L’ultima settimana si sentiva stanco, pesante. Si addormentava sul divano o in auto a qualsiasi ora. Gli ronzavano le orecchie come se fosse stato in fondo al mare. Gli faceva male il cervello: avrebbe voluto poterlo estrarre dal cranio e dargli una lavata. Al rientro da Strasburgo, dove avevano festeggiato Capodanno a casa di amici medici, Florence ha fatto un bucato, e Jean-Claude è rimasto in bagno, vicino alla lavatrice, a guardare dietro l’oblò la biancheria che si torceva mollemente nell’acqua caldissima. C’erano le sue camicie e i suoi indumenti intimi, impregnati del suo sgradevole sudore, c’erano quelli di Florence e dei bambini, le magliette, i pigiami con gli animaletti dei cartoni animati e i calzini di Antoine e Caroline, così difficili da distinguere quando bisognava riporli. I vestiti di tutti e quattro mescolati, e i loro fiati mescolati, tranquilli, al riparo di un tetto sicuro che li proteggeva dalla notte invernale... Avrebbe dovuto essere così bello tornare tutti insieme il primo dell’anno, una famiglia unita nella Renault Espace che ronzava sulla strada innevata; arrivare tardi, portare in camera i bambini addormentati, aiutarli a svestirsi e oplà!, a letto!; cercare nelle borse il coniglietto di peluche senza il quale Antoine non si addormentava e provare un enorme sollievo scoprendo di non averlo dimenticato a Strasburgo come avevano temuto; sentire Florence che ci scherzava sopra mentre si struccava: l’hai scampata bella, altrimenti ti toccava andare di corsa a riprenderlo; restare alzato per ultimo, in bagno, tra la camera dove dormivano i bambini e quella in cui Florence lo aspettava sotto il piumone. Con la testa girata per non avere la luce negli occhi, lei gli avrebbe tenuto la mano mentre lui leggeva. Sì, avrebbe dovuto essere calda e piacevole quella vita familiare. Loro credevano che fosse calda e piacevole. Ma lui sapeva che era marcia dentro e che niente, né un attimo, né un gesto, neppure il loro sonno, poteva sfuggire a quel marciume. Gli era cresciuto dentro e a poco a poco aveva divorato tutto dall’interno, senza che da fuori si vedesse niente, e ormai non restava nient’altro, solo quel marciume che presto avrebbe fatto scoppiare il guscio uscendo alla luce del sole. Si sarebbero ritrovati nudi, indifesi, esposti al freddo e all’orrore, e quella sarebbe stata l’unica realtà. Quella era già l’unica realtà, anche se loro non lo sapevano. Lui apriva appena la porta, si avvicinava in punta di piedi ai bambini. Dormivano. Lui li stava a guardare. Non poteva fargli una cosa simile. Non dovevano sapere che era lui, il loro papà, che gli aveva fatto una cosa simile.
Hanno trascorso la domenica al Grand Tétras, lo chalet del Col de la Faucille di cui erano clienti abituali. Florence, che sciava benissimo, ha fatto lezione ai bambini. Sotto la sua guida, andavano praticamente dappertutto. Jean-Claude è rimasto a leggere nella sala ristorante dove loro l’hanno raggiunto per pranzo. Antoine, tutto fiero, ha raccontato che era stato su una pista rossa e che a un certo punto, in una curva difficile, aveva rischiato di cadere ma non era caduto. I bambini avevano il permesso di ordinare enormi piatti di patatine fritte con il ketchup, e quello era uno dei motivi per cui adoravano il Grand Tétras. In macchina all’andata ripetevano come una litania: «Possiamo mangiare le patatine fritte? Possiamo mangiare le patatine fritte?». Florence rispondeva di sì e loro continuavano più di prima: «Possiamo fare il bis? Possiamo prenderne due piatti per ciascuno? Tre piatti per ciascuno?».
Il lunedì mattina la madre di Jean-Claude gli ha telefonato, preoccupatissima. Aveva appena ricevuto dalla banca un estratto conto che le segnalava uno scoperto di 40.000 franchi. Era la prima volta che succedeva, e lei non aveva avuto il coraggio di parlarne a suo marito per paura che si angustiasse troppo. Lui le ha detto che avrebbe sistemato tutto, bastava fare un bonifico, e lei ha riattaccato, rassicurata come sempre dopo aver parlato con suo figlio. (La notifica dell’interdizione bancaria è arrivata la settimana successiva).
Lui ha preso da uno scaffale Le Malheur des autres, il libro che si era fatto dedicare da Bernard Kouchner durante una presentazione in una libreria di Ginevra («A Jean-Claude, compagno d’ideali e di lavoro all’OMS, Bernard»), poi ha raggiunto in auto l’aeroporto di Cointrin, ha comprato una bottiglia di profumo ed è salito sull’aereo delle 12.15 per Parigi. Seduto in cabina, dove tra gli altri passeggeri ha riconosciuto il ministro Jacques Barrot, ha scritto una breve lettera a Corinne («... Questa settimana devo prendere alcune decisioni. Sono felice di passare la serata di sabato in tua compagnia. Forse sarà un addio o forse mi concederai ancora un po’ di tempo: sarai tu a decidere»), poi ha cercato nel libro di Kouchner un brano che l’aveva turbato moltissimo, sul suicidio di un amico di gioventù. Questo amico era un anestesista: mentre assorbiva, secondo un ordine rigorosamente prestabilito, le sostanze che componevano un infallibile cocktail letale, aveva chiamato la donna amata per farle vivere, minuto per minuto, l’evoluzione della sua agonia. Lei aveva una sola linea telefonica e sapeva che se avesse riattaccato per chiedere aiuto lui si sarebbe iniettato immediatamente la dose fatale. Così è stata obbligata a seguire la sua morte in diretta.
