Quasi tutti gli album della famiglia Romand sono andati distrutti durante l’incendio. Le poche fotografie che si sono salvate assomigliano alle nostre. Come me, come Luc, come tutti i giovani padri, quando è nata sua figlia Jean-Claude ha comprato una macchina fotografica, e si è messo entusiasticamente a scattare ritratti di tutta la famiglia: Caroline e poi Antoine da piccoli, attaccati al biberon, i loro giochi nel box, i loro primi passi, il sorriso di Florence china sui bambini, e lei, a sua volta, ritraeva lui, tutto fiero di portarli in braccio, di lanciarli in aria, di fargli il bagnetto. Di sicuro, l’espressione da imbranato e la faccia rapita di Jean-Claude in quelle foto commuovevano sua moglie, convincendola di aver fatto, in fin dei conti, la scelta giusta, quella di amare un uomo che li amava così tanto, lei e i loro figli.

I loro figli.

Lui chiamava Florence Flo, Caroline Caro e Antoine Titou. Usava molto i possessivi, diceva la mia Flo, la mia Caro, il mio Titou. Spesso poi Titou diventava signor Titou, con quel tono teneramente scherzoso che ispira a noi adulti la serietà dei più piccini. Allora, dormito bene, signor Titou?

«Il lato sociale era falso, ma il lato affettivo era autentico» dice Romand. Dice di essere stato un finto medico, ma un vero marito e un vero padre, di aver amato con tutto il cuore moglie e figli, i quali lo ricambiavano. Chi li ha conosciuti assicura, anche dopo i fatti, che Antoine e Caroline erano felici, sicuri di sé, equilibrati, lei un po’ timida, lui un allegrone: nelle foto di classe contenute nel fascicolo delle indagini ha la bocca spalancata in un sorriso sdentato. Si dice che i bambini sanno tutto, sempre, che non gli si può nascondere nulla; ne sono convinto anch’io. Guardo le foto ancora una volta. Non sono tanto sicuro.

Erano orgogliosi perché il loro papà faceva il dottore. «Il dottore cura i malati» ha scritto Caroline in un tema. Lui non li curava nel senso più comune del termine, non curava nemmeno la sua famiglia di origine – erano tutti seguiti da Luc, lui compreso – e si vantava di non aver mai firmato una ricetta in vita sua. Ma Florence aveva spiegato ai bambini che lui inventava le medicine che permettevano di curarli, e questo faceva di lui un superdottore. Gli adulti non ne sapevano di più. Se qualcuno avesse chiesto cosa faceva Jean-Claude Romand, chi lo conosceva poco avrebbe risposto che occupava una carica importante all’OMS e viaggiava molto; chi lo conosceva bene avrebbe precisato che le sue ricerche vertevano sull’arteriosclerosi, che insegnava all’Università di Digione e che era in contatto con illustri personalità politiche, come Laurent Fabius; lui però non ne parlava mai, e se qualcuno accennava in sua presenza a quelle conoscenze altolocate sembrava piuttosto imbarazzato. Era un uomo «a compartimenti stagni», così lo definiva Florence, che separava rigidamente la sfera privata da quella professionale, non invitava mai a cena i colleghi dell’OMS e non tollerava che lo disturbassero a casa per questioni di lavoro, né che parenti o amici lo importunassero in ufficio. Il numero del suo ufficio, del resto, non l’aveva dato a nessuno, nemmeno a sua moglie, che per mettersi in contatto con lui usava il servizio Operator. Bastava lasciare un messaggio in una casella vocale: il cercapersone che portava sempre con sé lo avvertiva emettendo un segnale acustico, e nel giro di pochi minuti lui richiamava. Né lei né nessun altro trovava la cosa strana, perché Jean-Claude era un po’ orso; spesso Florence ci scherzava su: «Un giorno o l’altro verrò a sapere che mio marito è una spia dei Paesi dell’Est».

