L’ultimo anno è trascorso sotto il peso di quella minaccia, che fino allora incombeva sulla sua vita in modo diffuso. Ogni volta che incrociava qualcuno, che qualcuno gli rivolgeva la parola o a casa sua il telefono squillava, l’angoscia gli stringeva lo stomaco: l’ora era scoccata, il suo imbroglio stava per essere scoperto. Il pericolo poteva arrivare da qualsiasi parte, il più banale avvenimento della vita quotidiana poteva dare il via a un finale catastrofico che nulla sarebbe stato in grado di fermare. Adesso però una particolare variante del finale sembrava più verosimile delle altre, e per quanto si ripetesse quel che viene ripetuto ai malati gravi, ovvero che potrebbero benissimo morire per un’influenza o per la puntura di una vespa, l’idea di quella versione continuava a ossessionarlo. Più il colpo tardava ad arrivare, più diventava disperatamente inevitabile. Se Corinne gli avesse chiesto indietro i soldi una settimana dopo averglieli affidati, avrebbe potuto ancora restituirglieli e cercare un altro modo – ma quale? – per vivere senza un reddito fingendo di averlo. Ma via via che le settimane e i mesi passavano, la somma che in teoria doveva essere investita diminuiva. Preso nel vortice, Romand non cercava nemmeno più di far durare il capitale, anzi spendeva in modo frenetico. Quando Corinne gli avesse chiesto i soldi, come ne sarebbe uscito? Solo qualche anno prima avrebbe potuto cercare di mettere insieme la somma ricorrendo ai suoi benefattori abituali: i genitori, lo zio Claude e la famiglia di Florence. Ma, per ovvi motivi, conosceva la situazione economica di ciascuno di loro. Aveva già preso tutto, speso tutto. Non aveva più nessuno a cui rivolgersi.
E allora? Raccontare a Corinne che era stato aggredito e che gli avevano rubato la valigetta con le banconote? Confessarle la verità? Una parte della verità: che si trovava in una situazione finanziaria intricatissima in cui aveva trascinato anche lei? Tutta la verità: diciassette anni di menzogne? Oppure prelevare ciò che restava e salire su un aereo diretto all’altro capo del mondo? Non tornare mai più, scomparire? Lo scandalo sarebbe scoppiato in poche ore, ma lui non sarebbe stato costretto a leggere lo sgomento negli occhi dei suoi cari. Poteva darsi per morto, simulando un suicidio. Non avrebbero mai rinvenuto il cadavere, ma avrebbero trovato l’auto con un biglietto d’addio, in montagna, vicino a un dirupo... Una volta dichiarato morto, sarebbe stato davvero al sicuro. Ma anche vivo. E da solo, pur avendo i soldi, di quella vita non avrebbe saputo cosa farsene. Uscire dalla pelle del dottor Romand significava ritrovarsi senza pelle. Più che nudo: scorticato.
Sapeva fin dall’inizio che la conclusione logica della sua storia era il suicidio. Aveva pensato spesso di uccidersi, senza mai trovarne il coraggio, e in un certo senso la certezza che prima o poi l’avrebbe fatto rendeva il coraggio superfluo. Aveva passato la vita ad aspettare il giorno in cui quel gesto sarebbe diventato improrogabile. C’era andato vicino cento volte e cento volte un miracolo, o il caso, l’avevano salvato. Senza illudersi sull’esito finale, era curioso di sapere fino a quando il destino gli avrebbe concesso un rinvio.
