I Romand sono una famiglia di amministratori forestali del Giura stabilitisi ormai da diverse generazioni nel borgo di Clairvaux-les-Lacs o nei paesi vicini. Da quelle parti formano un vero e proprio clan, rispettato per l’austera e caparbia virtù che li contraddistingue: «Si vede che è un Romand» dice la gente. Sono grandi lavoratori, timorati di Dio, e la loro parola vale quanto un impegno scritto.

Nato immediatamente dopo la guerra ’14-’18, chiamato alle armi nel ’39 e fatto subito prigioniero, Aimé Romand è stato internato per cinque anni in uno stalag. Al ritorno in patria, decorato, ha lavorato accanto al padre sostituendolo poi nella gestione della sua impresa forestale. Siccome è relativamente facile imbrogliare sui tagli del legname, questo mestiere richiede la piena fiducia da parte degli azionisti. Aimé, come suo padre prima di lui, questa fiducia se la meritava. Alto, spigoloso, con due occhi penetranti, era un uomo che metteva in soggezione, pur senza avere il carisma sanguigno di Claude, il fratello minore, che faceva il meccanico. Ha sposato una donnina schiva, che tutti si erano abituati a considerare malata senza sapere esattamente di quale malattia soffrisse. Aveva una cattiva salute, si faceva il sangue cattivo. Forse a causa di questa depressione strisciante, o per una certa tendenza ossessiva di Aimé, nella coppia si avverte un che di rigido e pignolo, un’abitudine presto radicata allo scrupolo e all’isolamento. Di solito in famiglie di quel genere si fanno tanti figli, loro invece ne hanno avuto solo uno, Jean-Claude, nel 1954. In seguito Anne-Marie è stata ricoverata due volte in ospedale per gravidanze extrauterine che hanno messo a repentaglio la sua vita. Il padre ha cercato di nascondere al figlio quel che succedeva, perché non si preoccupasse, ma anche perché erano cose che riguardavano la sfera immonda e minacciosa del sesso. L’isterectomia è diventata così un’appendicite, ma entrambe le volte l’assenza della madre e il mormorio sinistro che accompagnava la parola «ospedale» hanno indotto il bambino a credere che lei fosse morta e che glielo stessero nascondendo.

Jean-Claude ha trascorso la prima infanzia in un piccolo borgo, dove suo padre aveva una fattoria di cui si occupava quando non era impegnato come amministratore forestale. Sono andato a vederlo, guidato dalle sue cartine: poche case in fondo a una comba perduta in un’immensa e cupa abetaia. La scuola aveva solo tre allievi. Poi i suoi genitori si sono costruiti una casetta a Clairvaux e si sono trasferiti lì. Jean-Claude amava leggere ed era avanti di un anno. In quinta elementare ha vinto il primo premio. I vicini, i cugini e i maestri lo ricordano come un ragazzino giudizioso, calmo e obbediente: adesso c’è chi è tentato di descriverlo come troppo giudizioso, troppo calmo e troppo obbediente, pur ammettendo che si tratta di un giudizio formulato a posteriori, nel misero tentativo di spiegare un dramma inspiegabile. Un figlio unico, forse un po’ troppo coccolato. Un bambino che non combinava mai guai, che ispirava stima – se si può usare un’espressione simile per un bambino – più che simpatia, ma non per questo veniva considerato infelice. D’altra parte, quando parla di suo padre, lo stesso Jean-Claude ha la curiosa tendenza ad aprire una piccola parentesi cerimoniosa: «Aimé, nomen omen». Racconta che sua madre si angustiava per qualsiasi cosa, e lui ha imparato presto a nascondere la verità per evitarle ulteriori preoccupazioni. Ammirava suo padre perché non lasciava mai trasparire le proprie emozioni, e si è sforzato di imitarlo. Bisognava che andasse sempre tutto bene se non voleva che sua madre peggiorasse, e lui sarebbe stato davvero un ingrato a farla peggiorare per delle sciocchezze, piccoli dispiaceri da bambini. Era meglio nasconderglieli. Per esempio, in paese c’erano molte famiglie numerose, e Jean-Claude vedeva che, diversamente dalla sua, le altre case erano piene di vita, ma quando chiedeva perché lui non aveva né fratelli né sorelle intuiva di dare un dolore ai genitori. Intuiva che dietro quella domanda si nascondeva un segreto, che di fronte alla sua curiosità e soprattutto al suo dispiacere provavano dolore. «Dolore» era una parola di sua madre, alla quale lei attribuiva un significato stranamente concreto, quasi che si trattasse di una malattia organica che la minava. Lui sapeva che, se avesse confessato di essere affetto dalla stessa malattia, quella di sua madre, che era ben più grave della sua e rischiava addirittura di ucciderla, sarebbe peggiorata. Da un lato gli avevano insegnato a non mentire, e questo era un dogma assoluto: un Romand ha una parola sola, un Romand è limpido e cristallino come acqua di fonte. Dall’altro però certe cose, anche se erano vere, non andavano dette. Non bisognava amareggiare gli altri, né vantarsi dei propri successi o delle proprie virtù.