La famiglia, genitori e suoceri compresi, era il centro della sua vita, attorno al quale gravitava un piccolo gruppo di amici, i Ladmiral, i Cottin e qualche altra coppia con cui Florence aveva simpatizzato. Persone sui trent’anni come loro, con professioni e redditi simili e figli della stessa età. Si invitavano a vicenda senza tante formalità, andavano insieme al ristorante o al cinema, in genere a Ginevra, qualche volta a Lione o a Losanna. I Ladmiral ricordano di aver visto con i Romand Le Grand Bleu, Le père Noël est une ordure (che poi hanno comprato in cassetta e di cui conoscevano a memoria le battute), alcuni balletti di Béjart, grazie ai biglietti che Jean-Claude aveva avuto tramite l’OMS, lo spettacolo di Valérie Lemercier, ma anche Nella solitudine dei campi di cotone, un’opera teatrale di Bernard-Marie Koltès che nella propria deposizione Luc avrebbe descritto come «un interminabile dialogo sulle durezze della vita tra due persone che raccolgono cotone, giudicato del tutto incomprensibile da parecchi dei nostri amici». A Jean-Claude invece il soggetto era piaciuto e nessuno se n’era stupito, visto che passava per un intellettuale. Leggeva molto, preferibilmente saggi di divulgazione filosofica scritti da grandi personalità scientifiche, come Il caso e la necessità di Jacques Monod. Si definiva razionalista e agnostico, pur rispettando la fede di sua moglie e apprezzando anche il fatto che i figli frequentassero una scuola religiosa: più tardi sarebbero stati liberi di scegliere. Ammirava personaggi diversi fra loro come l’Abbé Pierre e Bernard Kouchner, madre Teresa e Brigitte Bardot. Apparteneva alla nutrita schiera di francesi convinti che se Gesù decidesse di tornare fra noi farebbe il medico in un’organizzazione umanitaria. Era amico di Kouchner e la Bardot gli aveva dedicato un busto in cui raffigurava Marianna. Sosteneva la sua lotta per la difesa degli animali, era membro della sua fondazione, della Società Protezione Animali, di Greenpeace e di Handicap international, ma anche del club Prospettive e realtà di Bellegarde, del golf di Divonne-les-Bains e dell’Automobile Club dei medici, grazie al quale aveva ottenuto il caduceo da attaccare sul parabrezza della macchina. Gli inquirenti hanno trovato traccia di numerosi versamenti a queste istituzioni, di cui lasciava in giro per la casa bollettini, spillette e adesivi. Aveva anche un timbro e dei biglietti da visita intestati al dottor Jean-Claude Romand, ex medico ospedaliero nei nosocomi di Parigi, ma non figurava in alcun albo professionale. Sono bastate poche telefonate, il giorno dopo l’incendio, per far crollare l’intero castello di carte. Durante tutta l’istruttoria il giudice non riusciva a capacitarsi che quelle telefonate non fossero state fatte prima, non con malizia o sospetto, ma solo perché è assurdo che uno, per quanto sia un tipo «a compartimenti stagni», lavori dieci anni senza che sua moglie o i suoi amici lo chiamino mai in ufficio, roba da non credere. Impossibile pensare a questa storia senza immaginare che sotto ci sia un mistero, una spiegazione nascosta. Il mistero, però, è che non esistono spiegazioni, e che per quanto inverosimile possa sembrare, questo è ciò che è accaduto.

Al mattino era lui a portare i bambini alla Saint-Vincent. Li accompagnava fino al cortile, dove scambiava qualche parola con gli insegnanti o con le madri degli altri scolari, che lo ammiravano e lo citavano ai mariti come esempio per il suo attaccamento ai figli. Poi prendeva la strada per Ginevra. Basta fare due chilometri per raggiungere la frontiera: migliaia di persone che risiedono nella regione di Gex e vanno a lavorare in Svizzera l’attraversano ogni giorno, mattina e sera. Come i pendolari sui treni di periferia, hanno orari fissi, si salutano e salutano i doganieri i quali, con un cenno, li lasciano passare senza fare controlli. Molti sono funzionari internazionali: una volta entrati in città, anziché girare a destra verso il centro e la stazione Cornavin, svoltano a sinistra in direzione del giardino botanico e del quartiere residenziale dove hanno sede gli organismi per cui lavorano. Mescolandosi agli altri, Romand percorreva lentamente i grandi viali verdi e tranquilli, e di solito finiva per lasciare l’auto nel parcheggio dell’OMS. Entrava con il tesserino dei visitatori, con la cartella in mano, e si spostava con sicurezza dalla biblioteca del pianterreno alle sale conferenze, fino all’ufficio pubblicazioni, dove arraffava sistematicamente qualsiasi cosa purché stampata e gratuita. Aveva la casa e la macchina piene di scartoffie con intestazioni o timbri dell’OMS, di cui sfruttava tutti i servizi: la posta per spedire le lettere, la banca per effettuare la maggior parte dei prelievi, l’agenzia di viaggi per organizzare le vacanze familiari. Ma non si avventurava mai fino ai piani superiori, dove le guardie avrebbero potuto chiedergli che cosa stesse cercando. Chissà se almeno una volta, approfittando di un’ora morta, è andato a visitare il suo ufficio, quello con la finestra barrata da una croce nella fotografia che aveva regalato ai suoi genitori. Chissà se ha guardato, con la fronte appoggiata al vetro, cosa si vedeva da quella finestra, se si è seduto al suo posto, se ha incrociato la persona che tornava a occuparlo, se l’ha chiamata al telefono. Lui dice di no, che non gli è neanche mai venuto in mente. Sua suocera ricorda che una domenica, in occasione di una gita in Svizzera, i bambini hanno chiesto di vedere l’ufficio di papà. Papà ha acconsentito a mostrarglielo: si sono fermati nel parcheggio e lui ha indicato col dito una finestra. Fine della storia.

