatto così».
«Tu hai sempre voluto stare lontano da tutto, vero?».
«Da alcune cose, sì», replicò guardingo.
«E adesso che ci sei riuscito, ti piace?».
«Non ci ho riflettuto molto. Che ne dici di una cioccolata calda? Ho molto latte fresco».
Lei accettò con entusiasmo. Andò a prendere il latte e quando tornò Polly chiese: «I piatti dove li lavi? Se me lo dici, ci penso io».
«Li lavo io, dopo». Tolse dal fornello l’acqua per fare i piatti e si mise a preparare la cioccolata in un pentolino. Di colpo si sentiva traboccare di cose che voleva chiederle, discutere con lei, sapere cosa ne pensasse.
«Secondo te è davvero così importante essere felici nella vita?».
«E cos’altro dovresti essere, sennò?».
«Be’, utile agli altri. Cercare di rendere il mondo un posto migliore. Cose così».
«Io credo che essere felici renda il mondo un posto migliore».
«Però ce ne vuole per trovare la felicità, no? Voglio dire, non è così facile come sembra».
«No, infatti». Adesso gli sembrò triste; poi all’improvviso si mise a ridere. «Mi sono appena ricordata di una cosa che ci raccontava Miss Milliment. Che ai suoi tempi c’era un detto: “Pensa a essere buona, ragazza, l’intelligenza lasciala agli altri”. Quanto la faceva arrabbiare! A dieci anni, proprio non capiva come la bontà potesse essere un’alternativa all’intelligenza. Però può essere una valida alternativa alla felicità, non credi?».
«Sì, ma dovendo scegliere?», insistette lui.
Vide la fronte bianca di Polly incresparsi in piccole pieghe mentre rifletteva in cerca della sua verità. «Stavo pensando a Nora», disse infine. «Ha rinunciato alla sua vita per occuparsi di Richard. E non solo di lui».
«E questo l’ha resa felice?».
«Non lo so. Non credo fosse questo il suo obiettivo».
«Allora forse», suggerì Polly, «in questo caso quello che conta è se sia riuscita o meno a rendere più felici quelli per cui si è sacrificata».
Vi fu un silenzio e Christopher pensò a Richard seduto sulla sua carrozzella alla festa. Non gli era sembrato felice; la sua espressione sembrava del tutto priva di sentimenti, salvo animarsi di modesta golosità quando Roly o Wills gli mettevano tra le labbra qualche boccone.
«E poi, certo, uno può sempre sbagliare. Sia che decida di essere buono sia che decida di essere felice».
«Non alla nostra età però», lo corresse Polly. «Voglio dire che, se sbagliamo una cosa, noi abbiamo ancora il tempo di riprovarci».
Cercò una tazza non sbeccata per la cioccolata di Polly, ma l’unica l’aveva usata per il tè, così optò per la meno peggio.
«Bevi da questo lato», le disse.
Mentre sorseggiavano la cioccolata calda, lei gli chiese del suo lavoro alla fattoria. «Raccontami la tua giornata».
«Non sono sempre uguali. Dipende dalla stagione».
«Raccontami com’è adesso, allora».
«Adesso è il periodo dei pomodori», le disse. «Tom Hurst ha due grosse serre per i pomodori e bisogna che fruttifichino il prima possibile. La scorsa settimana ho interrato le piantine. Prima stavano nei vasi, e ho preparato il terriccio. Durante l’inverno faccio soprattutto lavori di manutenzione, il pollaio per esempio. Le vacche stanno quasi sempre nella stalla e hanno bisogno della paglia. Non si produce moltissima roba, ma comunque un po’ di tutto, perché lui ha sempre fatto così. Vive della vendita dei pomodori, della frutta e di qualche altro ortaggio che raccogliamo in primavera ed estate. Ha anche qualche pecora, giusto una dozzina, ma non ha terreno sufficiente per coltivare cereali. Sta invecchiando e non hanno figli. L’unico che avevano è morto in Birmania. Questo è uno dei miei problemi».
«Sei diventato tu suo figlio?».
Annuì. Gli piaceva la sua capacità di capire al volo. «Sì. Marge, la moglie, mi ha detto che Tom vorrebbe lasciare a me la fattoria, la casa e tutto il resto».
«E tu non sei certo di volerlo?».
«Infatti. Ma se davvero mi lascia tutto, sarebbe orrendo da parte mia vendere la proprietà, no?».
«Con lui ne hai parlato?».
«Oh, no di certo! Non potrei mai. Io non dovrei nemmeno saperlo. È una cosa che lei mi ha confidato, convinta che ne sarei stato entusiasta».
Si alzò e tornò al fornello. Sentiva di avere ancora molte cose da dirle, ma temeva di annoiarla; le persone abituate a stare in compagnia probabilmente non parlavano così tanto, almeno non a getto continuo come stava facendo lui.
«Mettiti a leggere un libro, se ti va», disse allora. «Io vado a mettere i piatti a mollo. Non devi preoccuparti di niente».
«L’acqua da dove la prendi?». L’aveva visto riempire il bollitore da un rubinetto sopra il piccolo lavello di pietra.
«Ho una cisterna fuori. Raccoglie l’acqua piovana dal tetto, ma una volta ogni due settimane la rabbocco col tubo dalla fattoria. Il bagno lo faccio lì. Marge mi ha detto che puoi andare a farlo anche tu, in qualsiasi momento».
«È molto gentile, vero?».
«Lo è davvero, sì. Anche per questo è così difficile andarsene».
«Ma perché vuoi andartene? A te piacciono gli animali, la campagna, curare le piante».
«Il punto non è solo quello che mi piace... c’è il fatto che... sai, tutta questa storia di fare scelte diverse, di essere contro questo e contro quello... l’obiezione di coscienza, per esempio...». La guardò per vedere se si ricordava delle parole di Simon a proposito del pacifismo, e lei fece cenno di sì. «Alla fine mi sono accorto che così facendo si lasciava che altri facessero qualcosa che magari non piaceva neanche a loro: il lavoro sporco, voglio dire, e allora mi sono deciso ad arruolarmi. Poi l’esercito non mi ha voluto perché non stavo bene... sai, quella volta che non sapevo più nemmeno chi ero. Però almeno ci ho provato, e mi è sembrato di fare la cosa giusta. E anche venire qui è stata una specie di fuga. Stavo scappando da... be’, principalmente da mio padre, immagino, e dalla vita che avrei fatto a Londra coi miei. Poi però quando ho visto Nora e Richard ho pensato che forse dovrei offrirmi di andare ad aiutare lì. Ci sono molti altri invalidi e Nora ha detto che hanno grosse difficoltà a trovare il personale, soprattutto uomini forti abbastanza da sollevare i pazienti. Tu che ne pensi, Poll? Ci tengo davvero alla tua opinione».
Ci fu un silenzio. «Tu vuoi andare ad aiutare Nora?».
«Non conta quello che...».
«Oh, Christopher, ma certo che conta! Lo devi volere, in un senso o nell’altro, perché altrimenti non funzionerà mai. Intendo dire, puoi anche desiderare di stare da cani, anche quella è una forma di volontà. Ma non puoi decidere di fare una cosa solo perché pensi che debba andare così o che qualcuno debba farla. I risultati sarebbero disastrosi per una ragione molto semplice».
«Cioè?».
«Non ci metteresti un minimo di cuore».
«Ma allora che cosa potrei fare? A me non sembra... di volere niente!».
Qualcosa nel modo in cui lo disse la fece ridere. Oliver invece gli si avvicinò e gli premette il muso contro una gamba con forza tale che Christopher fece cadere il piatto che stava asciugando e che si ruppe.
«Credo che Oliver abbia voluto puntualizzare che vuoi lui. O almeno dovresti».
Allungò una mano per grattarlo dietro l’orecchio, e il cane emise un gemito di piacere. «È reciproco», disse.
«Ti ricordi il giorno che papà l’ha portato?», disse Polly. «Era spaventato da tutto meno che da te».
«Ancora adesso gli scoppi dei motori e gli spari gli fanno paura».
Erano tornati a parlare di vecchi ricordi, e dopo aver finito la cioccolata cominciarono i preparativi per la notte. Ci volle un po’ più di tempo di quando era solo. Preparò a Polly una borsa di acqua calda e le spiegò come funzionava la zona letto. «C’è un sacco a pelo. Ti ci infili dentro e poi metti sopra le coperte». Accese una piccola lampada notturna accanto al letto e riempì di acqua calda il piccolo bacile di porcellana.
«E tu dove dormi?».
«Qui, di fronte alla stufa, in un altro sacco a pelo. Starò benissimo. D’inverno ci dormo spesso, comunque». Le diede la torcia per andare di nuovo al gabinetto.
«È proprio un posticino accogliente, davvero», esclamò quando fu di ritorno.
