Il generale Morpurgo si alzò, rivolse un cenno a un subordinato: le luci si attenuarono e si iorniò la nebbiolina degli ologrammi.
— Lasciamo perdere i sussidi visivi! — sbottò Meina Gladstone. — Par-late.
Gli ologrammi svanirono e le luci tornarono a splendere. Morpurgo aveva l’aria intontita, lo sguardo un po’ vacuo. Guardò l’indicatore luminoso che stringeva in pugno, si accigliò, lo mise in tasca. — Signora, senatori, ministri, Presidente e Speaker, onorevoli… — cominciò. Si schiarì la voce.
— Gli Ouster hanno portato a termine un devastante attacco di sorpresa. I loro Sciami d’assalto si avvicinano a una decina di mondi della Rete.
Il brusio della sala soffocò le parole del generale. — Mondi della Rete!
— esclamarono varie voci. Ci furono grida di politici, di ministri, di funzionari dell’esecutivo.
— Silenzio — ordinò Gladstone. Tutti tacquero. — Generale — proseguì il PFE — ci aveva assicurato che ogni forza ostile era a un minimo di cinque anni-luce dalla Rete. Come e perché la situazione è cambiata?
Il generale incrociò lo sguardo con il PFE. — Signora, per quanto ne sappiamo, tutte le scie di motore Hawking erano falsi bersagli. Gli Sciami hanno spento i motori decenni fa e hanno proseguito verso gli obiettivi a velocità sub-luce…
Un vociare eccitato lo zittì.
— Prosegua, generale — disse Gladstone, e i mormoni tacquero di nuovo.
— A velocità sub-luce… una parte degli Sciami ha certo viaggiato a questo modo per cinquanta anni standard o anche più… non c’era modo di sco-prirne la presenza. Semplicemente, non è stata colpa di…
— Quali mondi sono in pericolo, generale? — domandò Gladstone. La voce era molto bassa, molto calma.
Morpurgo lanciò un’occhiata all’aria vuota, come se vi cercasse i sussidi visivi; riportò lo sguardo al tavolo. Strinse i pugni. — Al momento, il nostro servizio informazioni, basandosi su avvistamenti di motori a fusione seguiti dal passaggio a motori Hawking all’atto della scoperta, indica che la prima ondata toccherà Porta del Paradiso, Bosco Divino, Mare Infinitum, Asquith, Ixion, Tsingtao-Hsishuang Panna, Acteon, il Mondo di Barnard e Tempe, in un periodo compreso fra quindici e settantadue ore.
Stavolta non fu possibile zittire il frastuono. Gladstone lasciò che grida ed esclamazioni continuassero per alcuni minuti prima di alzare la mano e riportare sotto controllo l’assemblea.
Il senatore Kolchev era in piedi. — Come diavolo è potuto accadere, generale? Le sue assicurazioni erano assolute!
Morpurgo gli tenne testa. Non c’era rabbia di rimando, nel suo tono. —
Sì, senatore, e anche basate su dati inesatti. Ci siamo sbagliati. Le nostre previsioni erano errate. Il PFE avrà le mie dimissioni entro un’ora… e gli altri capi congiunti mi imiteranno.
— Al diavolo le dimissioni! — gridò Kolchev. — Prima che sia finita potremmo penzolare tutti da un pilastro di teleporter. La domanda è: che diavolo fate, per impedire l’invasione?
— Gabriel — disse piano Gladstone — siediti, per favore. Era la mia prossima domanda. Generale? Ammiraglio? Immagino che abbiate già emanato ordini per la difesa di questi mondi.
L’ammiraglio Singh si alzò e prese posto accanto a Morpurgo. — Signora, abbiamo fatto il possibile. Purtroppo, di tutti i mondi minacciati dalla prima ondata, solo Asquith ha in loco un contingente della FORCE. Gli altri possono essere raggiunti dalla flotta… nessuno manca di attrezzature farcaster… ma la flotta non può suddividersi in questo modo per protegger-
li tutti. E, sfortunatamente… — Singh esitò un attimo, poi alzò la voce per superare il tumulto. — Sfortunatamente, l’intervento della riserva strategica per rinforzare la campagna di Hyperion è già iniziato. Circa il 60 per cento delle duecento unità della flotta impiegate in questo intervento si sono teleportate nel sistema di Hyperion oppure in aree di attestamento lontane dalle precedenti posizioni difensive alla periferia della Rete.
Meina Gladstone si lisciò la guancia. Si accorse di indossare ancora il mantello, anche se il visore polarizzato era spento; sganciò il fermaglio e lasciò cadere il mantello sulla spalliera della poltrona. — In altre parole, ammiraglio, questi mondi sono indifesi e non c’è modo di richiamare le nostre forze e farle tornare in tempo. Esatto?
Singh si mise sull’attenti, rigido come un uomo di fronte al plotone d’e-secuzione. — Esatto, signora.
— Cosa possiamo fare? — domandò lei, al di sopra del tumulto rinnovato.
Morpurgo avanzò di un passo. — Al momento usiamo la matrice del teleporter civile per trasferire sui mondi minacciati il maggior numero possibile di fanti della FORCE:terra e di marines, oltre ad artiglieria leggera e difese aria-spazio.
Il ministro della Difesa Imoto si schiarì la voce. — Ma non farà una gran differenza, senza flotta di difesa.
Gladstone lanciò un’occhiata a Morpurgo.
— È vero — disse il generale. — Nel caso più favorevole, le nostre forze svolgeranno un’azione di retroguardia, mentre si tenterà l’evacuazione…
La senatrice Richeau era in piedi. — Si tenterà l’evacuazione! Generale, ieri ci ha detto che l’evacuazione di due o tre milioni di civili da Hyperion era inattuabile. E ora ci dice che possiamo evacuare con successo… — s’interruppe per consultare l’impianto comlog — sette miliardi di persone, prima dell’arrivo degli Ouster?
— No — disse Morpurgo. — Possiamo sacrificare soldati per salvare un certo numero di… di ufficiali scelti, Prime Famiglie, leader della comunità e dell’industria necessari al prosieguo dello sforzo bellico.
— Generale — disse Gladstone — ieri questo gruppo ha autorizzato il trasferimento immediato di truppe della FORCE alla flotta di rinforzo in traslazione su Hyperion. Il fatto comporta difficoltà per il nuovo spiegamento di forze richiesto?
Il generale Van Zeidt dei marines si alzò. — Sì, signora. Truppe sono state teleportate sui mezzi di trasporto in attesa, nel giro di un’ora dalla de-
cisione presa da questa assemblea. Quasi due terzi dei centomila effettivi previsti sono giunti nel sistema di Hyperion alle… — diede un’occhiata all’antiquato cronometro — alle 05,30 standard. Circa venti minuti fa. Occorreranno almeno da otto a quindici ore perché i trasporti truppe tornino nella zona di attestamento del sistema di Hyperion per rientrare nella Rete.
— E quanti effettivi della FORCE sono disponibili in tutta la Rete? —domandò Gladstone. Con la nocca dell’indice si toccò il labbro inferiore.
Morpurgo inspirò a fondo. — Circa trentamila, signora.
Il senatore Kolchev diede una manata sul tavolo. — Quindi abbiamo spogliato la Rete non solo delle navi da guerra, ma anche della maggior parte dell’esercito.
Non era una domanda. Morpurgo non rispose.
La senatrice Feldstein, del Mondo di Barnard, si alzò. — Signora, bisogna avvertire il mio mondo… tutti i mondi menzionati. Se non è pronta a fare un annuncio immediato, dovrò farlo io.
Gladstone annuì. — Darò annuncio dell’invasione al termine della riunione, Dorothy. Faciliteremo il contatto con gli elettori, tramite tutti i media.
— Al diavolo i media — disse la senatrice, bassa e scura di capelli. —
Mi teleporterò a casa, appena finito. Devo condividere la sorte del Mondo di Barnard, quale che sia. Signori e signore, dovremmo penzolare tutti da una corda, se la notizia è vera. — Feldstein si sedette, fra mormoni e bisbigli.
Lo Speaker Gibbons si alzò e attese che tornasse il silenzio. Parlò con voce tesa come fil di ferro. — Generale, ha fatto riferimento a una prima ondata: si tratta di prudente gergo militare, oppure ha informazioni riguardanti ondate successive? In questo caso, quali altri mondi della Rete e del Protettorato sarebbero coinvolti?
Morpurgo strinse e aprì i pugni. Diede un’altra occhiata all’aria vuota, si rivolse verso Gladstone. — Signora, posso usare un grafico solo?
Gladstone annuì.
L’olografia era la stessa che i militari avevano adoperato durante la conferenza informativa a Olympus: l’Egemonia, in oro; le stelle del Protettorato, in verde; i vettori degli Sciami Ouster, linee rosse con coda azzurro cangiante; spiegamento della flotta dell’Egemonia, arancione. Fu subito evidente che i vettori rossi avevano deviato di molto dalle traiettorie precedenti ed erano penetrati nello spazio dell’Egemonia, come lance dalla punta insanguinata. Ora le faville arancione erano fortemente concentrate nel sistema di Hyperion, mentre altre seguivano rotte teleporter, come perle di collana.
Alcuni senatori con esperienza militare ansimarono, nel vedere il grafico.
— A quanto pare — disse Morpurgo con voce ancora debole — i dodici Sciami a noi noti sono tutti impegnati nell’invasione della Rete. Diversi si sono suddivisi in gruppi d’attacco multiplo. La seconda ondata, prevista per arrivare a bersaglio in un periodo compreso fra cento e duecentocin-quanta ore dopo la prima, è indicata dai vettori qui riprodotti.
Nella sala non si udì alcun rumore. Gladstone si domandò se anche gli altri, come lei, trattenessero il fiato.
— I bersagli della seconda ondata d’assalto comprendono: Hebron, cento ore a partire da adesso; Vettore Rinascimento, 110 ore; Rinascimento Minore, 112 ore; Nordholm, 127 ore; Patto-Maui, 130 ore; Thalia, 143 ore; Deneb Drei e Vier, 150 ore; Sol Draconis Septem, 169 ore; Freeholm, 170
ore; Nuova Terra, 193 ore; Fuji, 204 ore; Nuova Mecca, 205 ore; Pacem, Armaghast e Svoboda, 221 ore; Lusus, 230 ore; e Tau Ceti Centro, 250 ore.
L’ologramma svanì. Il silenzio perdurò. Il generale Morpurgo riprese: —
Presumiamo che gli Sciami della prima ondata abbiano obiettivi secondari, dopo l’invasione iniziale; ma i tempi di transito con motori Hawking com-porteranno debiti temporali standard, compresi fra nove settimane e tre anni. — Arretrò di un passo e assunse la posizione di riposo.
— Cristo santo — mormorò qualcuno, alcuni sedili dietro Gladstone.
Il PFE si strofinò il labbro inferiore. Per salvare la razza umana da quella che considerava un’eternità di schiavitù - o, peggio, dall’estinzione - si era preparata a spalancare al lupo la porta di casa, mentre gran parte della famiglia si nascondeva al piano superiore, al sicuro dietro usci sbarrati. Solo, giunto il giorno, i lupi entravano da ogni porta e da ogni finestra. Gladstone quasi sorrise alla giustizia della situazione, alla propria finale follia nel pensare di poter liberare dalla gabbia il caos e poi dominarlo.
— Primo — disse — non ci saranno dimissioni né autocritiche, finché non le autorizzerò io. È molto probabile che questo governo cada… che membri di questo gabinetto, me compresa, finiscano sul serio a penzolare da una corda. Tuttavia, al momento siamo sempre il governo dell’Egemonia e dobbiamo comportarci di conseguenza.
“Secondo, fra un’ora incontrerò questa assemblea e i rappresentanti di altri comitati senatoriali, allo scopo di concertare il discorso che terrò alla Rete alle 08,00 standard. Nel corso dell’incontro ogni suggerimento sarà ben accetto.
“Terzo, in base a quanto sopra, do l’ordine e l’autorizzazione alle autorità della FORCE qui riunite e in tutti i territori dell’Egemonia di fare tutto ciò che è in loro potere per proteggere la popolazione e i beni della Rete e del Protettorato, utilizzando qualsiasi mezzo straordinario ritengano indispensabile. Generale, ammiraglio, voglio che entro dieci ore i soldati siano ri-trasferiti ai mondi minacciati della Rete. Non m’importa come, ma l’ordine dev’essere eseguito.
“Quarto, dopo il discorso convocherò una sessione plenaria del Senato e della Totalità. Dichiarerò allora che esiste lo stato di guerra fra l’Egemonia Umana e le nazioni Ouster. Gabriel, Dorothy, Tom, Eiko… tutti voi… sarete molto impegnati, nelle prossime ore. Preparate pure il discorso per i vostri mondi natali, ma partecipate alla votazione. Voglio il sostegno unanime del Senato. Speaker Gibbons, posso solo chiederle aiuto nel guidare il dibattito della Totalità. È indispensabile, entro le 12,00 di oggi, avere un voto della Totalità riunita. Non possono esserci sorprese.
“Quinto, evacueremo i cittadini dei mondi minacciati dalla prima ondata.
— Gladstone sollevò la mano e soffocò obiezioni e spiegazioni degli esperti. — Evacueremo tutti coloro che potremo evacuare nel tempo a disposizione. I ministri Persov, Imoto, Dan-Gyddis e Crunnens del Ministero Transiti Rete formeranno e dirigeranno il Comitato di Coordinamento per l’Evacuazione; oggi alle 13,00 mi consegneranno un rapporto particolareg-giato e la scaletta dei tempi. La FORCE e l’Ufficio per la Sicurezza dirigeranno il controllo della popolazione e la sorveglianza agli accessi teleporter.
“Infine, desidero parlare al consulente Albedo, al senatore Kolchcv e allo Speaker Gibbons nel mio ufficio privato fra tre minuti. Ci sono domande?”
Facce stupefatte le restituirono lo sguardo.
Gladstone si alzò. — Buona fortuna — disse. — Lavorate rapidamente.
Non fate nulla per diffondere inutile panico. E Dio salvi l’Egemonia. — Si girò e lasciò la sala.
Gladstone si accomodò alla scrivania. Kolchev, Gibbons e Albedo si sedettero di fronte a lei. L’urgenza nell’aria, percepita dall’attività che s’intuiva dietro le porte, fu resa più fastidiosa dal lungo ritardo di Gladstone prima di prendere la parola. La donna non distolse mai lo sguardo dal consu-
lente Albedo. — Lei — disse infine — ci ha traditi.
Il lieve sorriso educato della proiezione non vacillò. — Non è affatto vero, signora.
— Allora ha un minuto per spiegare perché il TecnoNucleo, e in particolare la Commissione di Consulenza delle IA, non ha previsto questa invasione.
— Per spiegarlo, signora, basta una sola parola — disse Albedo. —
Hyperion.
— Hyperion una merda! — gridò Gladstone, battendo una manata sul piano dell’antica scrivania, in uno scoppio di rabbia del tutto insolito. —
Sono stufa e nauseata di sentire parlare di variabili non scomponibili in fattori e di Hyperion come profetico buco nero. O il Nucleo può aiutarci a capire le probabilità, oppure da cinque secoli continua a mentirci. Quale delle due?
— La Commissione ha previsto la guerra, signora — disse l’immagine dai capelli grigi. — Le nostre consulenze confidenziali, a lei e al gruppo da informare, spiegavano quanto sarebbero stati incerti gli eventi, dall’istante del coinvolgimento di Hyperion.
— Stronzate — intervenne, brusco, Kolchev. — Le vostre previsioni in teoria sono infallibili, almeno riguardo la tendenza generale. Eppure l’attacco è stato progettato da decenni. Forse da secoli.
Albedo si strinse nelle spalle. — Sì, senatore. Ma è possibile che solo la determinazione del governo a iniziare una guerra nel sistema di Hyperion abbia spinto gli Ouster a procedere col piano. Noi abbiamo sconsigliato qualsiasi azione riguardante Hyperion.
Lo Speaker Gibbons si sporse. — Ci avete dato i nomi degli individui necessari per il cosiddetto Pellegrinaggio allo Shrike.
Albedo non scrollò di nuovo le spalle; era rilassato, fiducioso.
— Avete chiesto una rosa di nomi di individui della Rete le cui richieste allo Shrike avrebbero cambiato il risultato della guerra da noi prevista.