Con la speranza che Corinne leggesse e capisse, Romand ha infilato la lettera proprio in quel punto del libro, per poi lasciarlo insieme al profumo al suo studio. Di quel rapido viaggio a Parigi non ricorda altro, e tenendo conto dei tragitti in taxi non deve avere avuto molto tempo per fare altro, visto che è ripartito con il volo delle 16.30: doveva andare all’autorimessa di Ferney prima della chiusura. Dopo la vendita della BMW aveva noleggiato una R 21, poi una Espace, e ormai si era stufato anche di quella (così si esprime). Voleva prendere di nuovo una berlina e, dopo qualche esitazione, la sua scelta è caduta su una BMW verde metallizzato, provvista di diversi optional, al volante della quale è tornato a casa.
Il martedì non è andato a lavorare, ma a fare spese con Florence a Ferney. Lei insisteva perché il marito si comprasse un vestito nuovo, lui si è lasciato tentare da un giaccone da 3200 franchi. La commessa li ricorda come una coppia affiatata, con tempo e soldi a disposizione. Sono passati a prendere i bambini a scuola, compresa Sophie Ladmiral che doveva dormire da loro. Florence li ha portati a casa tutti e tre per la merenda, lasciando Jean-Claude alla farmacia Cottin. Lui aveva trascorso la mattinata a studiare Suicidio: modo d’uso e il dizionario Vidal dei farmaci, scartando quelli che provocano una morte istantanea – sali di cianuro e curaro – a vantaggio di barbiturici a picco sierico rapido che, uniti a un antiemetico, assicurano un sonno tranquillo. Ne aveva bisogno, ha spiegato a Cottin, per le sue ricerche sulle colture cellulari. Cottin avrebbe potuto stupirsi che un ricercatore comprasse in farmacia dei prodotti che gli doveva fornire il laboratorio, invece non si è stupito. Con occhio esperto hanno esaminato insieme i foglietti illustrativi, poi hanno scelto due barbiturici; per maggior sicurezza, Cottin ha proposto di aggiungere una soluzione che avrebbe preparato lui stesso, a base di fenobarbital. Il tutto sarebbe stato pronto per venerdì, d’accordo? D’accordo.
La sera ha letto una storia ai tre bambini, tenendo la figlioccia sulle ginocchia. Visto che il mercoledì era vacanza, e la sera prima ne avevano fatte di tutti i colori, si sono alzati tardi e hanno giocato in pigiama fino all’ora di pranzo. Romand è andato a Lione. Alle 14.08 ha ritirato 1000 franchi dal bancomat della BNP di place Bellecour, e altrettanti alle 14.45. Fra un prelievo e l’altro, sostiene di aver dato una banconota da 500 franchi a un barbone. Poi è entrato in un’armeria e ha comprato un dissuasore elettrico per neutralizzare gli aggressori, due bombolette lacrimogene, una scatola di cartucce e un silenziatore per carabina calibro 22 a canna lunga.
«Quindi,» ha sottolineato la presidente «lei non pensava soltanto al suicidio. Viveva con sua moglie e i suoi figli pensando che li avrebbe uccisi».
«L’idea mi ha sfiorato... Ma veniva subito nascosta da altri falsi progetti, altre idee fittizie. Era come se non esistesse... Facevo finta di ignorarla... Mi dicevo che non era quello che volevo fare, che lo scopo era un altro, però intanto... intanto compravo le pallottole che avrebbero trafitto il cuore dei miei figli...».
Scoppia in singhiozzi.
Ha chiesto che gli facessero due pacchetti regalo, fingendo con se stesso che il materiale di autodifesa fosse per Corinne, che aveva paura rincasando la sera, e le cartucce e il silenziatore per suo padre, che ormai era quasi cieco e non usava più la carabina da anni.
Mentre lui faceva quegli acquisti, Florence aveva invitato a prendere il tè due amiche, madri di compagni di scuola dei suoi figli. Non si è lasciata andare a nessuna confidenza, però a un certo punto, loro non ricordano più perché, ha indicato sulla cappa del caminetto la foto incorniciata di un bimbo di sei o sette anni e ha detto: «Guardate com’è carino, guardate il suo sguardo! Dietro uno sguardo come questo non può nascondersi niente di male». Le due signore, un po’ sconcertate, si sono avvicinate al ritratto convenendo che in effetti Jean-Claude da piccolo era molto carino. Poi Florence ha cambiato argomento.