Lui che aveva tanto supplicato Corinne di telefonargli, e richiamava dieci volte la casella vocale per risentire la sua voce se per caso gli aveva lasciato un messaggio, adesso preferiva tenerla spenta. Non si faceva più vivo. Corinne, dal canto suo, temendo che rispondesse Florence, non osava telefonare a Prévessin. La sua migliore amica continuava a ripeterle che era stata una pazza ad affidare tutti i suoi soldi, senza garanzia, senza procura, senza niente di niente, a un malato di cancro in fase terminale. Se fosse morto, chi l’avrebbe avvertita? E chi le diceva che non fosse già morto e sepolto? Il conto in Svizzera era a nome suo: lei poteva smuovere mari e monti, la vedova non le avrebbe mai restituito un centesimo. Corinne era sempre più preoccupata, e così il marito della sua migliore amica ha lasciato, a proprio nome, messaggi insistenti nella segreteria di Prévessin. Nessuna risposta. Era già l’inizio dell’estate. Corinne si è ricordata che ogni anno, in luglio, Florence sostituiva la farmacista di un paesino del Giura, e che la famiglia alloggiava dai genitori di Jean-Claude. Li hanno cercati in tutti i modi, e alla fine sono riusciti a incastrarlo. Non aveva mai richiamato perché era stato a lungo in ospedale: aveva fatto la radioterapia, era molto provato. Lei lo ha ascoltato, lo ha compatito, poi è venuta al punto: voleva recuperare il suo denaro, almeno in parte. Non era tanto semplice, ha obiettato lui, bisognava rispettare certe scadenze... «Ma se mi avevi assicurato che potevo ritirarlo quando e come volevo...». In teoria sì, ma solo in teoria. Se voleva guadagnarci anziché rimetterci, l’intero importo doveva restare bloccato fino a settembre; e di fatto lo era comunque, come lui del resto, che era malato, inchiodato a letto, nell’impossibilità fisica di recarsi a Ginevra. Nell’immediato, tutto ciò che poteva fare per venirle incontro era vendere l’automobile. Corinne si è innervosita: gli aveva chiesto di recuperare i suoi soldi depositati in banca, non di vendersi la macchina facendole pesare la cosa, per giunta. In un modo o nell’altro, è riuscito a calmarla.
Quell’anno gli estratti conto della sua Premier Card registrano acquisti regolari di fotoromanzi e cassette pornografiche nei sexy-shop, e circa due volte al mese il pagamento di massaggi al Marilyn Center o al club Only you di Lione. Le impiegate dei due istituti lo ricordano come un cliente calmo, cortese e poco loquace. Lui dice che i massaggi gli davano la sensazione di esistere, di avere un corpo.
In autunno Florence ha smesso di prendere la pillola. Il fatto si presta a una duplice interpretazione, ma secondo la testimonianza della sua ginecologa stava pensando di avere un terzo figlio.
In qualità di vicepresidente del comitato genitori della Saint-Vincent, Florence si occupava del catechismo, organizzava la festa di fine anno e cercava volontari disposti ad accompagnare i bambini in piscina o a sciare. Luc, invece, faceva parte del consiglio scolastico; per distrarre Jean-Claude, ha cercato di coinvolgerlo, e questi, spinto dalla moglie, ha accettato. Per lui non era una semplice distrazione, ma una forma d’inserimento nella vita reale: una volta al mese andava a un appuntamento che non era fittizio, incontrava altre persone con cui parlava e, pur continuando a recitare la parte dell’uomo occupato, avrebbe sollecitato volentieri qualche riunione supplementare.
A un certo punto è successo che il direttore della scuola, sposato e padre di quattro figli, ha allacciato una relazione con una maestra, pure lei sposata. La faccenda è venuta fuori e i genitori l’hanno presa male. Alcuni hanno cominciato a lamentarsi: non valeva la pena di mandare i figli in una scuola cattolica se poi l’esempio che ricevevano era quello di una coppia di libertini. Così il consiglio ha deciso di intervenire. All’inizio delle vacanze estive c’è stata una riunione a casa di Luc, in cui si è deciso di chiedere le dimissioni del colpevole: la direzione diocesana l’avrebbe sostituito con una maestra al di sopra di ogni sospetto. Per evitare lo scandalo, tutto doveva avvenire all’inizio del nuovo anno scolastico, come peraltro è accaduto. Ma le testimonianze su quanto è stato detto nel corso della riunione non coincidono affatto. Luc e gli altri assicurano che la decisione è stata presa all’unanimità, ossia che Jean-Claude era d’accordo con loro. Lui invece sostiene che non era per niente d’accordo, che i toni si sono accesi e che si sono lasciati male. Insiste sul fatto che non era da lui comportarsi in quel modo: sarebbe stato molto più semplice e conforme al suo carattere allinearsi all’opinione degli amici.