Gladstone unì le punte delle dita e si picchiettò sul mento. — E avete già determinato come queste richieste cambierebbero i risultati della guerra…
di questa guerra?
— No — rispose Albedo.
— Consulente — disse Meina Gladstone — sappia che da questo momento, a seconda degli eventi dei prossimi giorni, il governo dell’Egemonia dell’Uomo considera la possibilità di dichiarare l’esistenza dello stato di guerra fra noi e l’entità conosciuta come TecnoNucleo. In veste di ambasciatore de facto di questa entità, lei è incaricato di comunicare la decisione.
Albedo sorrise. Allargò le mani. — Signora, lo choc di questa terribile notizia l’ha certo spinta a creare una ben misera battuta. Dichiarare guerra al Nucleo sarebbe come… come se un pesce dichiarasse guerra all’acqua, come se un guidatore aggredisse il proprio VEM a causa di preoccupanti notizie relative a un incidente avvenuto altrove.
Gladstone rimase seria. — Mio nonno, su Patawpha — disse lentamente, accentuando la cadenza tipica di quel pianeta — cacciò sei proiettili di fucile a impulso nel VEM di famiglia, quando un mattino la maledetta macchina si rifiutò di partire. Può andare, consulente.
Albedo batté le palpebre e svanì di colpo. L’improvvisa partenza era una deliberata infrazione del protocollo (di solito la proiezione lasciava la stanza, o aspettava che gli altri uscissero, prima di svanire) oppure un segno che l’intelligenza di controllo nel Nucleo era rimasta sconvolta dallo scambio di battute.
Gladstone rivolse un cenno a Kolchev e a Gibbons. — Non vi trattengo oltre, signori. Ma mi aspetto sostegno totale, quando la dichiarazione di guerra sarà messa ai voti, fra cinque ore.
— L’avrà — rispose Gibbons. I due uscirono.
Da porte e pannelli nascosti entrarono segretari a mitragliare domande e a consultare comlog per avere istruzioni. Gladstone alzò il dito. — Dov’è Severn? — domandò. Vedendo gli sguardi vacui, aggiunse: — Il poeta…
cioè, l’artista. Il pittore che mi fa il ritratto.
Parecchi segretari si scambiarono occhiate, come se il PFE desse i numeri.
— Dorme ancora — rispose Leigh Hunt. — Ha preso dei sonniferi e nessuno ha pensato di svegliarlo per la riunione.
— Lo voglio qui entro venti minuti. Aggiornatelo. Dov’è il capitano Lee?
Niki Cardon, la giovane incaricata dei collegamenti con i militari, rispose: — Ieri notte Lee è stato trasferito al pattugliamento periferico, da Morpurgo e dal caposettore della FORCE:mare. Salterà da un mondo oceanico all’altro, per vent’anni del nostro tempo. Al momento si è teleportato al FORCE:ComCenMar, su Bressia, in attesa di passaggio extraplanetario.
— Riportatelo qui. Voglio che sia promosso ammiraglio di divisione o come diavolo si dice, e assegnato a me personalmente, non alla Casa del Governo né all’Esecutivo. Sarà il commesso viaggiatore nucleare, se oc-
corre.
Per un istante fissò la parete spoglia. Pensò ai pianeti dove aveva pas-seggiato quella notte: il Mondo di Barnard, luce di lampioni fra le foglie, antichi edifici di college in mattoni; Bosco Divino, montgolfier impastoiati e zeplen in volo libero a salutare l’alba; Porta del Paradiso, la Passeggiata…
Tutti bersagli della prima ondata. Scosse la testa. — Leigh, voglio che entro quarantacinque minuti lei, Tarra e Brindenath mi prepariate la bozza di tutt’e due i discorsi… quello generale e la dichiarazione di guerra. Brevi.
Inequivocabili. Controlli i file alle voci Churchill e Strudensky. Realistici ma spavaldi, ottimistici ma temperati da truce determinazione. Niki, mi serve il monitoraggio in tempo reale di ogni mossa effettuata dai capi congiunti. Voglio un display personale della mappa comando… trasmesso tramite il mio impianto. Riservato solo al PFE. Barbre, lei sarà la mia estensione di diplomazia con altri mezzi, verso il Senato. Convochi qui i senatori, chieda la restituzione di debiti politici, tiri la fila, ricatti, blandisca, ma faccia capire a tutti che sarà meno pericoloso andare a combattere gli Ouster che ostacolarmi nelle prossime tre o quattro votazioni. Domande?
Attese tre secondi, poi batté le mani. — Bene. Muoviamoci, gente!
Nel breve intervallo prima della nuova ondata di senatori, ministri e segretari, Gladstone girò la poltroncina verso la parete nuda, alzò il dito verso il soffitto e agitò la mano.
Tornò a girarsi un attimo prima che entrasse il nuovo gruppo di VIP.
25
Sol, il Console, padre Duré e Het Masteen, ancora svenuto, si trovavano nella prima delle Tombe dette Grotte, quando udirono gli spari. Il Console uscì da solo, con prudenza, sondando la tempesta delle maree del tempo che li aveva spinti più all’interno nella valle.
— Tutto a posto — gridò. Il bagliore livido della lanterna di Sol illuminò l’ingresso della grotta, tre facce pallide e il mucchio di vesti che era il Templare. — Le maree sono diminuite — gridò ancora il Console.
Sol si alzò. Sotto il suo, il viso della figlia era un pallido ovale. — Sei sicuro che gli spari provenissero dalla pistola di Brawne?
Il Console indicò l’oscurità esterna. — Era l’unica ad avere una spara-piombo. Vado a controllare.
— Aspetta — disse Sol. — Vengo con te.
Padre Duré rimase inginocchiato accanto a Het Masteen. — Andate pu-
re. Resto io, con lui.
— Uno di noi due tornerà a dare un’occhiata entro cinque minuti — disse il Console.
La valle brillava della luce livida delle Tombe del Tempo. Il vento rug-giva da sud, ma la corrente d’aria quella notte era più alta, sopra le pareti di roccia, e non disturbava le dune del fondovalle. Sol seguì il Console, che percorse con cautela l’impervio sentiero e girò verso l’imboccatura della valle. Lievi strattoni di déjà vu ricordarono a Sol la violenza delle maree del tempo di un’ora prima, ma ormai anche i residui della bizzarra tempesta erano quasi svaniti.
Quando il sentiero si allargò, Sol e il Console oltrepassarono insieme il campo di battaglia riarso intorno al Monolito di Cristallo, il cui bagliore latteo era riflesso dalle innumerevoli schegge sparse sul fondo dell’ arroyo; poi superarono la leggera salita al di là della Tomba di Giada con la sua fosforescenza verde chiaro, girarono di nuovo e seguirono le rampe poco accentuate che portavano alla Sfinge.
— Dio mio — mormorò Sol. Si lanciò avanti, cercando di non scuotere la piccina addormentata nel porta-neonati. Si inginocchiò accanto alla sagoma scura sul gradino più alto.
— Brawne? — domandò il Console, fermandosi due passi più indietro e ansimando per prendere fiato dopo l’improvvisa corsa in salita.
— Sì. — Sol iniziò a sollevarle la testa, ma ritrasse subito la mano, quando toccò qualcosa di viscido e freddo che trasudava dal cranio.
— Morta?
Sol strinse al petto la figlia e toccò la gola di Brawne, cercando le pulsazioni. — No — disse, con un profondo sospiro. — È viva… ma è svenuta.
Dammi la torcia.
Passò il raggio luminoso sopra la ligura scomposta di Brawne Lamia e seguì il cordone argenteo (“tentacolo” era un termine migliore, vista la consistenza carnosa che faceva pensare a un’origine organica) che dalla presa di shunt neurale nel cranio correva lungo l’ampio scalino della Sfinge fin dentro l’ingresso spalancato. La Sfinge era la Tomba più luminosa, ma il vano era molto buio.
Il Console si avvicinò. — Cos’è? — Allungò la mano per toccare il cordone argenteo e, come Sol, la ritrasse di scatto. — Oddio, è caldo.
— Sembra vivo — convenne Sol. Aveva massaggiato le mani di Brawne e ora le schiaffeggiò leggermente le guance nel tentativo di farla rinvenire.
La donna non si mosse. Sol si girò e seguì con il raggio luminoso il cordo-
ne serpeggiante nel corridoio d’ingresso, fin dove era visibile. — Non credo che Brawne si sia collegata volontariamente a questa roba.
— Lo Shrike — disse il Console. Si sporse più vicino per attivare la lettura dei dati biologici nel comlog al polso di Brawne. — Tutto normale, Sol, a parte le onde cerebrali.
— Cosa dicono?
— Dicono che è morta. Cerebralmente morta, almeno. Nessuna funzione di livello superiore.
Sol sospirò, si dondolò sui talloni. — Dobbiamo vedere dove porta il cordone.
— Non possiamo limitarci a staccarlo dalla presa di shunt?
— Guarda. — Sol illuminò la parte posteriore della testa di Brawne e scostò un ciuffo di ricci scuri. Lo shunt neurale, normalmente un disco di plastocarne largo alcuni millimetri con una presa di dieci micron, sembrava fuso: la carne sporgeva in un livido rossastro e si univa ai microcolle-gamenti del cavo metallico.
— Occorrerebbe un intervento chirurgico, per rimuoverlo — mormorò il Console. Toccò il rigonfiamento di carne. Brawne non si mosse. Il Console ricuperò la torcia e si alzò. — Resta con lei. Seguo il cavo all’interno.
— Usa i canali di comunicazione — disse Sol, pur sapendo quanto si erano dimostrati inutili, durante il flusso e il riflusso delle maree del tempo.
Il Console annuì e avanzò rapidamente, prima che la paura lo facesse esitare.
Il cavo di cromo serpeggiava lungo il corridoio principale, girava e scompariva al di là della stanza dove i pellegrini avevano dormito la notte precedente. Il Console lanciò un’occhiata dentro la stanza e illuminò per un attimo le coperte e gli zaini abbandonati nella fretta.
Seguì il cavo lungo la curva del corridoio; attraverso la porta centrale dove il passaggio si divideva in tre corridoi più stretti; su per una rampa e di nuovo giù per lo stretto passaggio che i primi esploratori avevano chiamato “strada di re Tut”; poi giù per una rampa; lungo un basso tunnel dove fu costretto a strisciare, posando con attenzione mani e ginocchia per non toccare il tentacolo metallico caldo come carne; su per un piano inclinato così ripido da costringerlo ad arrampicarsi come in un camino; lungo un corridoio più ampio di cui non ricordava l’esistenza, dove le pietre si inclinavano verso il soffitto e lasciavano cadere goccioline di condensa; e poi per una ripida discesa, rallentando solo a costo di lembi della pelle delle mani e delle ginocchia; strisciando infine per un tratto più lungo di quanto non sembrasse larga la Sfinge. Perdette del tutto il senso dell’orientamento e si affidò al cavo per trovare la strada al ritorno.
— Sol — chiamò infine, senza credere nemmeno per un istante che il trasmettitore avrebbe funzionato, tra la roccia e le maree del tempo.
— Eccomi — rispose l’anziano studioso, nel più fievole dei bisbigli.
— Sono andato molto avanti — mormorò nel comlog il Console. — In fondo a un corridoio che non ricordo di avere mai visto. Mi sembra di essere a grande profondità.
— Hai scoperto dove termina il cavo?
— Sì — rispose piano il Console. Si sedette e con il fazzoletto si asciugò il viso sudato.
— Un nesso? — domandò Sol, riferendosi agli innumerevoli nodi terminali dove i cittadini della Rete potevano collegarsi alla sfera dati.
— No. Sembra che quest’affare scorra dritto nella pietra del pavimento.
Anche il corridoio termina qui. Ho provato a rimuovere il cavo, ma la giunzione è simile al punto dove lo shunt neurale è saldato al cranio. Sembra parte della roccia e basta.
— Vieni fuori — disse Sol, fra il gracidio della statica. — Proveremo a tagliarlo.
Nel tunnel umido e buio, per la prima volta nella sua vita, il Console si sentì sopraffatto dalla claustrofobia. Trovò difficile respirare. Era sicuro di avere alle spalle qualcosa che gli toglieva l’aria e bloccava l’unica via di ritirata. Udiva quasi il battito del proprio cuore, nello stretto passaggio di pietra dove si poteva solo procedere strisciando.
Respirò lentamente, si asciugò di nuovo il viso, respinse il panico. —
Potrebbe uccidere Brawne — disse, fra una lenta boccata d’aria e l’altra.
Nesuna risposta. Il Console chiamò di nuovo, ma qualcosa aveva reciso il tenue legame comlog.
— Esco — annunciò nello strumento muto e si girò, facendo correre il raggio luminoso lungo il basso tunnel. Il cavo/tentacolo si era mosso, o si trattava di un semplice gioco di luce?
Il Console iniziò a strisciare rifacendo il percorso dell’andata.
Avevano trovato Het Masteen al tramonto, qualche minuto prima che la tempesta temporale si scatenasse. Il Templare barcollava, quando il Console, Sol e Duré l’avevano visto; ed era caduto privo di sensi, prima che lo raggiungessero.
— Portiamolo nella Sfinge — disse Sol.
In quel momento, come se il sole al tramonto avesse progettato la coreografia, le maree del tempo fluirono su di loro come un’ondata di nausea e di déjà vu. I tre caddero sulle ginocchia. Rachel si svegliò e si mise a piangere col vigore di una creatura appena nata e atterrita.
— All’imbocco della valle — ansimò il Console, tenendo in spalla Het Masteen. — Dobbiamo… uscire… dalla valle.
I tre si mossero verso l’imboccatura della valle e oltrepassarono la prima tomba, la Sfinge, ma le maree del tempo peggiorarono, soffiarono contro di loro come un orribile vento di vertigine. Dopo trenta metri, non riuscirono più a procedere. Caddero sulle mani e sulle ginocchia, Het Masteen rotolò sul sentiero di terra battuta. Rachel aveva smesso di piangere e si agitò a disagio.
— Indietro — ansimò Paul Duré. — Giù nella valle. Era… meglio… di sotto.
Ripercorsero la strada già fatta, barcollarono lungo il sentiero come tre ubriachi, portando ciascuno un carico troppo prezioso per lasciarlo cadere.
Si riposarono un momento sotto la Sfinge, con la schiena contro un masso, mentre il tessuto stesso dello spazio e del tempo sembrava mutare e de-formarsi intorno a loro. Era come se il mondo fosse stato una bandiera che qualcuno avesse srotolato con un gesto rabbioso. La realtà parve gonfiarsi e ripiegarsi, poi tuffarsi lontano e rifluire su se stessa come un’onda. Il Console lasciò il Templare disteso contro il masso e cadde ginocchioni, ansimò, artigliò in preda al panico il terreno.
— Il cubo di Moebius — disse il Templare, agitandosi, sempre a occhi chiusi. — Dobbiamo prendere il cubo di Moebius.
— Maledizione — riuscì a dire il Console. Scosse con rudezza Het Masteen. — A cosa ci serve? Masteen, a cosa ci serve? — La testa del Templare ciondolò, inerte. L’uomo era svenuto di nuovo.
— Lo prendo io — disse Duré. Il prete parve vecchissimo e malato, con il viso e le labbra livide.
Il Console annuì, si mise in spalla Het Masteen, aiutò Sol a rialzarsi, barcollò giù nella valle; le correnti di risucchio dei campi anti-entropici si indebolirono, mentre loro si allontanavano dalla Sfinge.
Padre Duré aveva risalito il sentiero e la lunga scalinata; barcollò fino all’ingresso della Sfinge, aggrappandosi alle pietre scabre come un marinaio si afferrerebbe alla gomena lanciatagli nel mare infuriato. La Sfinge parve traballare sopra di lui, prima s’inclinò di trenta gradi da una parte, poi di cinquanta dall’altra. Duré capì che era solo la violenza delle maree del tempo a distorcergli i sensi, ma questo bastò a farlo cadere in ginocchio e vomitare sulla pietra.
Le maree s’interruppero un momento, come una risacca violenta che re-cedesse tra un’ondata e l’altra; Duré si ritrovò in piedi, si pulì la bocca con il dorso della mano ed entrò incespicando nella tomba buia.
Non aveva portato una torcia; trovò a tentoni la strada, atterrito dalla duplice fantasticheria di toccare nel buio qualcosa di viscido e freddo o di in-cappare nella stanza dov’era rinato e di trovarvi il proprio cadavere in via di decomposizione. Duré urlò, ma il grido si perse nel ruggito da tornado delle proprie pulsazioni, mentre le maree del tempo tornavano in forze.
