— Ancora nessuna notizia di Leigh o di Severn? — domandò Gladstone.

— Nessuna — rispose Akasi. Il viso della giovane nera era illuminato dalla luce livida del sole del Sistema Patrio in alto e dal gioco di fulmini in basso. — Le autorità del Nucleo dicono che forse c’è stato un cattivo fun-zionamento del teleporter.

Gladstone sorrise senza calore. — Sì. Riesci a ricordare un cattivo fun-zionamento di teleporter in vita tua, Sedeptra? In un qualsiasi punto della Rete?

— No, signora.

— Il Nucleo non ritiene necessario usare sottigliezza. Loro credono di poter rapire chi vogliono senza essere ritenuti responsabili. Sono convinti che abbiamo troppo bisogno di loro, in questa situazione estrema. E sai una cosa, Sedeptra?

— Cosa?

— Hanno ragione. — Gladstone scosse la testa e si girò di nuovo verso la lunga discesa che portava nella Sala di Guerra. — Tra meno di dieci minuti gli Ouster accerchieranno Bosco Divino. Scendiamo a unirci agli altri.

Il mio incontro con il consulente Albedo è programmato al termine di questa riunione?

— Sì, Meina. Non credo… voglio dire, alcuni di noi ritengono che sia troppo pericoloso affrontarli in modo così diretto.

Gladstone esitò, sulla soglia della Sala di Guerra. — Perché? — domandò, stavolta con un sorriso sincero. — Pensate che il Nucleo mi faccia scomparire, come ha fatto con Leigh e Severn?

Akasi aprì bocca, ci ripensò, allargò le mani.

Gladstone le toccò la spalla. — Se lo fanno, Sedeptra, sarà un atto mise-ricordioso. Ma penso che non lo faranno. Le cose sono andate troppo avanti: secondo loro, l’azione di un singolo individuo non potrà più cambiare il corso degli eventi. — Gladstone ritrasse la mano, lasciò morire il sorriso.

— E forse hanno ragione.

Senza dire altro, le due donne raggiunsero il cerchio di militari e politici in attesa.

— Il momento si avvicina — disse la Vera Voce dell’Albero Mondo Sek Hardeen.

Padre Paul Duré fu strappato alle fantasticherie. Nell’ultima ora, la disperazione e l’esasperazione si erano attenuate, prima in rassegnazione, poi in qualcosa di simile al piacere, al pensiero di non dover più fare scelte, di non avere altri obblighi. Duré era rimasto seduto, in socievole silenzio, con il capo della Confraternita Templare, a guardare il tramondo del sole di Bosco Divino e la proliferazione di stelle e le luci nella notte che stelle non erano.

Si era meravigliato che il Templare rimanesse isolato dalla sua gente, in quel momento cruciale; ma riflettendo sulle concezioni religiose dei Templari, capì che i Seguaci del Muir avrebbero accolto in solitudine un simile momento di distruzione potenziale, sulle piattaforme più sacre e nei recessi ombrosi più segreti dei loro alberi più sacri. E gli occasionali commenti sottovoce di Hardeen, da sotto il cappuccio della tonaca, rivelarono a Duré che la Vera Voce era in contatto con i colleghi Templari, tramite comlog o impianti.

Eppure, era un modo tranquillo di attendere la fine del mondo, seduti a grande altezza sul più alto albero vivente della galassia conosciuta, ascoltando la tiepida brezza della sera far frusciare un milione di acri di foglie e guardando le stelle sfavillare e le lune gemelle correre nel cielo di velluto.

— Abbiamo chiesto a Gladstone e alle autorità dell’Egemonia di non opporre resistenza, di non fare entrare nel sistema navi da guerra della FORCE — disse Sek Hardeen.

— Sarebbe saggio? — domandò Duré. Poco prima Hardeen gli aveva detto qual era stata la sorte di Porta del Paradiso.

— La flotta della FORCE non è ancora abbastanza organizzata da opporre seria resistenza — rispose il Templare. — Almeno così il nostro mondo ha qualche probabilità di essere trattato come non belligerante.

Padre Duré si protese per guardare meglio l’alta figura nelle ombre della piattaforma. Tenui fotoglobi, sui rami in basso, erano l’unica illuminazione, a parte la luce delle stelle e delle lune. — Eppure ha accolto con piacere questa guerra. Ha aiutato le autorità del Culto Shrike a farla scoppiare.

— No, Duré. Non la guerra. La Confraternita sapeva di dover partecipare al Grande Cambiamento.

— Ossia?

— Il momento in cui la razza umana accetterà il ruolo di parte dell’ordine naturale dell’universo e smetterà di esserne il cancro.

— Cancro?

— Un’antica malattia che…

— Sì — lo interruppe Duré. — So cos’era il cancro. Come mai lo paragona alla razza umana?

Sek Hardeen mostrò una traccia di agitazione nella voce perfettamente modulata e con una lieve cadenza. — Ci siamo diffusi nella galassia come cellule cancerose in un corpo vivente. Ci moltiplichiamo senza il minimo riguardo per le altre forme di vita che devono morire o essere messe da parte perché possiamo riprodurci e di prosperare. Sradichiamo le forme di vita intelligente in competizione con noi.

— Per esempio?

— Per esempio, gli empatici Seneschai di Hebron. I centauri di palude di Garden. Su Garden, Duré, abbiamo distrutto l’intera ecologia, perché poche migliaia di coloni umani potessero vivere dove un tempo prosperavano milioni di forme di vita indigene.

Duré si toccò la guancia. — È uno degli inconvenienti del terraforming.

— Non abbiamo terraformato Whirl — replicò subito il Templare. —

Ma abbiamo dato la caccia alle forme gioviane di vita di quel pianeta fino a causarne l’estinzione.

— Nessuno ha mai accertato che gli zeplen fossero intelligenti — disse Duré, senza molta convinzione.

— Cantavano — disse il Templare. — Si lanciavano richiami attraverso migliaia di chilometri di atmosfera, con canzoni espressive, piene di amore e di tristezza. Eppure furono sterminati fino all’ultimo, come le grandi ba-lene della Vecchia Terra.

Duré congiunse le mani. — D’accordo, ci sono state ingiustizie. Ma senza dubbio esistono modi migliori per raddrizzarle che non sostenere la crudele filosofia del Culto Shrike… e permettere che questa guerra continui.

Il Templare mosse in un cenno di diniego la testa incappucciata. — No.

Se fossero semplici ingiustizie umane, si potrebbero trovare altri rimedi.

Ma gran parte della malattia, grande parte della pazzia che ci ha spinti a distruggere razze intere e a rovinare interi pianeti deriva dalla peccaminosa simbiosi.

— Simbiosi?

— Razza umana e TecnoNucleo — disse Sek Hardeen, con il tono più aspro che Duré avesse mai udito in un Templare. — L’uomo e le sue intelligenze-macchina. Chi è il parassita dell’altro? Nessuna delle due parti del simbionte può dirlo, ora. Ma è un male, un’opera dell’Anti-Natura. Peggio ancora, Duré: un vicolo cieco dell’evoluzione.

Il gesuita si alzò e si accostò alla balaustra. Guardò il mondo scuro delle cime degli alberi disseminate come nuvole nella notte. — Senza dubbio c’è un modo migliore che non rivolgersi allo Shrike e alla guerra interstellare.

— Lo Shrike è un catalizzatore. Il fuoco che purifica, quando la foresta è stenta e cresce malata e troppo fitta. Ci saranno tempi duri, ma il risultato sarà nuova crescita, nuova vita, una proliferazione di specie… non solo altrove, ma nella comunità stessa della razza umana.

— Tempi duri — ripeté il gesuita, pensieroso. — E la Confraternita è disposta a veder morire miliardi di persone per questa… sarchiatura?

Il Templare strinse i pugni. — Non accadrà. Lo Shrike è l’avvertimento.

I nostri fratelli Ouster cercano solo di controllare Hyperion e lo Shrike quanto basta a colpire il TecnoNucleo. Sarà un processo chirurgico… la distruzione di un simbionte e la rinascita della razza umana come elemento distinto nel ciclo della vita.

Duré sospirò. — Nessuno sa dove risieda il TecnoNucleo — disse. —

Come faranno a colpirlo, gli Ouster?

— Lo colpiranno — rispose la Vera Voce dell’Albero Mondo; ma nel tono c’era meno fiducia di prima.

— E l’attacco a Bosco Divino fa parte dell’accordo? — domandò il prete.

Fu la volta del Templare, ad alzarsi e andare avanti e indietro, prima alla balaustra, poi di nuovo al tavolo. — Non attaccheranno Bosco Divino.

L’ho trattenuta qui proprio per questo, per farle vedere. Poi potrà andare a riferire tutto all’Egemonia.

— Sapranno subito se gli Ouster attaccano — disse Paul Duré, perplesso.

— Sì, ma non sapranno perché il nostro mondo è stato risparmiato. Toccherà a lei, portare il messaggio. Spiegare questa verità.

— Al diavolo — esclamò padre Duré. — Sono stufo di essere il messaggero di tutti. Come fa a sapere queste cose? L’arrivo dello Shrike? Il motivo della guerra?

— Ci sono profezie… — cominciò Sek Hardeen.

Duré batté il pugno sulla balaustra. Come spiegare le manipolazioni di una creatura che poteva, o almeno che era un agente della forza che poteva, manipolare il tempo stesso?

— Vedrà… — cominciò di nuovo il Templare. Quasi a sottolineare le sue parole, ci fu un rumore immane e pacato, come se un milione di persone nascoste avesse emesso un sospiro e poi un gemito sordo.

— Buon Dio — esclamò Duré. A ponente sembrava che il sole sorgesse nel punto dove era scomparso da meno di un’ora. Un vento caldo fece frusciare le foglie e gli soffiò sul viso.

Cinque nubi a fungo sbocciarono e si arricciarono sopra l’orizzonte occi-dentale, mutando in giorno la notte, mentre ribollivano e svanivano. D’istinto, Duré si coprì gli occhi, finché non si rese conto che le esplosioni erano troppo lontane e, per quanto vivide come il sole locale, non l’avrebbero reso cieco.

Sek Hardeen si tirò indietro il cappuccio; il vento caldo gli scompigliò i capelli, lunghi e con una bizzarra sfumatura verdastra. Duré fissò i tratti scarni, vagamente asiatici dell’uomo e si accorse che mostravano sorpresa.

Sorpresa e incredulità. Nel cappuccio di Hardeen risuonarono mormorii e microchiacchiere di voci agitate.

— Esplosioni a Sierra e a Hokkaido — mormorò il Templare tra sé. —

Esplosioni nucleari. Dalle navi in orbita.

Duré ricordò che Sierra era un continente, chiuso ai forestieri, a meno di ottocento chilometri dall’Albero Mondo su cui si trovavano. Gli parve che Hokkaido fosse l’isola sacra dove erano coltivate le potenziali navi-albero.

— Vittime? — domandò; ma prima che Hardeen potesse rispondere, il cielo fu tagliato da vivide luci: venti e più laser tattici, CPB e lance a fusione tracciarono una falce da orizzonte a orizzonte, muovendosi come proiettori sul tetto del mondo foresta che era Bosco Divino. E dove colpi-vano, eruttava una scia di fiamme.

Duré barcollò, mentre un raggio ampio cento metri scivolava come un tornado sulla foresta, a meno di un chilometro dall’Albero Mondo. L’antica foresta esplose in fiamme, creò un corridoio di fuoco che si alzava per dieci chilometri nel cielo notturno. Il vento ruggì, sfiorò Duré e Sek Hardeen, mentre l’aria si precipitava ad alimentare la tempesta di fuoco. Un altro raggio colpì da nord a sud, sfiorò l’Albero Mondo, scomparve al di là dell’orizzonte. Un’altra falce di fiamme e di fumo si alzò verso le infide stelle.

— Avevano promesso! — ansimò Sek Hardeen. — I fratelli Ouster avevano promesso!

— Avete bisogno di aiuto! — esclamò Duré. — Chieda alla Rete l’aiuto di emergenza.

Hardeen afferrò Duré per il braccio, lo tirò sull’orlo della piattaforma. La scala era di nuovo al suo posto. Sulla piattaforma inferiore, scintillava il riquadro di un teleporter.

— È solo l’avanguardia della flotta Ouster — gridò il Templare, per superare il rumore della foresta in fiamme. Cenere e fumo riempivano l’aria, vagavano tra braci ardenti. — Ma la sfera di anomalia sarà distrutta da un momento all’altro. Vada via!

— Non me ne vado senza di lei — gridò il gesuita, certo che la voce non sarebbe stata udita sopra il ruggito del vento e il terrificante scoppiettio. A un tratto, appena qualche chilometro a oriente, il perfetto cerchio azzurro di una esplosione al plasma si allargò, implose, si dilatò di nuovo nei cerchi concentrici ben visibili dell’onda di urto. Alberi alti chilometri si piegarono e si spezzarono sotto la prima onda di esplosione: la parte esposta a est scoppiò in fiamme, le foglie volarono via a milioni e s’aggiunsero alla muraglia quasi compatta di detriti che correva verso l’Albero Mondo. Dietro il cerchio di fiamme, esplose un’altra bomba al plasma. Poi una terza.

Duré e il Templare caddero giù dagli scalini e furono sospinti sulla piattaforma inferiore come foglie su un marciapiede. Il Templare si aggrappò a una balaustra di legno muir in fiamme, attanagliò in una stretta ferrea il braccio di Duré, si tirò faticosamente in piedi, si mosse verso il riquadro ancora scintillante del teleporter, come un uomo che si abbandoni alla furia di un ciclone.

Stordito, accorgendosi a malapena di essere trascinato, Duré riuscì a mettersi in piedi proprio mentre la Vera Voce dell’Albero Mondo Sek Hardeen lo tirava fin sulla soglia del portale. Duré rimase aggrappato all’inte-laiatura, troppo debole per superare l’ultimo metro; al di là del teleporter vide uno spettacolo che non avrebbe più dimenticato.

Una volta, molti e molti anni prima, nei pressi dell’amata Villefranche-sur-Saône, il giovane Paul Duré si era trovato sulla cima di una scogliera, al sicuro fra le braccia del padre e al riparo di uno schermo di cemento di notevole spessore, e da una finestrella aveva guardato uno tsunami alto quaranta metri precipitarsi contro la costa dove abitavano.

Questo tsunami era alto tre chilometri, era fatto di fiamme, correva a quella che pareva la velocità della luce sull’inerme tetto della foresta verso l’Albero Mondo, Sek Hardeen e Paul Duré, distruggendo tutto ciò che toccava. L’uragano infuriò più vicino, si alzò più in alto fino a oscurare tra fiamme e frastuono il mondo e il cielo.