(Durante il processo, per chiarire il concetto, si è messo a raccontare che ogni tanto, mentre tutti li credevano al cinema a Ginevra, lui e sua moglie andavano a insegnare a leggere e a scrivere alle famiglie in difficoltà. Non ne avevano mai parlato con i loro amici né lui ne aveva accennato al giudice istruttore, e quando la presidente, sconcertata, gli ha domandato di essere più preciso – dove avvenissero le lezioni, quali fossero queste famiglie –, lui si è trincerato dietro la discrezione che doveva alla memoria di Florence: lei non avrebbe mai voluto sbandierare la loro generosità).

Stava per chiudersi il capitolo della sua infanzia, quando Abad, il suo avvocato, gli ha chiesto: «È vero che a quei tempi, se provava una gioia o un dolore, il suo unico confidente era il cane?». Romand ha aperto la bocca. Tutti ci aspettavamo una risposta banale, pronunciata con quel tono assennato e lamentoso a cui cominciavamo ad abituarci, ma non è uscito alcun suono. Romand ha vacillato. Ha cominciato a tremare piano, poi forte, dalla testa ai piedi, mentre dalla bocca gli sfuggiva una specie di cantilena disarticolata. Persino la madre di Florence ha girato lo sguardo dalla sua parte. Lui allora si è gettato a terra con un gemito da far gelare il sangue. L’abbiamo sentito sbattere la testa contro il pavimento, abbiamo visto le sue gambe sferzare l’aria sopra la gabbia. Gli agenti attorno a lui hanno fatto del loro meglio per tenere sotto controllo quel grande corpo ossuto in preda alle convulsioni, poi l’hanno portato via ancora scosso da gemiti e sussulti.

Ho scritto «da far gelare il sangue». Ho capito quel giorno quanta verità ci sia sotto tante frasi fatte: dopo la sua uscita si è davvero abbattuto sulla sala «un silenzio di tomba», finché la presidente, con voce incerta, ha annunciato che l’udienza era sospesa per un’ora. Solo una volta fuori dall’aula la gente ha cominciato a parlare, a cercare il significato di quell’episodio. Alcuni vedevano finalmente in quella crisi una reazione emotiva, dopo tutto il distacco ostentato fino a quel momento. Altri giudicavano mostruoso il fatto che a suscitare quella reazione in un uomo che aveva ucciso i propri figli fosse stato il ricordo di un cane. Altri ancora si chiedevano se non stesse fingendo. Io, che in teoria avevo smesso di fumare, ho scroccato una sigaretta a un vecchio disegnatore con la barba bianca e la coda di cavallo. «Lei ha capito» mi ha domandato lui «che sta cercando di fare l’avvocato?». No, non l’avevo capito. «Vuole farlo crollare. Quello sta lì come uno stoccafisso, e lui si rende conto che il pubblico lo trova freddo, per questo vuole mostrare il suo punto debole. Ma non si rende conto di rischiare grosso. Dia retta a me, sono quarant’anni che bazzico i tribunali francesi con la mia cartella da disegno, ormai li sgamo subito. Quell’uomo è completamente fuori di testa, gli psichiatri non avrebbero mai dovuto lasciargli affrontare il processo. Si controlla, controlla ogni cosa, è l’unico modo che ha per tener duro, ma se qualcuno lo punzecchia là dove non riesce più a controllarsi andrà in mille pezzi, così, davanti a tutti, e le assicuro che sarà spaventoso. Lì dentro credono di trovarsi davanti a un uomo, ma quello non è più un uomo, è un pezzo che ha smesso di essere un uomo. È come un buco nero, e vedrà che ci esploderà in faccia. La gente non sa cosa sia la pazzia. È terribile. È la cosa più terribile che ci sia al mondo».