La camera dove avevano dormito era buia, di quel terribile buio che significa totale assenza di luce, ma gli occhi di Duré si adattarono e il prete capì che il cubo di Moebius stesso riluceva debolmente, fra un palpitare di spie luminose.
Attraversò inciampando la stanza ingombra, afferrò il cubo e con un improvviso flusso di adrenalina riuscì a sollevarlo. Le note del Console avevano parlato di quel misterioso bagaglio di Masteen durante il pellegrinaggio e del fatto che si credeva contenesse un erg, una delle creature aliene composte di campi di forza e usate per fornire energia alle navi-albero dei Templari. Duré non aveva la minima idea del perché l’erg fosse importante in quella situazione, ma afferrò la scatola e la strinse al petto, mentre riper-correva faticosamente il corridoio, usciva, scendeva i gradini, s’inoltrava nel cuore della valle.
— Da questa parte! — chiamò il Console, dalla prima Grotta alla base della parete rocciosa. — Qui va meglio.
Duré risalì barcollando il sentiero, quasi lasciò cadere il cubo, per la confusione e per l’improvviso sfinimento. Il Console lo aiutò negli ultimi trenta metri.
Dentro la tomba andava meglio. Duré sentiva il flusso e riflusso delle maree del tempo appena al di là dell’ingresso, ma in fondo, dove la fredda luce dei fotoglobi rivelava complicate sculture, la situazione era quasi normale. Il prete si lasciò cadere accanto a Sol Weintraub e posò il cubo di Moebius accanto alla figura silenziosa di Het Masteen, che guardava con occhi fissi.
— Si è svegliato, mentre lei si avvicinava — mormorò Sol. Gli occhi della piccina erano spalancati e scurissimi, nella debole luce.
Il Console si lasciò cadere accanto al Templare. — A cosa ci serve, il cubo? Masteen, a cosa ci serve?
Lo sguardo di Het Masteen non vacillò; il Templare non batté ciglio. —
Nostro alleato — bisbigliò. — Unico alleato contro il Signore della Sofferenza. — Le parole erano sottolineate dalla particolare cadenza del mondo dei Templari.
— In che modo è nostro alleato? — domandò Sol; con tutt’e due le mani afferrò il Templare per la veste. — Come lo usiamo? Quando?
Lo sguardo del Templare fissava qualcosa d’infinitamente remoto. —
Abbiamo fatto a gara per avere l’onore — mormorò, con voce rauca. — La Vera Voce della Sequoia Sempervirens fu il primo a mettersi in contatto con il cìbrido Keats… ma io ebbi l’onore della luce del Muir. Fu la Yggdrasill, la mia Yggdrasill, a essere offerta in espiazione dei nostri peccati contro il Muir. — Chiuse gli occhi. Il lieve sorriso parve fuori luogo, sul suo viso severo.
Il Console guardò Duré e Sol. — Sembra più terminologia del Culto Shrike che il dogma dei Templari.
— Forse è l’uno e l’altro — mormorò Duré. — Sono esistite coalizioni assai bizzarre, nella storia della teologia.
Sol posò la mano sulla fronte del Templare. Scottava di febbre. Sol frugò nell’unico medipac alla ricerca di derma analgesico o di un antistaminico. Ne trovò uno, ma esitò. — Non so se i Templari rientrano nelle norme mediche standard — disse. — Non vorrei che un’allergia lo uccidesse.
Il Console prese l’antistaminico e lo applicò al fragile avambraccio del Templare. — Rientrano nella norma — disse. Si chinò più vicino. — Masteen, cos’è accaduto sul carro a vela?
Il Templare aprì gli occhi ma non li mise a fuoco. — Carro a vela?
— Non capisco — mormorò padre Duré.
Sol lo prese da parte. — Masteen non ha raccontato la sua storia, durante il pellegrinaggio — bisbigliò. — Scomparve la prima notte sul carro a vela. Lasciò solo sangue, sangue in abbondanza, e i bagagli e il cubo di Moebius. Ma niente Masteen.
— Cos’è accaduto sul carro a vela? — bisbigliò ancora il Console. Scosse leggermente il Templare per destarne l’attenzione. — Rifletta, Vera Voce dell’Albero Het Masteen!
Il viso dell’uomo cambiò, gli occhi si misero a fuoco, i tratti vagamente asiatici ripresero la solita espressione severa. — Ho liberato dalla prigione l’elementale…
— L’erg — bisbigliò Sol al prete confuso.
— … e l’ho legato con la disciplina mentale imparata nei Rami Superiori.
Ma allora, senza preavviso, il Signore della Sofferenza scese su di noi.
— Lo Shrike — bisbigliò Sol, più a se stesso che al prete.
— Era suo, tutto quel sangue? — domandò il Console.
— Sangue? — Masteen si calò sugli occhi il cappuccio, per nascondere la propria confusione. — No, non era mio. Il Signore della Sofferenza stringeva un… un officiante. L’uomo lottava. Tentava di sfuggire alle spine dell’espiazione…
— E l’erg? — insistette il Console. — L’elementale. Cosa si aspettava che facesse, per lei? Che lo proteggesse dallo Shrike?
Il Templare si accigliò e si portò alla fronte la mano tremante. — Non…
non era pronto. Io non ero pronto. L’ho rimesso nella prigione. Il Signore della Sofferenza mi toccò la spalla. Fui… compiaciuto… che la mia espiazione avvenisse a un’ora di distanza dal sacrificio della mia nave-albero.
Sol si sporse verso Duré. — La nave-albero Yggdrasill fu distrutta in orbita, quella stessa sera — mormorò.
Het Masteen chiuse gli occhi. — Stanco — mormorò, con voce sempre più fievole.
Il Console lo scosse di nuovo. — Com’è arrivato fin qui? Masteen, com’è giunto qui dal mare d’Erba?
— Mi sono svegliato fra le Tombe — mormorò il Templare, senza aprire gli occhi. — Risvegliato fra le Tombe. Stanco. Devo dormire.
— Lo lasci riposare — disse padre Duré.
Il Console annuì e distese per terra il Templare, perché dormisse.
— Niente ha senso — mormorò Sol. I tre uomini e la piccina rimasero seduti nella fioca luce e sentirono le maree del tempo fluire e ritrarsi, all’esterno.
— Perdiamo un pellegrino, ne troviamo un altro — borbottò il Console.
— Come se fosse in atto un gioco bizzarro.
Un’ora dopo, udirono gli spari echeggiare nella valle.
Sol e il Console si accovacciarono accanto alla figura silenziosa di Brawne Lamia.
— Ci servirebbe un laser, per tagliare questa roba — disse Sol. — Sparito Kassad, sparite anche le nostre armi.
Il Console toccò il polso della donna. — Tagliare il cavo rischia di ucciderla.
— Secondo il biomonitor, è già morta.
Il Console scosse la testa. — No. C’è in ballo qualche altra cosa. Forse quel cavo è collegato al cìbrido Keats che Brawne porta in sé. Forse alla fine ci restituirà Brawne.
Sol si portò alla spalla la figlia di tre giorni e guardò la valle che brillava debolmente. — Che gabbia di matti. Niente va come pensavamo. Se solo la tua maledetta nave fosse qui, avrebbe utensili adatti, nel caso fossimo costretti a liberare Brawne da questa… da questa roba. E lei e Masteen avrebbero una possibilità di sopravvivere, nel reparto chirurgia.
Il Console rimase in ginocchio, guardando il vuoto. Dopo un momento disse: — Aspetta qui con lei, per favore. — Si alzò e scomparve nelle fauci tenebrose dell’ingresso della Sfinge. Cinque minuti dopo era di ritorno, reggendo la grossa sacca da viaggio. Tolse dal fondo un tappeto arrotolato e lo stese sul gradino di pietra.
Era un tappeto antico, lungo meno di due metri e largo poco più di uno.
La stoffa intessuta in modo complesso si era sbiadita nel corso dei secoli, ma i fili di volo in monofilamento brillavano ancora come oro, nella luce fioca. Minuscoli cavi andavano dal tappeto a una singola cellula d’energia che il Console staccò.
— Buon Dio — mormorò Sol. Ricordò la tragica storia d’amore fra Siri, nonna del Console, e il marinaio dell’Egemonia Merin Aspic. Era la scintilla che aveva fatto scaturire la rivolta contro l’Egemonia e che aveva tuffato Patto-Maui in svariati anni di guerra. Merin Aspic era volato a Primosito sul tappeto Hawking di un amico.
Il Console annuì. — Apparteneva a Mike Osho, l’amico di nonno Merin.
Siri lo lasciò nella propria tomba, perché Merin lo trovasse. Lui lo diede a me, quand’ero bambino… poco prima della battaglia dell’Arcipelago, dove morirono lui stesso e il sogno di libertà.
Sol passò la mano sul manufatto antico di secoli. — È un peccato che qui non funzioni.
Il Console alzò gli occhi. — Perché non dovrebbe?
— Il campo magnetico di Hyperion è inferiore al livello critico per i veicoli elettromagnetici — disse Sol. — Per questo ci sono dirigibili e skimmer, anziché VEM, e la Benares non era più una chiatta a levitazione. —
Gli parve sciocco, spiegare queste cose a chi per undici anni locali era stato console dell’Egemonia su Hyperion. — O mi sbaglio?
Il Console sorrise. — Hai ragione, qui i VEM standard non sono affi-dabili. Il rapporto massa/peso sollevato è troppo alto. Ma il tappeto Hawking ha una massa quasi irrilevante. L’ho provato, quando stavo nella ca-
pitale. Non è un viaggio comodo… ma dovrebbe funzionare, con una sola persona a bordo.
Sol lanciò un’occhiata alla valle, al di là delle sagome luminose della Tomba di Giada, dell’Obelisco e del Monolito di Cristallo, al punto dove le ombre della parete rocciosa nascondevano l’ingresso alle Grotte. Si domandò se padre Duré e Het Masteen erano ancora da soli… ancora vivi. —
Pensi di andare a cercare aiuto?
— Uno di noi andrà a cercare aiuto. Riporterà la nave. O almeno la libererà e la rimanderà senza equipaggio. Possiamo tirare a sorte per vedere a chi tocca.
Stavolta fu Sol, a sorridere. — Grazie, amico mio. Duré non è in condizioni di viaggiare e comunque non conosce la strada. Io… — Sol alzò Rachel, finché la parte superiore della testa non gli toccò la guancia. — Il viaggio potrebbe durare giorni. Io… noi… non li abbiamo. Se per lei si può fare qualcosa, dobbiamo stare qui e correre il rischio. Devi andare tu.
Il Console sospirò, ma non si mise a discutere.
— E poi — continuò Sol — la nave è tua. Se qualcuno può liberarla dal blocco di Gladstone, quello sei tu. E conosci bene il governatore generale.
Il Console guardò a ovest. — Chissà se Theo è ancora al potere.
— Andiamo a informare del nostro piano padre Duré — disse Sol. — E
poi, ho lasciato nella grotta i nutripac: Rachel ha fame.
Il Console arrotolò il tappeto, lo ripose nella sacca; guardò Brawne Lamia e il cavo osceno che serpeggiava nel buio. — Non le accadrà niente?
— Dirò a Paul di venire qui con una coperta e di stare con lei, mentre tu e io accompagneremo l’altro nostro invalido. Parti stanotte o aspetti l’alba?
Il Console si lisciò stancamente la guancia. — Non mi piace l’idea di superare di notte le montagne, ma non abbiamo tempo da perdere. Partirò appena avrò radunato alcune cose.
Sol annuì e guardò verso l’imboccatura della valle. — Mi piacerebbe che Brawne potesse dirci dov’è finito Sileno.
— Lo cercherò, quando sarò in volo — disse il Console. Lanciò un’occhiata alle stelle. — Calcolo da trentasei a quaranta ore di volo per arrivare a Keats. Più qualche ora per sbloccare la nave. Dovrei tornare entro due giorni standard.
Sol annuì e cullò la piccina che si era messa a piangere. La sua aria stanca ma affabile non nascose il dubbio. Sol posò la mano sulla spalla del Console. — È giusto fare il tentativo, amico mio. Vieni, andiamo a parlare a padre Duré, vediamo se l’altro nostro compagno di viaggio è sveglio e consumiamo insieme un pasto. A quanto pare, Brawne aveva portato provviste sufficienti per permetterci un ultimo banchetto.
26
Da bambina, quando il padre senatore si era trasferito, sia pure per breve tempo, da Lusus al meraviglioso e boscoso complesso residenziale amministrativo di Tau Ceti Centro, Brawne Lamia aveva visto l’antico bi-di film a cartoni animati Peter Pan di Walt Disney. Dopo, aveva letto il libro e ne era rimasta catturata.
Per mesi, la bambina di cinque anni standard aveva aspettato ogni notte che Peter Pan arrivasse a portarla via. Aveva lasciato biglietti che indicavano la via della sua stanza da letto, sotto l’abbaino rivestito d’assicelle.
Era uscita di casa, mentre i genitori dormivano, e si era distesa sulla morbida erba dei prati del Parco dei Cervi, a guardare il cielo notturno grigio latte di TC2 e a sognare il ragazzo dell’Isola che non c’è che presto sarebbe venuto a portarla via, volando verso la seconda stella a destra, sempre dritto fino al mattino. Lei sarebbe stata la sua compagna, la madre dei bimbi smarriti, la nemesi del malvagio Capitan Uncino e, soprattutto, la nuova Wendy di Peter Pan… la nuova amica bambina del bambino che non sarebbe mai cresciuto.
E ora, vent’anni dopo, Peter era finalmente venuto a lei.
Lamia non aveva sentito dolore, solo l’improvviso, gelido impulso di dislocazione, quando l’artiglio d’acciaio dello Shrike era penetrato nello shunt neurale che lei aveva dietro l’orecchio. Poi si era trovata a volare lontano.
Già una volta si era mossa nel piano dati e nella sfera dati. Solo alcune settimane prima, tempo personale, aveva viaggiato nella matrice TecnoNucleo insieme con il suo cyberpuke preferito, lo sciocco BB Surbringer, per aiutare Johnny a riprendersi la personalità che gli era stata rubata. Erano penetrati nella periferia e avevano ricuperato il cìbrido, ma avevano fatto scattare un allarme e BB era morto. Lamia non voleva entrare di nuovo nella sfera dati.
Ma adesso era lì.
L’esperienza era completamente diversa da quelle avute con i cavi di comlog o con i nodi. Era simile a uno stim-sim totale… come trovarsi in un olodramma a colori e suono stereo… come essere proprio lì!
Finalmente Peter era venuto a portarla via.
Lamia si alzò sopra la curvatura del limbo planetario di Hyperion, vide i canali rudimentali di flusso dati microonda e gli anelli di comunicazione a raggio compatto che passavano per un’embrionale sfera dati. Non si soffermò a collegarsi, perché seguiva verso il cielo un cordone ombelicale arancione, diretta ai viali e alle strade reali del piano dati.
Lo spazio di Hyperion era stato invaso dalla FORCE e dallo Sciame Ouster, e tutt’e due avevano portato con sé le intricate pieghe e ingraticciature della sfera dati. Con occhi nuovi, Lamia vedeva le migliaia di livelli del flusso dati della FORCE, un verde e turbolento oceano di informazione screziato delle vene rosse dei canali di sicurezza e delle roteanti sfere viola con i neri fagi battistrada che erano le IA della FORCE. Questo pseudopodo della megasfera dati della Rete scorreva nello spazio normale attraverso neri imbuti di teleporter di bordo, lungo fronti d’onda in espansione di increspature sovrapposte e istantanee che Lamia riconobbe come raffiche continue di una ventina di trasmettitori astrotel.
Esitò, a un tratto insicura di dove andare, di quale viale prendere. Come se durante il volo l’incertezza avesse messo a repentaglio la magia, minac-ciando di farla ricadere al suolo, decine di chilometri più in basso.
Poi Peter la prese per mano e la tenne a galla.
“Johnny!”
“Ciao, Brawne.”
L’immagine corporea di Brawne prese vita di scatto nello stesso istante in cui lei vide e sentì quella di lui. Era Johnny come l’aveva visto l’ultima volta… cliente e amante… Johnny con gli zigomi alti, occhi castani, naso compatto, mascella solida. I riccioli castani gli ricadevano ancora sul colletto e il viso era sempre uno studio di energia determinata. Il sorriso le dava ancora quel senso di calore che pareva fonderla dall’interno.