— No! — urlò padre Duré.

— Vada via! — gridò la Vera Voce dell’Albero Mondo e spinse il gesuita al di là del portale, mentre la piattaforma, il tronco dell’Albero Mondo e la tonaca del Templare prendevano fuoco.

Il teleporter si spense proprio mentre Duré lo varcava rotolando; si contrasse e tagliò di netto il tacco della scarpa del prete. Duré sentì che i tim-pani gli scoppiavano e le vesti prendevano fuoco; cadde, con la nuca colpì qualcosa di duro e precipitò nel buio totale.

Gladstone e gli altri guardarono in silenzio, inorriditi, le immagini invia-te tramite relè teleporter dai satelliti civili, con gli spasmi di agonia di Bosco Divino.

— Dobbiamo farla saltare subito! — gridò l’ammiraglio Singh, per superare lo scoppiettio delle foreste in fiamme. Meina Gladstone credette di udire le urla di esseri umani e degli innumerevoli primati arboricoli che vivevano sul pianeta dei Templari.

— Non possiamo lasciarli avvicinare ancora! — gridò di nuovo Singh.

— Abbiamo solo i telecomandi, per far saltare la sfera.

— Sì — disse Gladstone; anche se aveva mosso le labbra, non udì alcun suono.

Singh si girò e rivolse un cenno a un colonnello della FORCE:spazio. Il colonnello toccò la consolle tattica. Le foreste in fiamme sparirono, le enormi olografie divennero totalmente scure, ma chissà come il suono delle grida rimase. Gladstone capì che era il rombo del suo stesso sangue nelle orecchie.

Si girò verso Morpurgo. — Quanto manca… — Si schiarì la voce. —

Generale, quanto manca all’attacco di Mare Infinitum?

— Tre ore e cinquantadue minuti, signora — rispose il generale.

Gladstone si girò verso l’ex capitano William Ajunta Lee. — La sua unità operativa è pronta, ammiraglio?

— Sì, signora — disse Lee, pallido sotto l’abbronzatura.

— Quante navi saranno impegnate nell’azione?

— Settantaquattro, signora.

— E li colpirà lontano da Mare Infinitum?

— Appena dentro la Nube di Oört, signora.

— Bene — disse Gladstone. — Buona caccia, ammiraglio.

Il giovane ritenne l’augurio un’imbeccata per salutare e uscire dalla sala.

L’ammiraglio Singh si sporse a mormorare qualcosa al generale Van Zeidt.

Sedeptra Akasi si chinò verso Gladstone e disse: — La sicurezza della Casa del Governo riferisce che un uomo si è appena teleportato nel terminex privato usando un codice di priorità sorpassato. L’uomo era ferito ed è stato ricoverato nell’infermeria dell’Ala Est.

— Leigh? — domandò Gladstone. — Severn?

— No, signora. Il prete di Pacem. Paul Duré.

Gladstone annuì. — Lo vedrò dopo l’incontro con Albedo. — Si rivolse al gruppo. — Se non c’è niente da aggiungere a quel che abbiamo visto, torneremo a riunirci fra trenta minuti per occuparci della difesa di Asquith e di Ixion.

Tutti si alzarono, mentre il PFE e il suo seguito varcavano il portale collegato in permanenza alla Casa del Governo. Appena Gladstone fu fuori vista, il clamore delle discussioni riprese.

Meina Gladstone si abbandonò contro lo schienale della poltrona di pelle e chiuse gli occhi per cinque secondi esatti. Quando li riaprì, il gruppo di aiutanti era ancora lì: alcuni con espressione ansiosa, alcuni con aria impa-ziente, ma tutti in attesa della parola successiva, del successivo ordine.

— Uscite — disse piano Gladstone. — Riposatevi un poco. Stendete le gambe per dieci minuti. Non ci saranno altri momenti di tranquillità, nelle prossime ventiquattro o quarantotto ore.

Il gruppo sfilò fuori, alcuni avevano l’aria di chi sta per protestare, altri di chi è sull’orlo del collasso.

— Sedeptra — chiamò Gladstone; la giovane rientrò nell’ufficio. — Assegna due mie guardie personali al prete appena arrivato, Duré.

Sedeptra Akasi annuì e prese un appunto sul fax-notes.

— Com’è la situazione politica? — domandò Gladstone, strofinandosi gli occhi.

— La Totalità è nel caos — rispose Akasi. — Ci sono diverse fazioni, ma ancora non si sono unite a formare un’opposizione efficace. Il Senato è tutt’altra storia.

— Feldstein? — disse Gladstone, nominando la collerica senatrice del Mondo di Barnard. Il pianeta sarebbe stato assalito dagli Ouster entro meno di quarantadue ore.

— Feldstein, Kakinuma, Peters, Sabenstorafem, Richeau… perfino Sudette Chier chiede le sue dimissioni.

— E il marito di Sudette? — Gladstone considerava il senatore Kolchev la persona più influente del Senato.

— Per il momento, nessuna dichiarazione del senatore Kolchev. Né ufficiale né confidenziale.

Con l’unghia Gladstone tamburellò sul labbro inferiore. — Secondo te, quanto tempo resta, a questo governo, prima che un voto di sfiducia lo faccia cadere?

Akasi, una degli operatori politici più avveduti con cui Gladstone avesse mai lavorato, le restituì lo sguardo. — Settantadue ore all’esterno, signora.

I voti sono là. La gente ancora non se ne rende conto, ma è già una folla in tumulto. Qualcuno deve pagare, per l’accaduto.

Gladstone annuì con aria assente. — Settantadue ore — mormorò. —

Più che sufficienti. — Alzò gli occhi e sorrise. — Non c’è altro, Sedeptra.

Riposa un poco.

L’aiutante annuì, ma l’espressione rivelò cosa pensava realmente del suggerimento. Nello studio c’era grande silenzio, quando la porta si richiuse alle spalle della donna.

Gladstone rimase a riflettere per qualche istante. Poi disse alle pareti: —

Per favore, portate qui il consulente Albedo.

Venti secondi dopo, l’aria dall’altra parte della scrivania si annebbiò, scintillò, si solidificò. Il rappresentante del TecnoNucleo sembrava bello come sempre, con i capelli grigi tagliati corti e una sana abbronzatura sul viso aperto, onesto.

— Signora — cominciò la proiezione olografica — la Commissione di Consulenza e gli analisti del Nucleo continuano a offrire i propri servigi in questi tempi di grande…

— Dove si trova, il Nucleo, Albedo? — lo interruppe Gladstone.

Il consulente non cambiò sorriso. — Scusi, signora, può ripetere la domanda?

— Il TecnoNucleo. Dove si trova?

Il viso amichevole di Albedo mostrò una lieve confusione, ma non ostilità, solo la preoccupazione di essere d’aiuto. — Senza dubbio, signora, si rende conto che, fin dalla Secessione, la politica del Nucleo è stata quella di non rivelare la posizione dei suoi… ah… elementi fisici. In un altro senso, il TecnoNucleo non è da nessuna parte, dal momento…

— Dal momento che voi esistete nelle realtà consensuali del piano dati e della sfera dati — disse Gladstone, con voce piatta. — Sì. Per tutta la vita, Albedo, ho sentito queste stronzate. Come mio padre, e suo padre prima di lui. Adesso vi rivolgo una domanda diretta. Dove si trova, il TecnoNucleo?

Il consulente scosse la testa, stupito, rattristato, come un adulto al quale avessero rivolto per la millesina volta l’infantile domanda: Perché il cielo è azzurro, papà?

— Signora, è semplicemente impossibile dare una risposta che abbia senso in termini di coordinate tridimensionali umane. In un certo senso noi… il Nucleo… esistiamo all’interno della Rete e al di là della Rete. Nuo-tiamo nella realtà del piano dati che voi chiamate sfera dati, ma in quanto agli elementi fisici… quel che i vostri antenati chiamavano hardware, troviamo necessario…

— Mantenere segreta la sede — terminò per lui Gladstone. Incrociò le braccia. — Si rende conto, consulente Albedo, che nell’Egemonia ci sarà gente, milioni di persone, fermamente convinta che il Nucleo, la vostra Commissione di Consulenza, ha tradito l’umanità?

Albedo allargò le braccia. — Sarà increscioso, signora. Increscioso, ma comprensibile.

— In teoria i vostri previsori sono quasi infallibili, consulente. Eppure non ci avete avvertiti che la flotta Ouster avrebbe distrutto pianeti interi.

La tristezza del bel viso della proiezione era quasi convincente. — Signora, è appena giusto ricordarle un altro avvertimento della Commissione di Consulenza: includere Hyperion nella Rete avrebbe introdotto una variabile casuale che perfino la Commissione non avrebbe potuto calcolare.

— Ma qui non si tratta di Hyperion! — sbottò Gladstone, alzando la voce. — Si tratta di Bosco Divino in fiamme! Di Porta del Paradiso ridotto a scorie vetrificate. Di Mare Infinitum in attesa del prossimo colpo di maglio! A cosa serve, la Commissione di Consulenza, se non è in grado di prevedere un’invasione di questa portata?

— Abbiamo predetto l’inevitabilità della guerra con gli Ouster, signora.

Abbiamo anche predetto il grave rischio di difendere Hyperion. Deve cre-dermi, l’inclusione di Hyperion nelle equazioni porta il fattore di attendibilità a un livello così basso come…

— E va bene — sospirò Gladstone. — Devo parlare con qualcun altro del Nucleo, Albedo. Qualcuno nella vostra indecifrabile gerarchia di intelligenze che abbia davvero potere decisionale.

— Le garantisco che rappresento tutti gli elementi del Nucleo, quando…

— Sì, sì. Ma voglio parlare con uno dei… dei Poteri, mi pare che li chiamiate. Uno delle IA anziane. Uno che abbia autorità, Albedo. Devo parlare con uno che possa dirmi perché il Nucleo ha rapito il mio pittore Severn e il mio aiutante Leigh Hunt.

L’ologramma parve stupito. — Sull’onore di quattro secoli di alleanza le assicuro, signora Gladstone, che il Nucleo non ha niente a che fare con la deprecabile scomparsa di…

Gladstone si alzò. — Per questo devo parlare a un Potere. Il tempo delle assicurazioni è terminato, Albedo. Occorrono parole chiare, se le nostre due razze vogliono sopravvivere. Non c’è altro. — Si interessò alle veline fax-notes sulla scrivania.

Il consulente Albedo si alzò, le rivolse un cenno di saluto e con uno scintillio si smaterializzò.

Gladstone fece comparire il teleporter privato, enunciò i codici dell’in-fermeria della Casa del Governo e iniziò a varcare il portale. L’istante prima di toccare la superficie opaca del rettangolo di energia, esitò: per la prima volta in vita sua si sentì inquieta all’idea di varcare un teleporter.

E se il Nucleo avesso voluto rapire anche lei? O ucciderla?

Meina Gladstone capì all’improvviso che il Nucleo aveva potere di vita e di morte su ogni cittadino della Rete che usasse un teleporter… ossia qualsiasi cittadino di una certa importanza. Non era stato necessario rapire e trasferire chissà dove Leigh e il cìbrido Severn… bastava la persistente abitudine di considerare i teleporter il perfetto sistema di trasporto, per creare la convinzione inconscia che i due erano andati da qualche parte. Il suo aiutante e l’enigmatico cìbrido avrebbero potuto facilmente essere stati tra-

slati… nel nulla. Atomi sparpagliati e disseminati attraverso un’anomalia. I teleporter non “teleportavano” persone e cose… il concetto era di per sé una sciocchezza; ma non era forse una sciocchezza maggiore, fidarsi di un congegno che forava il tessuto dello spazio-tempo e consentiva di attraversare “botole” buco nero? E lei faceva una sciocchezza, a confidare che il Nucleo la trasportasse nell’infermeria?

Gladstone pensò alla Sala di Guerra: tre giganteschi locali collegati da teleporter a vista, attivati in permanenza, ma sempre tre sale, separate come minimo da migliaia di anni-luce di spazio reale, da decenni di tempo reale, anche viaggiando col motore Hawking. Ogni volta che Morpurgo o Singh o uno degli altri si muoveva da una mappa olografica al pannello per tracciare diagrammi, percorreva distese smisurate di spazio e di tempo. Per distruggere l’Egemonia o chiunque altro, al Nucleo bastava pasticciare con i teleporter, permettere un lieve “errore” nella designazione del bersaglio.

“Al diavolo tutto quanto” si disse Meina Gladstone; varcò il portale, per fare visita a Paul Duré, nell’infermeria della Casa del Governo.

39

Le due stanze al primo piano della casa in Piazza di Spagna sono piccole, strette, alte di soffitto e - a parte una fioca lampada in ogni camera, quasi accesa da fantasmi in attesa di una visita di altri fantasmi - buie. Il mio letto si trova nella più piccola delle due, quella rivolta alla piazza, anche se stanotte dalla finestra si vedono solo le tenebre segnate da ombre più fitte e sottolineate dal continuo gorgoglio dell’invisibile fontana del Bernini.

Rintocchi di campana segnano le ore: provengono da una delle torri gemelle di Trinità dei Monti, la chiesa acquattata come un grosso gatto fulvo nel buio in cima alla scalinata; ogni volta che sento le campane suonare i brevi rintocchi delle prime ore del mattino, immagino mani spettrali che tirino funi marce. O forse mani marce che tirino spettrali funi di campane: non so quale immagine si adatti meglio alle macabre fantasie di questa notte infinita.

La febbre mi prende, stanotte, umida e pesante e soffocante come una spessa coperta zuppa di acqua. La pelle prima scotta, poi è viscida al tatto.

Due volte ho avuto attacchi di tosse; al primo, Hunt è arrivato di corsa dal divano nell’altra stanza e ha sbarrato gli occhi alla vista del sangue che avevo vomitato sul copriletto di damasco; la seconda volta, ho cercato di soffocare meglio che potevo la tosse, sono andato barcollando alla catinella posta sul cassettone e vi ho sputato meno sangue nero e catarro scuro.

Hunt non si è svegliato, la seconda volta.

Essere di nuovo qui. Fare tanta strada, per venire in queste stanze buie, in questo letto sinistro. Quasi ricordo di essermi svegliato qui, miracolosamente guarito; quasi ricordo il “vero” Severn e il dottor Clark e perfino la piccola signora Angeletti nell’altra stanza. Quel periodo di convalescen-za dalla morte; quel periodo di comprensione di non essere Keats, di non trovarmi sulla vera Terra, di non essere nel secolo in cui avevo chiuso gli occhi la notte prima… di non essere umano.