I primi tempi andava all’OMS ogni giorno, poi solo ogni tanto. Anziché la strada per Ginevra, prendeva quella di Gex e Divonne, o quella di Bellegarde, che porta all’autostrada per Lione. In una qualsiasi edicola comprava un fascio di giornali: quotidiani, periodici, riviste scientifiche. Poi andava a leggerli in un bar – che si premurava di cambiare spesso e di scegliere abbastanza lontano da casa –, oppure in macchina. Si fermava in un parcheggio o in un’area di servizio e restava lì per ore a leggere, prendere appunti, sonnecchiare. A pranzo mangiava un panino e il pomeriggio riprendeva a leggere in un altro bar o in un’altra area di servizio. Quando questo programma gli veniva a noia passeggiava per le città, a Bourg-en-Bresse, a Bellegarde, a Gex, a Nantua e soprattutto a Lione dove, in place Bellecour, si trovavano la Fnac e Flammarion, le sue librerie preferite. Certe volte sentiva la mancanza della natura, dei grandi spazi, e allora saliva sul Giura. Seguiva la strada tortuosa che porta al Col de la Faucille, dove si trova un alberghetto, Le Grand Tétras. A Florence e ai bambini piaceva andar lì la domenica a sciare e mangiare patatine fritte. Durante la settimana non c’era nessuno. Lui beveva un bicchiere, camminava nei boschi. Dal sentiero in cresta si scorgono la regione di Gex, il lago Lemano e, quando il cielo è limpido, le Alpi. Dinanzi a lui si stendeva la pianura civilizzata dove vivevano il dottor Romand e i suoi simili, alle sue spalle il paese delle combe e dei boschi selvaggi dove aveva trascorso la sua infanzia solitaria. Il giovedì, giorno in cui faceva lezione a Digione, passava a trovare i genitori, che erano tutti contenti di mostrare ai vicini quel figlio così importante, così occupato, ma sempre pronto a fare qualche chilometro in più per abbracciarli. A suo padre si era abbassata la vista, tanto che verso la fine era quasi cieco e non poteva più andare da solo nel bosco. Jean-Claude lo accompagnava tenendolo sottobraccio e lo ascoltava parlare degli alberi e della sua prigionia in Germania. Al ritorno, scorreva con lui le agende nelle quali da quarant’anni Aimé, che era stato corrispondente di una stazione meteorologica, annotava quotidianamente, con la costanza di chi tiene un diario, la temperatura minima e massima.

Infine c’erano i viaggi: congressi, seminari e convegni in tutto il mondo. Lui comprava una guida del paese, Florence gli preparava la valigia. Prendeva la macchina, che avrebbe lasciato come sempre al parcheggio di Ginevra-Cointrin. In una moderna camera d’albergo, spesso nella zona dell’aeroporto, si toglieva le scarpe, si stendeva sul letto e rimaneva per tre o quattro giorni a guardare la televisione e gli aerei che decollavano e atterravano davanti alla finestra. Si studiava la guida turistica, per non commettere errori nei racconti che avrebbe fatto al ritorno. Telefonava a casa ogni giorno per dire che ora era e che tempo faceva a San Paolo o a Tokyo. Chiedeva se tutto andava bene durante la sua assenza. Ripeteva alla moglie, ai figli e ai genitori che sentiva la loro mancanza, che li pensava sempre, che li abbracciava. Non chiamava nessun altro: chi avrebbe dovuto chiamare? Tornava dopo qualche giorno, carico di regali comprati in un negozio dell’aeroporto. A casa lo accoglievano a braccia aperte. Lui era stanco per via del fuso orario.