Il giovedì, giorno in cui faceva lezione a Digione, partiva sempre presto per riuscire a fare un salto a Clairvaux e dare un saluto ai genitori. Il medico di famiglia l’ha incontrato davanti a casa e l’ha aiutato a scaricare una confezione di acqua minerale che aveva comprato per loro. Solo nella sua cameretta, ha sfogliato vecchi manuali di tossicologia, poi ha rassicurato ancora sua madre sulla loro situazione bancaria. Il sostituto procuratore si è chiesto se il vero scopo della visita non fosse prendere la carabina di suo padre, per la quale aveva acquistato il giorno prima le munizioni e il silenziatore. Ma lui sostiene di no: l’aveva già portata a Prévessin l’estate precedente perché voleva fare tiro al bersaglio in giardino (non vi sono testimonianze che confermino questo passatempo). Sulla strada del ritorno ha telefonato a Corinne ricordandole con insistenza la cena di sabato da Kouchner. Poi è passato dai Ladmiral per lasciare un paio di pantofole che Sophie aveva dimenticato da loro. Dice che sperava di vedere Luc per confessargli la verità, che considerava quella visita come la sua ultima occasione, ma che purtroppo ha trovato soltanto Cécile, tutta indaffarata perché una loro comune amica aveva appena partorito e lei doveva tenerle i bambini. Lui sapeva benissimo che alle cinque del pomeriggio Luc non era in casa, ma in studio, eppure non c’è andato. La sera, come tutte le sere, ha chiamato i genitori per augurargli la buonanotte.
Il venerdì ha accompagnato i figli a scuola, ha comprato giornali e croissant, poi, in compagnia di un vicino, che l’ha trovato sorridente, ha aspettato che la farmacia aprisse. Ha preso le boccette di barbiturici e un pacchetto di gomme da masticare, di quelle che dovrebbero far bene ai denti, e poi ha raggiunto Florence dalla fioraia di Ferney. Hanno mandato un’azalea, accompagnata da un biglietto firmato da entrambi, all’amica che aveva partorito. Mentre sua moglie correva alla lezione di pittura su ceramica, lui è andato al Continent, un supermercato, dove ha comprato due taniche e un altro oggetto del valore di 40 franchi, come risulta dallo scontrino. (L’accusa ha accertato che per quella cifra si può comprare un mattarello. A lui sembra di averli spesi per una sbarra metallica con cui voleva sostituire il piolo rotto di una scala. Non sono state ritrovate né la sbarra né la scala rotta). Ha riempito le taniche di benzina al distributore del Continent. Rincasando per pranzo, ha trovato un’ospite, una giovane donna bionda e spigliata, la maestra di Caroline. Stava parlando di una recita che voleva organizzare con gli allievi: i bambini si dovevano travestire da mummie, per cui serviva una gran quantità di bende. Romand, servizievole come sempre, ha detto di potergliene procurare quante voleva all’ospedale di Ginevra, e ha promesso di occuparsene. Il giorno dopo i bambini erano invitati alla festa di compleanno della loro amica Nina, figlia di un diplomatico africano, e quindi bisognava comprare un regalo. Tutta la famiglia, all’uscita da scuola, è andata a scegliere una scatola di Lego in un centro commerciale svizzero. Hanno cenato alla caffetteria e sono tornati a casa presto. Antoine e Caroline, in pigiama, hanno fatto dei disegni da unire al pacchetto. Dopo averli messi a nanna, Florence ha parlato a lungo al telefono con sua madre, che era offesa perché non l’avevano invitata al matrimonio di una cugina. Si è lasciata andare a uno sfogo amaro: era vedova, stava invecchiando, i figli la trascuravano. La sua tristezza ha contagiato Florence, che dopo aver riagganciato è scoppiata a piangere. Jean-Claude l’ha raggiunta sul divano. È l’ultima immagine che ha di loro due: lui è seduto accanto a lei, l’ha presa tra le braccia e cerca di consolarla.
«Le sue ultime parole» dice «non me le ricordo».
Dall’autopsia risulta che Florence aveva nel sangue 0,20 grammi di alcol, il che significa che, se ha dormito l’intera notte, quando si è addormentata doveva essere quasi ubriaca. Strano, perché lei non beveva mai, al massimo un bicchiere di vino a tavola nelle grandi occasioni. Si può immaginare una lite, iniziata con queste parole: «So che mi menti». Lui si schermisce, lei insiste: perché le ha detto di aver votato contro la rimozione del direttore? perché non figura nell’elenco telefonico dell’OMS? La discussione diventa burrascosa, lei per calmarsi beve un bicchiere, poi un altro e un altro ancora. Con l’aiuto dell’alcol, al quale non è abituata, alla fine si addormenta. Lui invece resta sveglio, passa la notte a chiedersi come uscire da quella situazione e la mattina le sfonda il cranio.
Quando gli prospettano questo copione, risponde: «Se ci fosse stata una scenata, perché dovrei negarlo? Non mi sentirei meno in colpa, ma sarebbe una spiegazione... Forse sarebbe più facile da accettare... Non posso dire con certezza che non ci sia stata, però non me la ricordo. Ricordo gli altri omicidi, altrettanto orribili, ma non questo. Non sono in grado di dire che cosa sia successo tra il momento in cui stavo consolando Florence sul divano e quello in cui mi sono svegliato con in mano il mattarello sporco di sangue».