Mentre lei si lavava, Christopher portò Oliver fuori a fare i bisogni. Era una notte chiara, gelida, con poche stelle e una luna come un pezzo di madreperla alto nel cielo. Era bello sapere che Polly era lì con lui, ed era solo venerdì sera: c’erano ancora due giorni quasi pieni.
Il sabato fecero una lunga passeggiata in mezzo ai boschi e per gli stretti sentieri a ridosso delle colline che circondavano la fattoria. Era una bella mattina, il sole sembrava un pomodoro in mezzo a uno spesso cielo grigio e le siepi erano adorne di ragnatele gelate e qualche bacca residua. Parlarono un po’ di Angela, che adesso era su una nave diretta in America insieme a molte altre spose di militari. Polly disse che ci voleva molto coraggio per andare a stare in un paese sconosciuto, lasciando la famiglia e gli amici, e lui disse che Angela era stata così infelice in passato che un cambiamento radicale era quello che le serviva.
«Si è innamorata due volte, e tutt’e due le volte ha sofferto terribilmente», spiegò.
«Poverina!». Lo disse in un tono così accorato, che Christopher sentì di poterle raccontare di Ange e zio Rupe.
«Deve essere stato terribile per lei».
«Lo è stato. Un giorno la incontrai che era distrutta, ma allora non sapevo cos’avesse. Lui naturalmente non ricambiava il suo amore. E questa, sul momento, è stata la cosa peggiore».
Lei non disse nulla, e lui proseguì: «A lungo andare è stato meglio così. Sai, perché lui era sposato. E comunque era tanto più vecchio di lei... era un’idea assurda, davvero».
«Io non credo che lui fosse troppo vecchio. Nemmeno vent’anni. Non è niente!».
Lo disse con tanta veemenza che lui la guardò sorpreso. Camminava a grandi passi accanto a lui, con le mani ficcate nelle tasche e il volto contratto in un’espressione livorosa.
«Poll...».
«Era sposato, certo, per questo il suo era un amore senza speranza. L’età non c’entra proprio niente». E dopo qualche secondo aggiunse, in un sussurro tale che lui la sentì a malapena: «La cosa peggiore era che lui non l’amava. La peggiore per lei, intendo».
Christopher aprì la bocca per raccontare che, comunque, poco dopo Ange si era innamorata di un altro uomo, ma poi si astenne perché Polly gli sembrava inspiegabilmente ostile, e invece disse: «Be’, in un modo o nell’altro è tutto finito. Adesso sta benone».
«Tu non l’hai mai visto, vero?».
«No. Ma mi ha mostrato una sua foto».
«E com’è?».
Lui ci pensò un attimo. «Piuttosto... irsuto. Sembra un uomo gentile. E anche lui è molto più vecchio di lei». Prima non ci aveva pensato.
«Lo vedi? Non ha importanza. Te l’ho detto». Adesso non sembrava più ostile. Vide dei cespugli di berretta del prete e volle raccoglierne i frutti, poi vide altre cose e volle raccogliere pure quelle. Ne so davvero poco delle persone, pensò Christopher, domandandosi anche se, quando uno non sa una cosa, fa bene a chiederla esplicitamente. Ma aveva paura di farla arrabbiare di nuovo, idea che non tollerava.
Tornarono al caravan e mentre lui scaldava la minestra lei dispose in modo molto grazioso le bacche che aveva raccolto. Christopher temeva che si annoiasse e le chiese che cosa le sarebbe piaciuto fare quel pomeriggio; Polly disse che le sarebbe piaciuto andare a Hastings. «Non ci vado da una vita!».
Significava chiedere di nuovo in prestito la macchina, ma agli Hurst non dispiacque prestargliela. «Divertitevi!», fu il solo ammonimento di Mrs Hurst.
Polly voleva andare nella parte vecchia del paese, quella piena di antiquari e botteghe di rigattieri. «Adoro curiosare in quel genere di posti. Per te va bene?».
A lui andava bene tutto: gli bastava stare con lei, guardarla il più a lungo possibile senza che lei se ne accorgesse.
In macchina le chiese del suo lavoro. Non aveva idea di cosa facesse un arredatore d’interni.
«Be’, ecco, ascoltiamo cosa dicono le persone delle loro case o dei loro appartamenti, poi andiamo a vederli e diamo loro dei suggerimenti, scegliamo le cose al posto loro e facciamo finta che abbiano fatto tutto da soli».
«Che genere di cose?».
«Be’, carta da parati, tinte per le pareti e le porte, tappeti, tende, tessuti, rivestimenti per i mobili, certe volte i mobili stessi. Una volta abbiamo arredato da cima a fondo una casa terribile in Bishops Avenue, hai presente? Dopo Hampstead. Ho dovuto scegliere le porcellane, un servizio da tavola completo, candelieri e segnaposti d’argento. Il cliente era uno straniero con una montagna di soldi. Dato che ci aveva assunti per scegliere tutte quelle cose, ero convinta che non fosse sposato, invece lo era. Solo che a sua moglie non era permesso fare niente. Gervase ha detto che era una specie di prigioniera, con pochissima libertà».
«Chi è Gervase?».
«È il mio capo. Uno dei due, anzi. C’è anche Caspar. Caspar si occupa del negozio, Gervase disegna: sai, tende, mantovane, stucchi, progetti di bagni e cucine. Cose così».
No, non sapeva affatto. Gli sembrava incredibile che la gente si dedicasse a queste cose, e ancora di più che qualcuno pagasse altre persone per farlo. «E tu cosa fai?».
«Be’, io sto imparando. Il che vuol dire che faccio le cose più noiose... quello che mi chiedono di fare».
«Ma la maggior parte delle case non ha già un bagno e una cucina?».
«Sì, ma spesso sono orrendi, o semplicemente insufficienti».
Nei negozi di antiquariato si rivelò bravissima: trovava le cose, sembrava conoscerle, sapere a che epoca risalivano, a cosa servivano alcuni oggetti piuttosto misteriosi. Fece anche degli acquisti: tre forchette d’argento, semplici e pesanti. «Giorgio III», disse Poll, ma a lui due sterline e dieci sembravano lo stesso un bel po’ di soldi per tre forchette. E poi quattro paia di anelli metallici di ottone, aperti da una parte. Poll disse che servivano ad appendere le tende, erano di similoro e Caspar sarebbe stato felice di averli in negozio.
Trovò anche un piccolo scrittoio di noce, un Davenport, disse, e anche quello sarebbe piaciuto molto a Caspar. Costava venti sterline, così disse che avrebbe telefonato a Londra per sapere se erano interessati e, nel caso, chiese all’antiquario se era disposto a tenerlo da parte fino a lunedì. L’antiquario acconsentì di buon grado. Comprò anche una piccola pezza di velluto verde con cui disse di voler fare una tovaglia per la sua stanza. Poi cadde in deliquio per un servizio da tè bianco e rosa tutto luccicante, con dei fiorellini verdi. «Oh, guarda, Christopher! Una teiera in perfetto stato, sette tazze, nove piattini e due piatti! Non ne ho mai visti di così belli!».
Costava nove sterline, quasi due settimane di lavoro, ma decise lo stesso di regalarglielo. «Lo prendo», disse, e vide il viso di lei rabbuiarsi per poi tornare sereno e dire: «Bene, adesso è il tuo turno». E rivolse la sua attenzione a un’esposizione di tazze. Ne comprò due.
Mentre il negoziante impacchettava i loro acquisti con carta di giornale ingiallita, Polly vagava per il reparto mobili. «Guarda! Un tavolo in stile Reggenza. Che profilo elegante! È legno di rosa». (Di certo conosceva le varietà di legno grazie a suo padre). «E guarda le cavità per i piatti e che belle gambe!».
Christopher era stupefatto dalla sua competenza.
Caricarono tutto in macchina. Stava imbrunendo e aveva cominciato a piovere.
In macchina, lei gli disse: «L’ultima volta che ho visitato uno di quei negozi è stato con papà». Poi restò in silenzio e lui percepì la sua tristezza.
Domani a quest’ora, si ritrovò a pensare, percorrerò questa stessa strada senza di lei.
Mentre cenavano – patate e gambi di sedano al forno e un’ala di pollo che Mrs Hurst aveva cucinato per Polly –, lei gli domandò se disegnava ancora. No, non lo faceva più da tanto tempo.
«Ma eri così bravo!».
«Anche tu».
«Non quanto te. Mi ricordo soprattutto i tuoi gufi. Erano stupendi».
«Tu dovevi andare a una scuola d’arte».
«Ci sono andata. È servito a farmi capire che non ero abbastanza brava. Ti spiace se rosicchio l’osso?».
«No di certo. Quelli con cui vivo lo fanno sempre».
«Se fossimo in un romanzo o in una commedia», disse lei malinconica, «uno di noi due diventerebbe un grandissimo pittore. In un brutto romanzo lo diventeremmo entrambi. Invece nella realtà...».