Ho annuito. Pensavo al mio romanzo, La settimana bianca. Romand mi aveva detto che quel libro raccontava esattamente la sua infanzia. Pensavo al grande vuoto bianco che si era scavato a poco a poco dentro di lui fino a lasciare soltanto un simulacro di uomo vestito di nero, un baratro da cui proveniva la corrente d’aria gelida che faceva rabbrividire il disegnatore.

L’udienza è ripresa. Rimesso in sesto da un’iniezione, l’imputato ha provato a spiegare la sua crisi: «... L’accenno al cane mi ha ricordato tanti segreti della mia infanzia, segreti pesanti da portarsi dietro... Può sembrare indecente da parte mia parlare delle sofferenze della mia infanzia... Da piccolo non potevo parlarne perché i miei genitori non avrebbero capito, li avrei delusi... A quei tempi non mentivo, ma non confidavo mai le mie vere emozioni, se non al mio cane... Ero sempre sorridente e credo che i miei genitori non abbiano mai sospettato che ero triste... Non avevo nient’altro da nascondere allora, ma nascondevo questo: la mia angoscia, la mia tristezza... Magari sarebbero stati pronti ad ascoltarmi, come Florence del resto, eppure non sono mai riuscito a parlare... E quando rimani incastrato in questo ingranaggio, per non deludere, la prima bugia chiama la seconda, e poi vai avanti tutta la vita...».

Un giorno il cane è scomparso, e il bambino – questo almeno è quanto racconta da adulto – ha immaginato che il padre lo avesse abbattuto a colpi di fucile. O perché era ammalato e il padre voleva risparmiare al figlio il dolore di assistere alla sua agonia, o perché si era macchiato di una colpa così grave da meritare l’esecuzione capitale. Restava un’ultima possibilità: che il padre fosse stato sincero e il cane fosse veramente scomparso. Ma si direbbe che il bambino non l’abbia mai presa in considerazione, tanto era consueta la pratica della bugia a fin di bene in quella famiglia dove vigeva il divieto assoluto di mentire.

Durante tutto il processo, i vari cani della sua vita hanno risvegliato in lui intense emozioni. Stranamente, di nessuno ha mai pronunciato il nome. Li citava di continuo, faceva riferimento alle loro malattie e alle preoccupazioni che gli avevano causato per ricostruire la data dei vari avvenimenti. Molti hanno avuto l’impressione che, più o meno consapevolmente, con le lacrime che versava per quelle storie lui cercasse di esprimere qualcosa, che qualcosa tentasse di uscire da quella falla, qualcosa che alla fine non è uscito.

Quand’era interno al liceo di Lons-le-Saunier, era un adolescente solitario, poco portato per lo sport, intimidito non tanto dalle ragazze, che vivevano su un altro pianeta, quanto piuttosto dai compagni più svegli che si vantavano di frequentarle. Dice di aver trovato conforto in una fidanzata immaginaria, che chiamava Claude, ma gli psichiatri si chiedono se non se la sia inventata a posteriori a loro uso e consumo. Quel che si sa per certo, invece, è che alla maturità, sessione di giugno 1971, ha ottenuto un ottimo voto in filosofia scegliendo, fra le tre proposte, la traccia: «La verità esiste?».

In vista del concorso per entrare nel Corpo forestale, è stato ammesso per l’anno propedeutico di Agrotecnica al prestigioso liceo Du Parc di Lione, e lì le cose sono andate male. Lui dice di aver subìto i tipici scherzi che si fanno alle matricole, pur riconoscendo che non erano scherzi pesanti. È stato umiliato? Ha reagito ammalandosi: sinusiti a ripetizione, che gli hanno consentito di non tornare a Lione dopo le vacanze dei Morti e di passare il resto dell’anno scolastico rinchiuso in casa dei genitori.