Secondo l’accusa lo avrebbe comprato il giorno prima al Continent, mentre lui sostiene di averlo trovato nella stanza in cui i bambini l’avevano usato per stendere il pongo. Dopo essersene servito, è andato in bagno a lavarlo accuratamente, in modo da togliere qualsiasi traccia di sangue visibile a occhio nudo, poi l’ha rimesso a posto.
È suonato il telefono. Lui ha risposto dal bagno. Era un’amica che faceva la psicologa a Prévessin, voleva sapere se Florence l’avrebbe aiutata a organizzare la messa per i bambini del catechismo quel sabato sera. Lui ha risposto di no, era improbabile, intendevano trascorrere la notte nel Giura dai suoi genitori. Si è scusato perché parlava piano: i bambini dormivano, e anche Florence. Ma se era urgente poteva svegliarla: la psicologa gli ha detto che non occorreva, se la sarebbe cavata da sola.
Il telefono aveva svegliato i bambini, che sono piombati in bagno. Si alzavano sempre con maggiore facilità quando non dovevano andare a scuola. Ha detto anche a loro che la mamma stava ancora dormendo, e sono scesi tutti e tre in salotto. Lui ha messo nel videoregistratore la cassetta dei Tre porcellini, ha preparato le scodelle con latte e Coco Pops. Si sono seduti sul divano a guardare il cartone animato mangiando i cereali, con lui in mezzo.
«Dopo aver ucciso Florence, sapevo che avrei ucciso anche Antoine e Caroline, e che quei minuti davanti alla televisione erano gli ultimi che avremmo passato insieme. Me li sono coccolati. Devo aver sussurrato qualche parola affettuosa, come: “Vi voglio bene”. Lo facevo spesso e spesso loro mi rispondevano con dei disegni. Persino Antoine, che andava ancora all’asilo, sapeva scrivere “Ti voglio bene”».
Un lunghissimo silenzio. Con voce alterata, la presidente ha proposto una sospensione di cinque minuti, ma lui ha scosso la testa, ha deglutito e poi ha continuato:
«Saremo rimasti così più o meno mezz’ora... Caroline si è accorta che avevo freddo e si è offerta di salire a prendermi la vestaglia. Io ho detto che mi sembrava che fossero loro un po’ caldi, forse avevano la febbre, era meglio misurarla. Caroline è salita con me, l’ho fatta stendere sul letto... Sono andato a prendere la carabina...».
Si è ripetuta la scena del cane. Ha iniziato a tremare, il suo corpo si è accasciato. Si è buttato per terra. Non lo vedevamo più, gli agenti erano chini su di lui. Con una voce acuta da bambino, si è messo a gemere: «Il mio papà! Il mio papà!». Una donna del pubblico è corsa verso la gabbia e ha cominciato a battere il vetro supplicandolo come una madre. «Jean-Claude! Jean-Claude!». Nessuno ha avuto il coraggio di allontanarla.
«Che cosa ha detto a Caroline?» ha proseguito la presidente dopo mezz’ora di sospensione.
«Non me lo ricordo... Era stesa a pancia in giù... E io ho sparato».
«Coraggio...».
«L’ho già raccontato diverse volte al giudice istruttore, ma adesso... adesso, loro sono qui... (singhiozzi). Ho sparato un primo colpo contro Caroline... aveva un cuscino sulla testa... devo aver finto che fosse un gioco... (geme, a occhi chiusi). Ho sparato... ho posato la carabina da qualche parte in camera... ho chiamato Antoine... e ho sparato di nuovo».
«Forse sarà il caso che l’aiuti un po’, perché i giurati hanno bisogno di particolari e lei non è abbastanza preciso».
«... Quando è nata Caroline è stato il giorno più bello della mia vita... Era bella... (gemito)... fra le mie braccia... per il primo bagnetto... (spasmo). E io l’ho uccisa... Io l’ho uccisa...».
(Gli agenti lo tengono per le braccia con una sollecitudine sgomenta).
«Non pensa che Antoine abbia potuto sentire gli spari? Aveva messo il silenziatore? L’ha chiamato con la stessa scusa? Misurargli la febbre? Non gli è sembrato strano?».
«Non ho ricordi di quel momento preciso. Erano sempre loro, eppure... non potevano essere Caroline e Antoine...».
«Il bambino non si è avvicinato al letto di Caroline? L’aveva coperta con il piumone perché lui non sospettasse nulla...».
(Singhiozza).
«Durante l’istruttoria ha detto di aver cercato di dare ad Antoine del fenobarbital diluito in un bicchiere d’acqua, e che lui si era rifiutato di berlo perché era cattivo...».
«La mia era solo una deduzione... In realtà non ricordo che Antoine abbia detto che era cattivo».
«Nessun’altra spiegazione?».
«Forse avrei voluto che fosse addormentato».
È intervenuto il sostituto procuratore:
«Dopo lei è uscito a comprare “L’Équipe” e “Le Dauphiné libéré”, e la giornalaia non ha notato in lei nulla di strano. Voleva fare finta di niente, come se la vita potesse continuare?».
«Non posso aver comprato “L’Équipe”, non la leggo mai».
«Alcuni vicini l’hanno vista attraversare la strada per prendere la posta nella cassetta delle lettere».
«Forse in quel modo cercavo di negare la realtà, di fingere che non fosse successo niente...».