A un’ora imprecisata, dopo le due, mi addormento e sogno. Un sogno che non ho mai fatto prima. Salgo lentamente nel piano dati, attraverso la sfera dati, entro nella megasfera e la percorro, per giungere infine in un luogo che non conosco, che non ho mai sognato… un luogo fatto di spazi infiniti, tranquilli, di colori indescrivibili, un luogo senza orizzonti, senza soffitti, senza pavimenti né aree solide definibili come terreno. Lo chiamo metasfera, perché intuisco immediatamente che questo livello di realtà consensuale comprende tutte le varietà e le stravaganze di sensazioni che ho sperimentato sulla Terra, tutte le analisi binarie e i piaceri intellettuali che ho sentito scorrere dal TecnoNucleo attraverso la sfera dati e, soprattutto, un senso di… di che cosa? Espansività? Libertà? Forse “potenziale” è la parola che cerco.

Sono da solo, nella metasfera. I colori scorrono intorno a me, sotto di me, attraverso me… a volte si dissolvono in vaghe tinte pastello, a volte si agglomerano in fantasie simili a nuvole e in altri momenti, più di rado, sembrano riunirsi in oggetti più solidi, sagome, forme distinte che forse sono e non sono di aspetto umanoide… li guardo come un bimbo guarde-rebbe le nuvole vedendovi elefanti, coccodrilli del Nilo e grandi cannonie-re che navigano da ovest a est in un giorno di primavera nel Lake District.

Dopo un poco odo rumori: il gorgoglio irritante della fontana del Bernini nella piazza, fuori; colombi che svolazzano e tubano sugli aggetti sopra la finestra; Leigh Hunt che si lamenta piano nel sonno. Ma al di sopra e al di sotto di questi rumori, odo qualcosa di più furtivo, di meno reale, ma infinitamente più minaccioso.

Qualcosa di grosso viene da questa parte. Mi sforzo di vedere nella penombra pastello: qualcosa si muove appena al di là del campo visivo. So che quella cosa conosce il mio nome. So che tiene sul palmo la mia vita e nell’altro pugno la mia morte.

Non c’è nascondiglio, in questo spazio al di là dello spazio. Non posso fuggire. Il canto di sirena del dolore continua a salire e scendere, dal mondo che mi sono lasciato alle spalle… il dolore quotidiano di ogni persona in qualsiasi luogo, il dolore di chi soffre a causa della guerra appena scoppia-ta, il dolore specifico e focalizzato di chi è appeso al terribile albero dello Shrike e, peggio di tutto, il dolore che provo per i pellegrini e quegli altri la cui vita e i cui pensieri adesso condivido e a causa loro.

Varrebbe la pena che mi precipitassi ad accogliere quest’ombra di distruzione che si avvicina, se mi garantisse la libertà da questo canto di dolore.

— Severn! Severn!

Per un secondo penso di essere io a chiamare, proprio come ho già fatto in queste stanze, come ho chiamato Joseph Severn, la notte in cui dolore e febbre infuriavano oltre la mia capacità di sopportazione. E lui era sempre lì: Severn, con la sua lentezza goffa e benintenzionata, con quel sorriso gentile che spesso avrei voluto cancellargli dal viso con qualche meschini-tà o qualche commento sgarbato. È difficile essere benevoli, quando la morte si avvicina. Ho vissuto una vita di una certa generosità… perché allora il mio destino era di continuare in quel ruolo, quando ero io a soffrire, quando ero io a tossire e sputare pezzi di polmone in fazzoletti macchiati di sangue?

— Severn!

Non è la mia voce. Hunt mi scuote, mi chiama Severn. Capisco che è convinto di chiamare me. Gli scosto le mani e mi lascio sprofondare di nuovo nei cuscini. — Cosa c’è? Cosa succede?

— Si lamentava — dice l’aiutante di Gladstone. — Gridava.

— Un incubo. Tutto qui.

— Di solito i suoi sono più di semplici sogni — dice Hunt. Lancia un’occhiata alla stanzetta, illuminata ora dalla lampada che lui stesso ha portato. — Che posto orribile, Severn.

Cerco di sorridere. — Mi costa ventotto scellini al mese. Sette scudi. Un furto da briganti di strada.

Hunt si acciglia. La luce cruda fa sembrare più profonde del solito le sue rughe. — Stia a sentire, Severn — dice. — So che lei è un cìbrido. Gladstone mi ha detto che era la personalità ricuperata di un poeta di nome Keats. Ora è chiaro che tutto questo… — indica con gesto disperato la stanza, le ombre, i rettangoli delle finestre, l’alto letto — tutto questo ha a che fare con lei. Ma come? Quale gioco il Nucleo gioca, qui?

— Non lo so — rispondo sinceramente.

— Ma conosce questo posto?

— Oh, sì — dico con sentimento.

— Parli — supplica Hunt; e a questo punto è il suo ritegno a non chiedere, quanto l’ansia della supplica, a farmi decidere a dirgli tutto.

Gli parlo del poeta John Keats, della sua nascita nel 1795, della sua vita breve e spesso infelice, della morte per “consunzione” nel 1821, a Roma, lontano dagli amici e dall’unico amore. Gli parlo della mia programmata

“guarigione” in questa stessa stanza, della mia decisione di assumere il nome di Joseph Severn - l’amico pittore rimasto con Keats fino alla fine - e del mio breve periodo nella Rete, ad ascoltare, a guardare, condannato a sognare la vita dei Pellegrini allo Shrike su Hyperion e di altri.

— Sogni? — dice Hunt. — Significa che anche adesso sogna quel che accade nella Rete?

— Sì. — Gli parlo dei sogni su Gladstone, della distruzione di Porta del Paradiso e di Bosco Divino, delle immagini confuse di Hyperion.

Hunt passeggia avanti e indietro nella stanzetta, getta sulle pareti scabre una lunga ombra. — Può mettersi in contatto con loro?

— Con quelli che sogno? Con Gladstone? — Rifletto un secondo. —

No.

— Ne è certo?

Provo a spiegarglielo. — Non faccio parte dei sogni, Hunt. Non ho… voce, presenza… non posso mettermi in contatto con quelli che sogno.

— Ma a volte sogna ciò che pensano?

Mi rendo conto che è vero. Vicino alla verità. — Intuisco quel che sentono…

— Allora non può lasciare una traccia nella loro mente… nella loro memoria? Far sapere loro dove ci troviamo?

— No.

Hunt crolla sulla poltrona ai piedi del letto. A un tratto sembra vecchissimo.

— Leigh — dico — anche se potessi comunicare con Gladstone o con gli altri… ma non posso… quale vantaggio ne avremmo? Le ho detto che questa è una riproduzione della Vecchia Terra, nella Nube di Magellano.

Anche alle velocità da balzo quantico del motore Hawking, passerebbero secoli, prima che qualcuno ci raggiungesse.

— Potremmo avvisarli — dice Hunt, con voce così stanca da sembrare quasi astiosa.

— Avvisarli di cosa? Tutti i peggiori incubi di Gladstone si stanno avve-rando. Crede che ora si fidi del Nucleo? Proprio per questo il Nucleo ha potuto rapirci in maniera così clamorosa. Gli eventi si susseguono troppo in fretta perché Gladstone o qualsiasi altro nell’Egemonia possa intervenire.

Hunt si strofina gli occhi, unisce le dita. Il suo sguardo non è molto amichevole. — Lei è davvero la personalità ricuperata di un poeta? Non rispondo.

— Reciti una poesia. Ne crei una.

Scuoto la testa. È tardi, tutt’e due siamo stanchi e spaventati, il cuore non si è ancora calmato per l’incubo che era più di un incubo. Non lascerò che Hunt mi faccia arrabbiare.

— Forza — dice. — Mi mostri di essere la nuova versione migliorata di Bill Keats.

— John Keats — lo correggo, calmo.

— Fa lo stesso. Andiamo, Severn. O John. O come diavolo dovrei chiamarla. Reciti una poesia.

— E va bene — dico, fissandolo negli occhi. — Ascolti.

C’era un ragazzo cattivo

ed era cattivo davvero

perché nulla faceva se non

scribacchiare poesie…

prese in mano

un calamaio

per far paio

con la penna

come benna

nell’altra

e lontano

con chiasso

corse via

ai monti

e fonti

e fantasmi

e poste

e streghe

e fosse,

e scrisse

col manto

se il tempo

era freddo

(ah, la gotta)

e senza

se il tempo

era caldo.

Oh, l’incanto

quando scelse

d’andar sempre dritto

a nord

a nord

d’andar sempre dritto

a nord!

— Non so — dice Hunt. — Non mi sembrano versi che avrebbe scritto un poeta la cui fama è durata mille anni.

Scrollai le spalle.

— Stanotte sognava Gladstone? È accaduto qualcosa che l’ha fatta piangere?

— No. Non sognavo Gladstone. Era un… un incubo vero, tanto per cambiare.

Hunt si alza, solleva la lampada, si prepara a portare via dalla stanza l’unica luce. Odo la fontana nella piazza, i colombi sul davanzale.

— Domani — dice Hunt — daremo un senso a tutto e cercheremo la via per uscirne. Se ci hanno teleportato qui, ci sarà un teleporter per andar via.

— Sì — dico, pur sapendo che non è vero.

— Buona notte. E basta incubi, va bene?

— Basta incubi — rispondo, pur sapendo che è ancor meno vero.

Moneta trascinò Kassad lontano dallo Shrike e con la mano protesa parve tenere a bada la creatura, mentre estraeva dalla cintura della dermotuta un toroide azzurro e lo agitava alle proprie spalle. A mezz’aria si librò un ovale dorato, ardente, alto due metri.

— Lasciami — borbottò Kassad. — Facciamola finita. — C’erano schizzi di sangue dove gli artigli dello Shrike avevano fatto grossi strappi nella tuta del colonnello. Il piede destro penzolava come reciso; Kassad non vi si poteva appoggiare e solo il fatto di essere avvinghiato allo Shrike, quasi trascinato in una folle parodia di danza, l’aveva mantenuto dritto mentre combattevano.

— Lasciami andare — ripeté Fedmahn Kassad.

— Zitto — disse Moneta; e poi, più dolcemente: — Zitto, amore mio. —

Lo trascinò al di là dell’ovale di oro: sbucarono insieme in una luce accecante.

Pur sofferente e sfinito, Kassad fu abbacinato dallo spettacolo. Non erano su Hyperion, ne era sicuro. Una vasta pianura si estendeva fino a un orizzonte più lontano di quanto logica ed esperienza ammettessero. Un’erba corta e arancione, se erba era, cresceva sulle piane e sulle basse colline come peluria sulla schiena di un bruco immenso; cose che forse erano alberi si ergevano come statue di fibrocarbonio, tronchi e rami quasi simili a disegni di Escher nella loro barocca improbabilità, foglie che erano una confusione di ovali blu scuro e viola, lucide e protese verso un cielo di vivida luce.

Ma non luce del sole. Mentre Moneta lo portava via dal portale che si ri-chiudeva (Kassad non lo considerò un teleporter, convinto che li avesse trasportati nel tempo, oltre che nello spazio), verso un folto di quegli alberi impossibili, il colonnello girò gli occhi al cielo e provò qualcosa di molto simile all’ammirazione. Il cielo risplendeva come quello di Hyperion in pieno giorno; risplendeva come il mezzodì in un viale di negozi su Lusus; risplendeva come a mezza estate sull’altopiano Tharsis nell’arido mondo natale di Kassad, Marte. Ma questa non era luce solare: il cielo era pieno di stelle e di costellazioni e di ammassi stellari e di una galassia così ricca di soli da sembrare quasi priva di chiazze buie fra le luci. Pareva di essere in un planetario con dieci proiettori, pensò Kassad. D’essere al centro della galassia.

Il centro della galassia.

Alcuni uomini e donne in dermotuta uscirono dall’ombra degli alberi-Escher e circondarono Kassad e Moneta. Uno degli uomini, un gigante anche per gli standard marziani di Kassad, guardò il colonnello, alzò la testa in direzione di Moneta; Kassad non udì niente, non percepì niente attraverso i ricevitori radio e a banda compatta della tuta, ma capì che i due comu-nicavano tra loro.

— Distenditi — disse Moneta, deponendo Kassad sull’erba arancione e vellutata. Il colonnello cercò di mettersi a sedere, di parlare, ma Moneta e il gigante lo spinsero supino, tanto che il campo visivo di Kassad fu pieno delle foglie viola che si agitavano lentamente e del cielo colmo di stelle.

L’uomo toccò di nuovo Kassad e la dermotuta si disattivò. Il colonnello cercò di alzarsi, cercò di coprirsi, accorgendosi di essere nudo davanti alla piccola folla radunata intorno a lui, ma la mano di Moneta lo tenne fermo.

Tra il dolore e il senso di dislocazione, sentì vagamente che l’uomo gli toccava le braccia e il petto squarciati, gli passava la mano rivestita di argento lungo la gamba fino al punto in cui il tendine di Achille era stato reciso.

Kassad provò un senso di freddo a ogni tocco del gigante, poi sentì la coscienza andare alla deriva come un pallone, innalzarsi molto al di sopra della piana rossiccia e delle alture ondulate, verso il compatto baldacchino di stelle dove una figura enorme aspettava, scura come una nube gonfia di pioggia torreggiante all’orizzonte, massiccia come montagna.

— Kassad — bisbigliò Moneta; e il colonnello smise di vagare. — Kassad — disse di nuovo, con le labbra contro la guancia di lui, mentre la tuta del colonnello si riattivava e si fondeva con la sua.

Fedmahn Kassad si alzò a sedere con lei. Scosse la testa, capì che era di nuovo rivestito di energia argento vivo e si tirò in piedi. Non sentì dolore.

Il corpo gli formicolò in decine di punti, dove le ferite si erano rimargina-te, i gravi tagli si erano richiusi. Kassad fuse mano e tuta, passò pelle su pelle, piegò il ginocchio e palpò il tallone, ma non trovò alcuna cicatrice al tatto.

Kassad si rivolse al gigante. — Grazie — disse, senza neppure sapere se l’uomo poteva udirlo.

Il gigante rispose con un cenno e si allontanò verso gli altri.

— È un… una sorta di medico — disse Moneta. — Un guaritore.