«Io sono una specie di contadino...».
«...e io una commessa», chiosò lei. Mise giù l’osso di pollo e si leccò le dita con grazia, come un gattino, pensò lui. Christopher sparecchiò la tavola e vi posò sopra due barrette di cioccolato.
«Oh, che meraviglia! È il nostro dessert?».
«Sapevo che ti piaceva. Ti ricordi quel giorno che eri seduta sul muretto fuori dalla cucina e mi hai dato un pezzo della tua barretta?».
Polly ci pensò alcuni istanti, poi scosse la testa. «Veramente no, non mi ricordo».
«Portavi un vestito celeste chiaro e in testa avevi un nastro di velluto nero. Me ne offristi un po’ e io me ne presi troppa, ma tu a quel punto mi desti anche il resto, perché avevo saltato la merenda».
«Strano. Proprio non ricordo».
«Spero che ti piaccia ancora».
Il fatto che non se ne ricordasse lo aveva avvilito.
«Mi piace da morire».
Christopher suggerì di preparare un tè e lei gli porse le due tazze appena acquistate. «Una per te e una per gli ospiti».
«Anche se di ospiti non ne ho mai», disse lui dopo averla ringraziata.
«Mai?».
«Sei la prima».
«Ma non hai nessuno... nessun amico qui?».
«Ci sono gli Hurst, certo. E c’è un ragazzo che lavora con loro, come me, ma non lo definirei proprio un amico».
«E poi c’è Oliver».
Lo disse in un tono consolatorio che lo fece stare peggio (chiaramente lei si aspettava che avesse almeno qualche amico, e perché invece non ne aveva neanche uno?). «Immagino che la mia sia una vita molto solitaria», si schermì.
«Ma a te piace?».
«Non ci ho pensato molto». Ci stava pensando adesso, però. Il giorno dopo, a quell’ora, lei sarebbe stata a Londra, lui avrebbe finito di cenare e si sarebbe messo a studiare il greco. Stava cercando di tradurre alcuni frammenti di Menandro – Mr Milner, uno dei suoi insegnanti a scuola, amava in particolar modo Menandro, ed era stato una delle poche persone con cui Christopher fosse mai riuscito a comunicare. Non aveva detto a nessuno di quel suo interesse per il greco, perché temeva che venisse considerato assurdo o inutile, e che quindi non avrebbe più voluto farlo. E se avesse lasciato il greco, sarebbe rimasto senza niente. Ma quello che temeva davvero, adesso, era la prospettiva che Polly partisse, la temeva al punto da desiderare che non fosse mai venuta. Quella sera andò a letto rimproverandosi da solo per aver pensato una simile stupidaggine.
La mattina dopo si svegliò presto come ogni giorno e stette ad ascoltare la pioggia percuotere il tetto del caravan, mentre si arrovellava per pensare a come intrattenerla. Gli aveva detto che voleva visitare la fattoria, ma con tutta quell’acqua di certo non sarebbe stato divertente. E poi s’era spenta la stufa – doveva essersi allagata la canna fumaria. Si alzò cercando di fare meno rumore possibile, s’infilò stivali e impermeabile e andò a prendere la legna dalla catasta che teneva fuori, sotto un telone di plastica. Quando tornò con una bracciata di legna da ardere, la trovò in piedi con addosso i pantaloni e un maglione blu scuro a collo alto, i lucenti capelli tirati indietro con un nastro azzurro. Le spiegò della stufa e Poll disse che, se le avesse acceso il fornelletto, avrebbe pensato lei a preparare la farinata mentre lui si occupava della stufa.
Non veniva spenta da un po’ di tempo, e c’era molta sporcizia. Quando setacciò e spazzolò la grata in fondo, s’alzò una nuvoletta di cenere. Ne tirò fuori quasi un secchio pieno. Poi gli toccò andare alla fattoria a prendere il latte e Mrs Hurst, molto generosamente, gli diede una ciotola di panna. «Il tempo purtroppo non è quello che speravi», disse. «Se vuoi portare tua cugina qui a pranzo, siete i benvenuti». Lui la ringraziò e disse che avrebbe sentito che cosa preferiva fare Polly e gliel’avrebbe fatto sapere dopo colazione. Da una parte non voleva sprecare il poco tempo che gli rimaneva in compagnia di lei, dall’altra temeva che un piatto di uova strapazzate non fosse granché come pranzo domenicale.
Quando fu di ritorno, lei non era nel caravan. Stava arrancando nella terra umida per raggiungere il gabinetto, povera ragazza. Allora osservò la sua casa con gli occhi nuovi del mattino, e gli parve un luogo angusto, squallido e grigio, coi piatti della cena di ieri ancora sporchi nell’acquaio. Polly aveva tolto dal fornello la farinata e aveva messo su il bollitore.
Quando tornò, aveva l’aria davvero infreddolita: il naso rosa e i capelli scuriti dall’umidità. Eppure, malgrado il freddo e la vista di lei che lo pativa, la sua semplice presenza riuscì a ribaltare l’atmosfera: non era più grigia e fredda, adesso andava di nuovo tutto bene. Mangiarono la farinata, e lei disse che era un vero lusso avere della panna fresca per colazione. Più tardi, mentre lavavano i piatti – quelli della cena e quelli della colazione –, lei propose: «Dato che piove, perché non passiamo la mattina a pulire la tua casa? Ne sarei felice. Mi piace rendere tutto pulito e ordinato».
Lui fece subito per protestare – era una noia e poteva benissimo farlo lui in un altro momento – ma lei gli prese il dito, tracciò la scritta «POLLY» su uno scaffale pieno di polvere e disse: «Vedi? Ci vuole una bella pulita».
E fu così che trascorsero quella domenica mattina. Si rivelò una buona idea da molti punti di vista. Non solo Polly era bravissima a pulire gli oggetti, ma aveva anche idee brillanti su come sistemarli. Prese tutti i suoi libri sparsi sui vari scaffali e li dispose su uno scaffale unico, dove erano non solo più facili da trovare, ma anche molto più gradevoli alla vista.
«Hai un sacco di libri in greco», disse lei. «Non sapevo leggessi il greco. Questo che cos’è?».
«È il Nuovo Testamento».
«Caspita! E sei capace di leggerlo?».
«Più o meno. Stavo cercando di tradurlo. Solo per vedere se viene come nella versione ufficiale inglese».
«E corrisponde?».
«Non sempre. Ma io non sono molto bravo. Alcune parole greche hanno diversi significati, e bisogna capire qual è quello giusto in un determinato passo. A volte a me sembra che si voglia dire una cosa diversa da quella che si legge nella versione pubblicata».
«Questa è una cosa di te che non sapevo», disse Polly. Sembrava colpita, e lui si affrettò a dire che era solo un principiante e che lo faceva giusto così, per passare le serate.
Polly risistemò anche altre cose: tazze, piattini e utensili da cucina. Gli fece fissare dei ganci al muro per appendervi padelle e pentole. I ganci li aveva comprati lui stesso un secolo prima e non li aveva mai usati. Prima di fissarli, lavò addirittura la parete – una cosa che lui non aveva mai fatto – e l’ambiente apparve subito più luminoso. Lo teneva occupato mandandolo a prendere dell’acqua o a scaldarla o a trovare stracci e spazzole. Gli chiese di andare alla fattoria per prendere altro sapone e spiegare che non ce l’avrebbero fatta a finire per l’ora di pranzo. Tuttavia, passata da poco l’una, si presentò Mrs Hurst con un cesto contenente i due piatti del loro pasto domenicale.
«Bontà divina, avrete lavorato sodo! Chris stesso non riconoscerà più casa sua, vero Chris?». Vide subito che Polly le piaceva. Si offrì di prendere il pezzo di moquette, dargli una bella lavata e stenderlo ad asciugare fuori dalla sua cucina. «Non fate freddare il pranzo».
In fondo al cesto c’era anche una bottiglietta di quelle delle medicine in cui era stato versato un liquido rosso scuro, con l’etichetta «LIQUORE DI PRUGNOLE». Sapeva che la Hurst preparava quel liquore, ma di solito gliene regalava una bottiglia solo a Natale.
Finirono di lavorare e poi presero una bacinella d’acqua per lavarsi. Polly aveva la faccia sporca, e quando lui glielo disse, inumidì il panno e gli chiese di pulirgliela. «Non mi pare che tu abbia uno specchio».