«Perché ha preso la carabina, impacchettata con cura, prima di partire per Clairvaux?».
«Per ucciderli, ovviamente, ma continuavo a dire a me stesso che volevo semplicemente restituirla a mio padre».
Sapendo che il labrador dei suoi genitori gli avrebbe sporcato i vestiti facendogli le feste, si è infilato una giacca vecchia e un paio di jeans, però si è premurato di appendere al gancio dell’auto un abito scuro in previsione della cena a Parigi. Ha messo in borsa una camicia di ricambio e l’occorrente per la toilette.
Del viaggio non si ricorda niente.
Si ricorda di aver parcheggiato la macchina davanti alla statua della Vergine di cui suo padre si prendeva cura portandole fiori freschi ogni settimana. Lo rivede mentre gli apre il portone. Poi il vuoto, fino alla sua morte.
Sappiamo che hanno pranzato tutti e tre insieme. Due giorni dopo, quando lo zio Claude è entrato in casa, c’erano ancora i piatti sul tavolo, e dall’autopsia risulta che Aimé e Anne-Marie avevano lo stomaco pieno. Ha mangiato anche lui? Sua madre ha insistito perché prendesse qualcosa? Di che cosa hanno parlato?
Come aveva fatto salire i figli al primo piano, uno alla volta, così ha fatto con i genitori. Prima il padre: l’ha attirato nella sua vecchia camera con la scusa di controllare con lui un condotto di aerazione che mandava cattivo odore. Deve aver salito le scale con la carabina in mano, a meno che non l’avesse già portata su al suo arrivo. Poiché la rastrelliera si trovava al pianterreno, forse ha detto di voler colpire un bersaglio in giardino tirando dalla finestra, o più probabilmente non ha dato alcuna spiegazione. Perché mai Aimé Romand avrebbe dovuto preoccuparsi vedendo suo figlio imbracciare la carabina, quella che erano andati a comprare insieme il giorno del suo sedicesimo compleanno? Il vecchio, che soffriva di dolori lombari e non si poteva chinare, ha dovuto mettersi in ginocchio per mostrargli il condotto difettoso all’altezza del battiscopa. È stato in quel momento che ha ricevuto due pallottole nella schiena. È caduto in avanti. Il figlio l’ha avvolto nel copriletto di velluto a coste color vinaccia, lo stesso di quando era bambino.
Poi è andato a prendere sua madre, che non aveva sentito i colpi, perché lui ha sparato con il silenziatore. L’ha portata nel salottino che non usavano mai. Lei è stata l’unica a ricevere le pallottole in pieno petto. Deve aver cercato di farla girare di spalle, mostrandole qualcosa. Forse si è voltata prima del previsto, e si è ritrovata davanti il figlio con la carabina puntata contro di lei. Forse gli ha chiesto: «Jean-Claude, che mi sta succedendo?» o «che ti sta succedendo?», come ha affermato lui nel corso di un interrogatorio, anche se poi ha detto che non se lo ricordava più, e che lo aveva appreso dal fascicolo dell’istruttoria. Sempre con la stessa incertezza, cercando come noi di ricostruire i fatti, sostiene che sua madre cadendo ha perso la dentiera e che lui gliel’ha rimessa, prima di avvolgerla in un copriletto verde.
Il cane, che era salito insieme a sua madre, correva da un corpo all’altro senza capire, gemendo piano. «Ho pensato che doveva raggiungere Caroline» spiega. «Lei lo adorava». Anche lui lo adorava, tanto che teneva sempre la sua fotografia nel portafoglio. Dopo averlo abbattuto, lo ha coperto con una trapunta azzurra.
Tornato al pianterreno, ha ripulito la carabina con l’acqua fredda, perché il sangue con l’acqua fredda se ne va più facilmente, poi l’ha riposta nella rastrelliera. Si è tolto i jeans e la vecchia giacca e ha indossato l’abito scuro, ma non si è cambiato la camicia: sudava molto, meglio cambiarsela a Parigi. Ha telefonato a Corinne, hanno deciso di vedersi alla chiesa di Auteuil, perché lei doveva accompagnare le figlie alla messa degli scout. Ha chiuso accuratamente casa, e verso le due si è messo in viaggio.
«Lasciando Clairvaux, mi è venuto spontaneo girarmi per guardare la porta di casa. Lo facevo sempre, perché i miei genitori erano vecchi e malati e ogni volta pensavo che forse non li avrei più rivisti».