Johnny! Allora si strinse a lui e sentì la stretta, sentì sulla schiena le mani forti, mentre galleggiavano in alto su ogni cosa, sentì il seno appiattirsi contro il petto di lui, mentre le restituiva l’abbraccio con forza sorprendente per quel fisico minuto. Si baciarono e non c’era modo di negare che il bacio fosse reale!
Lamia si librò a distanza di un braccio, le mani sulle spalle di lui. I due volti erano illuminati dal bagliore verde e viola dell’oceano della grande sfera dati che li sovrastava.
“È reale?” Nella domanda udì la propria voce e la propria inflessione, pur sapendo di averla solo pensata.
“Sì. Reale come può esserlo qualsiasi parte della matrice piano dati.
Siamo sull’orlo della megasfera, nello spazio di Hyperion.” La sua voce aveva ancora quell’inflessione elusiva che lei trovava tanto seducente e irritante.
“Cos’è accaduto?” Con le parole, gli trasmise immagini della comparsa dello Shrike, dell’improvvisa e orribile invasione del dito fatto a lama.
“Sì” trasmise Johnny, stringendola più forte. “Qualcuno mi ha liberato dall’iterazione Schrön e ci ha collegati direttamente alla sfera dati.”
“Sono morta, Johnny?”
Johnny Keats le sorrise. La scosse leggermente, la baciò con gentilezza, ruotò in modo che tutt’e due vedessero lo spettacolo, in alto e in basso.
“No, Brawne, non sei morta, ma forse sei agganciata a una sorta di bizzarro supporto vitale, mentre il tuo analogo del piano dati vaga qui con me.”
“E tu sei morto?”
Johnny le sorrise di nuovo. “Non più, anche se la vita in una iterazione Schrön non è lo schianto che si potrebbe credere. Sembra di sognare i sogni di un altro.”
“Ti ho sognato.”
Johnny annuì. “Non credo di essere stato io. Ho sognato gli stessi sogni… conversazioni con Meina Gladstone, fuggevoli occhiate sulle riunioni di consiglio del governo dell’Egemonia…”
“Sì!”
Johnny le strinse la mano. “Sospetto che abbiano attivato un altro cìbrido Keats. E, chissà come, siamo riusciti a stabilire il contatto con lui, attraverso gli anni-luce.”
“Un altro cìbrido? Possibile? Hai distrutto lo stampo del Nucleo, hai liberato la personalità.. . ”
Il suo amante si strinse nelle spalle. Indossava una camicia dalle maniche a sbuffo e un panciotto di seta secondo uno stile che lei non aveva mai visto. Il flusso di dati, lungo i viali sopra di loro, dipingeva tutte due con impulsi di luce al neon. “Sospettavo che ci sarebbe stato un numero maggiore di copie e che BB e io non le avremmo trovate tutte, con una penetrazione così epidermica della periferia del Nucleo. Non importa, Brawne.
Se esiste un’altra copia, non è me e non credo che ci sarà nemica. Andiamo, esploriamo.”
Lamia rimase indietro un secondo, mentre lui la tirava verso l’alto. “E-sploriamo cosa?”
“Abbiamo l’opportunità di scoprire cosa c’è in ballo, Brawne. L’occasione di andare a fondo di un mucchio di misteri.”
Brawne udì nella propria voce/pensiero una timidezza tutt’altro che tipica. “Non sono sicura di volerlo fare, Johnny.”
Lui si girò a guardarla. “Dov’è finita, l’investigatrice che conoscevo?
Cos’è accaduto, alla donna che non sopportava i misteri?”
“Quella donna ha avuto momenti brutti, Johnny. Ho saputo guardarmi indietro e ho capito che la decisione di fare l’investigatrice era, in massima parte, una reazione al suicidio di mio padre. Cerco ancora di scoprire i particolari della sua morte. E intanto un mucchio di persone ha sofferto, nella vita reale. Tu compreso, amore mio.”
“E hai risolto il mistero?”
“Mistero?”
“La morte di tuo padre.”
Lamia si accigliò. “Non so. Non credo.”
Johnny indicò la liquida massa della sfera dati che fluiva e rifluiva sopra di loro. “Lassù un mucchio di risposte ci aspetta, Brawne. Se abbiamo il coraggio di andarle a cercare.”
Lei gli prese di nuovo la mano. “Lassù potremmo morire.”
“Sì.”
Lamia esitò, guardò in basso, verso Hyperion: il mondo era una curva tenebrosa con sacche isolate di flussodati che brillavano come fuochi di bivacco nella notte. Sopra di loro, il grande oceano ribolliva e pulsava di luce e di rumore di flussodati… e Brawne capì che quella era solo una minima estensione della megasfera. Capì… sentì… che i loro analoghi di piano dati, dopo la rinascita, potevano andare in posti che nessun cowboy cyberpuke aveva mai sognato.
Con Johnny a guidarla, Brawne seppe che la megasfera e il TecnoNucleo erano penetrabili in profondità che nessun essere umano aveva mai sondato. Ed era atterrita.
Ma, finalmente, era con Peter Pan. E l’Isola che non c’è la chiamava.
“Va bene, Johnny. Cosa aspettiamo?”
Si librarono insieme verso la megasfera.
27
Il colonnello Fedmahn Kassad seguì Moneta attraverso il portale e si trovò in una vasta pianura lunare dove un terrificante albero di spine si al-
zava per cinque chilometri nel cielo rosso sangue. Figure umane si contorcevano sui numerosi rami e sulle spine: le più vicine erano chiaramente umane e sofferenti, quelle più lontane erano rimpicciolite dalla distanza fino a sembrare grappoli lividi.
Kassad batté le palpebre e trasse un respiro profondo, sotto la superficie della dermotuta argento vivo. Si guardò intorno, al di là della sagoma silenziosa di Moneta, strappando lo sguardo dall’albero osceno.
Quella che aveva ritenuto una pianura lunare era la superficie di Hyperion all’imboccatura della Valle delle Tombe, ma di un Hyperion assai cambiato. Le dune erano impietrite e stravolte come se fossero state bom-bardate e vetrificate; i massi e le pareti rocciose erano rifluiti e si erano congelati come ghiacciai di pietra livida. Non c’era atmosfera… il cielo nero aveva l’impietosa chiarezza di una qualsiasi luna priva d’aria. Il sole non era quello di Hyperion; la luce non apparteneva all’esperienza umana. Kassad guardò in alto e i visori della dermotuta si polarizzarono per filtrare le orribili energie che riempivano il cielo di bande color rosso sangue e di fiori di vivida luce bianca.
In basso, la valle pareva vibrare come per impercettibili scosse di terremoto. Le Tombe del Tempo splendevano della propria energia interna, pulsazioni di luce fredda proiettate per molti metri sul fondo della valle, da ogni ingresso, portale, apertura. Le Tombe parevano nuove, lucide, scintillanti.
Kassad capì che solo la dermotuta gli consentiva di respirare e lo salvava dal freddo lunare che aveva preso il posto del caldo del deserto. Si girò a guardare Moneta, tentò di formulare una domanda intelligente, alzò di nuovo lo sguardo su quell’albero impossibile.
L’albero di spine pareva fatto dell’acciaio, del cromo e della cartilagine dello Shrike stesso: chiaramente artificiale eppure orribilmente organico. Il tronco era largo due o trecento metri alla base, i rami inferiori erano quasi altrettanto grossi, ma i rami più piccoli e le spine diventavano subito sottili come stiletti e tendevano al cielo il proprio carico di frutti.
Era impossibile che esseri umani così impalati vivessero a lungo; dop-piamente impossibile che sopravvivessero nel vuoto assoluto di quel luogo al di fuori del tempo e dello spazio. Però sopravvivevano e soffrivano.
Kassad li guardò contorcersi. Erano tutti vivi. E tutti soffrivano.
Kassad percepì la sofferenza come un suono al di là dell’udito, un’enorme e incessante sirena antinebbia di dolore, come se migliaia di dita non addestrate pestassero migliaia di tasti per suonare un massiccio organo a canne di dolore. Il dolore era così palpabile che Kassad frugò il cielo ardente, come se l’albero fosse una pira o un enorme faro con le onde del dolore chiaramente visibili.
C’erano solo la cruda notte e la quiete lunare.
Kassad aumentò l’ingrandimento delle lenti e guardò di ramo in ramo, di spina in spina. Le persone che vi si contorcevano erano di tutt’e due i sessi e di ogni età. Portavano una varietà di abiti a brandelli e di cosmetici sba-vati che spaziavano per molti decenni, se non per secoli. Kassad non aveva mai visto gran parte degli stili e ritenne di osservare vittime provenienti dal futuro. C’erano migliaia, decine di migliaia di vittime. Tutte vive. Tutte sofferenti.
Kassad si fermò, mise a fuoco un ramo a quattrocento metri dalla base, sopra un grappolo di spine e di corpi molto staccato dal tronco, e una singola spina lunga tre metri sulla quale si gonfiava un mantello viola ben noto. La figura si dimenò, si contorse, si girò verso Fedmahn Kassad.
Sotto gli occhi del colonnello c’era il corpo infilzato di Martin Sileno.
Kassad imprecò e strinse i pugni, con tanta forza da sentire male alle nocche. Cercò intorno a sé le armi, ingrandì la visione per fissare il Monolito di Cristallo. Laggiù non c’era niente.
Il colonnello Kassad scosse la testa, capì che la tuta era un’arma migliore di quelle che aveva portato su Hyperion; si mise a camminare verso l’albero. Non sapeva come l’avrebbe scalato, ma avrebbe trovato il modo. Non sapeva come avrebbe portato giù vivo Sileno - lui e tutte le vittime - ma l’avrebbe fatto o sarebbe morto nel tentativo.
Percorse dieci passi e si fermò sulla cresta di una duna impietrita. Lo Shrike era fra lui e l’albero.
Sotto il campo di forza color cromo della dermotuta, Kassad capì di essersi messo a ridere ferocemente. Quella era l’occasione attesa da moltis-simi anni. Quella era la guerra degna cui aveva dato in pegno vita e onore vent’anni prima, nella cerimonia Masada della FORCE. Una lotta per proteggere gli innocenti. Kassad sogghignò, appiattì la costa della mano destra fino a renderla una lama argentea, avanzò di un passo.
“Kassad!”
Al richiamo di Moneta, Kassad guardò indietro. La luce ruscellò sulla superficie argento vivo del corpo nudo della donna, mentre Moneta indicava la valle.
Un secondo Shrike emergeva dalla tomba detta Sfinge. Più giù lungo la valle, uno Shrike uscì dalla Tomba di Giada. Luci crude mandarono lampi dalle punte e dalle lame, mentre un altro emergeva dall’Obelisco, a mezzo chilometro di distanza.
Kassad li ignorò tutti; si girò verso l’albero e il suo difensore.
Cento Shrike stavano fra Kassad e l’albero. Il colonnello batté le palpebre e altri cento comparvero alla sua sinistra; si guardò alle spalle e una le-gione di Shrike impassibili come statue era ferma sulle fredde dune e sui massi fusi del deserto.
Kassad si batté una manata sulla coscia. “Maledizione.”
Moneta gli si accostò fino a toccargli il braccio. Le dermotute si fusero e Kassad sentì contro il braccio il calore della carne di lei. Con la coscia Moneta gli sfiorava la coscia.
“Ti amo, Kassad.”
Lui guardò il viso dalle linee perfette, ignorò la confusione di riflessi e di colori che lo illuminava, cercò di ricordare la prima volta che l’aveva incontrata, nella foresta presso Agincourt. Ricordò i sorprendenti occhi verdi, i corti capelli castani. La pienezza delle labbra e come sapevano di lacrime, quando senza volerlo le aveva morsicate. Alzò la mano e le toccò la guancia, sentì il tepore della pelle sotto la tuta. “Se mi ami” le trasmise
“rimani qui”.
Poi il colonnello Fedmahn Kassad si girò e mandò un grido che solo lui poteva udire nel silenzio lunare… un grido che era in parte un urlo di ribellione dal lontano passato umano, in parte l’evviva degli allievi della FORCE al momento della promozione, in parte il grido di un karateka, in parte una pura e semplice sfida. Attraversò di corsa le dune, diretto all’albero di spine e allo Shrike proprio di fronte.
Adesso c’erano migliaia di Shrike sulle alture e nella valle. Artigli si aprirono di scatto all’unisono; la luce brillò su migliaia di lame taglienti come bisturi e di spine acuminate.
Kassad non badò agli altri e corse verso quello che gli sembrava il primo Shrike. Sopra la creatura, forme umane si contorsero nella solitudine della propria sofferenza.
Lo Shrike spalancò le braccia come per accoglierlo. Lame ricurve, nei polsi e nelle giunture e nel petto, parvero fuoruscire da foderi nascosti.
Kassad mandò un grido e superò gli ultimi metri.
28
— Non dovrei andare — disse il Console.
Con l’aiuto di Sol aveva trasportato Het Masteen, ancora privo di sensi, dalla Grotta alla Sfinge, dove padre Duré teneva d’occhio Brawne Lamia.
Era quasi mezzanotte e la valle brillava della luce riflessa delle Tombe. Le ali della Sfinge tagliavano archi dal pezzo di cielo visibile sopra le pareti rocciose. Brawne giaceva immobile, l’osceno cavo serpeggiava nel buio della tomba.
Sol toccò la spalla del Console. — Ne abbiamo discusso. Dovresti andare.
Il Console scosse la testa e accarezzò pigramente l’antico tappeto Hawking. — Potrebbe portare due persone. Tu e Duré potreste raggiungere il punto dove è ormeggiata la Benares.
Sol resse delicatamente nella mano a coppa la testolina di Rachel e continuò a cullare piano la figlia. — Rachel ha due giorni. E poi, questo è il nostro posto.
Negli occhi del Console si leggeva la sofferenza. — Sarebbe il mio! —disse. — Lo Shrike…
Duré si sporse. La luminescenza della tomba gli dipinse l’ampia fronte e gli zigomi alti. — Figliolo, se resta qui non ha altro motivo che il suicidio.
Se tenta di riportare la nave per la signora Lamia e per il Templare, aiuterà gli altri.
Il Console si strofinò la guancia. Era stanchissimo. — C’è posto anche per lei, padre, sul tappeto.
Duré sorrise. — Quafe che sia il mio destino, sento che lo incontrerò qui. Aspetterò che lei torni.
Di nuovo il Console scosse la testa, ma andò a sedersi a gambe incrociate sopra il tappeto e tirò verso di sé la pesante sacca da viaggio. Contò le razioni e le bottiglie d’acqua che Sol gli aveva preparato. — Sono troppe. A voi ne servono di più.
Duré ridacchiò. — Abbiamo cibo e acqua sufficienti per quattro giorni, grazie alla signora Lamia. Dopo, se dovremo digiunare… per me non sarà la prima volta.
— E se tornano Sileno e Kassad?
— Divideranno la nostra acqua — disse Sol. — Faremo un altro viaggio al Castello per rifornirci, se gli altri tornano.
Il Console sospirò. — E va bene. — Toccò gli appropriati disegni della trama di volo: il tappeto si irrigidì in tutti i suoi due metri e si alzò di dieci centimetri. Non si notò alcun tremolio dovuto all’incerto campo magnetico, se pure c’era.
— Avrai bisogno di ossigeno, per superare le montagne — disse Sol.
Il Console mostrò la maschera a osmosi contenuta nella sacca.
Sol gli tese l’automatica di Brawne Lamia.
— Non posso…
— Non ci servirà, contro lo Shrike — ribatté Sol. — Ma potrebbe essere la carta vincente per arrivare a Keats.
Il Console annuì e mise l’arma nella sacca. Strinse la mano al prete, poi all’anziano studioso. Le minuscole dita di Rachel gli sfiorarono il braccio.
— Buona fortuna — disse Duré. — Dio l’assista.
Il Console toccò i disegni di volo e il tappeto Hawking si sollevò di cinque metri, dondolò leggermente, scivolò in avanti e in alto, come se corresse su rotaie invisibili.
Il Console virò a destra verso l’imboccatura della valle, passò a dieci metri di quota sopra le dune, poi deviò a sinistra verso le lande desolate. Solo una volta guardò indietro. Le quattro figure sul gradino più alto della Sfinge, due uomini in piedi e due sagome distese per terra, gli parvero piccole davvero. Il Console non riuscì a distinguere la piccina fra le braccia di Sol.