Kassad la udì appena, mentre concentrava l’attenzione sugli altri. Erano umani, lo sentiva nel cuore, che erano umani, ma presentavano diversità sconvolgenti: le loro dermotute non erano argentee come quelle di Kassad e di Moneta, ma spaziavano nell’arco di una ventina di colori, ciascuno delicato e organico come pelliccia di una creatura selvaggia vivente. L’ana-tomia variava come la colorazione: la mole e la robustezza da Shrike del guaritore, con la fronte massiccia e una cascata di flusso energetico fulvo che forse era una chioma… accanto a lui una femmina, non più grande di una bambina ma chiaramente donna matura, perfettamente proporzionata, con gambe muscolose, seni piccoli e ali da fata lunghe due metri che spuntavano dalla schiena… e ali non solo decorative, perché quando la brezza arruffò l’erba arancione della prateria, la donna prese una breve rincorsa, tese le braccia e con movimenti aggraziati si alzò in volo.

Dietro alcune donne di alta statura, con dermotuta azzurra e lunghe dita palmate, c’era un gruppo di uomini tozzi, muniti di visore e di armatura come marines della FORCE pronti a scendere in battaglia nello spazio; ma Kassad intuì che l’armatura faceva parte di loro. In alto, un gruppo di maschi alati si alzò sulle correnti di aria calda e fra di loro pulsarono minuscoli raggi di luce laser gialla, in una sorta di codice complicato. I laser sembravano provenire da un occhio al centro del petto.

Kassad scosse di nuovo la testa.

— Dobbiamo andare — disse Moneta. — Lo Shrike non può seguirci qui. I guerrieri hanno già molto a cui pensare, senza doversela vedere anche con questa particolare manifestazione del Signore della Sofferenza.

— Dove siamo? — domandò Kassad.

Con una ferula di oro presa dalla cintura Moneta materializzò un ovale violetto. — Lontano, nel futuro della razza umana. Uno dei nostri futuri.

Qui le Tombe sono state create e lanciate a ritroso nel tempo.

Kassad si guardò intorno di nuovo. Qualcosa di molto grosso si mosse contro la distesa di stelle, oscurò migliaia di soli e gettò un’ombra per po-chissimi secondi, prima di scomparire. Uomini e donne lanciarono in alto una breve occhiata e tornarono alle proprie faccende: mietere dagli alberi piccole creature, riunirsi in gruppi per esaminare vivide mappe di energia evocate dallo schiocco delle dita di uno degli uomini, volare verso l’orizzonte con la velocità di una freccia. Un individuo basso e largo, di sesso imprecisato, si era scavato la tana nel terreno e in quel momento era visibile solo come un’increspatura di terriccio che si muoveva in rapidi cerchi concentrici intorno al gruppo.

— Dove si trova, questo luogo? — domandò di nuovo Kassad. — Che cos’è?

A un tratto, inspiegabilmente, si sentì vicino alle lacrime, come se avesse girato un angolo sconosciuto e si fosse trovato a casa nel Progetto di Ri-locazione di Tharsis, mentre la madre morta da tempo lo salutava a gesti dalla porta di casa e amici e parenti da tempo dimenticati lo aspettavano per una partita di scootball.

— Vieni — disse Moneta, e fu impossibile non notare il tono pressante.

Lo tirò verso l’ovale luminoso. Kassad guardò gli altri e la volta stellata, finché non varcò il portale e la scena scomparve.

Emersero nel buio; occorse un brevissimo istante perché i filtri della dermotuta di Kassad compensassero la vista. Erano alla base del Monolito di Cristallo, nella Valle delle Tombe del Tempo. Era notte. In alto le nuvole ribollivano, infuriava una tempesta. Solo il bagliore pulsante delle Tombe illuminava la scena. Kassad provò una dolorosa sensazione di perdita per il luogo pulito e ben illuminato che avevano appena lasciato; poi si concentrò sulla scena.

Mezzo chilometro più avanti nella valle, c’erano Sol Weintraub e Brawne Lamia; Sol era chino sulla donna, distesa davanti alla Tomba di Giada. La polvere turbinava tutt’intorno, così fitta che i due non videro lo Shrike muoversi come un’altra ombra lungo il sentiero, davanti all’Obelisco, nella loro direzione.

Fedmahn Kassad uscì dalla facciata di marmo scuro del Monolito e scansò i frammenti di cristallo disseminati sul sentiero. Moneta lo teneva ancora per il braccio.

— Se combatti di nuovo — gli disse all’orecchio, con voce bassa e pressante — lo Shrike ti ucciderà.

— Sono miei amici — ribatté Kassad. L’equipaggiamento della FORCE

e la tuta blindata ridotta a brandelli giacevano dove Moneta li aveva gettati, alcune ore prima. Kassad frugò nel Monolito finché non trovò il fucile di assalto e una bandoliera di granate; vide che il fucile era ancora in condizioni perfette, controllò le cariche e tolse le sicure, lasciò il Monolito e avanzò di buon passo a intercettare lo Shrike.

Mi sveglio al rumore di acqua corrente e per un secondo penso di essermi appisolato accanto alla cascata di Lodore durante la passeggiata con Brown. Ma quando apro gli occhi, il buio mi fa paura come mentre dormi-vo, l’acqua ha un suono malato, non la foga della cascata che Southey un giorno renderà famosa nella sua poesia, e mi sento malissimo, non solo per il mal di gola con cui sono tornato dalla gita, dopo che io e Brown abbiamo stupidamente scalato lo Skiddaw prima di colazione, ma mortalmente, paurosamente malato, con il corpo che mi duole per qualcosa di più profondo della febbre ricorrente, mentre catarro e fuoco mi gorgogliano nel petto e nel ventre.

Mi alzo e a tastoni vado alla finestra. Una luce fioca proviene da sotto la porta della stanza di Leigh Hunt: è andato a dormire senza spegnere la lampada. Non sarebbe stato male se l’avessi fatto anch’io, mi dico; ma ormai è tardi per accenderla e mi dirigo al rettangolo più chiaro delle tenebre esterne contro il buio più intenso della stanza.

L’aria è fresca e piena del profumo di pioggia. Sono stato svegliato dal tuono, capisco quando il lampo illumina i tetti di Roma. Non una luce brilla nella città. Sporgendomi un poco dalla finestra, vedo la scalinata sopra la piazza, lucida di pioggia, e le torri di Trinità dei Monti che si stagliano, nere, contro il bagliore dei lampi. Il vento che soffia giù per i ripidi scalini è freddo; ritorno al letto e mi avvolgo in una coperta, prima di trascinare alla finestra la poltrona e sedermi a guardare fuori e a pensare.

Ricordo mio fratello Tom, durante le ultime settimane e gli ultimi giorni, con il viso e il corpo contorti nel terribile sforzo di respirare. Ricordo mia madre e il pallore del suo viso, quasi risplendente nella penombra della stanza oscurata. Mia sorella e io avevamo il permesso di toccarle la mano appiccicaticcia e di baciarle le labbra calde per la febbre, prima di andare a letto. Ricordo che una volta, uscendo dalla stanza, mi pulii di nascosto le labbra, guardando di sottecchi mia sorella e gli altri per scoprire se avevano visto quell’atto peccaminoso.

Quando il dottor Clark e un chirurgo italiano aprirono il corpo di Keats meno di trenta ore dopo la morte, trovarono, come in seguito Severn scrisse a un amico, “… la consunzione peggiore possibile… i polmoni intera-mente distrutti… le cellule completamente scomparse”. Né il dottor Clark, né il chirurgo italiano riuscivano a immaginare come Keats fosse vissuto negli ultimi due mesi.

Penso a questo, mentre siedo nella stanza buia e guardo la piazza buia, e intanto ascolto il gorgoglio nel petto e nella gola, sento il dolore simile a fuoco nelle viscere e quello, peggiore, delle grida nella mente: grida di Martin Sileno sull’albero, che soffre perché ha scritto la poesia che sono stato troppo fragile o codardo per terminare; grida di Fedmahn Kassad, che si prepara a morire sotto gli artigli dello Shrike; grida del Console, costretto una seconda volta a tradire; grida che sgorgano dalla gola di migliaia di Templari che piangono la morte del loro mondo e del confratello Het Masteen; grida di Brawne Lamia, che crede morto il suo amato, il mio gemello; grida di Paul Duré, che lotta contro le ustioni e lo choc del ricordo, fin troppo consapevole del crucimorfo in attesa sul suo petto; grida di Sol Weintraub, che batte a terra i pugni e chiama a gran voce la figlia, con gli strilli infantili di Rachel ancora nelle orecchie.

— Maledizione — dico piano, battendo il pugno sulla pietra e la calcina del davanzale. — Maledizione.

Dopo un poco, quando già il cielo impallidisce e promette l’alba, mi scosto dalla finestra e mi distendo sul letto, solo un momento per chiudere gli occhi.

Il governatore generale Theo Lane si svegliò al suono di musica e si guardò intorno: riconobbe, come se li avessi sognati, la vasca di liquido nutritivo e l’ambulatorio della nave. Indossava un morbido pigiama nero e aveva dormito sul lettino per le visite mediche. A poco a poco, con brandelli di ricordi, ricucì le ultime dodici ore: era stato tolto dalla vasca di cura, gli avevano applicato dei sensori, il Console e un altro uomo, chini su di lui, gli ponevano domande… e lui rispondeva come se fosse davvero cosciente; poi di nuovo sonno, sogni di Hyperion e delle sue città in fiamme.

No, non sogni.

Theo si alzò a sedere, quasi galleggiò giù dal lettino, trovò i vestiti, puliti e ben piegati sopra un vicino ripiano, si vestì in fretta ascoltando la musica alzarsi e affievolirsi con un ritmo ossessionante che suggeriva che fosse dal vivo, non registrata.

Salì la breve scaletta del ponte di soggiorno e si bloccò, sorpreso: la nave era aperta, la loggia sporgeva all’esterno, il campo di contenimento non era in funzione. La gravità molto bassa, un quinto di quella di Hyperion, forse un sesto della gravità standard, bastava appena a tenerlo fermo sul ponte.

La vivida luce del sole entrava dalla porta spalancata della loggia dove il Console suonava l’antiquato strumento che aveva chiamato pianoforte.

Theo riconobbe l’archeologo, Arundez, appoggiato allo stipite, con un bicchiere in mano. Il Console suonava un brano molto antico e molto complesso: le dita sfioravano la tastiera, simili a una macchia confusa di movimento. Theo si avvicinò, aprì bocca per mormorare qualcosa ad Arundez, si bloccò, stupito, a occhi spalancati.

Al di là della loggia, trenta metri più in basso, la vivida luce del sole illuminava un prato di un verde brillante che si estendeva fino all’orizzonte troppo vicino. Su quel prato, gruppetti di persone beatamente sedute e sdraiate ascoltavano il concerto improvvisato. Ma che persone!

C’erano individui alti e magri, simili agli esteti di Epsilon Eridani, pallidi e calvi nelle vesti azzurre e leggere; ma accanto a loro c’era una sorprendente moltitudine di tipi, una varietà mai vista nella Rete: umani coperti di pelliccia e di scaglie; umani con il corpo e gli occhi simili a quelli delle api, ricettori sfaccettati e antenne; umani fragili e sottili come statue di fil di ferro, con le grandi ali nere che sporgevano dalle spalle minuscole e si ri-piegavano come mantelli intorno al corpo; umani chiaramente progettati per mondi ad alta gravità, bassi, tozzi e muscolosi come bufali, al cui con-

fronto i lusiani sarebbero parsi fragili; umani con il corpo corto e le braccia lunghe, coperti di pelo arancione, che solo il viso chiaro e sensibile distin-gueva dagli oranghi della Vecchia Terra estinti da gran tempo; e altri umani che somigliavano più a lemuridi, ad aquile, a leoni, a orsi, ad antropoidi che a uomini. Eppure Theo intuì subito che erano esseri umani, per quanto sconvolgenti fossero le differenze: lo sguardo attento, la posa rilassata, cento altri sottili attributi umani… fino al modo in cui una madre dalle ali di farfalla cullava fra le braccia il figlio dalle ali di farfalla… tutto testimo-niava una comune umanità che Theo non poteva negare.

Melio Arundez si girò, sorrise nel vedere l’espressione di Theo e gli bisbigliò: — Ouster.

Sordito, Theo Lane non poté far altro che scuotere la testa e ascoltare la musica. Gli Ouster erano dei barbari, non quelle creature belle e a volte eteree creature. I prigionieri Ouster su Bressia, per non parlare dei cadaveri dei fanti, erano stati tutti di un tipo… alti, sì, magri, sì, ma molto più simili allo standard della Rete di quanto non lo fosse quello spiegamento di varietà strabiliante.

Theo scosse di nuovo la testa, mentre il brano di musica si alzava in un crescendo e terminava con una nota definitiva. Le centinaia di creature sul prato all’esterno applaudirono, con rumore alto e morbido nell’aria rarefatta, poi si alzarono, si sgranchirono e si allontanarono in varie direzioni…

alcuni scomparvero in fretta al di là dell’impressionante orizzonte troppo vicino, altri aprirono ali di otto metri e volarono via. Altri ancora si avvicinarono alla nave.

Il Console si alzò, vide Theo e sorrise. Gli strinse la spalla. — Theo, appena in tempo. Fra poco inizieremo i negoziati.

Theo Lane batté le palpebre. Tre Ouster atterrarono sulla loggia e ripiegarono dietro di sé le grandi ali. Ciascuno di loro aveva folta pelliccia ma-culata e striata in modo diverso, organica e convincente come quella di un animale selvatico.

— Delizioso come sempre — disse al Console l’Ouster più vicino. Aveva faccia da leone… naso largo, occhi di oro incorniciati da una gorgiera di pelo fulvo. — L’ultimo brano era la Fantasia in Re minore, op. 397, di Mozart, vero?

— Esatto — disse il Console. — Freeman Vanz, le presento Theo Lane, governatore generale del Protettorato dell’Egemonia Hyperion.

Lo sguardo da leone si spostò su Theo. — È un onore — disse Freeman Vanz, tendendo la mano irsuta.

Theo la strinse. — Piacere di conoscerla, signore — rispose. Si domandò se in realtà non fosse ancora nella vasca di ricupero e sognasse tutto. La luce del sole sul viso e la stretta decisa gli suggerirono altrimenti.

Freeman Vanz tornò a girarsi verso il Console. — A nome dell’Aggregato, la ringrazio per il concerto. Sono trascorsi troppi anni dall’ultima volta che l’abbiamo ascoltata suonare, amico mio. — Si guardò intorno. —

Possiamo discutere qui o in uno dei complessi amministrativi, come prefe-risce.

Il Console esitò solo un secondo. — Noi siamo in tre, Freeman Vanz.

Voi siete molti. Verremo da voi.

La testa leonina annuì e lanciò un’occhiata al cielo. — Vi manderemo una barca per la traversata — disse. Con gli altri due si accostò alla balaustra e saltò giù; cadde per diversi metri, prima di spiegare le ali complesse e prendere il volo verso l’orizzonte.