Chris prese il panno e cominciò a tamponare i segni di sporco, con tanta delicatezza che il sudiciume non fece che spargersi. Usa il sapone, disse lei; lui passò il dito sulla saponetta, massaggiò la pelle delicata e poi ripassò il panno; Polly stava immobile, con gli occhi fissi non su di lui ma su un punto di fronte a sé. Mentre compiva quell’operazione, gli sembrava di avere di fronte a sé la sua più vecchia e cara amica, e insieme la creatura più misteriosa e sconosciuta in cui si fosse mai imbattuto. Gli tremava la mano e dovette deglutire per placare i battiti del cuore. In quei pochi secondi divenne una persona diversa, e nulla fu più com’era stato prima di toccarla.
Assaggiarono entrambi il liquore; a lui non piaceva molto e nemmeno a lei, gli pareva. Polly osservò che era una di quelle cose che devi bere solo in piccola quantità. «Non è nemmeno propriamente una bevanda. È un po’ come quella cioccolata molto densa. Non è fatta per placare la fame».
Mangiarono il pranzo, che ormai si era freddato. Per Polly c’era del roast beef con il pudding dello Yorkshire; Mrs Hurst sapeva che lui non mangiava carne e gli dava sempre una porzione doppia di verdura.
Poi Polly gli rammendò le toppe di cuoio ai gomiti della giacca. Chris cercò d’impedirglielo, ma lei insistette. Mentre preparava il tè, lei fece le valigie: si avvicinava il momento della partenza.
In macchina verso la stazione gli chiese se si prendeva mai una vacanza.
«In realtà no. Ho preso questo fine settimana perché venivi tu».
Lei aspettò qualche istante, poi disse: «Potrebbe farti bene un cambiamento, ogni tanto. Forse se andassi a trovare Nora, potresti capire se ti interessa lavorare lì».
«Immagino di sì», rispose in maniera meccanica. Il pensiero di lei – e l’ambiguità dei suoi sentimenti – lo dominava al punto che quasi avrebbe preferito non averla vicina; quando parlavano, lei era la sua amica d’infanzia, sua cugina, ma poi ogni volta che la guardava veniva sorpreso, aggredito e sopraffatto dalla sua bellezza, proprio com’era successo la prima volta che l’aveva rivista. Durante quella giornata, mentre mangiavano e mentre Poll salutava Oliver e mentre camminavano verso la fattoria, aveva parlato con l’amica e cugina: l’aveva ringraziata per il suo grande aiuto, le aveva chiesto di salutargli Clary e le aveva promesso di ringraziare da parte sua Mrs Hurst per il pranzo. Ma a quella bellissima ragazza, a quella perfetta estranea, non sapeva proprio cosa dire.
Arrivarono in anticipo alla stazione (cosa che in seguito rimpianse amaramente; sarebbe stato meglio se fosse arrivato appena in tempo per portarle la valigia e salutarla). Invece sostarono alcuni minuti sul binario e poi fu lei a suggerire che si spostassero in sala d’aspetto, dove c’era un po’ di calore. «A meno che tu non voglia andare», aggiunse poi. «Posso aspettare benissimo da sola». E prima di potersi trattenere, Chris sentì la propria voce (come fosse del tutto indipendente da lui) dire: «Vorrei non andarmene mai».
Entrarono in sala d’aspetto. C’era una piccola stufa a carbone che ardeva sommessa dietro una grata e due panchine di legno addossate alle pareti. Si sedettero, e proprio mentre Christopher cominciava a pensare, con un curioso misto di sollievo e delusione, che forse lei non aveva sentito, Polly disse: «Cosa volevi dire un momento fa?».
«Noi non siamo proprio cugini», sbottò. Avrebbe voluto essere in grado di pensare, di scegliere le parole con la massima cura e la massima cautela, e invece non aveva nessun controllo su quello che gli usciva di bocca.
«Intendi dire che i nostri genitori non sono parenti? Be’, secondo me non conta. Ci siamo sempre sentiti cugini». Lo guardò in faccia e s’interruppe. «Scusa. Continua».
«Potremmo sposarci», disse allora lui. «Credi che potresti... magari solo pensare a questa possibilità? Non dico subito, ma forse fra un anno o fra qualche mese? Dovrei trovare un posto dove vivere, perché non ti porterei mai a stare nel caravan – non è assolutamente alla tua altezza... e probabilmente non vuoi essere sposata a un contadino, perciò dovrò inventarmi qualcosa. Ma lo farò, te lo prometto. Possiamo anche vivere a Londra, se è questo che desideri. Sono pronto a fare qualunque cosa. È perché ti amo moltissimo che vorrei sposarti. Se è possibile», aggiunse alla fine. Poi tacque di colpo.
«Oh, Christopher! È per questo che mi hai invitata?».
«No! L’ho scoperto solo oggi. Stamattina. Prima di pranzo. Te lo avrei detto». Ci pensò per un momento. «Almeno credo. Non volevo dirtelo adesso, così, ma è venuto fuori. So di non essermi espresso bene, ma per una cosa così importante non fa differenza, credo, o forse invece sì?». Si voltò a guardarla.
«No».
«Forse...», si affrettò a dire, presentendo un rifiuto, «forse non ti va perché ancora non ci hai pensato».
«Non è questo. Non voglio sposarti, ma non è per te. Tu sei una delle persone più buone e interessanti che abbia mai conosciuto. Sei coraggioso e buono e...». Le si spezzò la voce. Ecco, non le viene in mente altro, pensò lui mortificato.
Polly mise la sua piccola mano bianca sulla sua. «Oh, Christopher! Non voglio farti stare male, ma sono innamorata di un altro».
Doveva pensarci. «E ti sposerai con lui?».
«No. No, non lo farò. Lui non mi ama. Non se ne fa niente».
«E pensi che amerai per sempre lui?».
«Non lo so. Ma adesso mi sembra di sì».
Gli si riempirono gli occhi di lacrime a quel pensiero. «Oh, Poll! Quanto mi dispiace. Non riesco a immaginare come si possa non amarti».
La porta della sala d’aspetto si aprì ed entrò una coppia con una carrozzina. «Non ne vale la pena», stava dicendo l’uomo. «Il treno arriverà a momenti». Portava due valigie che depose vicino alla stufa. Il piccolo aveva un berrettino a punta e il ciuccio in bocca. La donna scuoteva la carrozzina e il ciuccio cadde a terra. Il bambino si mise a piangere, il padre raccolse il ciuccio e glielo ficcò in bocca.
«Non pensi ai germi?», si lamentò la donna. Alzò gli occhi al cielo includendo anche Christopher e Polly nella sua muta perorazione.
«Se vuoi sederti sulla carrozza di testa, è meglio che ci muoviamo», disse Christopher. Non voleva condividere con nessuno quegli ultimi minuti con lei.
Ma appena ebbero percorso i pochi metri fino alla fine del binario, il convoglio apparve e dovette accompagnarla sul vagone.
Polly disse che aveva passato delle belle giornate, lo ringraziò e lo baciò con qualche esitazione; lui scese dal treno e restò a guardarla attraverso il vetro spesso del finestrino, che lei cercò invano di abbassare. Lo guardò con comprensione e, con aria ancora preoccupata, gli mandò un bacio. Si udì il fischio, il capotreno salì in vettura e il convoglio s’avviò lentamente, poi prese velocità tanto in fretta che Christopher perse subito di vista il finestrino di lei.
Aspettò che il treno fosse sparito all’orizzonte, poi tornò lentamente al parcheggio della stazione. Aveva smesso di piovere; era sceso un crepuscolo grigio.
Rifece in macchina il percorso a ritroso, parcheggiò e si trascinò fino al caravan. Oliver lo aspettava e lo accolse col suo solito caloroso entusiasmo. Accese la luce e aprì lo sportello della stufa, poi si sedette sulla poltrona, quella che aveva usato lei. Ogni cosa – i libri, le tazze, la teiera – era passata per le sue mani e ne era uscita trasformata, così come la gioia di quegli ultimi giorni si era trasformata nel più nero sconforto. Se solo non gliel’avesse detto, se solo non si fosse fatto scappare tutto di bocca in quel modo, per l’insensata ragione che erano in anticipo sull’orario del treno, se solo fosse riuscito a stare zitto, adesso avrebbe potuto cullare ancora quella felicità senza pari, avrebbe potuto bearsi in quella straordinaria sensazione che è l’amore quando ancora spera di essere ricambiato. Certo, alla fine sarebbe venuto comunque a sapere che Poll amava un altro, un idiota che non la ricambiava, ma averlo scoperto così presto aveva ridotto la felicità a una durata brevissima, mentre della presente disperazione non si vedeva la fine. Del resto, che aveva lui da offrirle? L’unica promessa che aveva saputo farle era che avrebbe cambiato vita – un altro posto dove stare, un altro lavoro: vaghe, inani promesse senza sostanza. Si ricordò di quando Polly aveva detto: «Ma non hai nessun amico qui?», e aveva capito che in effetti no, non ne aveva, e allora aveva nominato Oliver. La sua non era una vera vita. Era soltanto scappato dalle cose che non era in grado di affrontare, e al loro posto aveva saputo costruire ben poco. Come si poteva amare una persona così? Aveva ventitré anni e nella vita non aveva ancora combinato niente. Pensò alle parole di lei: «Qualsiasi cosa farai devi volerla, sennò non funzionerà mai». Be’, lui voleva Polly, voleva amarla per sempre, non vivere per altri che per lei. «Non puoi decidere di fare una cosa solo per dovere – non ci metteresti un minimo di cuore», aveva detto. Adesso gli sembrava di non averlo nemmeno mai avuto un cuore, prima di rivedere Polly. Quel cuore che adesso gli faceva tanto male.