Secondo gli accordi, il Console indirizzò a ovest il tappeto Hawking, per passare sopra la Città dei Poeti, con la speranza di trovare Martin Sileno.
L’intuito gli diceva che forse l’irascibile poeta aveva fatto una deviazione da quella parte. Il cielo era relativamente sgombro dai bagliori della battaglia e il Console scrutò ombre non rotte dalla luce delle stelle, mentre volava a venti metri dalle guglie e dalle cupole in rovina della città. Non c’era segno del poeta. Se Brawne e Sileno erano passati da quella parte, perfino le impronte sulla sabbia erano state cancellate dal vento notturno che ora faceva svolazzare i radi capelli del Console e le sue vesti.
A quell’altezza faceva freddo. Il Console sentiva le vibrazioni del tappeto Hawking che trovava la strada lungo le incerte linee di forza. Considerando l’insidioso campo magnetico di Hyperion e l’età dei fili di volo EM, c’era davvero il rischio che il tappeto precipitasse molto prima di arrivare a Keats.
Il Console gridò varie volte il nome di Martin Sileno, ma non ottenne risposta, a parte una fuga di colombe che avevano nidificato fra le macerie della cupola di una galleria. Scosse la testa e virò a sud, verso la Briglia.
Nonno Merin aveva raccontato al Console la storia di quel tappeto Hawking: era stato uno dei primi giocattoli del genere fabbricati da Vladimir Sholokov, studioso di lepidotteri noto in tutta la Rete e ingegnere di siste-
mi EM; e forse era lo stesso che l’inventore aveva regalato alla nipotina.
L’amore di Sholokov per la ragazzina era divenuto leggendario, come il fatto che lei aveva disprezzato il dono del tappeto volante.
Ma altri avevano apprezzato l’idea; e i tappeti Hawking, pur illegali su mondi con un ragionevole controllo del traffico, erano abbastanza comuni sui pianeti coloniali. Quello aveva permesso a nonno Merin di incontrare nonna Siri, su Patto-Maui.
Il Console alzò lo sguardo: la catena di montagne s’avvicinava. Con dieci minuti di volo aveva coperto due ore di viaggio attraverso le lande desolate. Gli altri avevano detto al Console di non fermarsi a Castel Crono per cercare Sileno: la sorte toccata al poeta avrebbe potuto reclamare anche lui, prima che cominciasse il viaggio vero e proprio. Il Console si accontentò di librarsi appena fuori delle finestre, duecento metri sulla parete rocciosa, a distanza di un braccio dalla balconata da dove tre giorni prima avevano guardato la valle, e di chiamare a gran voce il poeta.
Solo l’eco gli rispose dal buio delle sale da pranzo e dei corridoi del Castello. Il Console si resse con forza al bordo del tappeto, sentendosi esposto e troppo vicino alle pareti verticali di roccia. Si rilassò un poco, quando si allontanò dal Castello, prese quota e risalì verso i passi delle montagne, dove la neve brillava sotto le stelle.
Seguì i cavi della funivia che scavalcavano il passo e univano un picco di novemila metri all’altro, lungo tutta la catena montuosa. A quell’altezza il freddo era intenso; il Console fu contento di aver preso il mantello termico di scorta di Kassad e vi si avvolse, badando bene a non esporre mani e guance. Il gel della maschera a osmosi si tese sul viso come un simbionte affamato che ingurgitasse quel poco d’ossigeno disponibile.
Bastava. Il Console trasse respiri lenti, profondi, mentre volava a dieci metri dai cavi incrostati di ghiaccio. Le vetture pressurizzate della funivia non erano in funzione; il senso di completa solitudine, sopra ghiacciai, picchi ripidi, valli ammantate d’ombra, era terribile. Il Console era lieto di tentare quel viaggio per nessun’altra ragione se non quella di ammirare per l’ultima volta la bellezza di Hyperion, non rovinata dalla tremenda minaccia dello Shrike né dall’invasione degli Ouster.
In funivia avevano impiegato dodici ore per valicare le montagne. Nonostante la bassa velocità del tappeto Havvking, venti chilometri all’ora, in sei ore il Console completò la traversata. L’alba lo colse ancora sopra gli alti picchi. Con un sussulto il Console si destò, si rese conto con stupore di avere sognato, mentre il tappeto correva verso un picco che si alzava per altri cinque metri sopra la linea di volo. Cinquanta metri più avanti si vedevano macigni e campi di neve. Un uccello nero con un’apertura alare di tre metri, uno di quelli che i locali chiamavano araldi, lasciò il nido fra i ghiacci e si librò nell’aria rarefatta, fissando l’intruso, con occhietti tondi e neri. Il Console deviò ripidamente verso sinistra, sentì qualcosa cedere, nel meccanismo Havvking, e cadde per trenta metri, prima che i fili di volo facessero presa e stabilizzassero il tappeto.
Con le dita sbiancate, il Console si aggrappò all’orlo. Per fortuna si era legato alla cintola la cinghia della sacca, altrimenti quella sarebbe caduta sul ghiacciaio molto più in basso.
Non c’era segno della funivia. Il Console aveva sonnecchiato quanto bastava perché il tappeto deviasse dalla rotta. Per un secondo si lasciò prendere dal panico, spostò il tappeto qua e là, cercò affannosamente una via fra i picchi che lo circondavano come zanne. Poi vide il sole del mattino indorare il pendio più avanti, le ombre balzare dai ghiacciai e dalla tundra alle sue spalle e a sinistra, e capì di essere ancora sul percorso giusto. Dietro l’ultima dorsale di alti picchi c’erano le colline pedemontane meridionali. E più avanti…
Il tappeto Hawking parve esitare quando il Console toccò i fili di volo e lo spinse più in alto, ma sorvolò con riluttanza l’ultimo picco di novemila metri e gli permise di scorgere le montagne più basse che a poco a poco scendevano a soli tremila metri sopra il livello del mare. Il Console scese con sollievo.
Ritrovò la funivia che brillava al sole otto chilometri a sud del punto dove aveva lasciato la Briglia. Le vetture pendevano silenziose intorno alla stazione terminale ovest. In basso, i radi edifici del villaggio Riposo del Pellegrino sembravano abbandonati proprio come alcuni giorni prima. Non c’era segno del carro a vela, nel posto dove l’avevano lasciato, alla bassa banchina sporgente sulle secche del mare d’Erba.
Il Console atterrò nei pressi della banchina, disattivò il tappeto, si sgranchì le gambe, con un certo dolore, prima di arrotolarlo per metterlo al sicuro; vicino al molo, in un edificio abbandonato, trovò un gabinetto. Quando ne uscì, il sole del mattino strisciava dalle alture pedemontane e cancellava le ultime ombre. Lontano, a perdita d’occhio verso sud e ovest, si estendeva il mare d’Erba, liscio come il piano di un tavolo, la cui natura era tradita da brezze occasionali che increspavano la superficie e per un attimo rive-lavano gli steli rosso fulvo e oltremare, con un movimento così simile a quello delle onde che ci si aspettava di vedere creste di spuma e pesci guizzare all’aria.
Non c’erano pesci, nel mare d’Erba, ma c’erano serpenti d’erba lunghi venti metri; e se il tappeto Hawking si fosse guastato, anche dopo un atterraggio morbido il Console non sarebbe rimasto vivo a lungo.
Il Console stese il tappeto, mise dietro di sé la sacca, attivò il motore. Si tenne a venticinque metri dalla superficie, quota bassa, ma non abbastanza perché un serpente d’erba potesse scambiarlo per un bocconcino volante. Il carro a vela aveva impiegato meno di un giorno di Hyperion, per trasportare i pellegrini attraverso il mare d’Erba, ma con frequente vento da nordest che aveva comportato un po’ di beccheggio. Il Console era sicuro di sorvo-lare in meno di quindici ore la parte più stretta del mare d’Erba. Toccò i disegni di comando e il tappeto balzò in avanti a velocità più sostenuta.
Nel giro di venti minuti le montagne rimasero indietro finché anche le alture pedemontane non si persero nella foschia della distanza. Nel giro di un’ora, i picchi cominciarono a rimpicciolirsi e la curvatura del pianeta ne nascose la base. Dopo due ore, il Console scorgeva solo i picchi più alti come un’ombra indistinta e scanalata che sporgeva dalla foschia.
Poi il mare d’Erba si estese in tutte le direzioni, sempre uguale, a parte le sinuose increspature e gli avvallamenti causati di tanto in tanto dalla brezza. Faceva molto più caldo che nell’alto pianoro a nord della Briglia. Il Console si tolse il mantello termico, poi la giacca, poi il maglione. Il sole batteva con forza sorprendente, per latitudini così alte. Il Console frugò nella sacca, trovò il cappello a tricorno, stropicciato e rovinato, che aveva portato con tanta spigliatezza solo due giorni prima, e se lo cacciò in testa per proteggersi. La fronte e la pelata erano già arrossate dal sole.
Dopo circa quattro ore, consumò il primo pasto del viaggio e mandò giù le strisce insapori di proteine delle l’azioni da campo come se fossero filet mignon. L’acqua fu la parte più deliziosa e il Console represse l’impulso di vuotare tutte le bottiglie per bere a sazietà.
Il mare d’Erba si estendeva sotto di lui, davanti, dietro. Il Console sonnecchiò, risvegliandosi bruscamente ogni volta con la sensazione di cadere e afferrandosi al bordo del tappeto. Capi che si sarebbe dovuto legare, usando l’unico pezzo di corda che aveva nella sacca, ma preferiva non atterrare… l’erba era tagliente e più alta di lui. Non aveva visto nessuna scia a V
rivelatrice, ma non poteva essere sicuro che i serpenti d’erba non se ne stessero in riposo e in attesa, più sotto.
Si domandò oziosamente dove fosse finito il carro a vela. Il veicolo era completamente automatizzato e presumibilmente programmato dalla Chie-
sa dello Shrike, dal momento che era stata quest’ultima a favorire il pellegrinaggio. Chissà quali altri compiti aveva avuto il carro a vela. Il Console scosse la testa, sedette dritto, si pizzicò le guance. Aveva cominciato ad appisolarsi, anche mentre pensava al carro a vela. Quindici ore erano parse un periodo abbastanza breve, quando ne aveva parlato, nella Valle delle Tombe. Diede un’occhiata al comlog: erano trascorse cinque ore.
Il Console portò il tappeto a duecento metri di quota, guardò attentamente se c’erano segni di serpenti, poi scese a cinque metri e si mantenne librato sull’erba. Estrasse la corda, confezionò un cappio, si spostò sul davanti del tappeto e lo avvolse con vari giri di fune, lasciando spazio sufficiente a scivolarvi dentro, prima di stringere il nodo.
In caso di caduta, il legaccio sarebbe stato peggio che inutile; ma le strette spire di corda contro la schiena gli diedero un senso di sicurezza, quando si sporse a toccare di nuovo i fili di volo, stabilizzò il tappeto a quaranta metri di quota e si distese con la guancia contro il tessuto tiepido.
La luce del sole gli filtrò tra le dita e il Console si rese conto che il braccio nudo avrebbe subito una brutta scottatura.
Era troppo stanco per mettersi a sedere e srotolarsi le maniche.
Si levò la brezza. Il Console sentì il fruscio e il brusio, in basso: l’erba si muoveva al vento oppure al passaggio di una grossa creatura.
Era troppo stanco per badarvi. Chiuse gli occhi e in meno di trenta secondi si addormentò.
Il Console sognò la propria casa, la casa vera, su Patto-Maui e il sogno fu pieno di colore: l’infinito cielo azzurro, l’ampia distesa del mar Meridionale, blu oltremare che cambiava in verde dove iniziavano le Secche Equatoriali, gli stupefacenti verdi e gialli e rossi orchidea delle isole mobili spinte a nord come greggi dai delfini… ormai estinti, dopo l’invasione dell’Egemonia durante l’infanzia del Console, ma vivi nel sogno, delfini che con grandi balzi frangevano l’acqua e facevano danzare nell’aria pura migliaia di prismi di luce.
Nel sogno, il Console era di nuovo bambino e stava sul livello più alto di un albero-casa, nella loro Isola Prima Famiglia. Nonna Siri era accanto a lui… non la regale grande dame che aveva conosciuto, ma la bella fanciul-la di cui suo padre si era innamorato. Le albero-vele sbattevano al vento, mentre i delfini spingevano in precisa formazione la mandria di isole mobili attraverso i canali azzurri fra le Secche. A nord, proprio all’orizzonte, le prime isole dell’Arcipelago Equatoriale si delineavano, verdi e stabili, contro il cielo della sera.
Siri gli toccò la spalla e indicò l’ovest.
Le isole bruciavano, affondavano, con le radici di assimilazione che si torcevano in vana sofferenza. I delfini pastori erano scomparsi. Dal cielo pioveva fuoco. Il Console riconobbe lance da miliardi di volt che bruciavano l’aria e gli lasciavano nella retina post-immagini grigiazzurre. Esplosioni sottomarine illuminavano gli oceani e mandavano migliaia di pesci e di fragili creature marine a ballonzolare in superficie negli spasmi della morte.
«Perché?» chiese nonna Siri; ma la sua voce era il dolce bisbiglio di una ragazzina.
Il Console tentò di risponderle, ma non ci riuscì. Le lacrime lo acce-cavano. Cercò la mano della nonna ma lei non era più lì, e il senso che fosse morta, che lui non avrebbe mai potuto rimediare ai propri peccati, lo addolorò al punto da rendergli impossibile respirare. Aveva la gola chiusa dall’emozione. Poi si rese conto che era il fumo, a fargli bruciare gli occhi e a riempirgli i polmoni: l’Isola Famiglia era in fiamme.
Il bambino che era il Console barcollò nel buio azzurrastro cercando alla cieca qualcuno che lo tenesse per mano, che lo rassicurasse.
Una mano si chiuse sulla sua. Non era quella di Siri. Era una mano incredibilmente ferma, che lo stringeva. Le dita erano lame.
Il Console si svegliò ansimando.
Era buio. Aveva dormito per sette ore almeno. Lottando contro le corde, si alzò a sedere, fissò il bagliore del display del comlog.
Dodici ore. Aveva dormito dodici ore.
Ogni muscolo del corpo protestò dolorosamente, quando si sporse a guardare in basso. Il tappeto Hawking manteneva la quota costante di quaranta metri, ma il Console non aveva la minima idea di dove fosse. Sotto di lui, basse colline salivano e scendevano. Senza dubbio il tappeto ne aveva mancate alcune di un paio di metri; erba arancione e licheni nani crescevano in ciuffi soffici.
Da qualche parte, in un momento imprecisato delle ultime ore, aveva sorvolato la riva meridionale del mare d’Erba, aveva mancato il piccolo porto di Limito e i moli del fiume Hoolie dove all’andata avevano ormeg-giato la chiatta a levitazione, la Benares.
Il Console non aveva bussola - le bussole erano inutili, su Hyperion - né un comlog programmato come monitor inerziale di direzione. Contava di trovare la strada per Keats seguendo l’Hoolie a sud e a ovest, ripercorrendo il cammino laborioso del pellegrinaggio su per il fiume, a parte curve e anse.
Adesso si era smarrito.
Atterrò sulla sommità di una bassa collina, mise piede con un gemito di dolore sul terreno solido e spense il tappeto. Aveva consumato per un terzo, forse più, la carica dei fili di volo. E non sapeva quanta efficienza il tappeto avesse perduto, con il passare degli anni.
Le colline sembravano il territorio accidentato a sudovest del mare d’Erba, ma il fiume non si vedeva. Il comlog gli disse che il buio era sceso solo da un paio d ore, ma il Console non vide traccia di tramonto. Il cielo coperto impediva di vedere sia la luce delle stelle, sia le eventuali esplosioni della battaglia spaziale.
— Maledizione — mormorò il Console. Fece un giro per ripristinare la circolazione del sangue, urinò giù da una breve scarpata, tornò al tappeto per bere un sorso d’acqua. “Pensa!” si disse.
