Due anni dopo, quando gli ho annunciato che mi rimettevo al lavoro, non si è stupito. Sapeva che sarebbe accaduto – magari non così presto. Ed era fiducioso.

Anche Marie-France l’ha accolta come una buona notizia. L’ho chiamata per recuperare il fascicolo dell’istruttoria. L’originale spetta per legge al condannato ma, visto l’ingombro, la dimensione delle celle e la mancanza di spazio nei depositi all’entrata delle carceri, Romand l’aveva affidato a lei. Marie-France mi ha invitato a casa sua raccomandandomi di svuotare bene il bagagliaio dell’auto se volevo farci stare tutti gli scatoloni. Ho intuito che non le dispiaceva passarmi quel sinistro fardello, e che portandolo a Parigi mi impegnavo a conservarlo fino al giorno della scarcerazione.

Marie-France abita in un paesino a cinquanta chilometri a est di Lione. Ignoravo a quale classe sociale appartenesse, e sono rimasto sorpreso nel vedere un’imponente, magnifica villa, circondata da un parco che digrada dolcemente verso il fiume. Un luogo incantevole, la cui manutenzione deve costare parecchio. Mi aveva consigliato, se volevo stare tranquillo, di andarci in un giorno feriale perché durante i week-end la villa è invasa da una marea di figli e nipotini, quasi mai meno di venti. Prima di andare in pensione Raph, suo marito, era un imprenditore tessile. Anche Marie-France proviene da una famiglia di industriali della seta di Lione, e finché i suoi figli non sono cresciuti, ha vissuto come una tipica madre dell’alta borghesia cattolica, solo un po’ più fervente della media. Ma arrivata ai cinquanta ha sentito una chiamata. Ne parla soltanto se la s’interroga con insistenza: c’era qualcuno che aveva bisogno di lei in prigione. In prigione? Non è un’esaltata, le ci è voluto qualche tempo per capire e abituarsi all’idea. E poi non si diventa volontari nelle carceri da un giorno all’altro. È previsto un periodo di prova durante il quale ci si occupa dell’accoglienza e del sostegno ai parenti dei detenuti prima e dopo i colloqui. A Villefranche mi aveva colpito molto l’atmosfera che sanno creare i volontari nel caravan che funge da sala d’attesa davanti alla prigione. Senza di loro sarebbe tutto molto più squallido: ti offrono una tazza di caffè, fanno in modo che la gente scambi due parole, se sei alla prima visita ti spiegano le regole garbatamente. Dopo questo noviziato, Marie-France ha oltrepassato la soglia del carcere, e da allora ha confortato con la sua amicizia decine di detenuti della provincia di Lione. Jean-Claude, che conosce da quasi sei anni, è chiaramente uno dei suoi preferiti. Lei non ignora certo le sue angosce né la sua fragilità psichica (basterebbe poco, secondo lei, perché ricadesse nello sconforto e si suicidasse), ma ammira come un dono divino la sua capacità di prendere nonostante tutto «la vita per il verso giusto». «E poi, capisci,» Marie-France non ci mette molto a darti del tu «è facile aiutarlo. Fa piacere trovare una persona facile da aiutare. Quando ci vediamo, spesso mi ripete una frase che gli ho detto la volta precedente assicurandomi che gli è stata di conforto per tutta la settimana. Sono cose che ti ridanno la carica».

Questa buona volontà, che fa di lui un cliente gratificante per i volontari che assistono i detenuti, gli è valsa l’affetto di un altro angelo custode, quel Bernard di cui mi aveva parlato nelle sue lettere. Marie-France ha invitato a pranzo lui e la moglie. Il giorno prima Bernard si era fatto Lione-Parigi andata e ritorno per andarlo a trovare a Fresnes dov’era stato appena trasferito. Strappato senza tanti riguardi a un ambiente ormai divenuto familiare, Romand si era ritrovato in un posto sconosciuto, circondato da sconosciuti, trattato come un pacco in una stazione di smistamento, e a Bernard, nonostante i suoi settantacinque anni, era parso del tutto naturale prendere subito il treno perché lui vedesse almeno per mezz’ora un volto amico. Io, che sono andato una sola volta a Villefranche, mi vergognavo un po’, tanto più che Bernard aveva dovuto farsi violenza per varcare la porta di Fresnes, un luogo che per lui è legato a bruttissimi ricordi. Condannato a morte come partigiano, vi era stato rinchiuso dalla Gestapo, ed era rimasto lì per due mesi in attesa di essere giustiziato. Disponeva di un unico libro, gli scritti di santa Teresa di Lisieux, grazie al quale si è convertito e ha smesso di temere la morte. Alla fine è stato deportato a Buchenwald. Ha viaggiato quattro giorni in un vagone piombato, senza mangiare e bevendo solo urina, gomito a gomito con dei moribondi, molti dei quali sarebbero arrivati cadaveri alla fine del viaggio. Non pretendo certo che un’esperienza simile rappresenti una garanzia di lucidità infallibile per il futuro: se ne ho fatto cenno è perché non vorrei che si pensasse a Bernard come a un topo di sacrestia che non sa niente della vita e del male. Eppure questo vecchio gollista, destrorso e tradizionalista, parla di Jean-Claude Romand, truffatore e assassino, come di un carissimo ragazzo che lui vede sempre con piacere, e si capisce che non lo fa per spirito di carità più o meno forzato, ma per vera amicizia.