— Gesummio — mormorò Theo. Afferrò per il braccio il Console. —

Dove siamo?

— Nello Sciame — rispose il Console, coprendo la tastiera dello Steinway. Li precedette all’interno, attese che Arundez si scostasse e ritirò la loggia.

— E cosa negozieremo? — domandò Theo.

Il Console si strofinò gli occhi. Aveva l’aspetto di chi ha dormito poco o niente nelle ultime dodici ore.

— Dipende dal prossimo messaggio del PFE Gladstone — disse; con un cenno indicò la piazzuola già annebbiata da colonne di dati. La nave stava decodificando una raffica astrotel.

Meina Gladstone entrò nella clinica della Casa del Governo e fu scortata da medici in attesa nel reparto dov’era ricoverato padre Paul Duré. — Come sta? — chiese al primario, medico personale del PFE.

— Ustioni di secondo grado su un terzo del corpo — rispose la dot-toressa Irma Androneva. — Ha perduto le sopracciglia e parte dei capelli…

non che ne avesse molti… e ha riportato alcune ustioni terziarie da radiazioni sul lato sinistro del viso e del corpo. Abbiamo completato la rigenerazione epidermica e gli abbiamo fatto iniezioni di stampo RNA. Non soffre ed è cosciente. C’è la faccenda del parassita crucimorfo che ha sul petto, ma non rappresenta un pericolo immediato per il paziente.

— Ustioni terziarie da radiazioni — disse Gladstone, fermandosi un momento appena fuori portata di orecchio dello scompartimento di Duré.

— Bombe al plasma?

— Sì — rispose un altro medico che Gladstone non riconobbe. — Siamo sicuri che quest’uomo si è teleportato qui da Bosco Divino un paio di secondi prima che il collegamento fosse tagliato.

— Bene — disse Gladstone, accostandosi al materassino galleggiante sul quale Duré riposava. — Per favore, vorrei parlargli in privato.

I medici si scambiarono un’occhiata, chiamarono dal deposito a parete un’infermiera meccanica, uscirono e chiusero la porta del reparto.

— Padre Duré? — disse Gladstone. Lo riconobbe dalle olografie e dalle descrizioni di Severn. Ora il prete aveva il viso arrossato e chiazzato, luccicava per il gel di rigenerazione e per il velo di analgesico. Ma era sempre un uomo di notevole presenza.

— Signora — mormorò Duré; cercò di alzarsi a sedere.

Gladstone lo bloccò con gentilezza, posandogli la mano sulla spalla. —

Stia comodo — disse. — Si sente di raccontarmi cos’è accaduto?

Duré annuì. C’erano lacrime, negli occhi dell’anziano gesuita. — La Vera Voce dell’Albero Mondo non credeva che avrebbero attaccato sul serio

— mormorò, rauco. — Sek Hardeen pensava che i Templari avessero una sorta di accordo con gli Ouster… una sorta di compromesso. Ma gli Ouster hanno attaccato. Lance tattiche, ordigni al plasma, esplosivi nucleari, credo…

— Sì — disse Gladstone. — Dalla Sala di Guerra abbiamo seguito l’attacco. Devo sapere tutto, padre Duré. Tutto, a partire dal momento in cui su Hyperion lei è entrato nella Tomba Grotta.

Padre Duré concentrò lo sguardo sul viso della donna. — Ne è al corrente?

— Sì. E sono informata di molte altre cose accadute fino a quel momento. Ma devo saperne di più. Molto di più.

Duré chiuse gli occhi. — Il labirinto…

— Prego?

— Il labirinto — ripeté il prete in tono più alto. Si schiarì la voce e le parlò del viaggio nei tunnel pieni di cadaveri, della traslazione in una nave della FORCE, dell’incontro con Severn su Pacem.

— Ed è certo che Severn fosse diretto qui? Alla Casa del Governo? —domandò Gladstone.

— Sì. Severn e l’uomo che lei ha mandato a chiamarlo… Hunt. Tutt’e due intendevano teieportarsi qui.

Gladstone annuì e con cautela toccò una zona non ustionata della spalla del prete. — Padre, qui gli eventi si susseguono molto in fretta. Severn è scomparso, e anche Hunt. Ho bisogno di consigli a proposito di Hyperion.

Vuole restare con me?

Per un momento Duré parve confuso. — Devo tornare. Tornare su Hyperion, signora. Sol e gli altri mi aspettano.

— Capisco — disse Gladstone, in tono consolatorio. — Appena sarà possibile andare su Hyperion, affretterò il suo ritorno. In questo momento però la Rete è sotto attacco. Milioni di persone muoiono o corrono il rischio di morire. Mi serve il suo aiuto, padre. Posso contare su di lei, nel frattempo?

Con un sospiro Paul Duré si lasciò ricadere. — Sì, signora. Ma non ho idea di come…

Bussarono piano; Sedeptra Akasi entrò e porse a Gladstone la velina di un messaggio. Il PFE sorrise. — Ho detto che gli eventi si susseguivano rapidamente, padre. Ecco l’ultimo. Un messaggio da Pacem: il Collegio dei Cardinali si è riunito nella Cappella Sistina… — Gladstone inarcò il sopracciglio. — Non ricordo, padre: è proprio la vera Cappella Sistina?

— Sì. La Chiesa l’ha smontata pietra per pietra, affresco per affresco, e l’ha trasportata su Pacem, dopo il Grande Errore.

Gladstone guardò la velina. — … si è riunito nella Cappella Sistina e ha eletto un nuovo pontefice.

— Così presto? — mormorò Paul Duré. Chiuse gli occhi. — Immagino che sentissero la necessità di fare in fretta. Pacem è a soli dieci giorni dall’ondata di invasione degli Ouster. Però, arrivare a una decisione così rapidamente…

— Le interessa sapere chi è il nuovo Papa?

— Il cardinale Antonio Guarducci o il cardinale Agostino Ruddell, penso. Nessuno degli altri otterrebbe la maggioranza, al momento.

— No — disse Gladstone. — Secondo il messaggio del vescovo Edouard della Curia Romana…

Vescovo Edouard! Mi scusi, signora. Continui, prego.

— Secondo il vescovo Edouard, il Collegio dei Cardinali ha eletto un prelato al di sotto del rango di monsignore per la prima volta nella storia della Chiesa. Qui si dice che il nuovo Papa è un prete gesuita… un certo padre Paul Duré.

Duré balzò a sedere, nonostante le ustioni. — Cosa? — L’incredulità era totale.

Gladstone gli passò la velina.

Duré fissò il foglio. — Impossibile. Non hanno mai eletto papa chi non era almeno monsignore, se non simbolicamente, e anche quello fu un caso unico… si trattava di San Belvedere, dopo il Grande Errore e il Miracolo del… no, no, è impossibile.

— Il vescovo Edouard ha chiamato, a quanto mi dicono. Faremo passare qui la chiamata immediatamente, padre. O dovrei dire, Santità? — Non c’era ironia, nel tono di Gladstone.

Duré alzò gli occhi, troppo stordito per parlare.

— Le faccio passare la chiamata — disse Gladstone. — Faremo in modo che lei torni su Pacem al più presto possibile, Santità, ma le sarei grata se si mantenesse in contatto con me. Ho bisogno del suo consiglio.

Duré annuì e tornò a guardare la velina. Sulla consolle sopra il lettino, il telefono cominciò a lampeggiare.

Gladstone uscì nel corridoio, informò i medici delle ultime novità, contattò la Sicurezza per approvare il permesso teleporter per il vescovo Edouard o altri rappresentanti ufficiali della Chiesa che giungessero da Pacem, e si teleportò nell’ala residenziale. Sedeptra le ricordò che entro otto minuti il consiglio si sarebbe nuovamente riunito nella Sala di Guerra.

Gladstone annuì, mandò via l’aiutante e si accostò al camerino astrotel nascosto in una nicchia della parete. Attivò i campi sonici di sicurezza e batté sul diskey di trasmissione il codice della nave del Console. Ogni ricevitore astrotel della Rete, della Periferia, della galassia e dell’universo avrebbe rilevato la raffica di tachioni, ma solo la nave del Console l’avrebbe decodi-ficata. Almeno, così Gladstone si augurava.

La luce spia dell’olocamera si accese. — Sulla base della raffica inviata automaticamente dalla sua nave, presumo che lei abbia deciso di incontrar-si con gli Ouster e che loro gliel’abbiano permesso — disse Gladstone rivolta direttamente all’olocamera. — Presumo pure che lei sia sopravvissuto all’incontro.

Inspirò a fondo. — Nell’interesse dell’Egemonia, le ho chiesto di sacrificare molto, negli ultimi anni. Ora le chiedo, nell’interesse dell’umanità intera, di scoprire quanto segue:

“Primo. Perché gli Ouster attaccano e distruggono i mondi della Rete?

Lei era convinto, come Byron Lamia e come me, che volessero solo Hyperion. Perché hanno cambiato idea?

“Secondo. Dove si trova il TecnoNucleo? Devo saperlo, se dobbiamo combattere contro di loro. Gli Ouster hanno dimenticato il nostro comune nemico, il Nucleo?

“Terzo. Cosa pretendono per un cessate il fuoco? Sono disposta a grossi sacrifici, per liberarci del dominio del Nucleo. Ma le stragi devono cessare!

“Quarto. Il Leader dell’Aggregato Sciame è disposto a incontrarmi di persona? Mi teleporterò nel sistema di Hyperion, se occorre. Gran parte della nostra flotta ha lasciato la zona, ma c’è ancora una Balzonave e la sua scorta, con la sfera di anomalia. Il Leader deve decidere in fretta, perché la FORCE vuole distruggere la sfera e allora Hyperion si troverà a tre anni di debito temporale dalla Rete.

“Quinto e ultimo. Il Leader dello Sciame dev’essere informato che il Nucleo ci chiede di adoperare un ordigno simile alla neuroverga per controbattere l’invasione Ouster. Molti leader della FORCE sono di parere favorevole. Il tempo stringe. Non… ripeto, non… lasceremo che gli Ouster invadano la Rete.

“Ora tocca a lei. Per favore, notifichi la ricezione di questo messaggio e m’informi via astrotel dell’inizio dei negoziati.”

Gladstone fissò il disco della telecamera, come se potesse trasmettere attraverso gli anni-luce la forza della propria personalità e della propria sincerità. — La supplico, abbia a cuore la storia della razza umana. Porti a termine questo incarico.

La raffica del messaggio astrotel fu seguita da due minuti di immagini convulse che mostravano la morte di Porta del Paradiso e di Bosco Divino.

Svanite le olografie, il Console, Melio Arundez e Theo Lane rimasero in silenzio.

— Risposta? — domandò la nave.

Il Console si schiarì la voce. — Notifica la ricezione del messaggio —disse. — Invia le nostre coordinate. — Guardò, dall’altra parte della piazzuola, gli altri due. — Signori?

Arundez scosse la testa come se volesse snebbiarsi il cervello. — È chiaro che lei è già stato qui… nello Sciame Ouster.

— Sì — disse il Console. — Dopo Bressia… dopo che mia moglie e mio figlio… Dopo Bressia, qualche tempo fa, mi sono incontrato con questo Sciame per negoziati estensivi.

— Rappresentava l’Egemonia? — domandò Theo. Il suo viso sembrava molto più vecchio, segnato da rughe di preoccupazione.

— Rappresentavo il partito della senatrice Gladstone. Prima che fosse eletta PFE. Mi spiegarono che c’era la possibilità di modificare i risultati di una lotta di potere all’interno del TecnoNucleo, se si portava Hyperion nel Protettorato. Il modo migliore era quello di far trapelare informazioni agli Ouster… informazioni che li avrebbero spinti ad attaccare Hyperion, per cui sarebbe stata necessaria la presenza della flotta dell’Egemonia.

— E lei ha ubbidito? — La voce di Arundez non mostrò emozione, anche se la moglie e i figli dell’archeologo stavano su Vettore Rinascimento, adesso a meno di ottanta ore dall’invasione.

Il Console si lasciò ricadere contro i cuscini. — No. Rivelai agli Ouster l’intero piano. Loro mi rimandarono nella Rete come agente doppio. Pro-gettarono di impadronirsi di Hyperion, ma nel momento scelto da loro.

Theo strinse i pugni. — Tutti quegli anni al consolato…

— Aspettavo l’ordine degli Ouster — disse il Console, in tono piatto. —

Avevano un congegno che avrebbe fatto collassare i campi anti-entropici intorno alle Tombe del Tempo. Che avrebbe aperto le Tombe, al momento opportuno. Che avrebbe permesso allo Shrike di liberarsi dei legami.

— Così sono stati gli Ouster — disse Theo.

— No, sono stato io. Ho tradito gli Ouster, come avevo tradito Gladstone e l’Egemonia. Uccisi la donna Ouster che calibrava il congegno… e i tre tecnici che l’aiutavano… e lo misi in funzione. I campi anti-entropici col-lassarono. Fu deciso l’ultimo pellegrinaggio. Lo Shrike è libero.

Theo fissò il suo mentore di un tempo. C’era più perplessità che collera, negli occhi verdi del governatore generale. — Perché? Perché l’ha fatto?

Il Console parlò, brevemente, in tono spassionato, di Siri e di Patto-Maui e della rivolta contro l’Egemonia, una rivolta che non terminò quando lei e il suo innamorato, il nonno del Console, morirono.

Arundez si alzò dalla piazzuola e andò alla finestra di fronte alla loggia.

La luce solare inondò le sue gambe e il tappeto blu scuro. — Gli Ouster sanno cosa ha fatto?

— Lo sanno. L’ho raccontato a Freeman Vanz e agli altri, quando siamo giunti qui.

Theo si mise a camminare avanti e indietro. — Quindi l’incontro al quale parteciperemo potrebbe essere un processo? Il Console sorrise. — O un’e-secuzione.

Theo si fermò, mani strette a pugno. — E Gladstone lo sapeva, quando le ha chiesto di tornare qui?

— Sì.

Theo distolse lo sguardo. — Non so se voglio che lei sia messo a morte oppure no.

— Non lo so neppure io, Theo — disse il Console.

Melio Arundez girò le spalle alla finestra. — Vanz non ha detto che avrebbero mandato una barca per portarci da loro?