Quel che è accaduto quell’anno a Clairvaux, soltanto lui potrebbe dirlo e non lo dice. È una lacuna nella sua vita. D’inverno, le notti sono lunghe da passare in un paesino del Giura. La gente se ne sta rintanata, accende presto le luci, scruta la provinciale attraverso le tende di garza e la nebbia. Gli uomini vanno al bar, ma lui non ci andava. Usciva poco, non parlava con nessuno tranne che con i genitori. Doveva confortarli nella convinzione che la sua malattia era di origine fisica, perché qualsiasi forma di dubbio o di malinconia sarebbe stata interpretata come un capriccio. Era un ragazzo alto, robusto, con il corpo liscio e flaccido, le dimensioni di un adulto e l’aspetto di un bambino impaurito. Anche la sua camera, che durante gli anni di collegio aveva usato ben poco, restava la cameretta di un bambino. E così sarebbe rimasta fino al giorno in cui, ventidue anni dopo, proprio lì dentro avrebbe ucciso suo padre.

Me lo immagino steso sul letto, ormai troppo piccolo per lui, a guardare il soffitto, a tenere a freno lo spavento quando di colpo fa buio, a stordirsi di letture. I suoi genitori possedevano soprattutto libri «pratici», volumi sui boschi e sull’arte di tenere la casa, qualche opera religiosa e uno scaffale intero dedicato alla seconda guerra mondiale. Diffidavano dei romanzi: soltanto quando il figlio era malato gli davano i soldi per comprarne qualcuno alla cartolibreria, dove l’espositore dei tascabili veniva rinnovato raramente. L’avevano iscritto a un corso per corrispondenza. Ogni settimana – era quasi un evento, in quella casa in cui di lettere ne arrivavano poche – il postino portava una grossa busta color salmone, incollata male, che lui doveva rispedire dopo aver fatto i compiti, in attesa che arrivasse la successiva con le correzioni e i voti. Jean-Claude si piegava a quel rito, ma studiava davvero? Ad ogni modo, per un certo periodo deve aver proseguito il programma solo per salvare la forma: non aveva il coraggio di confessarlo, ma aveva deciso di non frequentare più il corso di Agrotecnica, rinunciando quindi alla carriera nella Forestale.

La famiglia voleva che seguisse le orme di suo padre, e lui invece studierà Medicina. Un cambiamento di rotta che a prima vista dimostra la capacità di imporre la propria volontà nonostante le pressioni esterne. Eppure Romand sostiene di averla fatta a malincuore, quella scelta. In tutti gli interrogatori non fa che dilungarsi sul suo amore per i boschi, ereditato da Aimé, il quale considerava ogni albero come un essere vivente e meditava a lungo prima di indicare quelli da abbattere. La vita di un albero copre fino a sei generazioni di uomini: a casa sua era questa l’unità di misura dell’esistenza umana, collegata in modo organico alle tre generazioni precedenti e successive. Jean-Claude afferma che vivere e lavorare nella foresta, come avevano sempre fatto i suoi, era quanto di più bello potesse immaginare. Perché allora aveva rinunciato a quella prospettiva? Secondo me, lui sognava davvero di diventare forestale come suo padre, perché suo padre era un uomo rispettato, dotato di una reale autorità, insomma perché lo ammirava. Poi al liceo Du Parc la sua ammirazione si è scontrata con il disprezzo dei giovani borghesi benestanti, figli di medici o di avvocati, per i quali un amministratore forestale restava una specie di bifolco subalterno. Il mestiere di suo padre, anche a un livello più alto, dopo la laurea in un’università prestigiosa, ha smesso di sembrargli attraente, anzi dev’essersene vergognato. Si è messo a sognare l’ascesa sociale, un obiettivo assolutamente alla sua portata, visto che era bravo a scuola, e facile da raggiungere se diventava medico. Questo ha provocato in lui – come accade a ogni persona sensibile che si elevi rispetto al proprio ambiente – una lacerazione: sentiva di tradire i suoi, pur superando le loro più rosee aspettative. «Sapevo quale delusione avrei dato a mio padre» dice, anche se in realtà questa delusione non c’è stata: la preoccupazione iniziale ha subito lasciato il posto a un ingenuo orgoglio davanti ai successi del figlio. A quel punto Jean-Claude è costretto a dire che a essere deluso è stato lui, e che la facoltà di Medicina è stata un ripiego, poiché non era affatto la sua vocazione.