Non c’è ragione di pensare che gli altri abbiano mentito, quindi suppongo che Romand abbia manifestato il proprio dissenso, ma con così poca convinzione che in seguito gli amici non solo non se ne sono ricordati, ma sul momento non hanno nemmeno registrato la sua protesta. Erano così abituati a vedergli approvare qualsiasi cosa che non l’hanno letteralmente sentito. Lui, d’altronde, era così poco abituato a farsi sentire che quello che ricorda non è il volume reale del proprio intervento – un balbettio, l’accenno sommesso di una riserva – ma il fragore indignato che gli ribolliva dentro, al quale ha tentato invano di dare voce. Ha sentito se stesso affermare con tutta l’enfasi necessaria quello che avrebbe voluto dire, e non quello che gli altri hanno sentito. Può anche darsi che non abbia detto assolutamente nulla, che abbia semplicemente pensato, sognato di dirlo, poi rimpianto di non averlo detto, e per finire si sia convinto di averlo detto sul serio. Una volta a casa, ha raccontato tutto a sua moglie: la congiura contro il direttore e la cavalleresca battaglia che aveva condotto in sua difesa. Florence era virtuosa ma non bigotta, e non le piaceva intromettersi nella vita privata degli altri. L’ha commossa il fatto che suo marito, conciliante per natura, affaticato dalla malattia, alle prese con problemi infinitamente più importanti, avesse preferito rinunciare alla tranquillità pur di non rendersi complice di un’ingiustizia. E quando alla riapertura delle scuole si è trovata di fronte al fatto compiuto, col direttore decaduto al rango di semplice maestro e sostituito da un’insegnante il cui rigido puritanesimo l’aveva sempre esasperata, Florence, dinamica come al solito, ha organizzato una crociata in favore del perseguitato. Ha portato avanti una campagna per sensibilizzare le madri degli allievi, ottenendo ben presto l’appoggio di una parte del comitato genitori. L’iniziativa del consiglio è stata contestata. I due organi, che fino a quel momento avevano funzionato in perfetto accordo, si sono trasformati in due opposti schieramenti, capeggiati rispettivamente da Florence Romand e Luc Ladmiral, che pure erano amici da sempre. Questo conflitto ha avvelenato il primo trimestre.
Non contento di sostenere la moglie, Jean-Claude rincarava la dose. All’uscita della scuola arringava i presenti: lui, sempre così tranquillo, gridava che uno come lui, dopo essersi battuto per il rispetto dei diritti dell’uomo in Marocco, non era certo disposto a vederli calpestare a Ferney-Voltaire. Stanchi di passare per bacchettoni, i sostenitori del consiglio e della nuova direttrice obiettavano che il problema non era tanto l’immoralità dell’ex direttore quanto la mancanza d’incisività della sua gestione: semplicemente, non era all’altezza dell’incarico. Al che Jean-Claude rispondeva che non sempre si può essere all’altezza, non sempre si fa ciò che si vuole, ed è meglio capire e aiutare piuttosto che giudicare e condannare. Difendeva, contro i grandi princìpi, l’uomo nudo e soggetto all’errore, quello che pur volendo fare il bene non può impedirsi di fare il male, come dice san Paolo. Sapeva che stava perorando la propria causa? Di sicuro sapeva che stava rischiando grosso.
Per la prima volta, nella loro piccola comunità, la gente s’interessava a lui. Correva voce che fosse stato lui a scatenare quel putiferio, alcuni dicevano che era una banderuola, altri che era amico intimo del direttore dalla condotta immorale. L’impressione generale, comunque, era che in quella faccenda si fosse comportato in modo ambiguo. Luc, benché offeso, cercava di placare gli animi: Jean-Claude aveva seri problemi di salute, era per questo che perdeva colpi. Nonostante ciò, gli altri congiurati reclamavano un confronto, cosa che in sé per lui rappresentava un pericolo mortale. Era quello che temeva da diciotto anni. Giorno dopo giorno, un miracolo glielo aveva risparmiato, ma ora gli era impossibile evitarlo: non per una fatalità alla quale non poteva opporsi, ma per colpa sua, perché per la prima volta nella sua vita aveva detto quello che pensava. A farlo piombare nella più cupa angoscia è arrivata una notizia riportata da un vicino: Serge Bidon, un altro membro del consiglio scolastico, aveva minacciato di spaccargli la faccia.