Si accorse allora di Oliver, che in piedi sulle zampe posteriori e con quelle anteriori sul bracciolo della poltrona gli leccava le lacrime dalla faccia. Quando la vista gli tornò a fuoco, vide la scatola di cartone col servizio da tè rosa a lustrini che voleva regalarle, poggiata allo stipite della porta. Ce l’aveva messa lui, ma poi si era scordato di dargliela. Se le faceva recapitare quel dono adesso, poteva forse sembrare un tentativo di persuasione, una specie di mazzetta? No, non gli importava cosa sarebbe sembrato, si disse infine, lo aveva comprato solo perché a lei piaceva e lui desiderava regalarle qualcosa che le piacesse. Glielo avrebbe dato nonostante tutto. Adesso Oliver era seduto, la testa abbandonata addosso a lui e gli occhioni marroni lucidi di sentimento. La gente ride dei sentimenti, e i cani sono derisi per il loro sentimentalismo, ma era una parte del loro affetto, pensò più tardi mentre s’infilava nel sacco a pelo, quello dove aveva dormito Polly, e poggiava la testa sullo stesso cuscino. Il sentimento da solo non bastava, ma lui sapeva che nel suo caso, così come nel caso di Oliver, c’era anche dell’altro.
Oliver aspettò che spegnesse la candela e poi si sistemò nella solita posizione, la schiena contro la pancia dell’amico, la sua testa contro una spalla, un baluardo contro quella che altrimenti sarebbe stata una disperazione senza confini.
* * *
Per tutta la mattina i facchini in grembiule avevano fatto su e giù tra il loro camion stracolmo di mobili e la casa nuova, e Sid aveva aiutato Rachel a sistemarli. Alle undici finirono di scaricare i pezzi più ingombranti: uno dei due pianoforti, le pendole (due), i grandi armadi di mogano (tre), lo scrittoio a ribalta della Duchessa, la monumentale scrivania del Generale, i letti, il tavolo da pranzo, una quantità di sedie che a Sid pareva incredibile, un divano, la macchina da cucire e il grammofono della Duchessa, le librerie di lauro con gli sportelli di vetro del Generale. Sid avrebbe voluto che Rachel si sedesse a riposare un po’ mentre gli uomini prendevano il tè e facevano uno spuntino nel camion, ma Rachel invece le aveva chiesto di accompagnarla fuori in giardino con l’intenzione di dare una pulita prima che arrivasse la Duchessa, così erano uscite ed erano state assalite subito da un vento freddo e tagliente. Il giardino era così piccolo che, pensò Sid, lo avrebbero facilmente visto tutto da dentro casa. Era uno stretto rettangolo: un riquadro di prato – con l’erba alta, al momento fradicia – bordato da un sentiero di ghiaia invaso di erbacce e guarnito da due sottili aiuole nere con dentro i resti degli aster anneriti dal gelo invernale, qualche felce e un vecchio pero. Il giardino era cinto da bassi muretti in mattonato scuro e in fondo c’era un vecchio capanno pericolante.
«Se riuscissimo almeno a tagliare l’erba prima che arrivino...», disse Rachel preoccupata. «Potresti prestarmi il tuo tagliaerba?».
«Certo. Ma non ti servirebbe a molto. Bisogna falciarla, prima. Adesso rientriamo, cara. Stai gelando, lo vedo. Ci sono le giunchiglie, guarda!».
«La Duchessa ha detto che sono delle King Alfred, le detesta. Oh cara! Spero tanto di aver fatto la cosa giusta. Sembra tutto così piccolo adesso che ci sono i mobili. Però è un bel posto. Ed è vicino a casa tua». Prese Sid sottobraccio, sorridendole in quel modo capace di scioglierle il cuore.
Trascorsero il pomeriggio ad aprire le casse di legno. Le scaricavano a un ritmo talmente serrato che Rachel dovette dire ai facchini di metterle tutte in salotto. Perciò lenzuola e biancheria dovettero essere trasportate di sopra in grosse pile. L’appartamento si componeva di un ampio salotto, una sala da pranzo, uno studio, una piccola cucina e un guardaroba al piano terra, mentre di sopra c’erano due camere da letto grandi e due piccole, oltre alla stanza da bagno. Inutile a dirsi, Rachel aveva assegnato a sua madre e a Dolly le due camere grandi, quella piccola ma affacciata a sud al Generale e aveva tenuto per sé la più piccina (poco più che uno sgabuzzino, pensò Sid con livore). «C’è tutto lo spazio di cui ho bisogno», aveva detto Rachel. «Di vestiti comunque ne ho troppi, e sono vecchi. È ora di donarli alla Croce Rossa».
Avevano aperto le casse di legno e messo a posto ciò che c’era dentro: porcellane e attrezzi da cucina. «Dove metteremo tutta questa roba?», si era lamentata Rachel. «Comincio a temere che la Duchessa starà terribilmente stretta qua dentro». Poi Sid si era accorta che Rachel era “davvero sfinita”, come avrebbe detto lei.
«Cara, adesso basta. Ti porto a casa, ti verso un bel bicchiere di gin, poi farai un bagno caldo e cenerai a letto».
Dopo alcune proteste, Rachel obbedì. Sid tagliò il pasticcio di maiale già pronto che aveva comprato e preparò un’insalata, ma quando portò il vassoio in camera di Rachel la trovò che dormiva supina, in vestaglia. Poggiò il vassoio sul comodino, avvicinò la poltrona al letto per poterla guardare e si sedette ad aspettare con la cena sulle ginocchia.
La prima volta che si era parlato della possibilità che i Cazalet anziani si trasferissero a Londra, la sua prima reazione era stata di sollievo: finalmente, almeno non ci sarebbero stati più tutti quei chilometri fra lei e Rachel. Aveva perfino coltivato la fantasia, come adesso con amarezza la definiva, che Rachel sistemasse i suoi genitori in una casa e poi andasse a stare da lei. La bolla era esplosa subito: Rachel le aveva spiegato con dovizia di dettagli che non poteva assolutamente lasciare la Duchessa da sola, senza il personale domestico a cui era abituata e col Generale che non ci vedeva più. Il passo seguente era stato trovare un appartamento adatto, e quello in Carlton Hill, che occupava una buona metà di un edificio, era sembrato la giusta soluzione. Adesso però Sid cominciava a dubitare che quella sistemazione potesse concedere loro un po’ di tempo insieme, di privacy e di libertà. Non era grande abbastanza perché lei e Rachel potessero restare sole quando andava a trovarla; il che voleva dire che sarebbe andata Rachel da lei quando riusciva a ricavarsi qualche momento libero – non c’erano alternative. E qui veniva il punto dolente. Molto tempo prima – dovevano essere passati due anni – aveva stabilito che se avesse in qualche modo ostacolato i suoi incontri con Rachel, Thelma avrebbe dovuto togliersi di mezzo. Tuttavia, in qualche modo, questo non era mai accaduto: con Rachel si era vista così di rado e con tanta di quella pianificazione che non era mai giunta a dover mettere in atto quella minaccia. E Thelma? Sid era certa che sapeva o subodorava che ci fosse qualcun altro nella sua vita, ma non ne faceva mai parola. Thelma possedeva la flessibilità ingegnosa di un’edera decisa a conquistare un albero o un muro: s’insinuava senza parere, avanzava per gradi, e se Sid storceva la bocca per qualche iniziativa in particolare lei cadeva sempre in piedi ricorrendo a scuse all’apparenza innocue: che era rimasta una notte in più perché aveva in mente di togliere la vernice residua dalle scale, lavoro che, per essere svolto in un giorno solo, richiedeva che si cominciasse presto; oppure che quella sera in particolare sapeva che Sid sarebbe tornata tardi dall’Hampshire, dove insegnava in un collegio femminile, e sarebbe stata troppo stanca per cucinarsi qualcosa. Sid non provava più un così acceso desiderio fisico nei suoi confronti, cosa che per un curioso paradosso rendeva il sesso ancora più facile. Il fatto di non ricavarne più il piacere dell’inizio la faceva sentire un po’ meno in colpa. Un guizzo di contorta moralità, pensava adesso mentre osservava il viso sereno di Rachel. Nel sonno si liberava degli anni, ed era facile vedere quant’era stata bella da ragazza. Thelma doveva andarsene.