L’idea di curare i malati, di toccarne i corpi sofferenti gli ripugnava, non ne ha mai fatto mistero. Ad attirarlo, invece, era l’idea di acquisire conoscenze sulle malattie. Secondo il dottor Toutenu, uno degli psichiatri che lo hanno esaminato, Romand sbagliava quando affermava di non avere nessuna vocazione per la Medicina. A suo parere, invece, l’imputato possedeva le qualità per diventare un bravo medico, un medico vero, e alla base della sua scelta c’era una forte motivazione inconscia, condizione necessaria per prendere qualsiasi iniziativa: il desiderio di capire la malattia di sua madre, forse addirittura di guarirla. E poiché in quella famiglia era difficile distinguere tra la sofferenza psichica, rigorosamente proibita, e le sue manifestazioni organiche, che erano invece autorizzate, il dottor Toutenu è arrivato a dire che Romand sarebbe potuto diventare un ottimo psichiatra.

Jean-Claude aveva un altro buon motivo per iscriversi al primo anno di Medicina a Lione: lo avrebbe frequentato anche Florence, una lontana cugina che gli era capitato di incontrare alle feste di famiglia. Florence abitava ad Annecy con i genitori e due fratelli più piccoli. Suo padre lavorava in una ditta di montature per occhiali e uno dei fratelli è diventato ottico. Era una ragazza alta, sportiva, con un bel corpo, a cui piacevano i falò, le uscite in compagnia, e che preparava torte per le feste in parrocchia. Era cattolica senza ostentazione. Chiunque l’abbia conosciuta concorda nel definirla franca, onesta, tutta d’un pezzo, felice di vivere. «Una bella persona,» dice Luc Ladmiral «un po’ all’antica...». Per niente stupida, ma priva di malizia, ossia incapace di vedere il male non meno che di farlo. Sembrava destinata a una vita come tante, una parabola tracciata a priori, anche deprimente magari a voler essere cattivi (ma lei quelli cattivi non li frequentava): studi superiori ma senza grosse pretese, nell’attesa di trovare un marito solido e simpatico come lei; due o tre bei bambini da crescere con saldi princìpi e in allegria; una villetta nella periferia residenziale, con una cucina ben attrezzata; grandi feste in occasione del Natale e dei compleanni, con nonni e nipotini; un gruppo di amici affiatati; un tenore di vita in progressione moderata ma costante; poi i figli che se ne vanno l’uno dopo l’altro, i loro matrimoni, la camera del maggiore trasformata in sala da musica, perché finalmente hai tempo di ricominciare a suonare il piano; tuo marito che va in pensione, e a un tratto ti accorgi che gli anni sono volati, cominci ad avere qualche momento di tristezza, a trovare la casa troppo grande, le giornate troppo lunghe, le visite dei figli troppo rare; ripensi a quel tizio con cui hai avuto una breve avventura, l’unica, appena passata la quarantina, i segreti, l’euforia, i sensi di colpa, allora ti sentivi uno schifo, e poi hai scoperto che anche tuo marito aveva avuto una relazione, aveva addirittura pensato al divorzio; quando arriva l’autunno cominci a rabbrividire, è già il giorno dei Morti; finché, facendo un esame di routine, scopri all’improvviso di avere un cancro: ecco, è finita, nel giro di qualche mese sarai sottoterra.

Una vita banale, ma Florence avrebbe saputo farla sua, dandole un tocco personale, come una brava casalinga che sa dare un’anima alla propria casa e renderla accogliente per i suoi cari. A quanto pare non ha mai sognato altro, né inseguito in cuor suo una chimera. Forse la proteggeva la sua fede, che tutti ritengono fosse profonda. In lei non vi era traccia di bovarismo, né la benché minima predisposizione per le fughe, per i voltafaccia né ovviamente per la tragedia.