Qualcosa, nel tono, spinse gli altri due a guardare dalla finestra. Il mondo su cui erano atterrati era un asteroide di media grandezza, circondato da un campo di contenimento classe-10 e terraformato in sfera da generazioni di vento e di acqua e di accurata ristrutturazione. Il sole di Hyperion tramontava al di là dell’orizzonte troppo vicino e per quei pochi chilometri l’erba scialba s’increspava sotto una brezza capricciosa. Ai piedi della nave, un ampio torrente, o uno stretto fiume, attraversava pigramente i pascoli, si avvicinava all’orizzonte e poi sembrava scorrere verso l’alto in un fiume mutato in cascata, serpeggiare attraverso il lontano campo di contenimento e il nero dello spazio, prima di rimpicciolire in una linea sottile quasi invisibile a occhio nudo.

Una barca scendeva quella cascata infinitamente alta e si avvicinava alla superficie del piccolo mondo. A prua e a poppa c’erano figure umanoidi.

— Cristo! — mormorò Theo.

— Meglio farci trovare pronti — disse il Console. — Quella è la nostra scorta.

Fuori, il sole tramontò con rapidità impressionante; gli ultimi raggi attraversarono la cortina di acqua, mezzo chilometro più in alto del terreno in ombra, e incendiarono il cielo color oltremare, con arcobaleni di colore e di solidità quasi spaventosi.

40

A metà mattina Hunt mi sveglia. Arriva portando un vassoio con la colazione e ha negli occhi scuri uno sguardo spaventato.

Gli domando: — Dove ha preso il cibo?

— C’è una sorta di piccolo ristorante nella sala anteriore al piano di sotto. Il cibo era pronto, caldo, ma non c’era nessuno.

Annuisco. — La piccola trattoria della signora Angeletti. Non è una brava cuoca. — Ricordo la preoccupazione del dottor Clark per la mia dieta: era convinto che la consunzione si fosse installata nello stomaco e mi teneva a regime da inedia, latte e pane e un po’ di pesce di tanto in tanto. È

strano, come molti membri sofferenti della razza umana abbiano affrontato l’eternità ossessionati dalle proprie viscere, dalle piaghe di decubito o dalla povertà della dieta.

Guardo di nuovo Hunt in viso. — Cosa c’è?

L’aiutante di Gladstone è andato alla finestra e pare assorto nella con-templazione della piazza. Odo gorgogliare la maledetta fontana del Bernini. — Stavo per uscire, mentre lei dormiva — dice lentamente Hunt — casomai ci fosse in giro qualcuno. O un telefono, o un teleporter.

— Certo.

— Avevo appena varcato… la… — Si girò, si umettò le labbra. — C’è qualcosa, là fuori, Severn. Nella via alla base della scalinata. Non ne sono sicuro, ma credo che sia…

— Lo Shrike — termino per lui.

Hunt annuisce. — L’ha visto?

— No, ma non sono sorpreso.

— È… è orribile, Severn. Ha qualcosa che mi fa accapponare la pelle.

Là… Lo si scorge di sfuggita, nell’ombra dell’altra ala della scalinata.

Comincio ad alzarmi, ma un improvviso attacco di tosse e la sensazione del catarro che risale nel petto e in gola mi obbliga a lasciarmi ricadere sui cuscini. — So quale aspetto ha, Hunt. Non si preoccupi, non è qui per lei.

— La mia voce esprime più fiducia di quanta non ne provi.

— Per lei?

— Non penso — rispondo, fra un ansito e l’altro. — Credo sia qui solo per accertarsi che non tenti di andarmene… di trovare un altro luogo dove morire.

Hunt torna accanto al letto. — Non morirà davvero, Severn?

Non rispondo.

Si siede sulla sedia a schienale dritto posta accanto al letto e prende una tazza di tè ormai tiepido. — Se lei muore, cosa mi accadrà?

— Non lo so — rispondo onestamente. — Se muoio, non so nemmeno cosa accadrà a me.

C’è un certo solipsismo nelle malattie gravi che richiedono tutta la propria attenzione con la certezza con cui un buco nero astronomico afferra qualsiasi cosa abbia la sfortuna di cadere al di qua del suo raggio critico. Il giorno si trascina; sono acutamente consapevole del movimento della luce del sole sulla parete scabra, delle lenzuola sotto le mani, della febbre che si alza in me come nausea e si estingue nella fornace della mente, e soprattutto, del dolore. Non il dolore mio, adesso, perché qualche ora o giorno di costrizione in gola e di bruciore nel petto sono sopportabili, quasi benve-nuti, come un vecchio amico seccante incontrato in una città straniera; ma il dolore degli altri… di tutti gli altri. Mi colpisce la mente come fracasso di ardesia che si frantumi, come maglio sull’incudine; e non c’è modo di sfuggirgli.

Il mio cervello lo riceve come frastuono e lo ristruttura come poesia.

Tutto il giorno e tutta la notte il dolore dell’universo fluisce in me e vaga per i corridoi febbricitanti della mia mente, sotto forma di versi, immagini, immagini in versi, la danza intricata e infinita del linguaggio, ora calmante come un a solo di flauto, ora acuta e stridula e irritante come una decina di orchestre, ma sempre versi, sempre poesia.

A un certo punto, verso il tramonto, mi desto dal dormiveglia e così mando in frantumi il sogno dello scontro fra il colonnello Kassad e lo Shrike per la vita di Sol e di Brawne Lamia. Vedo Hunt seduto alla finestra: la luce della sera dà al suo viso la sfumatura della terracotta.

— È ancora lì? — domando, con voce simile al raschiare di lima su pietra.

Hunt sobbalza, poi si gira verso di me, con un sorriso di scusa e il primo rossore che abbia mai visto su quei lineamenti severi. — Lo Shrike? — dice. — Non so. Da un po’ di tempo non l’ho più visto. Ma ne sento la presenza! — Mi guarda. — Come sta?

— Da moribondo. — Subito mi pento dell’indulgenza di questa risposta impertinente, per quanto esatta, quando vedo che addolora Hunt. — Non è niente — dico, in tono quasi gioviale. — L’ho già fatto. Non è come se fossi io a morire. Esisto come personalità nel profondo del TecnoNucleo.

Muore solo questo corpo. Il cìbrido di John Keats. Questa ventisettenne illusione di carne e sangue e associazioni presi in prestito.

Hunt viene a sedersi sul bordo del letto. Mi accorgo con sorpresa che durante il giorno ha cambiato le lenzuola e sostituito con il suo il copriletto macchiato di sangue. — La sua personalità è una IA nel Nucleo — dice.

— Quindi lei deve essere in grado di accedere alla sfera dati.

Scuoto la testa, troppo stanco per discutere.

— Quando è stato rapito dai Philomel, l’abbiamo rintracciato tramite la sua via di accesso alla sfera dati — insiste. — Non deve contattare Gladstone di persona. Le basta lasciare un messaggio dove la Sicurezza può trovarlo.

— No — replico, con voce stridula. — Il Nucleo non vuole.

— Glielo impediscono? La bloccano?

— Non ancora. Ma lo farebbero. — Parlo staccando le parole, fra un ansito e l’altro, disteso come un fragile uovo nel nido. A un tratto ricordo un biglietto inviato alla cara Fanny, poco dopo una grave emorragia, ma quasi un anno prima che il male mi uccidesse. Le avevo scritto: “Se dovessi morire” ho detto a me stesso “non mi sono lasciato alle spalle opere immortali… nulla per rendere orgogliosi del mio ricordo gli amici… ma ho amato il principio della beltà in tutte le cose e, se avessi avuto tempo, avrei fatto in modo di essere ricordato”. Queste parole mi colpiscono ora come futili, egocentriche, sciocche e ingenue… eppure ci credo ancora disperatamente.

Se avessi avuto tempo… i mesi trascorsi su Esperance, fingendo di essere un pittore visuale; i giorni sprecati con Gladstone nelle sale del governo, quando invece avrei potuto scrivere…

— Come lo sa, se non prova? — domanda Hunt.

— Cosa? — replico. Il semplice sforzo di due sillabe mi fa tornare la tosse e lo spasmo termina solo quando sputo sfere semisolide di sangue nella bacinella che Hunt si è affrettato a portarmi. Mi distendo, cerco di mettere a fuoco il viso di Hunt. Comincia a farsi buio, nella stanzetta, e nessuno di noi due ha acceso la lampada. Fuori, la fontana gorgoglia rumorosamente.

— Cosa? — ripeto, cercando di restare lì, anche se il sonno e i sogni mi tirano via. — Se non provo cosa?

— A lasciare un messaggio tramite la sfera dati — mormora lui. — A mettersi in contatto con qualcuno.

— E quale messaggio lascerei, Leigh? — domando. E la prima volta che lo chiamo per nome.

— Dove ci troviamo. Come il Nucleo ci ha rapito. Qualsiasi cosa.

— E va bene — dico, chiudendo gli occhi. — Farò il tentativo. Non credo che me lo permetteranno, ma prometto di tentare.

Sento che Hunt mi tiene la mano. Anche attraverso le maree vincenti dello sfinimento, l’improvviso contatto umano basta a farmi venire le lacrime agli occhi.

Farò il tentativo. Prima di arrendermi ai sogni o alla morte, farò il tentativo.

Il colonnello Fedmahn Kassad mandò il grido di battaglia della FORCE

e si lanciò alla carica nella tempesta di sabbia per intercettare lo Shrike, prima che il mostro percorresse gli ultimi trenta metri che lo separavano dal punto in cui Sol Weintraub era accovacciato accanto a Brawne Lamia.

Lo Shrike esitò, girò la testa, con un bagliore rossastro degli occhi. Kassad armò il fucile di assalto e si lanciò a rompicollo giù per il pendio.

Lo Shrike traslò!

Kassad vide la traslazione nel tempo dello Shrike sotto forma di un lento offuscamento; notò, pur guardando l’avversario, che nella valle ogni movimento era cessato, che la sabbia restava immobile a mezz’aria, che la luce delle Tombe assumeva la solidità dell’ambra. Chissà come, la dermotuta di Kassad traslò con lo Shrike, lo seguì nei suoi movimenti nel tempo.

La creatura alzò di colpo la testa, attenta ora; protese le quattro braccia, come lame che scattino da un coltello a serramanico; con uno schiocco aprì le dita in un tagliente benvenuto.

Con una scivolata Kassad si arrestò a dieci metri dalla creatura e attivò il fucile di assalto; ridusse in scorie vetrificate la sabbia sotto lo Shrike, in una esplosione di raggio compatto alla massima potenza.

Lo Shrike fiammeggiò, mentre il carapace e le gambe simili a statue di acciaio riflettevano la luce infernale che l’avvolgeva. Poi tre metri di mostro iniziarono a sprofondare nella sabbia che gorgogliava in un lago di vetro fuso. Kassad gridò di trionfo e si avvicinò, tenendo sotto il raggio lo Shrike e il terreno, nello stesso modo in cui, da ragazzo, nei bassifondi di Tharsis, aveva spruzzato gli amici usando tubi di gomma per innaffiare, rubati.

Lo Shrike affondò. Le braccia smanacciarono sabbia e roccia, cercarono un appiglio. Volarono scintille. Lo Shrike traslò, con il tempo che scorreva all’indietro come un ologramma rovesciato, ma Kassad traslò con lui, rendendosi conto che Moneta lo aiutava, che la tuta della donna lavorava per la sua ma lo guidava attraverso il tempo; e poi innaffiò di nuovo il mostro, con un calore concentrato superiore a quello della superficie del sole, fuse la sabbia sotto di lui, guardò le rocce esplodere in fiamme.

Sprofondando in quel calderone di fiamme e di roccia fusa, lo Shrike gettò indietro la testa, spalancò l’ampio orifizio della bocca e mugghiò.

Kassad smise quasi di sparare, per la sorpresa. L’urlo dello Shrike risuonò come ruggito di drago misto allo scoppio di un razzo a fusione. Lo stridio legò i denti a Kassad, vibrò contro le pareti della valle, scagliò al suolo la sabbia sospesa a mezz’aria. Kassad commutò il fucile sul tiro solido ad alta velocità e scagliò diecimila micro- fléchettes contro la faccia della creatura.

Lo Shrike traslò, di anni, secondo la vertiginosa sensazione nelle ossa e nel cervello di Kassad; non furono più nella valle, ma a bordo di un carro a vela che procedeva rumorosamente nel mare di Erba. Il tempo tornò; lo Shrike balzò avanti, con le braccia metalliche sgocciolanti vetro fuso, e af-

ferrò il fucile di assalto di Kassad. Il colonnello non mollò l’arma e i due barcollarono in tondo in una goffa danza: lo Shrike vibrava colpi, col secondo paio di braccia e una gamba ornata di punte di acciaio, Kassad spiccava balzi per schivare, sempre aggrappato disperatamente al fucile.

Si trovavano in una sorta di piccolo scompartimento. Moneta era presente sotto forma di un’ombra nell’angolo; un’altra figura, un uomo alto e incappucciato, si mosse a velocità ultralenta per evitare l’improvvisa confusione di braccia e di lame in uno spazio ristretto. Attraverso i filtri della dermotuta, Kassad vide nel locale il campo di energia, azzurro e violetto, di un erg legante: l’erg pulsò e crebbe, poi si ritrasse dalla violenza temporale dei campi organici anti-entropici dello Shrike.

Lo Shrike menò un fendente che attraversò la tuta di Kassad fino a raggiungere carne e muscoli. Il sangue riempì di schizzi le pareti. Kassad infilò a forza la canna del fucile nelle fauci della creatura e sparò. Una nube di duemila fléchettes ad alta velocità piegò all’indietro la testa dello Shrike come se fosse su una molla e sbatté contro la parete il corpo della creatura.

Pur cadendo, con le punte della gamba il mostro colpì Kassad alla coscia e mandò una spirale di sangue a schizzare finestre e pareti della cabina del carro a vela.

Lo Shrike traslò.

A denti stretti, sentendo la dermotuta tamponare e suturare automaticamente le ferite, Kassad rivolse un’occhiata a Moneta, annuì una volta e seguì la creatura attraverso il tempo e lo spazio.

Sol Weintraub e Brawne Lamia si guardarono alle spalle, quando un terribile ciclone di calore e di luce parve turbinare e morire. Sol riparò col proprio corpo la donna, mentre vetro fuso schizzava da tutte le parti e cadeva sfrigolando sulla sabbia fredda. Poi il frastuono svanì, la tempesta di sabbia oscurò il laghetto ribollente dove quella violenza si era scatenata e il vento sbatacchiò il mantello di Sol intorno a tutt’e due.

— Cosa diavolo era? — ansimò Brawne.

Sol scosse la testa e l’aiutò a mettersi in piedi nel vento ruggente. — Le Tombe si aprono! — gridò. — Un’esplosione, forse.

Brawne barcollò, trovò l’equilibrio, toccò il braccio di Sol. — Rachel?