Aveva detto a Corinne che avrebbe fatto il possibile per assistere alla messa con lei e le sue figlie, così per tutto il viaggio ha continuato a guardare l’orologio e a calcolare quanti chilometri mancavano a Parigi. Prima dell’autostrada, sulla comunale di Lons-le-Saunier, dove ci sono molti dossi, ricorda di aver guidato con una certa imprudenza, contrariamente alle sue abitudini. Era sabato sera: si è innervosito al casello, perché la fila avanzava lentamente, e poi sulla tangenziale. Da porte d’Orléans a porte d’Auteuil ci ha messo tre quarti d’ora, anziché uno come pensava. La messa non veniva celebrata nella navata della chiesa, ma in una cappella sotterranea, e ha faticato a trovare l’entrata. Arrivato in ritardo, è rimasto in fondo e non ha fatto la comunione: di questo è sicuro, perché altrimenti dopo sarebbe andato a sedersi vicino a Corinne. Invece è uscito per primo e le ha aspettate fuori. Ha baciato le due ragazzine, che non vedeva da più di un anno, e sono andati insieme a casa loro. Mentre Corinne si cambiava e si truccava, lui ha chiacchierato con la baby-sitter. Léa e Chloé gli hanno anche mostrato i regali che avevano ricevuto a Natale. Poi è arrivata Corinne, con un tailleur rosa e l’anello che le aveva regalato lui per farsi perdonare la sua prima dichiarazione. Sulla tangenziale, che hanno imboccato in senso inverso, lei gli ha chiesto i soldi. Lui si è scusato, non aveva avuto il tempo di andare a Ginevra, ma lo avrebbe fatto senz’altro lunedì mattina, poi avrebbe preso l’aereo delle 12.15, in modo da darle tutto nel primissimo pomeriggio. Lei era un po’ contrariata, ma la prospettiva della cena mondana che li aspettava le ha fatto riacquistare il buonumore. Sono usciti dall’autostrada a Fontainebleau, e a partire da quel momento Corinne l’ha guidato servendosi di una cartina sulla quale lui aveva segnato a casaccio, con una croce, la casa di Kouchner. Cercavano «una stradina sulla sinistra». La cartina non era molto dettagliata e all’inizio questo è bastato a spiegare la loro difficoltà a orientarsi. Dopo aver girato in tondo per un’ora nel bosco, Romand si è fermato per prendere nel bagagliaio un foglietto dove aveva scritto il numero di telefono di Kouchner, ma non l’ha trovato. Corinne cominciava a preoccuparsi per il ritardo, ma lui l’ha rassicurata: alcuni invitati, anche loro ricercatori, venivano da Ginevra e non sarebbero arrivati prima delle 22.30. Per distrarla ha iniziato a parlarle del suo prossimo trasferimento a Parigi, della direzione dell’INSERM che aveva finito per accettare, dell’appartamento che avevano messo a sua disposizione a Saint-Germain-des-Prés. Gliel’ha descritto precisando che intendeva andarci ad abitare da solo. La sera prima lui e Florence avevano discusso a lungo del loro futuro, e avevano deciso di comune accordo che era la cosa migliore. Sarebbe stata dura, ha sospirato, non vedere più i bambini tutti i giorni. Ora dovevano essere ad Annecy dalla nonna, avevano trascorso il pomeriggio a una festa di compleanno... Corinne stava perdendo la pazienza. Lui dice che in quel momento pensava solo a come guadagnare tempo, a trovare un motivo plausibile per annullare la cena. Si è fermato di nuovo in un’area attrezzata per picnic, deciso a mettere il bagagliaio sottosopra fino a quando non avesse trovato il numero di Kouchner. Ha passato qualche minuto a frugare in vecchi scatoloni che contenevano libri, riviste, e anche una cassetta su cui aveva filmato con la videocamera alcuni momenti del loro viaggio a Leningrado, due anni prima. Un’occhiata a Corinne immobile sul sedile davanti, sempre più tesa, è bastata a convincerlo che non era il momento di evocare teneri ricordi. È tornato mogio mogio, dicendo di non essere riuscito a trovare il foglietto. In compenso, aveva trovato una collana che si era ripromesso di regalarle. Corinne ha alzato le spalle: era una cosa priva di senso. Ma lui ha insistito, e alla fine è riuscito a convincerla a indossarla, almeno per quella sera. Lei è scesa dalla macchina, perché lui doveva mettergliela al collo mentre teneva gli occhi chiusi, come aveva fatto con tutti i gioielli che le aveva regalato.
La prima cosa che ha sentito Corinne è stato il bruciore schiumoso della bomboletta lacrimogena sul viso e sul collo. Ha aperto un po’ gli occhi, ma li ha subito richiusi perché il bruciore era sempre più forte e mentre lui continuava a spruzzarle in faccia il liquido lei ha cominciato a dibattersi, a lottare con tutte le sue forze, tanto che Romand ha avuto l’impressione che fosse lei ad aggredirlo. Sono rotolati accanto all’automobile. All’altezza del ventre, Corinne ha avvertito delle scariche elettriche emesse da una barra cilindrica: era il dissuasore che lui aveva pensato di regalarle. Sicura di morire, si è messa a urlare: «Non voglio! Non uccidermi! Pensa a Léa e a Chloé!» e ha aperto gli occhi.
Incrociare il suo sguardo le ha salvato la vita. Di colpo si è fermato tutto.
Lui le stava di fronte, disorientato, con un’espressione sconvolta e le mani tese: il suo non era più il gesto di un assassino, ma piuttosto quello di un uomo che cerca di calmare una persona in preda a una crisi di nervi.
«Ma Corinne,» ripeteva con dolcezza «Corinne... calmati...».