(Prima che la tragedia avvenisse, peraltro, tutti ritenevano che Jean-Claude fosse il marito ideale per una donna come lei. Nel corso del processo, la presidente si è scandalizzata per i suoi acquisti di cassette pornografiche, e gli ha chiesto ingenuamente che cosa se ne facesse. Quando l’imputato ha risposto che le guardava, a volte anche insieme a sua moglie, lo ha accusato di diffamare la memoria della defunta: «Chi mai potrebbe credere che Florence guardasse cassette pornografiche?» ha esclamato. E lui, abbassando il capo, ha mormorato:

«Nessuno, certo, come nessuno avrebbe creduto che le guardassi io»).

Quel sentiero dritto e lineare che sembrava destinato a essere la vita di Florence, lui ha deciso di percorrerlo con lei. A quanto dice, fin da quando aveva quattordici anni era sicuro che l’avrebbe sposata. Ostacoli non ce n’erano, ma non è chiaro se all’inizio lei ricambiasse i suoi sentimenti o no. A Lione, Florence divideva un appartamentino con altre due ragazze, sue compagne di studi. A sentir loro, era piuttosto infastidita dal corteggiamento timido e insistente di quel cugino venuto dal Giura, uno che piaceva soprattutto ai suoi genitori, i quali sembrava lo avessero incaricato di vegliare su di lei, tanto che ogni domenica sera, tornando da Annecy, Florence lo trovava ad aspettarla alla stazione Perrache. Lei aveva una quantità di amici e lui, che non conosceva nessuno, a furia di fare tappezzeria era riuscito ad aggregarsi al suo gruppo. Nessuno ci trovava nulla da ridire, però a nessuno veniva in mente di chiamarlo quando non c’era. In quella compagnia di bravi ragazzi, vivaci ma senza eccessi, che facevano gite in montagna e andavano qualche volta in discoteca il sabato sera, Romand era visto come il classico secchione, non molto divertente, ma nemmeno antipatico. Luc Ladmiral, invece, ne era il leader naturale. Rampollo di una vecchia famiglia di medici di Lione, era un bel ragazzo, sicuro di sé senza darsi arie, cattolico senza essere bigotto, che si preparava per il futuro senza rinunciare a godersi la giovinezza. Lui e Florence erano grandi amici, amici e basta. Jean-Claude gli passava gli appunti delle lezioni, talmente chiari che sembravano presi per essere letti da altri. Luc lo apprezzava per il suo carattere serio e leale. Parlava sempre bene di lui, gli piaceva dimostrare di saper giudicare al di là delle apparenze: là dove gli altri vedevano solo un placido campagnolo un po’ goffo, lui riconosceva un instancabile lavoratore che avrebbe fatto strada, e soprattutto un uomo limpido e corretto, degno di assoluta fiducia. La sua amicizia ha contribuito molto a farlo accettare dal gruppo, influenzando forse anche i sentimenti di Florence.

Le malelingue sostengono che lei aveva finito col cedergli per stanchezza; che era intenerita, commossa, ma non innamorata. Chi può saperlo? Dietro ogni coppia c’è un mistero. Quel che sappiamo è che per diciassette anni hanno festeggiato il primo maggio, che non era l’anniversario del matrimonio, ma quello del giorno in cui Jean-Claude aveva trovato il coraggio di dirle «ti amo», e che dopo questa dichiarazione lui ha avuto con lei – e molto probabilmente lei con lui – i suoi primi rapporti sessuali. Aveva ventun anni.