Gliene parlò il giorno dopo.
«Ma io non capisco!».
«È semplice. Questa situazione non va più bene per me. Mi dispiace molto ma devo dirtelo. Non posso continuare così».
Gli ardenti occhi marroni la fissarono con ferocia risentita. «Continuo a non capire. Che cos’è cambiato?».
Come rispondere a quella domanda? Erano cambiati i suoi sentimenti. Qualunque fosse il motivo, la cosa migliore per Thelma era andarsene. «Non posso darti quello che vuoi, e sei abbastanza giovane da poterlo cercare in un’altra persona».
Sapeva, prima ancora di terminarla, che quella frase era stata un errore tattico.
«Ma io preferisco di gran lunga avere poco con te che molto con un’altra persona! Questo lo sai». Aveva già gli occhi lucidi, e Sid sapeva per esperienza che era in arrivo una scenata.
«Thelma, lo so che per te è dura, ma devi accettarlo».
«Che non mi ami più?».
«Che non ti amo».
«Però mi amavi. Qualcosa deve essere successo».
Lacrime, singhiozzi, un pianto inarrestabile; riuscì a non toccarla per tutto il tempo, restò in piedi vicino al piano ripetendo a intervalli regolari che era dispiaciuta.
«Non ci credo che ti dispiace! Se ti dispiacesse non mi faresti questo! Non si può essere tanto crudeli verso una persona a cui si è voluto bene!».
Non aveva scelta, ribadì. Quella storia doveva finire.
«Ma non vorrai mica dire che non devo più venire qui? Insomma, anche se non vuoi più... passare le notti con me... non vorrai tagliarmi fuori completamente?».
Un taglio netto era l’unica soluzione, disse Sid.
Ma Thelma possedeva la tenacia indomabile di chi ha già toccato il fondo. Sarebbe venuta una volta alla settimana. Avrebbe pulito casa e fatto la spesa. Non voleva nessun compenso per questo. Si sarebbe trovata un altro impiego per mantenersi. Non avrebbe preteso lezioni di violino. Mai, in nessun caso, si sarebbe presentata senza invito. Si sarebbe accontentata di bere un caffè con lei in cucina dopo aver finito le faccende.
Alla fine cominciò a capire che nulla di tutto ciò sarebbe mai accaduto, e fu quasi con sollievo quando Sid vide i primi segni di rabbia negli occhi della ragazza. Aveva almeno il tempo di raccogliere le sue cose, oppure Sid preferiva che tornasse a prenderle l’indomani? Sid riconobbe il larvato tentativo di differimento appena in tempo per sventarlo. No, doveva riprendersi tutto adesso. Le avrebbe pagato lei un taxi. Mentre Thelma saliva le scale per andare nella stanza degli ospiti, Sid raccolse i suoi spartiti sparsi sul pianoforte e sul leggio e mise tutto nella cartelletta che usava per la musica. Tremante di vergogna, scoprì con orrore che non solo non amava Thelma, ma non aveva nemmeno alcuna stima di lei, e che le loro rispettive personalità le rendevano impossibile condurre quella rottura con un minimo di delicatezza e di umanità. Se Sid le dava un dito, Thelma si prendeva tutto il braccio, se le concedeva una pagliuzza, lei la trasformava in una corda robusta con cui tenerla avvinta: una rottura brutale, secca e totale era l’unico modo per uscirne.
Riuscì a far accettare a Thelma un po’ di soldi e le trovò un’altra borsa (a quanto pareva, le sue cose erano sparse per casa in una quantità che Sid non sospettava) e chiamò il taxi mentre Thelma la riempiva. Adesso era ansiosa di vederla sull’uscio, pronta ad andarsene.
Il taxi arrivò e l’ingombrante carico fu riposto nel bagagliaio. Vi fu un momento finale, terribile, in cui dovette chiedere a Thelma di restituirle le chiavi di casa; stava quasi per dimenticarsene, e capì dalla sua espressione, mentre rovistava nella borsa per trovarle, che aveva sperato che se ne scordasse. Quando Thelma, che non piangeva più ma era bianca di sdegno, fu sistemata nel taxi e finalmente si allontanò, Sid si avviò verso casa barcollante. A malincuore doveva ammettere di aver avuto paura; era questo che provava, ormai, per quella ragazzina un po’ appiccicosa, dall’aria tanto innocua. Sentiva, in preda a qualcosa di molto vicino all’isteria, che se fosse riuscita a tenersi le chiavi, Thelma non avrebbe esitato a tornare per dare fuoco alla casa o mettere in atto qualche altra rappresaglia.
Era successo tutto in un pomeriggio. Dopo si versò qualcosa di forte. Una parte di lei aveva desiderato con ardore che Rachel venisse a Londra, ma un’altra era così insozzata da quanto appena accaduto da sentirsi indegna. Decise di uscire e passare la serata fuori.
Due giorni dopo le fu recapitata una lettera di undici pagine da parte di Thelma, il cui scopo asserito era chiederle delle referenze. Sperava che almeno questo Sid non glielo avrebbe negato. Non era una richiesta eccessiva, insinuava, considerato il modo in cui erano stati trattati il suo amore e la sua lealtà. Il resto della lettera consisteva in variazioni su questi argomenti, con un particolare accento su come lei aveva reagito a quei soprusi. Aveva accettato di essere umiliata e all’occorrenza sfruttata senza il minimo riguardo per i suoi sentimenti; si era rassegnata allo spregio, all’egoismo, all’assenza di considerazione; aveva accettato di essere esclusa dal resto della vita sociale di Sid – per esempio non aveva mai visto nemmeno un membro di quella famiglia presso la quale Sid aveva trascorso diverse vacanze, nel Sussex. Per gran parte del tempo, in effetti, era stata trattata alla stregua di una domestica: il che era umiliante, se si pensava alla natura intima della loro relazione. E proseguiva per pagine e pagine su questa china, lamentando la fine di un rapporto che lei stessa descriveva come intollerabile. Tendeva a rappresentare il suo amore, fiorito nonostante condizioni tanto avverse, come un suo personale atto di eroismo, e adesso faticava a immaginare come avrebbe fatto a procedere nella vita, dato che non sarebbe stata più capace di fidarsi di nessuno.
La lesse un paio di volte. Erano passati due soli giorni, eppure le sembrava incredibile aver permesso che una situazione tanto squilibrata si protraesse così a lungo. Si sentì in colpa, piena di rabbia e di vergogna. Le era sempre piaciuto considerarsi una persona corretta, onesta e risoluta, ma quello che era accaduto provava invece il contrario.
Aveva scritto delle referenze cautamente generose e le aveva messe di persona nella cassetta della posta della casa di Kilburn dove Thelma aveva trovato alloggio. Una cosa del genere, si era detta, non doveva accadere mai più. Non avrebbe mai amato nessuno che non fosse Rachel, perciò non aveva il diritto di andare a letto con nessun altro.
* * *
«Ed ecco la sua stanza, Miss Milliment. Ho pensato che non le sarebbe dispiaciuto stare al piano terra. C’è un piccolo guardaroba con un lavello, così dovrà affrontare le scale solo quando vorrà fare il bagno».
«Che pensiero premuroso». Ultimamente le scale erano diventate una faccenda difficile; soprattutto perché non vedeva bene i gradini.
«Forse è meglio se le metto la valigia sul letto. Sarà meno faticoso disfarla. Il tè sarà pronto tra circa mezz’ora». Viola sollevò la valigia, la posò sul letto e se ne andò.
Miss Milliment era arrivata in treno quel pomeriggio. Era stato strano lasciare Home Place, che era diventato ormai da tempo un dolce ritiro per lei. Certo, era molto, molto grata a Viola per averle offerto un alloggio, e doveva ammettere che Londra, con le sue gallerie d’arte, le era mancata parecchio in quegli anni di guerra. «Sei proprio incontentabile, cara la mia Eleanor», si rimbrottò.