L’ha fatta sedere in macchina, dove entrambi hanno cercato di riprendersi come se fossero appena sfuggiti all’aggressione di una terza persona. Si sono ripuliti il viso con salviette di carta e acqua minerale. Probabilmente Romand aveva rivolto lo spruzzo anche contro di sé, perché aveva la pelle e gli occhi irritati. Dopo un po’, lei gli ha chiesto se sarebbero andati lo stesso a cena da Kouchner. Hanno deciso di no: lui ha avviato il motore, è uscito dal parcheggio e pian piano ha imboccato la strada in senso inverso. Apparentemente, quel che era appena accaduto sembrava incomprensibile a lui come a lei, e Corinne, frastornata com’era, per poco non si è lasciata convincere che era stata lei a iniziare. Ma è riuscita a resistere. Gli ha spiegato pazientemente che invece era stato lui ad aggredirla. Gli ha raccontato come si erano svolti i fatti. Lui l’ascoltava scuotendo la testa con aria sgomenta.
Al primo paese si è fermato per chiamare Kouchner e scusarsi a nome di entrambi, e lei non si è nemmeno stupita che ora avesse il suo numero di telefono. È rimasta nell’auto, senza chiavi, perché lui, con un gesto che poteva essere tanto meccanico quanto intenzionale, se le era messe in tasca prima di dirigersi verso la cabina telefonica. L’ha guardato, sotto la luce al neon, parlare o far finta di parlare. Un giudice gli ha domandato se aveva composto un numero: lui non se lo ricorda, ma suppone di aver chiamato casa sua a Prévessin e di aver ascoltato il messaggio della segreteria.
Quando è tornato Corinne gli ha chiesto se aveva recuperato la collana. Lui le ha risposto di no, ma comunque non era importante: aveva tenuto la ricevuta e l’assicurazione gliel’avrebbe rimborsata. Allora lei si è resa conto di non aver mai visto nessuna collana; quello che aveva visto, tra le foglie secche, accanto alla macchina, era una cordicella di plastica flessibile, che sembrava fatta apposta per strangolare qualcuno. Per tutto il viaggio di ritorno, durato più di due ore perché Romand guidava molto lentamente, ha temuto che venisse colto da un altro raptus omicida: per questo ha cercato a sua volta di distrarlo, parlandogli in veste di amica devota e di psicologa. Lui dava la colpa di tutto alla malattia. Il cancro non si accontentava di ucciderlo, lo faceva anche impazzire. Spesso negli ultimi tempi aveva avuto amnesie, vuoti di memoria. Piangeva. Lei si sforzava di annuire con aria competente e comprensiva, mentre in realtà moriva di paura. Gli ha detto che doveva assolutamente farsi vedere da qualcuno. Qualcuno? Uno psichiatra? Sì, o uno psicoterapeuta, lei poteva indicargliene alcuni molto in gamba. Oppure poteva chiedere a Kouchner. Era un suo caro amico, gliel’aveva ripetuto spesso, un uomo profondamente sensibile e umano. Sarebbe stata una buona idea raccontargli tutto. Si è addirittura offerta di chiamarlo per spiegargli, senza drammatizzare, quel che era successo. Sì, era una buona idea, ha approvato Jean-Claude. Era commosso fino alle lacrime da quell’affettuosa coalizione: Kouchner e Corinne uniti per salvarlo dai suoi demoni. Si è rimesso a piangere, e lei con lui. Piangevano entrambi quando l’ha lasciata sotto casa, all’una di notte. Lui le ha fatto promettere di non dire niente a nessuno, e lei di recuperare entro lunedì tutti i suoi soldi, fino all’ultimo centesimo. Cinque minuti dopo le ha telefonato da una cabina da cui vedeva le finestre del suo appartamento ancora illuminate: «Non era premeditato,» le ha detto «giura che mi credi. Se avessi voluto ucciderti, l’avrei fatto nel tuo appartamento, e avrei ucciso le tue figlie insieme a te».
Quando è arrivato a Prévessin era già mattina. Aveva dormito un po’ in un’area di servizio vicino a Digione: era troppo stanco, si è accorto che tendeva a sbandare e temeva di avere un incidente. Ha parcheggiato davanti a casa. Prima di partire aveva chiuso le imposte. Dentro si stava bene, il salotto era un po’ in disordine, ma tornando con la famiglia da un week-end a Clairvaux o al Col de la Faucille avrebbe potuto trovare la stessa allegra confusione. Sul tavolo c’erano i disegni fatti dai bambini per il compleanno di Nina e le coroncine di cartone dorato dell’Epifania. L’abete aveva perso quasi tutti gli aghi, ma ogni volta che lui proponeva di buttarlo via i bambini protestavano, scongiurandolo di aspettare ancora un po’: era un gioco, un piccolo rito che l’anno prima erano riusciti a protrarre fino a metà febbraio. Come sempre quando rincasava, ha strappato la pagina del calendario e ascoltato la segreteria. O non c’erano messaggi o li ha cancellati. Poi si è assopito per un po’ sul divano.
Verso le undici ha avuto paura che, vedendo l’auto, a qualche amico venisse in mente di fargli un’improvvisata, allora è uscito di nuovo, per andare a parcheggiarla in centro a Prévessin. Probabilmente è stato allora che ha scritto, sul retro di una busta, la frase che ha incuriosito tanto gli inquirenti. Al ritorno ha incrociato Cottin e si sono salutati. Il farmacista gli ha chiesto se faceva jogging. Solo una passeggiatina, ha risposto.