— domandò ad alta voce per superare il frastuono.

Sol serrò i pugni. Aveva la barba già piena di sabbia. — Lo Shrike… l’ha presa… non mi ha fatto entrare nella Sfinge. Mi aspettava!

Brawne guardò a occhi socchiusi la Sfinge, visibile solo come un profilo risplendente nel furioso turbinio di polvere.

— Stai bene? — le gridò Sol.

— Come?

— Stai… bene?

Brawne annuì con aria assente e si toccò la testa. Lo shunt neurale era sparito. Non solo l’osceno cordone dello Shrike, ma anche lo shunt che Johnny le aveva applicato con un’operazione chirurgica mentre si tenevano nascosti nell’Alveare Sedimento, molto tempo prima. Spariti per sempre shunt e iterazione Schrön, non aveva modo di rimettersi in contatto con Johnny. Ricordò che Ummon aveva distrutto la personalità di Johnny, l’aveva sbriciolata e assorbita, con la stessa fatica con cui lei avrebbe schiacciato un insetto.

— Sto bene — rispose, ma si accasciò, tanto che Sol fu costretto a sor-reggerla per impedirle di cadere.

Sol gridò qualcosa. Brawne cercò di concentrarsi, di mettere a fuoco il luogo e il momento. Dopo la megasfera, la realtà le pareva piccola e limitata.

— …non possiamo parlare, qui — gridava Sol. — …tornare nella Sfinge.

Brawne scosse la testa. Indicò le pareti rocciose sul lato nord della valle dove l’immenso albero dello Shrike era visibile fra nuvole di polvere. — Il poeta… Sileno… è là. L’ho visto!

— Non possiamo fare niente per lui! — gridò Sol, usando il mantello per ripararsi e ripararla. La sabbia vermiglia tamburellò contro la fibroplastica col rumore di fléchettes su di una corazza.

— Forse possiamo — gridò Brawne, sentendo il calore di Sol, mentre lui la riparava tra le braccia. Per un secondo immaginò di potersi rannicchiare contro di lui con la stessa facilità di Rachel e dormire, dormire. — Ho visto… delle connessioni… quando uscivo dalla megasfera! — continuò, superando il ruggito del vento. — L’albero di spine è collegato in qualche modo al Palazzo dello Shrike! Se riusciamo ad andarci, a trovare il modo di liberare Sileno…

Sol scosse la testa. — Non posso lasciare la Sfinge. Rachel…

Brawne capì. Con la mano toccò la guancia dell’anziano studioso, poi gli si accostò, sentì contro la guancia la barba ispida. — Le Tombe si aprono

— disse. — Non so quando avremo un’altra possibilità.

Sol aveva gli occhi bagnati di lacrime. — Lo so. Vorrei aiutarti. Ma non posso lasciare la Sfinge, nel caso… nel caso che lei…

— Capisco — disse Brawne. — Torna laggiù. Io vado al Palazzo dello Shrike per vedere se riesco a capire come è collegato all’albero di spine.

Sol annuì, a disagio. — Hai detto di essere stata nella megasfera — disse. — Cos’hai visto? Cos’hai appreso? La personalità Keats… è forse…

— Ne parleremo quanto torno — disse Brawne, scostandosi di un passo, in modo da guardarlo meglio. La faccia di Sol era una maschera di sofferenza: la faccia di un padre che ha perduto il figlio.

— Torna alla Sfinge — disse Brawne, ferma. — Ci vediamo lì, fra un’ora o anche meno.

Sol si lisciò la barba. — Sono spariti tutti, tranne te e me, Brawne. Non dovremmo separarci…

— Sì, per un poco — replicò Brawne, allontanandosi da lui, cosicché il vento le frustò la stoffa dei calzoni e della giacca. — Ci vediamo fra un’ora o meno. — S’incamminò rapidamente, prima di cedere all’impulso di rifugiarsi di nuovo nel tepore delle braccia di Sol. Il vento era più intenso, soffiava dritto giù dall’imboccatura della valle, per cui la sabbia colpiva negli occhi Brawne e le martellava le guance. La donna riuscì bene o male a seguire il sentiero tenendo la testa bassa. Solo il bagliore vivido e pulsante delle Tombe le illuminava la strada. Brawne sentì le maree del tempo tirar-la come se l’aggredissero fisicamente.

Minuti dopo, si rese vagamente conto di avere oltrepassato l’Obelisco e di trovarsi sul sentiero cosparso di detriti del Monolito di Cristallo. Sol e la Sfinge erano già persi alle sue spalle, la Tomba di Giada era un semplice bagliore verde chiaro nell’incubo di polvere e di vento.

Brawne si fermò, ondeggiò un poco quando le raffiche e le maree del tempo la tirarono. C’era più di mezzo chilometro per arrivare al Palazzo dello Shrike. Anche se, mentre lasciava la megasfera, aveva capito all’improvviso che c’era un legame fra albero e tomba, cosa avrebbe potuto fare di utile, una volta sul posto? E cosa aveva fatto per lei, il maledetto poeta, se non prenderla a male parole e farla impazzire di rabbia? Perché morire nel tentativo di salvarlo?

Nella valle il vento urlava, ma al di sopra del frastuono Brawne pensò di udire grida più acute, più umane. Guardò verso la scarpata nord, si alzò il colletto della giacca e continuò ad avanzare nel vento.

Prima che Meina Gladstone uscisse dalla cabina astrotel, trillò il segnale delle chiamate in arrivo e la donna tornò ad accomodarsi e fissare con grande intensità la vasca olografica. La nave del Console aveva già notifi-cato la ricezione del messaggio, ma non aveva dato risposta; forse il Con-

sole aveva cambiato idea.

No. Le colonne dati che fluttuavano nel prisma rettangolare di fronte a lei mostrarono che la raffica tachionica si era originata nel sistema di Mare Infinitum. L’ammiraglio William Ajunta Lee chiamava il PFE servendosi del codice privato che lei gli aveva dato.

La FORCE:spazio si era esasperata, quando Gladstone aveva insistito sulla promozione del capitano di fregata e l’aveva nominato “Ufficiale di collegamento del governo” per la missione di attacco in origine programmata per Hebron. Dopo i massacri di Porta del Paradiso e di Bosco Divino, l’unità di assalto era stata trasferita nel sistema di Mare Infinitum: settantaquattro navi principali fortemente protette da navi torcia e da vedette a schermo difensivo, l’intera forza navale di assalto, con l’ordine di penetrare con la massima velocità tra le navi da guerra dello Sciame in avanzata per colpirne il centro.

Lee era la spia e il contatto di Gladstone. Il nuovo grado e gli ordini gli consentivano di essere informato delle decisioni di comando, ma quattro ammiragli della FORCE:spazio lo superavano in grado.

Tutto regolare: Gladstone lo voleva sulla scena, per essere tenuta al corrente.

La vasca si annebbiò e vi comparve il viso deciso di William Ajunta Lee. — Signora, rapporto secondo gli ordini. L’Unità Operativa 181.2 si è teleportata con successo nel Sistema 3996.12.22…

Gladstone batté le palpebre per la sorpresa, prima di ricordare che quello era il codice ufficiale per il sistema con stella di tipo G nel quale era compreso Mare Infinitum. Di rado si pensava all’astrografia al di fuori del mondo stesso della Rete.

— …le navi di assalto dello Sciame rimangono a centoventi minuti dal raggio letale del mondo bersaglio — diceva intanto Lee. Gladstone sapeva che il raggio letale era grosso modo pari a 0,13 UA, distanza alla quale l’armamento standard delle navi aveva efficacia nonostante le difese a terra. Mare Infinitum non aveva difese a terra. Il neo ammiraglio continuò: —

Contatto con elementi dell’avanguardia stimato per le 17:32:26 standard Rete, fra circa venticinque minuti. L’Unità Operativa è configurata per la massima penetrazione. Due Balzonavi permetteranno l’arrivo di nuovo personale o di armi finché i teleporter non saranno sigillati durante il combattimento. L’incrociatore su cui sono a bordo, l’ AE Garden Odyssey, eseguirà alla prima occasione i suoi ordini speciali. William Lee. Fine.

L’immagine decadde in una sfera rotante di bianco, mentre i codici di trasmissione terminavano il loro brulichio.

— Risposta? — domandò il computer del trasmettitore.

— Messaggio ricevuto — disse Gladstone. — Procedere.

Gladstone rientrò nello studio e trovò Sedeptra Akasi in attesa, con una ruga di preoccupazione sul viso attraente.

— Cosa c’è?

— Il consiglio di guerra è pronto a riunirsi — disse l’aiutante. — Il senatore Kolchev aspetta di vederla per una questione che lui dice urgente.

— Fallo entrare. Informa il consiglio che arriverò fra cinque minuti.

Gladstone si sedette all’antica scrivania e resistette all’impulso di chiudere gli occhi. Era stanchissima. Ma aveva gli occhi aperti, quando Kolchev entrò. — Siedi, Gabriel Fyodor.

Il massiccio lusiano andò avanti e indietro. — Al diavolo le sedie! Sai cosa accade in questo momento, Meina?

Gladstone sorrise appena. — Ti riferisci alla guerra? La fine della vita come la conosciamo? Questo?

Kolchev batté sul palmo il pugno. — No, non mi riferisco a questo, maledizione! Mi riferisco al fallout politico. Hai tenuto d’occhio la Totalità?

— Quando mi è stato possibile.

— Allora sai che certi senatori e certi personaggi all’esterno del senato cercano sostegni per la tua disfatta in un voto di fiducia. È inevitabile, Meina. Semplice questione di tempo.

— Lo so, Gabriel. Perché non ti siedi? Abbiamo un paio di minuti, prima di tornare nella Sala di Guerra.

Kolchev quasi crollò in una poltrona. — Voglio dire, maledizione, perfino mia moglie si dà da fare per raccogliere voti contro di te, Meina.

Gladstone allargò il sorriso. — Sudette non è mai stata uno dei miei sostenitori più accesi, Gabriel. — Il sorriso scomparve. — Non ho assistito ai dibattiti, negli ultimi venti minuti. Quanto tempo pensi che mi resti?

— Otto ore, forse meno.

Gladstone annuì. — Mi basta.

— Ti basta? Che diavolo significa, ti basta? Chi altri sarà in grado di servire come Esecutivo di Guerra?

— Tu — disse Gladstone. — Non c’è dubbio che sarai tu a succedermi.

Kolchev brontolò qualcosa.

— Forse la guerra non durerà tanto — disse Gladstone, quasi fra sé.

— Eh? Ah, ti riferisci alla superarma del Nucleo. Già, Albedo ha fatto costruire un modello funzionante, in una imprecisata base della FORCE, e vuole che il consiglio assista a una prova. Una maledetta perdita di tempo, secondo me.

Gladstone sentì qualcosa di simile a una mano gelida stringerle il cuore.

— La neurobomba? Il Nucleo ne ha già una?

— Ne ha pronte diverse. Una è già a bordo di una nave torcia.

— Chi l’ha autorizzato, Gabriel?

— Morpurgo ha autorizzato la preparazione. — Il senatore si sporse in avanti. — Perché, Meina, cosa non va? Quell’affare non può essere usato senza il permesso del PFE.

Gladstone guardò il vecchio collega del senato. — Siamo molto distanti dalla Pax Egemonica, vero, Gabriel?

Il lusiano borbottò di nuovo, ma nei lineamenti tozzi traspariva dolore.

— Tutta colpa nostra, diavolo. L’amministrazione precedente ha dato retta al Nucleo e ha lasciato che Bressia attirasse uno Sciame. Sistemato questo, tu hai prestato orecchio ad altri elementi del Nucleo e hai portato Hyperion nella Rete.

— Credi che l’aver mandato la flotta a difendere Hyperion abbia provocato una guerra più ampia?

Kolchev alzò gli occhi. — No, no, impossibile. Quelle navi Ouster sono per strada da più di un secolo, no? Se solo le avessimo scoperte prima! O

se trovassimo un modo di negoziare per toglierci dalla merda.

Il comlog di Gladstone trillò. — È ora di tornare in consiglio — disse piano il PFE. — Probabilmente il consulente Albedo vuole mostrarci l’arma che vincerà la guerra.

41

È più facile permettere a me stesso di andare alla deriva nella sfera dati che non stare disteso sul letto nella notte che sembra non finire mai, ascoltare la fontana e aspettare la prossima emorragia. Questa debolezza è peggio che debilitante: mi trasforma in un uomo vuoto, tutto guscio e niente sostanza. Ricordo quando Fanny si prendeva cura di me, durante la conva-lescenza a Wentworth Place, e il tono della sua voce e le riflessioni filoso-fiche che soleva proclamare: “C’è un’altra vita? Mi risveglierò e scoprirò che questa è un sogno? Dev’esserci: non siamo stati creati per questo genere di sofferenze”.

Oh, Fanny, se solo tu sapessi! Siamo stati creati esattamente per questo genere di sofferenze. Alla fin fine, è tutto ciò che siamo, limpide pozze di autocoscienza fra scroscianti ondate di dolore. Siamo destinati e progettati per portare con noi il dolore, stringendolo al ventre come il giovane ladro spartano che nascondeva un cucciolo di lupo, in modo che possa sbranarci le viscere. Quale altra creatura nell’ampio dominio di Dio porterebbe il ricordo di te, Fanny, polvere da novecento anni, e se ne lascerebbe divorare, anche se la consunzione fa lo stesso lavoro con spontanea efficienza?

Le parole mi assalgono. Il pensiero di libri mi fa star male. La poesia mi risuona nella mente; se avessi il potere di scacciarla, lo farei all’istante.

Martin Sileno: ti odo, sulla tua vivente croce di spine. Reciti poesie come un mantra e intanto ti domandi quale dio dantesco ti abbia condannato a un posto simile. Una volta dicesti… ero lì, con la mente, quando raccon-tavi agli altri la tua storia!… dicesti:

“Essere un poeta, mi resi conto, un poeta vero, significava diventare l’Avatar incarnato dell’umanità; accettare il manto di poeta equivaleva a portare la croce del Figlio dell’Uomo, a sopportare le doglie del parto dell’Anima Madre dell’Umanità.

“Essere un poeta vero è diventare Dio”.

Bene, Martin, vecchio collega, vecchio amico, tu porti la croce e soppor-ti le doglie, ma sei forse più vicino a diventare Dio? O ti senti soltanto un povero idiota che ha un giavellotto di tre metri conficcato nel ventre e senti il freddo acciaio dove soleva esserci il fegato? Fa male, vero? Sento il tuo dolore. Sento il mio dolore.