Il sesso è una delle lacune di questa storia. Per sua stessa ammissione, prima di Corinne, Jean-Claude non aveva conosciuto altre donne a parte sua moglie, e potrei sbagliare ma non credo che Florence abbia avuto avventure extraconiugali. La qualità della vita amorosa non dipende certo dal numero dei partner, e può esistere un’ottima intesa erotica fra persone che si mantengono fedeli per tutta la vita. È difficile però immaginare che questo fosse il caso di Jean-Claude e Florence Romand, altrimenti le cose sarebbero andate diversamente. Interrogato sull’argomento nel corso dell’istruttoria, lui si è limitato a rispondere che da quel punto di vista era tutto «normale», e per quanto strano possa sembrare, nessuna delle quattro coppie di psichiatri incaricate di esaminarlo ha cercato di approfondire quest’aspetto, né di formulare una qualche ipotesi al riguardo. In compenso, durante il processo, tra i veterani della stampa giudiziaria correva voce che a letto l’accusato non doveva essere un drago e che il problema era tutto lì. Questa beffarda diceria non si basava solo sull’impressione generale suscitata da Romand, ma anche su una strana coincidenza: ogni volta che una donna faceva l’amore con lui – Florence nella primavera del 1975, Corinne nella primavera del 1990 –, poi si affrettava a troncare il rapporto, e per Jean-Claude iniziava un periodo di depressione. Subito dopo aver ceduto alle sue avance, Corinne gli ha fatto un discorsetto affettuoso e ragionevole del tipo: fermiamoci qui, tengo troppo alla nostra amicizia per rischiare di rovinarla, credimi, è meglio così, e via di questo passo. Lui è rimasto ad ascoltarla come un bambino punito, al quale si spiega, per consolarlo, che il castigo è a fin di bene. Allo stesso modo, quindici anni prima, dopo essersi messa con lui da qualche giorno, Florence, col pretesto di doversi concentrare sugli esami, aveva deciso che era meglio che non si vedessero più. Sì, sarebbe stato molto meglio così.

A questo rifiuto, Romand ha reagito, come al liceo Du Parc, con una depressione inconfessata e un atto mancato. Forse è la sveglia che non ha suonato, o forse è lui che non ha voluto sentirla, ad ogni modo non si è alzato in tempo per uno degli ultimi esami del secondo anno, ed è stato rimandato alla sessione di settembre. Non era una tragedia, per l’ammissione al terzo anno gli mancavano pochi punti. Eppure ha trascorso un’estate malinconica, perché se da un lato, per il bene dei loro studi, Florence continuava a non volerlo vedere, dall’altro lui sapeva da amici comuni che quell’inflessibile risoluzione non le impediva di uscire con gli altri e di divertirsi, cosa che lo faceva intristire ancora di più, solo com’era a Clairvaux. Poi è arrivato settembre, con la riapertura dell’università, e lui si è ritrovato al bivio.

Tra la separazione decisa da Florence e la ripresa di settembre, subito prima delle vacanze estive, si è verificato un episodio premonitore. Jean-Claude era in discoteca, c’erano tutti i soliti amici tranne Florence, già partita per Annecy. A un certo punto lui ha detto che usciva a prendere le sigarette in macchina. È tornato dopo diverse ore, probabilmente senza che nessuno si fosse preoccupato per quell’assenza prolungata. Aveva la camicia strappata, macchiata di sangue, e un’aria sconvolta. Ha raccontato a Luc e agli altri di essere stato aggredito da alcuni sconosciuti: minacciandolo con una pistola, l’avevano costretto a entrare nel bagagliaio della sua macchina e gli avevano preso le chiavi. L’auto era partita a una velocità pazzesca, mentre lui, in preda al panico, veniva sballottato e ammaccato a ogni scossone. Il viaggio gli era parso lunghissimo: era sicuro che quei tipi, che lui non aveva mai visto prima e che forse lo stavano scambiando per qualcun altro, l’avrebbero ucciso. Alla fine l’avevano fatto uscire dal bagagliaio, nello stesso modo brutale e arbitrario con cui l’avevano gettato dentro, riempito di botte e abbandonato sul ciglio della strada per Bourg-en-Bresse, a cinquanta chilometri da Lione. Gli avevano lasciato la macchina, e lui in qualche modo era riuscito a tornare indietro.