La testimonianza più impressionante del processo è stata quella di Claude Romand, suo zio. È entrato, sanguigno, tarchiato, con le spalle possenti strette in un completo che sembrava sul punto di scoppiare; poi, alla sbarra, anziché guardare la Corte come tutti gli altri, si è girato verso il nipote. Con i pugni sui fianchi, sicuro che nessuno avrebbe osato dirgli nulla, l’ha squadrato, con tutta calma, forse per trenta secondi, un tempo infinito. Romand era annichilito e tutti in sala hanno pensato la stessa cosa, che non era solo per il rimorso e la vergogna: nonostante la distanza, il vetro, gli agenti, aveva paura di essere picchiato.
Ciò che gli si leggeva sul volto in quel momento era il suo terrore della violenza fisica. Aveva scelto di vivere circondato da persone in cui l’istinto dello scontro fisico si era atrofizzato, ma ogni volta che tornava nel suo paese d’origine doveva sentire che quell’istinto era pronto a riaffiorare. Da adolescente, negli occhietti azzurro pallido dello zio leggeva il disprezzo beffardo di un uomo che sta bene nel suo corpo e nel mondo, di fronte a uno sbarbatello sempre immerso nei libri. In seguito, dissimulata dietro l’ammirazione dei parenti per il brillante rampollo, Jean-Claude aveva scorto una carica di violenza destinata a scoppiare alla prima occasione. Lo zio Claude lo prendeva in giro, gli dava pacche sulle spalle, come gli altri gli affidava i suoi risparmi da investire, ma era l’unico a chiederne notizie. Se un giorno, fra loro, qualcuno doveva avere un sospetto, quello era lui. Sarebbe bastato che quel sospetto lo sfiorasse, e avrebbe capito in un attimo, mettendo il nipote con le spalle al muro. Allora l’avrebbe picchiato. Prima di denunciarlo, prima di tutto, l’avrebbe riempito di botte con i suoi pugni enormi. Gli avrebbe fatto male.
Stando a chi lo conosce, Serge Bidon è l’uomo più mite del mondo. La minaccia, ammesso che sia stata proferita, non era certo da prendere alla lettera. Eppure Romand moriva di paura. Non osava più rientrare a casa, né andare nei posti che frequentava di solito. Tutto il suo corpo si ribellava. Da solo, in macchina, biascicava fra i singhiozzi: «Vogliono spaccarmi la faccia... Vogliono spaccarmi la faccia...».
L’ultima domenica dell’Avvento, all’uscita dalla messa, Luc ha lasciato per un attimo Cécile e i bambini per parlare con Florence, che era andata in chiesa con i figli, ma senza Jean-Claude. Prima della comunione si erano scambiati il segno della pace, avevano letto il passo del Vangelo in cui Gesù dice che è inutile pregare se non si è in pace con il prossimo. Così le si è avvicinato per riconciliarsi con lei, per mettere fine, prima di Natale, a quel ridicolo screzio fra loro. «Ok, non sei d’accordo con noi, vuoi che resti quel pagliaccio. Liberissima: gli amici non devono mica essere d’accordo su tutto. Ma mica ci terremo il muso in eterno per una cosa del genere!». Florence gli ha sorriso e si sono abbracciati, felici di riappacificarsi. Comunque, non ha potuto trattenersi dall’aggiungere Luc, se Jean-Claude non era d’accordo doveva dirlo subito, ne avremmo parlato... Florence si è accigliata: ma è quello che ha fatto, no? No, ha risposto Luc, non l’ha fatto, ed è proprio questo che ci è rimasto sul gozzo. Non ce l’abbiamo con lui perché ha preso le difese dell’ex direttore, ovviamente era libero di farlo, ma perché ha votato insieme agli altri a favore della sua rimozione e poi, senza consultare nessuno, è partito lancia in resta per combattere una scelta che lui stesso aveva