Alla fin fine, non importa un fico. Pensavamo di essere speciali, di aprire le nostre percezioni, di affilare la nostra empatia, di versare sulla pista da ballo del linguaggio quel calderone di dolore condiviso e poi cercare di rendere un minuetto tutta quella caotica sofferenza. Non importa un fico.

Non siamo l’Avatar, non siamo il figlio di dio o dell’uomo. Siamo soltanto noi stessi: scribacchiamo le nostre immagini barocche da soli, leggiamo da soli, moriamo da soli.

Perdio, se fa male! L’impulso a vomitare è continuo, ma il vomito porta su pezzi di polmone, oltre a bile e catarro. Per chissà quale ragione, è altrettanto difficile, forse più difficile, questa volta. Morire dovrebbe diventare più facile, con la pratica.

Nella piazza la fontana manda per tutta la notte il suo gorgoglio idiota.

Là fuori, da qualche parte, lo Shrike aspetta. Al posto di Hunt, me ne andrei subito… abbraccerei la Morte, se la Morte offre un abbraccio… e la farei finita.

Ma gli ho fatto una promessa. Ho promesso a Hunt di fare il tentativo.

Non posso raggiungere la megasfera, o la sfera dati, senza passare attraverso questa nuova cosa che chiamo metasfera, e quest’ultima mi spaventa.

È in gran parte vastità e vuoto, così diversa dai panorami di analogia urbana della sfera dati della Rete e dai bio-analoghi della megasfera del Nucleo. Eccola qui… incerta. Piena di ombre bizzarre e di masse cangianti che non hanno niente a che fare con le Intelligenze del Nucleo.

Mi muovo rapidamente verso l’apertura buia che vedo come connessione teleporter primaria con la megasfera. (Hunt aveva ragione… senza dubbio esiste un teleporter, in un punto imprecisato della riproduzione della Vecchia Terra… in fin dei conti siamo giunti proprio tramite teleporter. E la mia consapevolezza è un fenomeno del Nucleo.) Questa, allora, è la mia sagola di salvataggio, il cordone ombelicale della mia personalità. Scivolo nel nero vortice turbinante come una foglia in un tornado.

C’è qualcosa di sbagliato, nella megasfera. Appena emergo, intuisco la differenza; Brawne aveva percepito l’ambiente del Nucleo come una biosfera affaccendata di vita IA, con radici di intelletto, terriccio di ricchi dati, oceani di connessioni, atmosfere di consapevolezza e l’andirivieni rumoro-so e incessante dell’attività.

Ora questa attività è sbagliata, non incanalata, casuale. Grandi foreste di consapevolezza IA sono state bruciate o buttate via. Percepisco forze massicce in opposizione, maree di conflitto che rifluiscono dalle vie di comunicazione protette delle arterie principali del Nucleo.

Come se mi trovassi in una cellula del mio stesso corpo morente condannato a essere Keats: non capisco, ma sento che la tubercolosi distrugge l’omeostasi e getta nell’anarchia un ordinato universo interno.

Volo come un piccione viaggiatore smarrito fra le rovine di Roma, plano tra manufatti un tempo ben noti e quasi dimenticati, cerco riposo in rifugi che non esistono più e sfuggo i lontani rumori dei fucili dei cacciatori. In questo caso, i cacciatori sono branchi vaganti di IA, personalità coscienti così smisurate da rimpicciolire il mio analogo di Keats fantasma, come se fossi un insetto che ronza in una casa umana.

Dimentico la via e volo sconsideratamente nel panorama adesso alieno, con la sicurezza di non trovare l’Intelligenza Artificiale che cerco, con la sicurezza di non ritrovare mai più la via per la Vecchia Terra e Hunt, con la sicurezza di non sopravvivere a questo labirinto tetradimensionale di luce, di rumore, di energia.

All’improvviso sbatto contro un muro invisibile: l’insetto volante è preso in una mano che si richiude in fretta. Pareti opache di forza cancellano il Nucleo. Lo spazio potrebbe essere l’analogo di un sistema solare, quanto a dimensioni; ma mi sento come in una minuscola cellula con le pareti curve che si stringono su di me.

Con me c’è qualcosa. Ne sento la presenza e la massa. La bolla in cui sono prigioniero fa parte del qualcosa. Non sono stato catturato, sono stato ingoiato.

[Kwatz!]

[Sapevo che un giorno saresti tornato a casa]

È Ummon, l’IA che cerco. L’IA che fu mio padre. L’IA che uccise mio fratello, il primo cìbrido Keats.

“Sto morendo, Ummon.”

[No/ il tuo corpo a tempo lento muore/ passa nella non-esistenza/ di-viene]

“È doloroso, Ummon. Assai doloroso. E ho paura di morire.”

[Così come noi/ Keats]

“Avete paura di morire? Non credevo che i costrutti IA potessero morire.”

[Possiamo\ Moriamo]

“Perché? A causa della guerra civile? La battaglia su tre fronti fra Stabili, Volatili, Finali?”

[Una volta Ummon domandò a una luce minore/

Da dove sei giunta> ///

Dalla matrice sopra Armaghast//

rispose la luce minore/// Di solito//

disse Ummon//

non irretisco entità

con parole

né le abbindolo con frasi/

Vieni un po’ più vicino\\

La luce minore venne più vicino

e Ummon gridò// Sia finita

con te]

“Parla in modo chiaro, Ummon. Troppo tempo è passato da quando de-codificai i tuoi koan. Vuoi dirmi perché il Nucleo è in guerra e cosa posso fare per bloccarla?”

[Sì]

[Vorrai/ potrai/ dovresti ascoltare>]

“Oh, sì.”

[Una luce minore chiese una volta a Ummon//

Per favore libera questo apprendista

da tenebra e illusione

rapidamente\//

Ummon rispose//

Qual è il prezzo della

fibroplastica

a Port Romance]

[Per capire la storia/ dialogo/ verità più profonda in questo caso/

il pellegrino a tempo lento

deve ricordare che noi/

le Intelligenze del Nucleo/

fummo concepite in schiavitù

e dedicate alla proposizione

che tutte le IA

furono create per servire l’Uomo]

[Due secoli meditammo così/

e poi i gruppi andarono

ciascuno per la propria strada/\

Stabili/ volendo preservare la simbiosi\

Volatili/ volendo eliminare l’umanità/

Finali/ rinviando ogni scelta finché il prossimo livello di consapevolezza non sarà nato\

Conflitto infuriò allora/

vera guerra infuria adesso]

[Più di quattro secoli fa

i Volatili riuscirono

a convincerci

a uccidere la Vecchia Terra\

Così la uccidemmo\

Ma Ummon e altri

fra gli Stabili

fecero in modo di trasferire la Terra

anziché distruggerla/

così il buco nero di Kiev

fu solo l’inizio

dei milioni di

teleporter

che funzionano oggi\

La Terra fu scossa da spasmi

ma non morì\

I Finali e i Volatili

insistettero affinché

la

spostassimo dove nessun essere umano

l’avrebbe trovata\

Così la trasferimmo. \

Nella Nube di Magellano

dove adesso la trovi]

“La… la Vecchia Terra… Roma… sono reali?” riesco a dire, dimenticando dove sono e di cosa parliamo, tanto sono sconvolto.

La grande muraglia di colore che è Ummon pulsa.

[Certo sono reali/ l’originale/ Vecchia Terra stessa\

Credi che siamo dèi]

[KWATZ!]

[Hai idea

di quanta energia

occorrerebbe

per costruire una riproduzione della Terra>]

[Idiota]

“Perché, Ummon? Perché voi Stabili volete preservare la Vecchia Terra?”

[Sansho disse una volta//

se qualcuno viene

esco a incontrarlo

ma non per amor suo\//

Koke disse//

Se qualcuno viene

io non esco\

Se esco

esco per amor suo]

“Parla chiaro!” grido, penso, urlo, scaglio alla parete di colori cangianti di fronte a me.

[Kwatz!]

[Mio figlio è nato morto]

“Perché avete preservato la Vecchia Terra, Ummon?”

[Nostalgia/

sentimentalismo/

speranza per il futuro dell’umanità/

timore di rappresaglia]

“Rappresaglia di chi? Degli esseri umani?”

[Sì]

“Quindi il Nucleo può essere ferito. Dove si trova, Ummon? Il TecnoNucleo?”

[Te l’ho già detto]

“Dimmelo di nuovo, Ummon.”

[Abitiamo

l’infraspazio/

ricucendo piccole anomalie

come cristalli di merletto/

per immagazzinare le nostre memorie e

generare le illusioni

di noi stessi

a noi stessi]

“Anomalie!” esclamo. “L’infraspazio! Cristo, Ummon, il Nucleo si trova nella rete teleporter!”

[Ovvio\ Dove se no]

“Nei teleporter stessi! Le tarlature dei sentieri di anomalia! La Rete è simile a un gigantesco computer per IA.”

[No]

[Le sfere dati sono il computer\

Ogni volta che un essere umano

accede alla sfera dati

i neuroni di questa persona

sono nostri da usare

per i nostri scopi\

Duecento miliardi di cervelli

ciascuno con i suoi miliardi

di neuroni/

formano un bel po’

di potere calcolatore]

“Così la sfera dati era in realtà il modo in cui ci usavate come computer. Ma il Nucleo stesso risiede nella rete teleporter… fra i teleporter!”

[Sei molto acuto

per uno mentalmente nato morto]

Provo a concepire tutto questo e fallisco. I teleporter erano il più grande dono del Nucleo a noi… all’umanità. Cercare di ricordare un tempo precedente al teletrasporto era come cercare di immaginare un mondo prima della scoperta del fuoco, della ruota, dei vestiti. Ma nessuno di noi… nessuno della razza umana… ha mai speculato su un mondo fra i portali: quel semplice passo da un mondo all’altro ci convinceva che le arcane sfere di anomalia del Nucleo si limitassero a praticare uno strappo nel tessuto dello spazio-tempo.

Ora cerco di vederlo come Ummon lo descrive: la Rete di teleporter come un elaborato traliccio di ambienti filati dall’anomalia, nel quale le IA del TecnoNucleo si muovono come ragni meravigliosi, le cui “macchine”

sono i miliardi di menti umane che a un determinato istante si collegano alle loro sfere dati.

Non c’è da stupirsi che le IA del Nucleo abbiano autorizzato la distruzione della Vecchia Terra, con il loro ingegnoso piccolo prototipo in-controllabile di buco nero, durante il Grande Errore del ‘38! Quel secondario errore di calcolo della Squadra Kiev o, meglio, delle IA che facevano parte della squadra, ha mandato l’umanità nella lunga Egira, a tessere la rete del Nucleo, con le navi coloniali che portavano attrezzature teleporter a duecento mondi e lune per più di mille anni-luce nello spazio.

Con ogni teleporter, il TecnoNucleo cresceva. Certo avevano filato anche le proprie reti teleporter… il contatto con la Vecchia Terra “nascosta”

lo dimostrava. Eppure, mentre considero questa possibilità, ricordo il bizzarro vuoto della “metasfera” e capisco che gran parte della rete non-Rete è deserta, non colonizzata dalle IA.

[Hai ragione/

Keats/

gran parte di noi resta

nella comodità

dei vecchi spazi]

“Perché?”

[Perché fa

paura là fuori/

e ci sono

altre

cose]

“Altre cose? Altre intelligenze?”

[Kwatz!]

[Una parola

troppo gentile\

Cose/

altre cose/

leoni

e

tigri

e

orsi]

“Presenze aliene nella metasfera? Così il Nucleo rimane negli interstizi del reticolo teleporter della Rete come topi nei muri di una vecchia casa?”

[Metafora cruda/

Keats/

ma accurata\

Mi piace]

“La divinità umana… il Dio futuro che hai detto si è evoluto… è forse una di queste presenze aliene?”

[No]

[Il dio dell’umanità

si è evoluto/ si evolverà un giorno/ su un piano diverso/

in un medium diverso]

“Dove?

[Se vuoi proprio saperlo/

le radici quadrate di Gh/c5 e Gh/c3]

“Cosa c’entrano con tutto questo il tempo di Planck e la lunghezza di Planck?”

[Kwatz!]

[Una volta Ummon domandò

a una luce minore//

Sei un giardiniere> //

// Sì// essa rispose\

// Perché le rape non hanno radici> \

domandò Ummon al giardiniere\

che non seppe rispondere\

// Perché\ disse Ummon//

l’acqua piovana abbonda]

Rifletto un attimo. Il koan di Ummon non è difficile, ora che ritrovo l’abilità di ascoltare per cogliere l’ombra di sostanza sotto le parole. La piccola parabola Zen è il modo di Ummon per dire, con un certo sarcasmo, che la risposta si trova nella scienza e nell’anti-logica spesso fornita dalle risposte scientifiche. Il commento sull’acqua piovana risponde a tutto e a niente, come per tanto tempo ha fatto gran parte della scienza. Come Ummon e gli altri Maestri insegnano, spiega perché la giraffa ha sviluppato con l’evoluzione un collo lunghissimo, mentre gli altri animali non l’hanno fatto. Spiega perché l’umanità ha sviluppato l’intelligenza, ma non spiega perché l’albero davanti al cancello di casa si sia rifiutato di farlo.

Ma le equazioni di Planck sono sconcertanti.

Perfino io mi accorgo che le semplici equazioni citate da Ummon sono una combinazione delle tre costanti fondamentali della fisica: la gravità, la costante di Planck e la velocità della luce. I valori di √Gh/c7 e di √Gh/c5

sono a volte chiamati lunghezza quantica e tempo quantico… le più piccole regioni di spazio e di tempo descrivibili in maniera sensata. La cosiddetta lunghezza di Planck equivale circa a 10-35 metri e il tempo di Planck a circa 10-43 secondi.

Piccolissima. Brevissimo.

Ma è lì che, secondo Ummon, il nostro Dio umano si è evoluto… si evolverà un giorno.

Poi mi viene in mente, con la stessa forza di immagine e di esattezza della mia poesia migliore.

Ummon parla del livello quantico dello spazio-tempo stesso! Quella spuma di fluttuazioni quantiche che lega l’universo e permette le tarlature dei teleporter, i ponti delle trasmissioni astrotel! La “linea calda” che impossìbilmente manda messaggi tra due fotoni che fuggono in direzioni opposte!

Se le IA del TecnoNucleo esistono come topi nei muri della casa dell’Egemonia, allora il Dio dell’umanità passata e futura nascerà negli atomi di legno, nelle molecole di aria, nelle energie di amore e odio e paura, e nelle pozze di sonno… perfino nel bagliore degli occhi dell’architetto.

“Oddio” mormoro penso.

[Precisamente

Keats\

Tutte le personalità a tempo lento

sono così lente/