Dopo pranzo siamo usciti sulla terrazza che domina il fiume e la pianura (che per essere una pianura è ben poco pianeggiante). Era l’estate di San Martino: gli alberi erano di un rosso fulvo, il cielo azzurrissimo, e i tordi cantavano. Abbiamo preso il sole e il caffè mangiando cioccolatini svizzeri. Raph, che assomiglia un po’ a Philippe Noiret, ascoltava con benevolenza sua moglie e il suo amico Bernard parlare del loro protetto. Ormai era come se lo conoscesse. Gli stava simpatico. «Allora,» mi ha detto «adesso fa parte anche lei del club?». Non sapevo cosa rispondergli. Non volevo approfittare della fiducia di quelle persone lasciando credere di essere, come loro, incondizionatamente dalla parte di Jean-Claude. Per me, lui non era Jean-Claude. Nelle mie lettere l’avevo chiamato prima «egregio signore», poi «signor Romand» e per finire «gentile Jean-Claude Romand», ma non ce l’avrei fatta a chiamarlo «caro Jean-Claude». Sentendo Marie-France e Bernard tutti presi da una discussione sul suo guardaroba invernale («ha già il maglione azzurro che è caldo, però ci vorrebbe anche quello grigio di lana grezza, magari glielo potrebbe portare Emmanuel...»), trovavo quell’affetto così semplice, così naturale, ammirevole e al tempo stesso quasi mostruoso. Non soltanto io non ne ero capace, ma nemmeno lo desideravo. Non volevo arrivare al punto di bermi tranquillamente una storia inventata di sana pianta come quella dell’innamorata suicida proprio il giorno prima dell’esame, né convincermi come Bernard che in fondo quel destino tragico era stato provvidenziale: «E pensare che ci sono volute tante bugie, tante coincidenze e quel dramma terribile per permettergli oggi di fare tutto il bene che fa attorno a sé... È una cosa che ho sempre creduto, e che ora vedo realizzarsi nella vita di Jean-Claude: tutto finisce bene e trova un senso per chi ama il Signore».

Mi cadevano le braccia. Ma suppongo che cadessero anche a chi sentiva la piccola Thérèse Martin, che non era ancora diventata la santa di Lisieux, parlare con aria rapita del grande criminale Pranzini, e mi rendevo conto che la posizione di Bernard, ai miei occhi scandalosa, era semplicemente quella di un cristiano coerente. Immaginavo il mio lavoro giudicato da lui, Marie-France, e con loro da tutto il paradiso, pronti a rallegrarsi per un peccatore che si pente più che per novantanove giusti che non hanno bisogno di pentirsi, ma anche da Catherine Erhel, convinta che finire tra le mani di gente come quella era quanto di peggio potesse capitare a Romand: si sarebbe lasciato cullare da quei discorsi buonisti sull’infinita misericordia del Signore e sulle meraviglie che operava nel suo animo, perdendo qualsiasi possibilità di tornare un giorno in contatto con la realtà. Ovviamente si poteva obiettare che nel suo caso era meglio così, ma lei avrebbe risposto che in tutti i casi, senza eccezioni, una dolorosa lucidità è preferibile a una pace illusoria. E su questo non sarò certo io a darle torto.

Bernard e sua moglie fanno parte del movimento cattolico degli Intercessori, che si danno il cambio per assicurare una ininterrotta catena di preghiere. In ogni momento in Francia e, credo, nel mondo c’è almeno un intercessore che sta pregando. Ciascuno si impegna per una data e un’ora ben precisa, e Jean-Claude Romand, reclutato dal suo amico, si è mostrato molto zelante scegliendo fasce orarie poco richieste, per esempio dalle due alle quattro del mattino. Bernard gli ha chiesto di scrivere una testimonianza sull’argomento e l’ha fatta pubblicare anonima sul periodico del gruppo:

«Sono in carcere da parecchi anni, condannato all’ergastolo in seguito a una terribile tragedia familiare, e non mi ritengo certo nella posizione migliore per dare una testimonianza, ma trattandosi della testimonianza di un intercessore fra duemila altri sulla Grazia e l’Amore di Dio, cercherò di renderGli grazia.