approvato, mettendo in ridicolo l’intero consiglio. A mano a mano che parlava, rispolverando per puro dovere di cronaca rimostranze che aveva sinceramente deciso di dimenticare, Luc ha visto sbiancarsi il volto di Florence. «Puoi giurarmi che Jean-Claude ha votato a favore delle dimissioni?». Certo che poteva giurarlo, e con lui tutti gli altri, ma ormai non aveva più nessuna importanza: l’ascia di guerra era sotterrata, avrebbero festeggiato il Natale tutti insieme. Più ripeteva che l’incidente era chiuso, più si rendeva conto che per Florence non lo era affatto, anzi, le sue parole, che a lui sembravano insignificanti, aprivano una voragine dentro di lei. «Mi ha sempre detto di aver votato contro...». Luc non osava nemmeno più ribadire che la cosa non aveva importanza. Intuiva invece che era importante, che qualcosa di estremamente importante stava accadendo in quel momento, anche se non capiva che cosa. Aveva la sensazione di veder implodere Florence, lì, di fronte a lui, davanti alla porta della chiesa, e di non poter fare nulla. Lei toccava nervosamente i figli, tratteneva con la mano Caroline che cominciava a spazientirsi, sistemava il cappuccio di Antoine; le sue dita avevano iniziato a muoversi come vespe impazzite e le labbra, ormai esangui, ripetevano piano: «Allora mi ha mentito... mi ha mentito...».
Il giorno dopo, all’uscita della scuola, Florence ha scambiato due parole con una signora, il cui marito lavorava anche lui all’OMS. La signora contava di portare sua figlia alla festa di Natale per i dipendenti, e voleva sapere se Antoine e Caroline ci sarebbero andati. A quel punto, Florence è impallidita e ha mormorato: «Questa volta dovrò arrabbiarmi con mio marito».
Quando al processo si è cercato di interpretare quella testimonianza, Romand ha detto che Florence sapeva da anni che c’era una festa di Natale all’OMS. Ne avevano discusso varie volte: lui era contrario a portarci i bambini perché non gli piaceva approfittare di quel genere di vantaggi, mentre a lei dispiaceva che i suoi princìpi troppo rigidi li privassero di quella gioia. La domanda della signora poteva aver risvegliato l’irritazione di Florence, ma certo non avere su di lei l’effetto di una rivelazione. Del resto, ha sottolineato Romand, se avesse avuto il minimo sospetto, le sarebbe bastato alzare il telefono e chiamare l’OMS.
«E chi ci dice che non l’abbia fatto?» ha chiesto la presidente.
Poco prima delle vacanze di Natale il presidente del consiglio scolastico ha tentato di mettersi in contatto con Romand, sempre per la storia del direttore. Non lo conosceva abbastanza per sapere che nessuno poteva chiamarlo in ufficio e, visto che lavorava anche lui a Ginevra per un organismo internazionale, ha chiesto alla sua segretaria di cercarlo sull’elenco telefonico dell’OMS. Poi nella banca dati del fondo pensione degli organismi internazionali. Stupito di non trovarlo da nessuna parte, ha concluso che un motivo doveva esserci; e siccome la faccenda non era molto importante, non ci ha più pensato fino al giorno in cui, dopo le vacanze, ha incontrato Florence nella strada principale di Ferney. Allora le ha raccontato l’accaduto. Nella sua voce non c’era ombra di sospetto, era solo curioso di scoprire il perché di quella stranezza; e Florence ha reagito sullo stesso tono. Sì, era strano, doveva esserci per forza una spiegazione, ne avrebbe parlato con Jean-Claude. Non si sono rivisti. Una settimana più tardi lei era morta e nessuno saprà mai se ne abbia parlato o meno con il marito. Lui sostiene di no.