La stanza era piuttosto buia, così raggiunse l’interruttore vicino alla porta e accese la luce. Oltre al letto, c’era un bell’armadio robusto in un angolo, un comò, una sedia a braccioli e due con lo schienale alto. Le pareti erano dipinte di azzurro chiaro. C’era una stufa a gas col tappeto davanti e un comodino con un abat-jour. E poi c’era anche una piccola libreria a giorno – inizialmente non l’aveva vista perché era in fondo alla parete, dopo l’armadio. Almeno avrebbe potuto tirare fuori i suoi libri, cosa che a Home Place non aveva mai potuto fare per mancanza di spazio. Erano rimasti in un angolo del garage, nella stessa scatola in cui li aveva riposti dopo che era morto papà. Aveva così tanto di cui essere riconoscente! Si era resa conto che la nuova casa non era enorme, e che le era stata assegnata una delle stanze più grandi. Doveva intenderla come una specie di camera soggiorno, e si ripromise di usare gli altri ambienti della casa con la massima parsimonia e discrezione. Dovrò stare ben attenta, si disse. Non devo immischiarmi nella vita familiare della cara Viola. Il che voleva dire, lo sapeva bene, nella sua vita con Edward. Sapeva anche che poteva ancora rendersi utile, con Roly ad esempio: gli stava dando le nozioni di base per accedere alla scuola preparatoria, e le era giunta voce che Zoë avrebbe portato volentieri anche Juliet a lezione. Lydia avrebbe finalmente realizzato il suo desiderio di andare in collegio, come sua cugina Judy. E una volta che i Cazalet anziani si fossero insediati nella nuova casa, che a detta di Viola era raggiungibile a piedi dalla loro, avrebbe potuto continuare ad assistere il Generale nella stesura del suo libro. Non credeva che il lavoro sarebbe mai giunto a termine, perché cambiava continuamente idea su quello che doveva essere l’argomento principale: adesso per esempio erano nel bel mezzo di una digressione sulla geografia costiera delle foreste, anche se originariamente il libro doveva parlare degli alberi della Gran Bretagna, indigeni e importati. Tuttavia quel lavoro gli dava qualcosa a cui pensare e di cui parlare, e lei trovava l’argomento, di cui era digiuna, molto interessante.
Immersa com’era in questi pensieri, non si era accorta che stava ficcando l’intero contenuto di una valigia in un solo cassetto, e questo si era riempito a tal punto che era impossibile chiuderlo. Oh, che guaio! Adesso le calze si erano aggrovigliate tutte alle sottane e al maglione, quello che doveva lavare. «Eleanor, Eleanor, possibile che tu non riesca a fare nemmeno il lavoro più facile?». Decise tuttavia di lasciare il cassetto nelle condizioni in cui era, per il momento, e di disfare la seconda valigia. Nella quale trovò la roba più disparata. C’erano i vestiti estivi, tra cui il completo migliore che usava per la sera, quello blu e marrone che però, notò con preoccupazione, aveva dei buchi sotto le ascelle che nonostante i suoi goffi tentativi di rammendo avevano continuato ad allargarsi, al punto che forse era inutile cercare di porvi rimedio. I cardigan, tutti e tre, avevano bisogno di cure urgenti: non aveva senso riporli nel cassetto. Il cardigan a cui era capitato quello spiacevole incidente con la melassa adesso era molto più appiccicoso di quanto ci si potesse ragionevolmente aspettare vista l’entità del misfatto, mentre quello azzurro a puntini che le aveva fatto la cara Polly si era impigliato per una manica a qualche protuberanza, e si era formato un grosso buco che probabilmente non si poteva rammendare. Sospirò. Certe volte trovava esasperante la propria imperizia. Certo, adesso la sua vista non le consentiva più di infilare il filo nell’ago, ma doveva ammettere che anche quando ci vedeva non era mai stata brava a cucire. Né aveva idea di come si mettesse insieme un pasto. Immaginava che si dovessero lavare e tagliuzzare le cose, e poi cuocerle nell’acqua bollente o nel forno. La sua esperienza di cucina si limitava a spalmare il grasso sul pane per suo padre e naturalmente a preparargli il tè. Dopo che era morto, aveva sempre mangiato nelle sale da tè oppure nella cucina delle case dove aveva alloggiato; questo fino al giorno in cui Viola l’aveva invitata a Home Place, e da allora aveva mangiato ogni giorno gli ottimi piatti preparati da Mrs Cripps. Nemmeno Viola era abituata a cucinare: aveva sempre avuto una cuoca e domestici vari. Quel trasloco sarebbe stato foriero di grandi cambiamenti anche per lei. Miss Milliment si ripromise di fornirle tutto l’aiuto possibile e anche (sebbene le due cose le sembrassero in evidente contraddizione) di stare tra i piedi il meno possibile.
Quando Viola la chiamò per il tè, fu un sollievo uscire da quella stanza. Era in un tale stato di disordine che dubitava sarebbe mai riuscita a rassettarla.
Quella sera fu invitata a cenare con Viola e Edward. «È la nostra prima sera in questa casa. Deve unirsi a noi, Miss Milliment», aveva detto la padrona di casa. Roly e Lydia non c’erano, perché Viola aveva ordinato loro di mettere in ordine le rispettive camere prima di scendere a cena, perciò al tavolo erano solo loro tre. Edward tornò tardi dall’ufficio. Sentì Viola che lo salutava nell’ingresso: «Caro! Ancora non hai le chiavi di casa tua! Hai l’aria esausta. Hai avuto una brutta giornata?».
«Abbastanza».
La porta della sua stanza era socchiusa, ecco perché aveva potuto sentire quello scambio di battute. Doveva ricordarsi di tenerla chiusa, ma i muri dovevano essere molto sottili, perché anche in quel modo riusciva a sentire tutto quello che veniva detto in cucina.
E così fu invitata a unirsi ai padroni di casa in salotto, per un brindisi con lo champagne portato da Edward.
«Alla casa nuova!», esclamò Viola, e tutti bevvero.
Tuttavia fu una serata strana. Parlò sempre Viola. Anche se sembrava sfinita (avendo cucinato, disse, non aveva avuto il tempo di cambiarsi), non smise di parlare un momento per tutta la durata della cena. E anche prima si era data molto da fare. Aveva acceso il fuoco – cosa di cui le era grata, perché era una sera di primavera piuttosto fredda – e prima aveva apparecchiato la piccola tavola per la cena. «Durante la settimana probabilmente ceneremo in cucina», disse. «Ma ho pensato che stasera dovessimo battezzare la sala da pranzo».
«Ottima idea», convenne Edward.
Nonostante la sua incondizionata adesione a ogni scelta e a ogni proposta fatta da Viola, c’era in lui, e nell’atmosfera di quella serata, rifletté più tardi, qualcosa di deprimente. Del resto ormai era così abituata a consumare i pasti a un grande tavolo con intorno almeno una dozzina di persone – come succedeva quando cenava con la famiglia – col rumore di tante conversazioni che avvenivano simultaneamente, che adesso le sembrava strano farlo in un’atmosfera così attenuata e soffusa. Decise di dire a Viola che in futuro avrebbe consumato i pasti in camera sua, in modo da lasciarle un po’ d’intimità con suo marito.
Finita la cena – dello stufato più che accettabile con riso e torta di mele per dessert – Viola sparecchiò la tavola e sistemò tutto su un carrello che poi portò in cucina. Rimasta sola con Edward, pensò che fosse il momento opportuno per ringraziarlo della generosità usata nei suoi confronti.
«Di nulla, Miss Milliment. Villy le è tanto affezionata. Sono felice che abbia lei come compagnia». Poi le domandò cosa ne pensasse dello scioglimento della Lega delle Nazioni, aggiungendo che a suo personale avviso non era mai stata particolarmente utile. Proprio quando stava per replicare che secondo lei un’organizzazione internazionale di qualche genere era auspicabile, Viola si affacciò dalla porta per chiedere se volessero un caffè.
Le parve il momento giusto per ritirarsi, e così fece.
La sua stanza era in un tale stato di confusione che ci mise del tempo a scovare una camicia da notte, ed era troppo stanca per mettere in ordine. Faceva freddo, perché non aveva acceso la stufa, e la lampadina dell’abat-jour era rotta. Restò sveglia a lungo, senza la sua borsa dell’acqua calda, domandandosi come mai, nonostante la doverosa riconoscenza che provava, si sentisse anche vagamente a disagio.
* * *
Era rimasta in piedi accanto al cancello a guardarli partire. Frank aveva messo fuori le valigie in anticipo, e adesso erano tutte ben chiuse nel baule dell’auto. Poi aveva aiutato Mrs Cazalet Senior a sistemare sua sorella sul sedile posteriore. La povera Miss Barlow appariva molto confusa: si fermava continuamente, voleva raccogliere le giunchiglie che crescevano sotto l’araucaria, ma Madam era tanto buona e paziente con lei e alla fine erano riusciti a farla salire in macchina con Madam accanto, e Frank aveva adagiato loro la vecchia coperta sopra le ginocchia.
«Arrivederci, Mrs Tonbridge», l’aveva salutata Mrs Cazalet. «So che posso lasciare tranquillamente a lei il compito di chiudere la casa». Poteva starne certa! Poi Frank tornò dentro a prendere Mr Cazalet e lo accompagnò al sedile del passeggero. Lui, poveretto, non poteva vederla perciò non ci si poteva aspettare che le dicesse alcunché. Dopo averlo ben sistemato sul sedile, Frank le fece un piccolo cenno di saluto e le strizzò l’occhio. Portava la sua uniforme grigia, la migliore, con le ghette nere e una coccardina sul berretto. Avrebbe trascorso la notte a Londra e poi sarebbe tornato per una settimana di ferie, durante la quale avrebbero trasformato l’appartamento sopra il garage nella loro casa. Il vento soffiava forte. Fu un sollievo quando finalmente partirono. Restò a salutarli finché la macchina scomparve dalla sua vista, poi tornò in casa e chiuse a chiave la porta. Quell’ingresso non lo avrebbe usato più. Domani sarebbe venuta Edie dal paese per disfare i letti, pulire i camini e dare inizio alle pulizie di primavera.