Aveva fissato il tappeto in una rotta verso sudovest che avrebbe dovuto lasciare il mare d’Erba in prossimità della cittadina portuale di Limito. Se, nel sonno, aveva semplicemente sorvolato Limito e il fiume, il corso d’acqua doveva trovarsi da qualche parte verso sud, spostato a sinistra. Ma se, lasciando Riposo del Pellegrino, aveva stabilito male la rotta, anche solo di qualche grado a sinistra, allora il fiume si sarebbe trovato da qualche parte verso nordest, alla sua destra. Anche se avesse preso la direzione sbagliata, alla fine avrebbe trovato un punto di riferimento, la costa della Criniera Nord, nel caso peggiore, ma il ritardo gli sarebbe costato un giorno intero.
Il Console diede un calcio a una pietra e incrociò le braccia. L’aria era molto fresca, dopo il caldo del giorno. Un brivido gli fece capire che soffriva di scottature solari. Si toccò la pelle del cranio, imprecò e ritrasse le dita. “Da quale parte?” si domandò.
Il vento fischiò tra la bassa artemisia e i licheni spugna. Il Console si sentì molto lontano dalle Tombe del Tempo e dalla minaccia dello Shrike, ma percepì, come una pressione urgente sulle spalle, la presenza di Sol e di Duré, di Het Masteen e di Brawne Lamia, degli scomparsi Sileno e Kassad. Lui si era unito al pellegrinaggio per un atto finale di annullamento, un inutile suicidio per mettere fine al proprio dolore… dolore per la perdita perfino del ricordo della moglie e del figlio uccisi durante le macchinazio-ni dell’Egemonia su Bressia, dolore per la consapevolezza del proprio orribile tradimento, verso il governo che aveva servito per quasi quarant’anni, verso gli Ouster che si erano fidati di lui.
Si sedette sopra una roccia e sentì svanire l’inutile odio per se stesso, quando pensò a Sol e alla piccina che aspettavano nella Valle delle Tombe.
Pensò a Brawne, quella donna coraggiosa, piena d’energia, distesa, inerme, con l’estensione simile a sanguisuga del malefico Shrike che le spuntava dal cranio.
Risalì sul tappeto, lo attivò e si alzò a ottocento metri, così vicino al soffitto di nuvole che gli sarebbe bastato allungare la mano per toccarle.
Un breve squarcio nella coltre di nubi, lontano a sinistra, mostrò un luccichio. L’Hoolie era a circa cinque chilometri, verso sud.
Il Console eseguì una brusca virata; sotto lo sforzo, il campo di contenimento cercò di premerlo contro il tappeto, ma lui si sentì più tranquillo, grazie alle funi. Dieci minuti dopo, volava sull’acqua; planò per accertarsi che il fiume fosse proprio l’ampio Hoolie e non un affluente.
Era l’Hoolie. Ragnatelidi radianti rispondevano nelle zone basse e palu-dose lungo le rive. Le torri alte e scanalate delle formiche architetto lanciavano sagome spettrali contro un cielo appena più scuro del terreno.
Il Console si portò a venti metri di quota, bevve un sorso d’acqua e puntò a valle, alla massima velocità.
L’alba lo trovò a valle del villaggio Bosco di Doukhobor, quasi all’altezza delle chiuse Karla, dove il Regio Canale di Trasporto tagliava a ovest verso gli insediamenti urbani settentrionali e la Criniera. Il Console sapeva che da lì la capitale distava meno di centocinquanta chilometri…
ma pur sempre sette irritanti ore di volo, alla misera velocità del tappeto.
In quel punto si era augurato di trovare uno skimmer militare in servizio di perlustrazione, o un dirigibile passeggeri di Bosco delle Naiadi, o addirittura una rapida lancia a energia da requisire. Ma lungo le rive dell’Hoolie non c’era segno di vita, a parte un edificio in fiamme di tanto in tanto, o lumi a burro liquefatto, dietro finestre lontane. Le stie delle mante fluviali, sopra le chiuse, erano vuote, con le ampie grate aperte alla corrente; non c’erano chiatte da trasporto, più in basso, dove il fiume era largo il doppio rispetto al tratto sopra le chiuse.
Il Console imprecò e continuò il volo.
Era un magnifico mattino: il sole illuminava le basse nuvole e metteva in risalto ogni cespuglio e ogni albero. Al Console parve che fossero passati mesi interi, da quando aveva visto vera vegetazione. Sulle scarpate lontane, alberi weir e mezzequerce si alzavano a grande altezza, mentre nella piana fluviale la vivida luce metteva in risalto i verdi germogli di milioni di baccelli periscopici delle risaie indigene. Piegrovie e felci di fuoco coprivano le rive; ogni ramo, ogni radice contorta risaltavano nella luce aspra dell’alba.
Le nuvole inghiottirono il sole. Cominciò a piovere. Il Console calzò il tricorno gualcito, si rannicchiò sotto il mantello e volò verso sud, a quota cento metri.
Il Console cercò di ricordare. Quanti giorni aveva, la piccola Rachel?
Nonostante la lunga dormita del giorno precedente, aveva la mente confusa per le tossine della stanchezza. Rachel aveva quattro giorni, quando erano giunti alla valle. Era stato… quattro giorni prima.
Il Console si lisciò la guancia, allungò la mano verso le bottiglie dell’acqua, scoprì che erano tutte vuote. Poteva scendere senza difficoltà a tuf-farle nel fiume e riempirle, ma non voleva perdere tempo. Le scottature gli dolevano e lo fecero rabbrividire, quando la pioggia gli sgocciolò dal cappello.
“Sol ha detto che se torno prima di sera andrà tutto bene. Rachel è nata dopo le otto di sera, tempo di Hyperion. Se è giusto, se non ci sono errori, durerà fino alle otto di stasera.” Il Console si tolse l’acqua dalle guance e dalle sopracciglia. “Occorrono ancora sette ore per arrivare a Keats. Un paio d’ore per liberare la nave. Theo mi aiuterà… ora è governatore generale. Posso convincerlo che è nell’interesse dell’Egemonia contravvenire all’ordine di Gladstone e togliere alla nave la quarantena. Se necessario, gli dirò che proprio lei mi ha ordinato di cospirare con gli Ouster per tradire la Rete.
“Diciamo dieci ore, più quindici minuti di nave. Resterebbe un’ora, prima del tramonto. Rachel avrebbe solo alcuni minuti, ma… cosa? Cosa potremmo tentare, oltre alle vasche di crio-fuga? Niente. Solo le vasche. Sono sempre state l’ultima carta di Sol, anche se i medici dicono che potrebbero risultare fatali alla piccina. E Brawne?”
Il Console era assetato. Si tolse il mantello, ma la pioggia era solo un’acquerugiola che bastava appena a inumidirgli le labbra e la lingua e gli faceva aumentare la sete. Il Console imprecò sottovoce e iniziò a scendere lentamente. Forse poteva librarsi sul fiume il tempo necessario per riempire una bottiglia.
Trenta metri sopra il fiume, il tappeto Hawking smise di volare. L’attimo prima scendeva gradualmente, dolce come una stuoia sopra unn piano di vetro poco inclinato; l’attimo dopo, precipitò a picco, fuori controllo… un tappeto di due metri e un uomo terrorizzato gettati dalla finestra di un edificio di dieci piani.
Il Console urlò e cercò di liberarsi, ma la fune e la cinghia della sacca lo ingarbugliarono nella massa sbatacchiante del tappeto Hawking: cadde col tappeto, rotolò e si dimenò per gli ultimi venti metri, andò a sbattere contro la superficie dura dell’Hoolie in attesa.
29
Sol Weintraub aveva grandi speranze, la notte in cui il Console partì. Finalmente facevano davvero qualcosa! O almeno tentavano. Sol non credeva che le vasche di crio-fuga della nave del Console sarebbero state la risposta per salvare Rachel - esperti medici di Vettore Rinascimento avevano fatto notare l’estrema pericolosità di una simile procedura - ma era contento di avere un’alternativa, una possibilità qualsiasi. E sentiva che per troppo tempo avevano accettato passivamente gli eventi, avevano aspettato i comodi dello Shrike, come criminali in attesa della ghigliottina.
L’interno della Sfinge pareva troppo infido, quella notte; Sol spostò all’esterno tutte le loro cose e le ammassò sull’ampia veranda di granito, dove con Duré cercò di sistemare comodamente Masteen e Brawne, sotto coperte e mantelli, con zaini per guanciale. I biomonitor di Brawne continuavano a segnalare la mancanza di qualsiasi attività cerebrale, mentre il corpo riposava in pace. Masteen si rigirava e si agitava, in preda alla febbre.
— Secondo lei, cos’ha, il Templare? — domandò Duré. — È ammalato?
— Forse si tratta di semplice assideramento — rispose Sol. — Dopo essere stato rapito dal carro a vela, si è ritrovato a vagare nelle lande deserte e qui nella Valle delle Tombe. Mangiava neve per dissetarsi e non aveva cibo.
Duré annuì e controllò il cerotto della FORCE applicato nella parte interna del braccio di Masteen. Le spie luminose indicavano il costante sgocciolio di soluzione per endovena. — Ma pare che ci sia dell’altro —disse il gesuita. — Una sorta di follia.
— I Templari hanno un legame quasi telepatico con la propria nave-albero. — disse Sol. — Quando la Voce dell’Albero Masteen ha assistito alla distruzione della Yggdrasill, si sarà sentito impazzire. A maggior ragione se sapeva che era necessaria.
Duré annuì e continuò ad asciugare la fronte cerea del Templare. Mez-
zanotte era passata e si era alzato un vento che soffiava pigre spirali di polvere vermiglia e gemeva intorno alle ali e agli spigoli della Sfinge. Le Tombe splendettero vividamente e divennero più fioche, prima una, poi un’altra, senza ordine né sequenza evidenti. Di tanto in tanto la trazione delle maree del tempo assaliva tutte due gli uomini, li faceva boccheggiare e aggrappare alla pietra, ma l’ondata di déjà vu e il senso di vertigine svanivano quasi subito. Con Brawne Lamia collegata alla Sfinge mediante il cavo saldato al cranio, non potevano andare via di lì.
A un certo punto, prima dell’alba, le nuvole si squarciarono e mostrarono il cielo: stelle l’aggruppate fittamente, di chiarezza quasi dolorosa. Per un poco gli unici segni delle due grandi flotte che guerreggiavano lassù furono le occasionali scie di fusione, sottili graffi di diamante nel vetro della notte; ma poi iniziarono di nuovo a sbocciare i fiori delle esplosioni lontane e nel giro di un’ora le Tombe furono oscurate dalla violenza delle luci in alto.
— Chi vincerà? — domandò padre Duré. I due sedevano con la schiena contro la ruvida parete di pietra della Sfinge, il viso rivolto allo spicchio di cielo fra le ali dispiegate della tomba.
Sol accarezzava la schiena di Rachel, addormentata bocconi sotto la sottile coperta. — Da quel che dicono gli altri, sembra preordinato che la Rete debba patire un’orribile guerra.
— Allora crede alle previsioni della Commissione di Consulenza delle IA?
Nel buio, Sol scrollò le spalle. — In pratica, non so niente di politica…
né dell’esattezza con cui il Nucleo predice gli eventi. Sono un misero studioso di un piccolo college in un pianeta arretrato. Ma ho la sensazione che per noi ci sia in serbo qualcosa di terribile… che una mala bestia si muova verso Betlemme per nascere.
Duré sorrise. — Yeats — disse. Il sorriso svanì. — Sospetto che questo posto sia la nuova Betlemme. — Guardò in direzione delle Tombe splendenti. — Ho passato la vita a insegnare le teorie di San Teilhard, l’evoluzione verso il Punto Omega. E invece ecco cosa abbiamo. Follia umana nei cieli e un terribile anticristo in attesa di ereditare i resti.
— Crede che lo Shrike sia l’Anticristo?
Padre Duré appoggiò i gomiti sulle ginocchia e congiunse le mani. — Se non lo è, siamo tutti nei guai. — Rise amaramente. — Non molto tempo fa, sarei stato deliziato di scoprire un Anticristo: anche la semplice presenza di un potere antidivino sarebbe servita a puntellare la mia vacillante fe-
de in qualsiasi forma di divinità.
— E ora? — domandò Sol, piano.
Duré allargò le mani. — Anch’io sono stato crocifisso.
Sol ripensò alla storia di Lenar Hoyt su Duré: l’anziano gesuita che s’in-chiodava da sé a un albero tesla e sopportava anni di sofferenza e di rinascita piuttosto che arrendersi al parassita DNA, allo stesso crucimorio che in quel momento gli scavava le carni.
Duré abbassò il viso. — Non ci fu alcun benvenuto di un Padre celeste
— disse a bassa voce. — Nessuna assicurazione che il dolore e il sacrificio fossero serviti a qualcosa. Solo sofferenza. Sofferenza e tenebre e di nuovo sofferenza.
Sol smise di accarezzare la schiena della piccina. — E questo le ha fatto perdere la fede?
Duré lo guardò in viso. — Al contrario, mi ha fatto sentire che la fede è sempre più essenziale. Sofferenza e tenebre sono state la nostra sorte fin dalla Caduta dell’Uomo. Ma dev’esserci una speranza di salire a un livello più alto… una speranza che la consapevolezza si evolva su un piano più benevolo del proprio contrappunto di un universo legato all’indifferenza.
Sol annuì lentamente. — Ho fatto un sogno, durante la lunga battaglia di Rachel con il morbo di Merlino… e mia moglie Sarai ha fatto lo stesso sogno: ero chiamato a sacrificare la mia unica figlia.
— Sì — disse Duré. — Ho ascoltato gli appunti del Console.
— Allora conosce già la mia risposta — disse Sol. — Primo, che non è più possibile seguire come Abramo il sentiero dell’ubbidienza, anche se esiste un Dio che la pretende. Secondo, che per troppe generazioni abbiamo offerto sacrifici a questo Dio: il pagamento in sofferenza deve terminare.
— Eppure lei è qui — disse Duré, con un gesto che comprendeva la valle, le Tombe, la notte.
— Sono qui — ammise Sol. — Ma non per strisciare nella polvere. Per scoprire quale risposta i poteri daranno alla mia decisione. — Riprese a carezzare la schiena della figlia. — Rachel ha un giorno e mezzo, diventa più giovane a ogni secondo. Se lo Shrike è l’architetto di questa crudeltà, voglio affrontarlo, anche se è davvero il suo Anticristo. Se c’è un Dio e se ha fatto una cosa simile, mostrerò lo stesso disprezzo verso di lui.
— Forse tutti abbiamo mostrato troppo disprezzo, all’atto pratico — disse pensierosamente Duré.
Sol alzò gli occhi, mentre nello spazio remoto una decina di puntini di luce vividissima si espandeva nelle increspature e nelle onde d’urto di e-
splosioni al plasma. — Mi piacerebbe avere la tecnologia per combattere Dio alla pari — disse in tono basso e leggero. — Prenderlo per la barba nel suo stesso covo. Ripagarlo di tutte le ingiustizie accumulate sull’umanità.
Fargli passare l’arroganza, o altrimenti sbatterlo all’inferno.
Padre Duré inarcò il sopracciglio, poi abbozzò un sorriso. — So quale rabbia prova. — Toccò con gentilezza la testolina di Rachel. — Cerchiamo di dormire un poco, prima dell’alba. D’accordo?
Sol annuì, si distese accanto alla figlia e si tirò la coperta fino alla guancia. Duré mormorò qualcosa che poteva essere un buonanotte sottovoce o forse una preghiera.
Sol sfiorò la figlia, chiuse gli occhi e si addormentò.
Lo Shrike non venne, durante la notte. Né venne il mattino seguente, quando la luce del sole dipinse le pareti di roccia a sudovest e toccò la cima del Monolito di Cristallo. Sol si svegliò quando la luce del sole strisciò nella valle; Duré dormiva accanto a lui, Masteen e Brawne erano ancora privi di sensi. Rachel si agitava, inquieta. Il pianto era quello di una neonata affamata. Sol le diede una delle ultime confezioni nutripac. Durante la notte il freddo era sceso nella valle e la brina luccicava sugli scalini della Sfinge.
Rachel mangiò avidamente. Sol le fece fare il ruttino e se la portò alla spalla, cullandola teneramente.
Ancora un giorno e mezzo.
Sol era stanchissimo. Diventava vecchio, anche se dieci anni prima si era sottoposto a un trattamento Poulsen. Al tempo in cui lui e Sarai sarebbero stati normalmente liberi dai doveri paterni e materni (la loro unica figlia era all’università e partecipava a una missione di scavi archeologici nel mondi periferici), Rachel aveva contratto il morbo di Merlino e loro due avevano dovuto affrontare di nuovo i doveri del genitore. La curva di questi doveri si alzava, mentre Sol e Sarai invecchiavano… e poi Sol invecchiava da solo, dopo l’incidente… e adesso lui era molto, molto stanco.