Allora buona domenica!
Per ricostruire il resto della giornata abbiamo a disposizione due elementi.
Il primo è una cassetta che Romand ha inserito nel videoregistratore al posto dei Tre porcellini. Per centottanta minuti ci ha registrato sopra frammenti di trasmissioni diffuse da decine di canali captati via satellite: spettacoli di varietà e di sport, i soliti programmi della domenica pomeriggio, ma sminuzzati da uno zapping frenetico, un secondo su un canale, due su un altro. Ne è risultato un tetro e inguardabile caos, che nonostante ciò gli inquirenti si sono imposti di guardare. Per scrupolo, hanno deciso di identificare ciascuna microsequenza, e visionando i programmi di tutte le emittenti hanno stabilito l’ora esatta di registrazione. Hanno scoperto così che Romand è rimasto sul divano a giocare con il telecomando dalle 13.10 alle 16.10, e che ha iniziato quando la cassetta era a metà. Una volta giunto alla fine, si è premurato di riavvolgerla e di coprire allo stesso modo tutta la prima parte, il che fa pensare che volesse cancellare una registrazione precedente. Poiché sostiene di non ricordare nulla, possiamo fare solo congetture. L’ipotesi più probabile è che si trattasse di immagini di Florence e dei bambini: vacanze, compleanni, momenti di felicità familiare. Ma ce n’è un’altra. Nel corso di un interrogatorio sui suoi acquisti nei sexy-shop e sulle cassette pornografiche che sostiene di aver guardato anche insieme a Florence, Romand ha aggiunto di aver filmato con la videocamera alcuni amplessi tra lui e la moglie. Della cassetta, ammesso che sia esistita, non resta traccia, e il giudice si è chiesto se non fossero proprio quelle le immagini che aveva distrutto in maniera così sistematica l’ultimo giorno. A lui sembra un’ipotesi improbabile.
Il secondo elemento si ricava dai tabulati di France Telecom, dai quali emerge che tra le 16.13 e le 18.49 ha chiamato nove volte il numero di Corinne. La durata delle telefonate, breve e sempre uguale, conferma che si è limitato per nove volte ad ascoltare il messaggio della segreteria. Alla decima, lei ha risposto e si sono parlati per tredici minuti. Su questo dialogo le due versioni coincidono. Lei aveva passato una giornata terribile, era ancora sconvolta e continuavano a bruciarle gli occhi, e lui la compativa, la capiva, si scusava e parlava della propria depressione. Tenendo conto delle sue condizioni e della malattia, Corinne non intendeva avvertire la polizia, come avrebbe fatto, sottolineava, qualsiasi persona di buon senso, ma lui doveva farsi vedere prima possibile da qualcuno – che ne parlasse con Kouchner, o con chi meglio credeva –, e soprattutto doveva assolutamente mantenere la sua promessa e andare a prelevare i soldi in banca già l’indomani mattina. Romand le ha giurato che al momento dell’apertura sarebbe stato già lì.
Da quando era rientrato in casa non era ancora salito al primo piano, ma sapeva che cosa avrebbe visto. Li aveva coperti accuratamente con i piumoni, ma sapeva cosa c’era sotto. Verso sera si è reso conto che era arrivato il momento di morire, che aveva così a lungo differito. Sostiene di aver iniziato subito i preparativi, ma si sbaglia, li ha rimandati ancora. Ha aspettato mezzanotte, anzi, secondo la perizia le tre del mattino, per versare il contenuto delle taniche che aveva comprato e riempito di benzina al Continent, cominciando dalla soffitta e poi spargendolo sui bambini, su Florence e sulle scale. Poi si è svestito e si è messo in pigiama. Poco prima delle quattro ha appiccato il fuoco, iniziando sempre dalla soffitta per proseguire sulle scale e nella stanza dei bambini. A quel punto è entrato in camera sua. Per essere più sicuro avrebbe dovuto ingerire per tempo i barbiturici, ma doveva averli dimenticati o persi, e così ha ripiegato su un flacone di Nembutal che giaceva da dieci anni in fondo all’armadietto dei medicinali. L’aveva comprato per alleviare l’agonia di uno dei suoi cani, ma poi non era stato necessario. In seguito, poiché era scaduto da un pezzo, aveva quasi deciso di buttarlo. Ma in quel momento deve aver pensato che quelle capsule potessero fare comunque al caso suo, perché ne ha inghiottito una ventina mentre i netturbini, che nel frattempo, durante il giro mattutino, avevano visto le fiamme uscire dal tetto, cominciavano a bussare alla porta. È saltata la corrente, e il fumo ha iniziato a invadere la stanza. Dopo aver spinto dei vestiti contro la porta per tappare la fessura, si è steso accanto a Florence, che sembrava addormentata sotto il piumone. Ma non ci vedeva più, gli bruciavano gli occhi. Insomma, non aveva ancora dato fuoco alla camera, e sul posto erano già arrivati i pompieri (anche se lui assicura di non aver sentito la sirena). Non riuscendo più a respirare, si è trascinato fino alla finestra e l’ha aperta. Udendo sbattere la persiana, i vigili del fuoco hanno allungato la scala per soccorrerlo. Lui ha perso conoscenza.