Si soffermò alcuni istanti nell’atrio: era strana, la casa, senza nessuno dentro. L’aveva sempre vista piena dei vari membri della famiglia. Vi avevano passato tutta la durata della guerra: la povera Mrs Sybil aveva avuto Williams nella sua stanza al piano di sopra; la compianta sorella di Miss Barlow era morta in soggiorno; Mr Rupert era tornato sulle sue gambe dopo tanti anni... E poi certo, Mrs Zoë aveva avuto Juliet, che bambina deliziosa! Lei era con la famiglia solo dal 1937, e non aveva nessuna intenzione di spostarsi. Aveva temuto che la signora la volesse a Londra con sé, il che era da escludere perché le case di Londra erano tutte scale e lei, con le gambe ridotte in quel modo, non poteva affrontarle. Ma invece aveva voluto che restasse a Home Place, in modo da poter cucinare per loro nei fine settimana.
C’era ancora da sparecchiare la tavola. Per quel pranzo di commiato aveva preparato un ottimo pasticcio di coniglio, con la carne immersa in una bella salsa bianca con tanta cipolla e pasta brisée per l’occasione. Aveva preparato anche il suo pane migliore e un dolce al burro a seguire. Edie aveva servito a tavola. Fino a non tanto tempo prima non avrebbe mai permesso a quella ragazzina di mettere il naso fuori dalla cucina, ma le cose ormai erano cambiate, e per quanto la riguardava non poteva dire che fossero cambiate in meglio. Bastava guardare quel tavolo per accorgersene. A Eileen sarebbe venuto un colpo! Niente coltelli da burro, un solo bicchiere a commensale, i segnaposto buttati lì alla meno peggio. Eileen se ne era andata l’anno prima: sua madre stava male e aveva bisogno di lei a casa. Era stata addestrata a dovere; non c’erano molte ragazze al giorno d’oggi che si prendessero il disturbo di imparare un mestiere come si deve. Dottie e Bertha erano andate a Londra, e non per servire il paese ma per lavorare in un negozio. Perciò non restavano che Edie e Lizzie, che venivano a dare una mano durante le vacanze, quando tornava la famiglia. Aveva chiesto con un po’ di riluttanza a Miss Rachel se a Londra avrebbero avuto domestici (temeva di sentirsi dire che c’era bisogno di lei), ma quando lei aveva risposto che della cucina se ne sarebbe occupata lei, pensò si trattasse di uno scherzo. Miss Rachel non sapeva nemmeno come si fa un uovo sodo. Sfido io: era una signora. A ogni modo Frank, al suo ritorno, le avrebbe raccontato cosa combinavano laggiù.
Nel frattempo aveva iniziato a sistemare i piatti su un carrello. Era assurdo lasciarli lì fino all’arrivo di Edie – i resti di cibo si sarebbero seccati e sarebbe stato più difficile lavarli. Quand’ebbe finito di impilarli, li portò nel retrocucina.
Dopo averli messi a bagno nell’acquaio decise di prepararsi una tazza di tè e di berlo coi piedi alzati nella stanzetta dei domestici, il piccolo ambiente dotato di stufa a carbone dove lei e Frank prendevano il loro tè di metà mattina e qualche volta cenavano.
La casa era già fredda; il salottino era l’unica stanza tiepida. Sistemò sul tavolino la teiera e si sfilò le scarpe che Frank le aveva lustrato con cura tale che ti ci potevi specchiare. Non era esattamente un tuttofare, ma a lucidare le cose era bravo. Quand’era in quella stanza si metteva le pantofole, ormai deliziosamente sformate, e adesso che erano sposati le portava anche in presenza di Frank.
Il matrimonio, rifletté, si era rivelato pressappoco come se lo era immaginato. Rendeva più semplici alcune cose, più difficili altre. Da una parte non doveva più preoccuparsi delle intenzioni di Frank, o di cosa ne sarebbe stato di lei quando fosse stata troppo vecchia per lavorare; dall’altra c’era il fastidio di dover continuare a fingersi interessata agli eventi del mondo e alle opinioni di Frank al riguardo. Aveva creduto che quella seccatura si sarebbe risolta con la fine della guerra, ma così non era stato, nient’affatto. Frank parlava e parlava della Lega delle Nazioni, delle nazionalizzazioni, di un tale di nome Cripps (le chiedeva scherzando se per caso era un suo parente) che stava per partire per andare a incontrare i capi di Stato indiani (perché uno dovesse fare una cosa del genere proprio non lo sapeva) e dell’incredibile novità delle donne ammesse nel corpo diplomatico, qualunque cosa fosse il corpo diplomatico. E poi c’era l’imbarazzante momento serale, quando andavano a letto. Lei non era abituata a levarsi i vestiti in presenza di altre persone, figuriamoci in presenza di un uomo, e le era parso che anche per Frank fosse difficile. Avevano sviluppato un loro metodo che consisteva nel sedersi schiena contro schiena mentre si spogliavano, e lei lo incoraggiava a parlare senza remore di tutta la politica che voleva. La sera precedente, per esempio, si era dilungato su Hitler e Göring, sull’idea che non sapessero nulla della Soluzione Finale. Sapeva bene chi erano quei due – del resto avevano influito sulla vita di tutti per diversi anni – e Frank le aveva raccontato degli omicidi e delle crudeltà che avevano inflitto agli ebrei. Li chiamavano con un sacco di altri nomi, ma di omicidi si trattava, questo le era chiaro. Una volta che lui si era messo il pigiama e lei la camicia da notte, spegnevano la luce, si infilavano sotto le lenzuola e tutto andava bene. Si facevano un po’ di coccole che di tanto in tanto – ma non tanto spesso quanto lei avrebbe voluto – si trasformavano in qualcosa di più. Ma anche lì le cose non erano mai semplici, tutto il contrario. Lui era così nervoso, i suoi movimenti così scattosi e maldestri... sembrava un bambino che cercava di rubare la marmellata, aveva pensato una volta, ma si era anche accorta che qualunque suo tentativo di avere una parte attiva nella faccenda aveva su Frank un effetto paralizzante. Doveva starsene distesa e immobile, non proprio come se nulla stesse accadendo ma come se ciò che avveniva non avesse nulla a che fare con lei, fino a che lui, incoraggiato dalla sua apparente indifferenza, riusciva a fare quel che c’era da fare.
Quando andava bene, le veniva naturale un atteggiamento materno con lui, ma capì in fretta che anche quello non gli piaceva. Voleva sentirsi padrone assoluto della situazione, come gli uomini che si vedevano nei film, e lei non ci vedeva niente di male nell’accontentarlo. Gli voleva bene al punto che, quando proprio non ne poteva più di quella che per Frank era una buona conversazione, riusciva a imputarlo al fatto che era un uomo. Per lei una buona conversazione era parlare delle persone, di quello che facevano e del perché lo facevano, e se per loro era un bene o un male farlo. Una volta si faceva delle gran belle chiacchierate di questo genere con Eileen, che le mancava molto.
Si versò il tè, sistemò il piede sull’altra sedia, quella di Frank, e sentì il dolore attenuarsi pian piano, come succedeva sempre se gliene dava la possibilità.
Quando si svegliò era buio e il fuoco si era quasi spento. Non aveva bevuto la sua seconda tazza, uno spreco imperdonabile. Si alzò in piedi e versò quel che restava del tè nel vaso dell’aspidistra che le aveva regalato Frank. In casa c’era silenzio. Non si sentiva scorrere l’acqua nei tubi né le voci dei bambini né il pianoforte della signora o la radio del padrone. Niente. Tirò le tende e riaccese il fuoco. Gli avanzi del pasticcio di coniglio li avrebbe tenuti per l’indomani sera, quando ci sarebbe stato anche Frank, e per sé preparò un uovo in camicia con una fetta di pane tostato. Avrebbe voluto fare il bagno, ma non si sognava nemmeno di farlo senza nessuno in casa. Se fossi in pensione, sola, pensò, se non mi fossi sposata, sarebbe così ogni sera.
Il terrore che provava al pensiero di una situazione del genere fu disperso dal caldo sollievo di sapere che domani sarebbe tornato Frank, con le sue gambette storte e le braccia gracili e gli occhi nervosi, che le sbirciava il petto e le diceva quanto era intelligente, per essere una donna.