Nonostante la stanchezza, nonostante tutto, Sol notò con interesse di non rimpiangere un solo giorno di cure prestate alla figlia.
Ancora un giorno e mezzo.
Dopo un poco, padre Duré si svegliò e i due fecero colazione con i vari cibi in scatola portati da Brawne. Het Masteen non si svegliò, ma Duré gli applicò il penultimo medipac: il Templare cominciò a ricevere liquidi e prodotti nutritivi per via endovenosa.
— Non bisognerebbe applicare l’ultimo alla signora Lamia? — domandò Duré.
Sol sospirò e controllò di nuovo i monitor del comlog della donna. —
Non credo, Paul. Secondo questi dati, lo zucchero nel sangue è alto… i livelli nutritivi sembrano quelli di chi ha appena consumato un pasto normale.
— Com’è possibile?
Sol scosse la testa. — Forse quella maledetta roba è una sorta di cordone ombelicale. — Indicò il cavo saldato al cranio dove fino al giorno prima c’era la presa dello shunt neurale.
— Allora, oggi cosa facciamo?
Sol scrutò il cielo che già si schiariva e diventava la volta verde e azzurra a cui si erano abituati su Hyperion. — Aspettiamo — rispose.
Het Masteen si svegliò nel calore del giorno, poco prima che il sole arrivasse allo zenit. Si drizzò a sedere e disse: — L’Albero!
Duré, che passeggiava alla base della Sfinge, risalì in fretta i gradini.
Sol, che aveva disteso Rachel all’ombra accanto alla parete, prese in braccio la figlia e accorse al fianco di Masteen. Il Templare fissava qualcosa al di sopra delle pareti di roccia. Sol guardò da quella parte, ma vide solo il cielo che sbiadiva.
— L’Albero! — gridò di nuovo il Templare. Sollevò la mano irruvidita.
Duré lo tenne fermo. — Ha le allucinazioni — disse. — Crede di vedere la Yggdrasill, la sua nave-albero.
Het Masteen si dimenò per liberarsi. — No, non la Yggdrasill — ansimò, con labbra secche e screpolate. — L’Albero. L’Albero Finale. L’Albero della Sofferenza!
Allora gli altri due guardarono insieme, ma il cielo era sereno, a parte batuffoli di nuvole in arrivo da sudovest. In quel momento ci fu un rigurgi-to di maree del tempo e Sol e il prete chinarono la testa per l’improvvisa vertigine. Passò presto.
Het Masteen cercava di tirarsi in piedi. Continuava a fissare un punto remoto. La pelle era tanto calda da scottare le mani di Sol.
— Prenda l’ultimo medipac — disse, brusco. — Programmi ultramorfina e antistaminico. — Duré si affrettò a ubbidire.
— L’Albero della Sofferenza! — riuscì a dire Het Masteen. — Sarei stato la sua Voce! L’erg l’avrebbe mosso attraverso lo spazio e il tempo! Il Vescovo e la Voce del Grande Albero hanno scelto proprio me! Non posso deluderli. — Per un secondo si dimenò per liberarsi della stretta di Sol, poi crollò disteso sulla veranda di pietra. — Sono il Vero Prescelto — mormorò, svuotandosi di energie come un pallone si svuota d’aria. — Devo guidare l’Albero della Sofferenza nel tempo della Redenzione. — Chiuse gli occhi.
Duré gli applicò l’ultimo medipac, si accertò che il monitor fosse predisposto per le peculiarità metaboliche e chimiche dei Templari, e mise in funzione l’adrenalina e gli analgesici. Sol si accostò a Het Masteen.
— Questa non è terminologia né teologia dei Templari — disse Duré. —
È il linguaggio del Culto Shrike. — Guardò Sol negli occhi. — Così si spiega una parte del racconto di Brawne. Per chissà quale ragione, i Templari sono in combutta con la Chiesa della Redenzione Finale… il Culto Shrike.
Sol annuì, agganciò al polso di Masteen il proprio comlog e regolò il monitor.
— L’Albero della Sofferenza è di certo il leggendario albero di spine dello Shrike — borbottò Duré, con un’occhiata al punto del cielo vuoto che Masteen aveva continuato a fissare. — Ma cosa significa che lui e l’erg erano stati scelti per spingerlo attraverso lo spazio e il tempo? Avrà creduto davvero di pilotare l’albero dello Shrike come i Templari pilotano le navi-albero? Perché?
— Dovrà domandarglielo nell’altra vita — disse stancamente Sol. — È
morto.
Duré controllò i monitor, aggiunse il comlog di Hoyt a quelli già collegati al Templare. Provarono a usare gli stimolanti del medipac, la rianima-zione cardiopolmonare, la respirazione bocca a bocca. Le spie dei monitor non reagirono. Senza ombra di dubbio, Het Masteen, Vera Voce Templare dell’Albero e Pellegrino allo Shrike, era morto.
Aspettarono un’ora, diffidando di qualsiasi cosa, in quella perversa valle dello Shrike; ma quando i monitor segnalarono che il cadavere iniziava a decomporsi rapidamente, seppellirono Het Masteen in una fossa poco profonda, cinquanta metri più su lungo il sentiero, verso l’imboccatura della valle. Kassad aveva lasciato una pala pieghevole, etichettata come “attrez-zo da trincea” nel gergo della FORCE, e loro due lavorarono a turno: uno scavava, l’altro teneva d’occhio Rachel e Brawne Lamia.
Poi rimasero in piedi, Sol con in braccio la piccina, all’ombra di un masso, mentre Duré diceva qualche parola, prima di lasciar cadere il terriccio sul sudario di fortuna ricavato da un telo di fibroplastica.
— Non conoscevo veramente il signor Masteen — disse il prete. — Non eravamo della stessa fede. Ma eravamo della stessa professione; la Voce dell’Albero Masteen passò gran parte della vita a fare ciò che riteneva opera di Dio, perseguendo la volontà di Dio negli scritti del Muir e nelle bel-lezze della natura. La sua era vera fede… messa alla prova dalle difficoltà, temprata dall’ubbidienza e, alla fine, consacrata dal sacrificio.
Duré s’interruppe e fissò a occhi socchiusi il cielo che si era schiarito in un bagliore di bronzo. — Ti prego, Signore, accogli il Tuo servo. Dagli il benvenuto nelle Tue braccia, come un giorno farai con noi, che Ti abbiamo cercato e abbiamo smarrito la strada. In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, amen.
Rachel cominciò a piangere. Sol passeggiò cullandola, mentre Duré spa-lava terra sul fagotto di fibroplastica a forma di uomo.
Tornarono sulla veranda della Sfinge e spostarono Brawne nel poco d’ombra che restava. Non era possibile ripararla dal sole al tramonto, a meno di portarla dentro la tomba, cosa che nessuno dei due voleva fare.
— Ormai il Console sarà più che a metà strada — disse il prete, dopo avere bevuto un lungo sorso d’acqua. Aveva la fronte bruciata dal sole e velata di sudore.
— Sì — disse Sol.
— Domani a quest’ora dovrebbe essere di ritorno. Useremo cesoie a laser per liberare Brawne e la metteremo nello scomparto chirurgico della nave. Forse sarà possibile arrestare il ringiovanimento di Rachel mettendo-la in crio-fuga, anche contro il parere dei medici.
— Sì.
Duré abbassò la bottiglia d’acqua e guardò Sol. — Crede che accadrà così?
Sol gli restituì lo sguardo. — No — disse.
Dalle pareti di roccia di sudovest le ombre si allungarono. Il calore del giorno si rapprese in una cosa solida, poi si dissipò un poco. Da sud arrivarono delle nuvole.
Rachel dormiva nell’ombra accanto al vano della porta. Sol si accostò a Paul Duré che fissava la valle e gli posò la mano sulla spalla. — A cosa pensa, amico mio?
Duré non si girò. — Se non fossi convinto che il suicidio è davvero un peccato mortale, allora porrei termine a tutto per dare al giovane Hoyt una possibilità di vivere. — Guardò Sol e mostrò una parvenza di sorriso. —
Ma è davvero suicidio, se questo parassita che ho sul petto… un tempo sul petto di Hoyt… un giorno mi trascinasse, urlante e scaldante, alla mia stessa risurrezione?
— Sarebbe un dono, per Hoyt, riportarlo allo stato precedente? — disse Sol, a voce bassa.
Per un momento Duré rimase in silenzio. Poi gli strinse il braccio. —
Vado a fare due passi — disse.
— Dove? — Sol fissò a occhi socchiusi la densa caligine pomeridiana sul deserto. Anche sotto la bassa coltre di nuvole, la valle era un forno.
— Giù nella valle — rispose il prete, con un gesto vago. — Tornerò presto.
— Faccia attenzione — disse Sol. — E ricordi che il Console, se s’im-batte in uno skimmer di pattuglia lungo l’Hoolie, potrebbe tornare oggi pomeriggio.
Duré annuì, andò a prendere una bottiglia d’acqua e a fare una carezza a Rachel, poi scese la lunga scalinata della Sfinge, attento a dove metteva i piedi, come un uomo molto, molto vecchio.
Sol lo guardò allontanarsi, diventare una figura sempre più piccola, distorta dalle ondate di calore e dalla distanza. Con un sospiro tornò a sedersi accanto alla figlia.
Paul Duré cercò di tenersi all’ombra, ma anche lì il caldo opprimente pe-sava come un enorme giogo sulle spalle. Il prete oltrepassò la Tomba di Giada e seguì il sentiero verso le pareti nord e l’Obelisco. La sottile ombra di questa tomba disegnava una macchia scura sulla pietra rosea e sulla polvere del fondovalle. Duré proseguì in discesa, attraversò con prudenza i detriti intorno al Monolito di Cristallo e lanciò un’occhiata in alto: un vento pigro muoveva i vetri in frantumi e sibilava tra le fessure nella parte superiore della facciata della tomba. Duré vide il proprio riflesso nella parte inferiore e ricordò quando aveva udito il suono d’organo del vento della sera che s’alzava dalla Fenditura, nell’altopiano Punta d’Ala, dove aveva trovato i Bikura. Gli parve che fosse accaduto intere vite prima. Ed era vero, alla lettera!
Duré sentì i danni che la ricostruzione del crucimorfo aveva provocato alla mente e alla memoria. Dava la nausea… l’equivalente di un collasso cardiaco senza speranza di guarigione. Ragionamenti che un tempo sarebbero stati per lui gioco da ragazzi ora richiedevano estrema concentrazione oppure trascendevano semplicemente le sue capacità. Le parole gli sfuggi-
vano. Le emozioni lo strattonavano con la stessa improvvisa violenza delle maree del tempo. Varie volte era stato costretto a lasciare gli altri pellegrini e mettersi in un canto a piangere in solitudine, per ragioni che non riusciva a capire.
Gli altri pellegrini. Ora rimanevano soltanto Sol e la piccina. Padre Duré avrebbe dato volentieri la propria vita, in cambio della loro. Era peccato, si domandò, pensare a patti con l’Anticristo?
Si era inoltrato di parecchio nella valle, quasi fino alla curva verso est, nell’ampio cul-de-sac dove il Palazzo dello Shrike gettava sulla roccia il suo labirinto d’ombre. Il sentiero deviava verso la parete di nordovest e passava davanti alle Grotte. Dalla prima usciva aria fresca e Duré fu tentato di entrare anche solo per riprendersi dal caldo, chiudere gli occhi e schiacciare un pisolino.
Continuò a camminare.
L’ingresso della seconda tomba aveva un numero maggiore di sculture barocche; a Duré ricordò l’antica basilica scoperta nella Fenditura… l’enorme croce e l’altare dove i Bikura avevano “adorato”. Adoravano l’osce-na immortalità del crucimorfo, non la possibilità della vera Risurrezione promessa dalla Croce. Ma qual era, la differenza? Duré scosse la testa, cercò di eliminare la nebbia e il cinismo che gli rannuvolavano ogni pensiero.
Il sentiero deviò più in alto, al di là della terza Grotta, la più bassa e insignificante delle tre.
C’era una luce, dentro la terza Grotta.
Duré si fermò, trasse un respiro, lanciò un’occhiata nella valle. La Sfinge era visibilissima, quasi un chilometro più indietro, ma Duré non riuscì a distinguere Sol, nelle ombre. Per un momento si domandò se era stata proprio la terza tomba, quella in cui si erano rifugiati il giorno prima… e se uno di loro vi avesse lasciato una lanterna.
Non era stata la terza Tomba. Tranne che per cercare Kassad, nessuno era entrato lì, negli ultimi tre giorni.
Padre Duré capì che avrebbe dovuto ignorare la luce, tornare da Sol, continuare la vigilia con lui e la figlia.
“Ma lo Shrike è venuto a ciascuno degli altri, separatamente. Perché dovrei rifiutare la convocazione?”
Duré sentì l’umido sulla guancia e si rese conto di piangere in silenzio, senza accorgersene. Bruscamente, col dorso della mano, si asciugò le lacrime e rimase lì, a pugni serrati.
“L’intelligenza era la mia vanità maggiore. Ero il gesuita intellettuale, saldo nella tradizione di Teilhard e di Prassard. Anche la teologia spacciata alla Chiesa, ai seminaristi, ai pochi fedeli che ancora ascoltavano, ha ac-centuato la mente, quel meraviglioso Punto Omega della consapevolezza.
Dio è un algoritmo intelligente.
“Be’, ci sono cose al di là dell’intelligenza, Paul.”
Duré entrò nella terza Grotta.
Sol si svegliò di soprassalto, convinto che qualcuno strisciasse verso di lui.
Balzò in piedi e si guardò intorno. Rachel piagnucolò, svegliandosi dal sonno nello stesso momento del padre. Brawne Lamia giaceva, immobile, dove l’avevano lasciata, con le spie mediche che brillavano sempre di luce verde, mentre il segnalatore di attività cerebrale era rosso intenso.
Sol aveva dormito almeno un’ora; le ombre erano strisciate sul fondo della valle e solo la sommità della Sfinge era ancora illuminata dal sole che filtrava tra gli squarci delle nuvole. Gli ultimi raggi entravano obliquamen-te dall’imboccatura della valle e illuminavano le scarpate opposte. Il vento cominciava ad alzarsi.
Ma niente si muoveva, nella valle.
Sol prese in braccio Rachel, la cullò, scese di corsa i gradini, guardò dietro la Sfinge e verso le altre Tombe.
— Paul! — Il richiamo rimbalzò contro le rocce. Il vento sollevò polvere al di là della Tomba di Giada, ma nient’altro si mosse. Sol aveva ancora l’impressione che qualcosa gli si avvicinasse di nascosto: si sentiva osservato.
Rachel strillò e si agitò, con la voce acuta di una bimba appena nata. Sol diede un’occhiata al comlog. Un’ora dopo Rachel avrebbe avuto un giorno esatto. Sol esaminò il cielo, cercandovi la nave del Console; imprecò sottovoce contro se stesso e tornò all’entrata della Sfinge per cambiare il pannolino alla piccina, controllare Brawne, prendere dallo zaino un nutripac e un mantello. La temperatura si abbassava in fretta, calato il sole.
Nella mezz’ora di crepuscolo che restava, Sol percorse velocemente la valle, gridando il nome di Duré e scrutando dentro le Tombe, senza entrare. Oltrepassò la Tomba di Giada, dove Hoyt era stato assassinato, le cui pareti già cominciavano a splendere di verde latteo. Oltrepassò lo scuro Obelisco, la cui ombra arrivava in alto nella parete di roccia di sudest. Oltrepassò il Monolito di Cristallo, la cui parte superiore rifletteva le ultime luci dei giorno e divenne opaca quando il sole calò al di là della Città dei Poeti. Nel fresco improvviso e nel silenzio della sera oltrepassò le Grotte e gridò all’ingresso di ciascuna; sul viso l’aria umida gli parve il freddo alito di una bocca spalancata.
Nessuna risposta.
Sul finire del crepuscolo, Sol oltrepassò la curva della valle che portava al guazzabuglio di lame e di bastioni del Palazzo dello Shrike, tenebroso e sinistro nel buio sempre più fitto. Si fermò all’ingresso, cercando di ricavare un senso dalle ombre color inchiostro, dalle guglie, falsi puntoni, pilastri; gridò nell’interno buio. Solo l’eco rispose. Rachel ricominciò a piangere.