Pur non sapendo da dove sarebbe arrivato il primo colpo, Romand sapeva che la tempesta si avvicinava. Presto nei suoi conti in banca non ci sarebbe stato più un soldo, e lui non aveva la minima possibilità di rimpinguarli. La gente parlava di lui, ce l’aveva con lui. Per le strade di Ferney si aggirava un individuo che minacciava di spaccargli la faccia. Mani sfogliavano elenchi. Lo sguardo di Florence era cambiato. Lui aveva paura. Ha telefonato a Corinne e l’ha trovata depressa: aveva appena rotto con il dentista, quello che non si lasciava menare per il naso. Qualche mese prima quella notizia gli avrebbe ridato speranza. Adesso era irrilevante. Ma lui si comportava come il re di una partita a scacchi minacciato su tutti i fronti, al quale resta solo una casella su cui andare: la partita è persa, non c’è dubbio, tanto varrebbe abbandonare, eppure si sposta ugualmente su quella casella, se non altro per vedere come l’avversario riuscirà a metterlo in trappola. Il giorno stesso ha preso l’aereo per Parigi e ha portato Corinne a cena da Michel Rostang; le ha regalato una cornice di radica e una cartella di pelle in cui riporre le lettere, comprati da Lancel per 2120 franchi. Per due ore, nel cerchio di luce soffusa che isolava il loro tavolo, si è sentito al sicuro. Ha recitato la parte del dottor Romand pensando che era l’ultima volta, che comunque presto sarebbe morto e che niente aveva più importanza. Alla fine della cena Corinne gli ha detto che stavolta intendeva davvero recuperare i soldi, ormai aveva deciso. Invece di cercare una scappatoia, lui ha tirato fuori l’agenda per fissare il prossimo appuntamento, in cui le avrebbe portato l’intera somma. Girando le pagine gli è venuta un’idea: all’inizio dell’anno doveva cenare con il suo amico Bernard Kouchner, erano già d’accordo; a Corinne avrebbe fatto piacere unirsi a loro? Certo che a Corinne avrebbe fatto piacere. Preferibilmente un sabato, il 9 o il 16, per Kouchner era indifferente. Allora il 9, ha deciso Corinne, è più vicino. Lui avrebbe preferito il 16, perché era più lontano, ma non ha detto niente. Il dado era tratto. Prima del 9 gennaio sarebbe morto. Durante il viaggio di ritorno ha continuato a studiarsi l’agenda, come un uomo d’affari oberato d’impegni. Natale non era certo la data giusta, sarebbe stato troppo crudele per i bambini. Caroline doveva interpretare Maria e Antoine uno dei pastorelli nel presepe vivente della chiesa. Allora subito dopo Capodanno?
È andato a prendere i genitori a Clairvaux per festeggiare il Natale tutti insieme. Nel bagagliaio, sotto l’albero, aveva sistemato uno scatolone pieno di carte conservate nella sua cameretta di una volta: vecchie lettere, taccuini, un quaderno rilegato di velluto nel quale, assicura lui, all’epoca del fidanzamento Florence gli aveva dedicato delle poesie d’amore. Le ha bruciate in fondo al giardino, insieme ad altri scatoloni che si trovavano in soffitta e contenevano i suoi taccuini. Romand afferma di aver scritto, nel corso degli anni, in decine di taccuini testi più o meno autobiografici, a cui dava una forma romanzesca per fuorviare Florence qualora le fossero capitati tra le mani, ma abbastanza aderenti alla realtà per avere il valore di una confessione. Tra le mani di Florence non sono mai capitati, o forse lei non ha mai avuto la curiosità di leggerli, o quantomeno non gliene ha mai parlato – oppure, ultima ipotesi, quei taccuini non esistevano.
Romand afferma anche che prima di uccidersi voleva lasciare un messaggio a Florence, e che nei giorni tra Natale e Capodanno ci ha provato in continuazione. Lettere, ma anche cassette che incideva da solo in macchina su un piccolo registratore: «Perdonami, non sono degno di vivere, ti ho mentito, però il mio amore per te e per i bambini non era una menzogna...». Ma non ci è riuscito: «Ogni volta che cominciavo mi mettevo al posto suo, mentre leggeva o ascoltava le mie parole e...».
La voce gli si spezza, china il capo.