«La prova del carcere e ancor più quella del lutto e della disperazione avrebbero dovuto, in teoria, allontanarmi definitivamente dal Signore. Gli incontri con un cappellano e con due volontari, capaci di ascoltare in modo meraviglioso e di parlare con semplicità senza giudicare, mi hanno strappato all’indicibile sofferenza di un esilio che aveva spezzato ogni rapporto con Dio e con il resto dell’umanità. Oggi so che quelle mani provvidenzialmente tese sono state per me le prime manifestazioni della Grazia divina.

«Alcuni eventi di natura mistica, difficili da comunicare, mi hanno scosso profondamente, facendo nascere in me una nuova fede. Uno fra tutti: durante una notte d’insonnia e d’angoscia, in cui mi sentivo più che mai colpevole di essere ancora vivo, l’insperata irruzione di Dio mentre contemplavo nelle tenebre il Santo Volto dipinto da Rouault. Dopo la più terribile prostrazione, le mie non erano più lacrime di tristezza, ma scaturivano dal fuoco che mi ardeva dentro e dalla pace profonda che ci dà la certezza di essere amati.

«La preghiera occupa un posto essenziale nella mia vita. Starsene in silenzio e recitare le orazioni, in una cella, è più difficile di quanto si possa immaginare. Non è certo il tempo che manca, il grande ostacolo è il rumore delle radio, delle televisioni, sono le urla alle finestre fino a notte fonda. Spesso ripetere le preghiere per un certo tempo in modo meccanico, senza concentrarsi sul significato delle parole, permette di neutralizzare il rumore circostante e i pensieri parassiti prima di trovare la pace propizia alla preghiera personale.

«Quand’ero libero, avevo ascoltato con orecchio distratto, senza sentirmi chiamato in causa, la frase del Vangelo: “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (Mt, 25, 36). Ho avuto la fortuna di conoscere il gruppo degli Intercessori grazie a un volontario che visita i detenuti, oggi mio carissimo amico. Queste due ore al mese di preghiera, a notte fonda, quando la differenza fra mondo esterno e mondo interno scompare, sono momenti benedetti. La lotta contro il sonno che li precede viene sempre ricompensata. È una gioia poter essere un anello di questa continua catena di preghiera capace di spezzare l’isolamento e il senso d’inutilità. Inoltre mi conforta sentire che nel profondo baratro della prigione le preghiere, come corde invisibili, ci impediscono di perderci nell’abisso. Penso spesso a quest’immagine della corda a cui bisogna restare attaccati per rispettare ad ogni costo l’appuntamento con le ore di intercessione.

«Scoprendo che la Grazia non consiste nella realizzazione dei miei desideri, per quanto generosi e altruisti, ma nella forza di accettare tutto con gioia, dal fondo di questa cella il mio De profundis si trasforma in un Magnificat, e tutto diventa Luce».

Mentre tornavo a Parigi per rimettermi al lavoro, non vedevo più ombra di mistero nella sua lunga impostura, ma solo una misera commistione di cecità, disperazione e vigliaccheria. Ormai sapevo che cosa accadeva nella sua testa durante le lunghe ore vuote trascorse nelle aree di servizio o nei parcheggi dei bar, era una cosa che in qualche modo avevo vissuto anch’io, e che mi ero lasciato alle spalle. Ma mi chiedevo: che cosa accade, adesso, nel suo cuore durante le ore notturne di veglia e di preghiera?

Ho svuotato il bagagliaio e, mentre sistemavo per i prossimi diciassette anni gli scatoloni dell’istruttoria in un armadio del mio studio, ho capito che non li avrei più aperti. Aperta sulla mia scrivania rimaneva, invece, la testimonianza che Bernard gli aveva chiesto di scrivere. Questa sì, con la sua retorica cattolica, mi sembrava davvero misteriosa. Indecidibile, nell’accezione matematica del termine.

Sono sicuro che non stia recitando per ingannare gli altri, mi chiedo però se il bugiardo che c’è in lui non lo stia ingannando. Quando Cristo entra nel suo cuore, quando la certezza di essere amato nonostante tutto gli fa scorrere sulle guance lacrime di gioia, non sarà caduto ancora una volta nella rete dell’Avversario?

Ho pensato che scrivere questa storia non poteva essere altro che un crimine o una preghiera.

Parigi, gennaio 1999