«Ma insomma, che cosa volevano da te?» gli hanno chiesto gli amici stupefatti. Lui ha scosso il capo: «E che ne so? Non ci capisco niente. Mi faccio le stesse domande che vi fate voi». Doveva avvertire la polizia, sporgere denuncia. Jean-Claude ha detto che l’avrebbe fatto, però i registri dei commissariati di Lione non ne recano traccia. Per qualche giorno gli hanno chiesto se c’erano novità; poi sono arrivate le vacanze, ognuno se n’è andato per conto proprio e non sono più tornati sull’argomento. Diciott’anni dopo, cercando nel passato dell’amico qualcosa che potesse spiegare la tragedia, a Luc è tornata in mente quella storia e l’ha raccontata al giudice istruttore, che la conosceva già. In uno dei primi colloqui con gli psichiatri l’imputato l’aveva menzionata spontaneamente per fornire un esempio della sua mitomania: come da adolescente si era inventato una fidanzatina di nome Claude, così si era inventato quell’aggressione per rendersi interessante. «Dopo però non sapevo più se quell’episodio era vero o falso. Ovviamente non ricordo di aver subìto una reale aggressione, so che non si è mai verificata, però non ricordo neppure di averla simulata, di essermi strappato la camicia o graffiato con le mie mani. Se ci penso, mi dico che devo averlo fatto per forza, eppure non me lo ricordo. Così alla fine mi sono convinto di essere stato davvero aggredito».

Ciò che sorprende di più in questa confessione è che non era assolutamente tenuto a rilasciarla. A distanza di diciott’anni nessuno avrebbe potuto verificare quella storia. Nessuno avrebbe potuto verificarla nemmeno quando, tornato in discoteca, l’aveva raccontata ai suoi amici. Peraltro era una storia che non stava in piedi e proprio per questo, paradossalmente, a nessuno era venuto in mente di metterla in dubbio. In genere un bugiardo si sforza di essere plausibile: il suo racconto non lo era, quindi doveva essere vero.

Quando avevo quattordici anni, in prima liceo, molti miei compagni si sono messi a fumare. Io volevo fare come loro, ma ero il più piccolo della classe, e avevo paura che mi prendessero in giro. Così avevo architettato uno stratagemma. Prendevo una sigaretta dalla stecca di Kent che mia madre aveva comprato di ritorno da un viaggio (le teneva in casa per offrirle agli ospiti), la infilavo nella tasca del giaccone e al momento giusto, al bar dove ci incontravamo dopo le lezioni, la tiravo fuori. La esaminavo tutto stupito, aggrottando la fronte. Con una voce che mi pareva pateticamente stridula, chiedevo chi me l’avesse ficcata in tasca. Ovviamente non si faceva avanti nessuno, e soprattutto nessuno prestava molta attenzione all’incidente, che commentavo soltanto io. Ero sicuro di non avere sigarette in tasca quando ero uscito di casa, quindi qualcuno doveva averla messa lì a mia insaputa. Ripetevo che era proprio un mistero, come se questo bastasse ad allontanare il sospetto che fossi stato io a organizzare quella messinscena per attirare l’attenzione su di me. Fatto sta che non l’attiravo per niente. Non che si rifiutassero di ascoltarmi, ma i più concilianti si limitavano a mormorare: «Mah, strano», e tutto finiva lì. Io credevo di averli posti davanti a un vero dilemma, di quelli che non ti danno tregua finché non hai trovato la soluzione. O le cose stavano come dicevo io, e qualcuno mi aveva messo in tasca la sigaretta, allora la domanda era: perché? Oppure ero stato io a mettercela, e stavo mentendo, ma la domanda era sempre la stessa: perché? a che scopo? Alla fine scrollavo le spalle con falsa noncuranza e dicevo che dopotutto, visto che la sigaretta era lì, non mi restava che fumarla; e così facevo. Però rimanevo sorpreso e deluso perché gli altri non sembravano aver notato nulla di particolare, niente di più dei soliti gesti di un fumatore – prendere una sigaretta e accenderla –, quello che facevano tutti e che io desideravo fare senza averne il coraggio. Nessuno pareva essersi accorto delle mie acrobazie, di tutta quella commedia per riuscire a dire che fumavo ma che se fumavo era in seguito a circostanze del tutto eccezionali; che non si trattava insomma di una mia scelta (per cui temevo di essere preso in giro, anche se nessuno ne aveva la benché minima intenzione), ma di un obbligo legato a un mistero. Quindi non ho difficoltà a immaginare lo stupore di Romand quando i suoi amici hanno accettato tranquillamente la sua spiegazione inverosimile. Era uscito, poi era tornato raccontando che qualcuno l’aveva massacrato di botte. E allora?