Divonne è una piccola stazione termale vicina al confine svizzero, nota soprattutto per il suo casinò. Tanto tempo fa l’avevo usata come sfondo per un episodio di un romanzo: la protagonista era una donna che conduceva una doppia vita e si stordiva con il gioco d’azzardo. Il romanzo in questione aveva la pretesa di essere realistico e documentato, ma siccome non avevo visitato tutti i casinò di cui parlavo, ho scritto che Divonne si trova sul lago Lemano; in realtà è a una decina di chilometri di distanza, ma anche lì c’è un piccolo specchio d’acqua, che chiamano lago, sul quale si affaccia il parcheggio dove spesso sostava Romand. Ci ho sostato anch’io. È il ricordo più nitido che conservo del mio primo viaggio sui luoghi della sua vita. C’erano soltanto altre due macchine, vuote. Tirava vento. Ho riletto la lettera che lui mi aveva spedito per guidarmi, ho osservato lo specchio d’acqua, ho seguito nel cielo grigio il volo di uccelli di cui ignoro il nome (purtroppo non so riconoscere né gli uccelli né gli alberi). Faceva freddo, così ho rimesso in moto per accendere il riscaldamento. Il soffio d’aria m’intorpidiva. Pensavo al monolocale in cui vado ogni mattina, dopo aver portato i bambini a scuola. Quella stanza esiste, chiunque può telefonarmi e venirmi a trovare. Quando sono lì, scrivo e sistemo sceneggiature che poi in genere diventano dei film. Ma so che cosa significa passare le proprie giornate senza testimoni, sdraiati a guardare il soffitto per ore, con la paura di non esistere più. Mi sono chiesto che cosa provasse Romand seduto in macchina. Un senso di appagamento? Un’euforia beffarda all’idea di riuscire a ingannare tutti quanti in modo così magistrale? Ero sicuro di no. Angoscia? Immaginava forse come si sarebbe conclusa quella storia, in quale modo sarebbe esplosa la verità e che cosa sarebbe accaduto in seguito? Piangeva, con la fronte appoggiata al volante? Oppure non provava assolutamente nulla? Forse invece, quando restava da solo, si trasformava in un automa capace di guidare, camminare e leggere, ma non di pensare né di provare sentimenti, un dottor Romand residuale e anestetizzato. Di norma una bugia serve a nascondere una verità, magari qualcosa di vergognoso, ma reale. La sua non nascondeva nulla. Sotto il falso dottor Romand non c’era un vero Jean-Claude Romand.

Mi è venuto in mente un film che all’epoca aveva ottenuto un grande successo. È la storia – una tipica leggenda per tempi di crisi – di un dirigente che viene licenziato e non ha il coraggio di confessarlo a moglie e figli. Convinto di trovare rapidamente un nuovo lavoro, si ritrova ben presto senza neanche più il sussidio di disoccupazione. Ogni mattina esce fingendo di andare in ufficio e ogni sera torna a casa alla solita ora. Passa il tempo a girovagare evitando il quartiere dove abita. Non parla con nessuno, qualunque faccia lo spaventa perché potrebbe essere quella di un ex collega, di un amico che si chiederebbe che diavolo ci fa lì, seduto su una panchina a metà pomeriggio... Un giorno però incontra delle persone nella sua stessa situazione, vagabondi o ex detenuti rumorosi e scafati. Con loro scopre un mondo più duro, ma più caloroso e vitale di quello ovattato in cui vegetava prima di essere licenziato. Da quell’esperienza esce più maturo e umano: è un film a lieto fine.

Romand mi ha detto di averlo visto alla televisione insieme a Florence. A lei era piaciuto, non l’aveva minimamente turbata. Lui sapeva che la sua storia non poteva avere un lieto fine. Non ha mai confidato o provato a confidare il suo segreto, né a sua moglie, né al suo migliore amico, né a uno sconosciuto su una panchina, né a una prostituta, né a nessuna delle anime pie che ascoltano e comprendono per mestiere: preti, psicoterapeuti, orecchie anonime del telefono amico. In quindici anni di doppia vita non ha mai parlato con nessuno, non è mai entrato in contatto con quei mondi paralleli – giocatori, drogati, nottambuli – in cui forse si sarebbe sentito meno solo. Né ha mai cercato di ingannare estranei. Quando entrava in scena nella sfera privata, tutti pensavano che avesse appena lasciato un’altra scena, dove svolgeva un altro ruolo – quello dell’uomo importante che gira il mondo, frequenta i ministri, viene invitato a cene ufficiali in sontuose dimore –, ruolo che uscendo sarebbe tornato a interpretare. Invece non esisteva un’altra scena, un altro pubblico davanti al quale recitare quell’altro ruolo. Fuori, era completamente nudo. Tornava all’assenza, al vuoto, al nulla che per lui non costituiva un incidente di percorso ma l’unica esperienza della sua vita. La sola che abbia mai conosciuto, credo, anche prima di ritrovarsi al bivio.