Preso dai brividi, con un senso di gelo alla base della nuca, girandosi di continuo per sorprendere l’invisibile osservatore e scorgendo solo ombre sempre più fitte e le prime stelle della sera Ira gli squarci delle nuvole, Sol si affrettò a ripercorrere la valle in direzione della Sfinge, dapprima a passo veloce e poi quasi di corsa al di là della Tomba di Giada, mentre il vento della sera sibilava come un bimbo che strillasse.
— Maledizione! — ansimò Sol, quando arrivò al gradino superiore della Sfinge. Brawne Lamia era scomparsa. Non c’era segno del corpo, né del cordone ombelicale metallico.
Imprecando, reggendo forte Rachel, Sol frugò nello zaino alla ricerca della torcia elettrica.
Nel corridoio centrale, dopo dieci metri, trovò la coperta in cui aveva avvolto Brawne. A parte questo, niente. I corridoi si ramificarono e si cur-varono, ora allargandosi, ora restringendosi, mentre il soffitto si abbassò al punto che Sol fu costretto a strisciare, sorreggendo col braccio destro la piccina in modo da averne la guancia contro la propria. Non gli piaceva affatto trovarsi in quella tomba. Il cuore gli batteva con tanta forza che a tratti Sol si aspettava quasi di avere un infarto.
L’ultimo corridoio si restrinse nel nulla. Dove prima il cavo metallico serpeggiava nella pietra, adesso c’era solo pietra.
Sol resse fra i denti la torcia elettrica e diede una manata alla roccia, spinse pietre grosse come case, come se dovesse aprire un passaggio segreto, portare alla luce tunnel nascosti.
Niente.
Tenne stretta Rachel e incominciò la strada del ritorno; sbagliò alcune svolte, e sentì il cuore battere all’impazzata quando credette di essersi smarrito. Poi si trovò in un corridoio che riconobbe, da lì passò nel corridoio principale, infine fu all’esterno.
Scese la scalinata e portò la piccina lontano dalla Sfinge. Si fermò all’imboccatura della valle, si sedette sopra una pietra e riprese fiato a grandi boccate. Rachel gli appoggiava ancora al collo la guancia, ma era silenziosa, non si muoveva, a parte il lieve arricciare di dita contro la barba.
Alle spalle di Sol il vento soffiava dalle lande deserte. In alto le nuvole si aprirono e poi si richiusero: nascosero le stelle, per cui l’unica luce proveniva dai riflessi malati delle Tombe del Tempo. Sol temette che il folle battito del proprio cuore spaventasse la piccina, ma Rachel continuò a star-sene rannicchiata beatamente contro di lui e il tepore del corpicino era una sensazione rassicurante.
— Maledizione — mormorò Sol. Aveva provato simpatia per Brawne.
Aveva provato simpatia per tutti i pellegrini. E adesso erano scomparsi. I decenni di insegnamento avevano condizionato Sol a cercare negli eventi uno schema, un granello morale nella pietra formatasi per concrezione d’esperienza; ma non c’erano schemi, negli eventi su Hyperion… solo confusione e morte.
Sol cullò la piccina e guardò le lande desolate, meditando se gli conve-niva abbandonare immediatamente la valle, camminare fino alla città morta o a Castel Crono… camminare a nordovest verso il Litorale o a sudest dove la Briglia incrociava il mare. Si portò al viso la mano tremante e si strofinò la guancia; non ci sarebbe stata salvezza, nelle terre desolate. Abbandonare la valle non aveva salvato Martin Sileno. La presenza dello Shrike era stata segnalata molto a sud della Briglia, addirittura a Endymion e nelle altre città meridionali; anche se il mostro li avesse risparmiati, la fame e la sete non avrebbero avuto pietà. Sol poteva sopravvivere nutren-dosi di piante, di piccoli roditori, di neve disciolta… ma la scorta di latte per Rachel era limitata, anche considerando le provviste che Brawne aveva portato dal Castello. Ma, a quel punto, la scorta di latte non importava…
“Fra meno di un giorno, sarò da solo.” Sol soffocò un gemito, colpito da quel pensiero. La determinazione a salvare la figlia l’aveva spinto per venticinque anni e tre volte tanti anni-luce. La decisione di restituire a Rachel la vita e la salute era stata una forza quasi palpabile, una feroce energia condivisa con Sarai e tenuta viva nello stesso modo in cui un sacerdote protegge la sacra fiamma del tempio. No, perdio, c’era un disegno, nelle cose, un puntello morale per quella piattaforma di eventi all’apparenza accidentali; e Sol Weintraub avrebbe scommesso, su questa convinzione, la propria vita e quella della figlia.
Si alzò, percorse lentamente il sentiero fino alla Sfinge, salì la scalinata, trovò mantello termico e coperte, preparò sul gradino più alto un nido per sé e per la piccina, mentre i venti di Hyperion ululavano e le Tombe del Tempo brillavano con intensità maggiore.
Rachel giacque bocconi, la guancia contro la spalla del padre, le manine che si aprivano e si chiudevano, mentre lasciava il mondo per la terra del sonno dei bambini. Sol udì il debole respiro, mentre la piccina passava a un sonno più profondo, udì i lievi gemiti, mentre formava bollicine di saliva. Dopo un poco, anche lui allentò la stretta sul mondo e si unì a lei nel sonno.
30
Sol sognò il sogno che lo tormentava dal giorno in cui Rachel aveva contratto il morbo di Merlino. Camminava in un vasto edificio dove colonne grandi come sequoie si inalzavano nella penombra e una luce color carminio cadeva in solidi raggi da un imprecisato punto in alto. Ci fu il rumore di una gigantesca esplosione, di interi mondi in fiamme. Di fronte a lui si accesero due ovali del rosso più intenso.
Sol riconobbe il luogo. Sapeva che più avanti avrebbe trovato un altare su cui era distesa Rachel, Rachel adulta, priva di sensi. Poi sarebbe giunta la Voce, a ordinare.
Sol si fermò sulla balconata e fissò in basso la scena ben nota. Sua figlia, la donna che lui e Sarai avevano salutato alla partenza della missione di ricerca sul remoto Hyperion, giaceva nuda sopra un largo blocco di pietra.
In alto fluttuavano due ovali di un rosso intensissimo, gli occhi dello Shrike. Sull’altare c’era un lungo coltello ricurvo, d’osso affilato. Allora giunse la Voce:
“Sol! Prendi tua figlia, la tua unica figlia Rachel da te amata; vai sul mondo chiamato Hyperion e offrila come olocausto, in uno dei luoghi che ti dirò.”
Sol si sentì tremare le braccia, per la furia e per il dolore. Si strappò i capelli e gridò nel buio, ripetendo le parole che aveva già detto a quella voce:
“Non ci saranno più offerte, né di figli né di genitori. Non ci saranno più sacrifici. Il tempo dell’ubbidienza e della redenzione è finito. O ci aiuti da amico, oppure vattene via.”
Nei sogni precedenti, seguiva il rumore del vento, un senso di solitudine, orribili passi che s’allontanavano nel buio. Ma questa volta il sogno continuò, l’altare scintillò e a un tratto fu vuoto, a parte il coltello d’osso. In alto, gli ovali rossi fluttuavano ancora, rubini di fuoco grossi come pianeti.
“Sol, ascolta” riprese la Voce, ora modulata in modo da non echeggiare dall’alto, ma che quasi gli bisbigliava all’orecchio. “Il futuro dell’umanità dipende dalla tua scelta. Non puoi offrire Rachel per amore, se non per ubbidienza?”
Sol udì nella mente la risposta nello stesso momento in cui brancolava cercando le parole. Non ci sarebbero state altre offerte. Non oggi. Né mai.
L’umanità aveva patito abbastanza, per amore di dèi, per la lunga ricerca di Dio. Sol pensò ai molti secoli in cui il suo popolo, gli ebrei, avevano pat-teggiato con Dio, lamentandosi, litigando, denunciando l’ingiustizia delle cose, ma sempre - sempre - tornando all’ubbidienza a ogni costo. Generazioni morenti nei forni dell’odio. Future generazioni segnate dai fuochi freddi delle radiazioni e dell’odio rinnovato.
Non stavolta. Mai più.
— Rispondi di sì, papà.
Sol sobbalzò al tocco di una mano. Sua figlia, Rachel, gli era accanto, né neonata né adulta, ma la bambina di otto anni che aveva conosciuto due volte, mentre cresceva e mentre ringiovaniva per il morbo di Merlino: Rachel con i capelli castano chiaro legati sulla nuca in una semplice treccina, figuretta piccola nella tuta da gioco di denim scolorito e scarpe da ginna-stica.
Sol le prese la mano, la strinse più forte che poteva ma senza farle male, sentì la stretta di risposta. Non era illusione, non era l’ultima crudeltà dello Shrike. Quella era proprio sua figlia.
— Rispondi di sì, papà.
Sol aveva risolto il dilemma di Abramo sull’ubbidienza a un Dio diventato maligno. L’ubbidienza non poteva più essere d’importanza capitale nella relazione fra l’umanità e il suo Dio. Ma se il figlio scelto come vittima sacrificale chiedeva l’ubbidienza al capriccio di quel Dio?
Sol piegò il ginocchio accanto alla figlia e aprì le braccia. — Rachel.
Rachel si strinse contro di lui, con l’energia che Sol ricordava in innumerevoli abbracci d’amore intenso. Gli mormorò all’orecchio: — Per favore, papà, dobbiamo rispondere di sì.
Sol continuò a tenerla stretta, sentendo intorno a sé le braccine e contro la guancia il tepore della sua. Pianse in silenzio, sentì l’umido sulle guance e nella barba, ma non voleva lasciare la figlia nemmeno per il secondo necessario ad asciugarsi le lacrime.
— Ti voglio bene, papà — mormorò Rachel.
Allora Sol si alzò, si passò sul viso il dorso della mano, si asciugò le lacrime; strinse con forza la sinistra di Rachel e iniziò con lei la lunga discesa verso l’altare.
Sol si svegliò con l’impressione di cadere e cercò di afferrare la piccina.
Rachel gli dormiva sul petto, con i piccoli pugni chiusi, il pollice in bocca; ma quando Sol si drizzò, lei si svegliò e inarcò istintivamente la schiena, con lo strillo e la reazione del neonato sorpreso. Sol si tirò in piedi, lasciò cadere intorno a sé coperte e mantello, si strinse forte Rachel al petto.
Era giorno. Tardo mattino, sembrava. Avevano dormito, mentre la notte moriva e la luce del sole strisciava nella valle e sulle Tombe. La Sfinge se ne stava acquattata sopra di loro, simile a un animale da preda, con le zampe possenti distese ai lati della scalinata.
Rachel si mise a piangere, con il visetto congestionato per la sorpresa del risveglio, la fame, la sensazione di paura che percepiva nel padre. Sol la cullò, in piedi sotto il sole cocente. Salì sull’ultimo gradino della Sfinge, cambiò alla figlia il pannolino, scaldò uno degli ultimi nutripac e le diede il biberon finché il pianto non si mutò in poppata, poi le fece fare il ruttino e passeggiò cullandola, finché Rachel non tornò a scivolare nel sonno.
Mancavano meno di dieci ore alla “nascita”. Meno di dieci ore al tramonto e agli ultimi minuti di vita di Rachel. Sol desiderò, non per la prima volta, che la Tomba del Tempo fosse un enorme edificio di cristallo sim-boleggiante il cosmo e la divinità che lo governava: allora l’avrebbe preso a sassate fino a non lasciare intatto nemmeno un vetro.
Provò a ricordare i particolari del sogno, ma il tepore e il senso di rassi-curazione che ne aveva tratto andarono a brandelli sotto la luce cruda del sole di Hyperion. Ricordò solo la supplica che Rachel gli aveva mormorato. Al pensiero di offrire sua figlia allo Shrike, si sentì contorcere d’orrore le viscere. — Va tutto bene — bisbigliò a Rachel, mentre lei si agitava e con un sospiro tornava nell’infido riiugio del sonno. — Va tutto bene, piccolina. La nave del Console arriverà presto. Sarà qui da un momento all’altro.
La nave del Console non arrivò a mezzogiorno. La nave del Console non arrivò nel pomeriggio. Sol camminò su e giù per la valle, chiamando coloro che erano scomparsi; cantò canzoni quasi dimenticate, quando Rachel si svegliò; la cullò con ninnenanne, quanto tornò a scivolare nel sonno. La bambina era davvero piccola e leggera: sei libbre e tre once, diciannove pollici alla nascita, ricordò Sol, sorridendo alle antiquate unità di misura della sua vecchia casa, il Mondo di Barnard.
Nel tardo pomeriggio si svegliò di soprassalto dal dormiveglia all’ombra della zampa protesa della Sfinge, e si alzò con Rachel in braccio, anche lei sveglia, mentre una nave spaziale descriveva un arco nella cupola del cielo blu lapislazzuli.
— È arrivata! — gridò; e Rachel si agitò quasi in risposta.
Una scia azzurra di fiamma di fusione brillò con l’intensità tipica delle navi spaziali nell’atmosfera. Sol saltellò su e giù, pieno di sollievo per la prima volta in molti giorni. Gridò e saltò finché Rachei pianse e strillò, preoccupata. Sol si fermò, sollevò in alto la figlia, pur sapendo che lei ancora non poteva mettere a fuoco la vista ma desiderando che vedesse la bellezza della nave che scendeva, che tracciava un arco sopra la lontana catena di montagne, che cadeva verso il deserto.
— C’è riuscito! — gridò Sol. — Arriva! La nave…
Tre colpi sordi colpirono la valle quasi nello stesso istante; i primi due erano i rimbombi sonici dell‘“orma” della nave spaziale che decelerava. Il terzo era il rombo della sua distruzione.
Sotto gli occhi di Sol, il puntino luminoso all’apice della lunga coda di fusione divenne all’improvviso abbagliante come il sole, si dilatò in una nube di fiamme e di gas ribollenti, precipitò in diecimila pezzi incande-scenti sul deserto lontano. Sol batté le palpebre per eliminare gli echi retinici, mentre Rachel continuava a piangere.
— Dio mio — mormorò Sol. — Dio mio. — Impossibile negare che l’a-stronave fosse completamente distrutta. Esplosioni secondarie sconvolsero l’aria, anche da trenta chilometri di distanza, quando i rottami caddero lasciando scie di fumo e di fiamme, verso il deserto, le montagne e il mare d’Erba più in là. — Dio mio!
Sol si sedette sulla sabbia calda. Era troppo esausto per piangere, troppo svuotato per fare qualsiasi cosa se non cullare la figlia finché non si fu calmata.
Dicci minuti dopo, altre due scie di fusione bruciarono il cielo, dirette a sud dallo zenit. Una esplose, troppo lontano perché il rumore giungesse fino a Sol. L’altra cadde fuori vista dietro la parete rocciosa meridionale, al di là della Briglia.
— Forse non era il Console — mormorò Sol. — Potrebbe trattarsi dell’invasione Ouster. Forse la nave del Console verrà ancora a prenderci.
Ma la nave non arrivò, nel tardo pomeriggio. E non era ancora giunta, quando la luce del piccolo sole di Hyperion illuminò la parete di roccia, mentre le ombre si allungavano sugli scalini più alti delia Sfinge. E non venne, quando la valle fu tutta in ombra.
Rachel era nata da meno di trenta minuti. Sol controllò il pannolino, lo trovò asciutto; le diede l’ultimo nutripac. Mentre poppava, Rachel lo guardò, con i grandi occhi scuri, come se cercasse il suo viso. Sol ricordò i primi minuti in cui l’aveva tenuta in braccio, mentre Sarai riposava sotto coperte calde; anche allora gli occhi della neonata avevano bruciato i suoi con le stesse domande e con lo stesso stupore nel vedere un mondo simile.
Il vento della sera portò nuvole che si muovevano rapidamente sopra la valle. Da sudovest giunsero dei rombi, prima come tuono lontano, poi con la nauseante regolarità dell’artiglieria: quasi sicuramente esplosioni nucleari o al plasma, a cinquecento o più chilometri verso sud. Sol scrutò il cielo fra le nuvole sempre più basse e colse fuggevoli immagini di scie meteoriche infuocate: missili balistici o navette, probabilmente.
Sol non vi badò. Cantò piano a Rachel, mentre finiva di darle da mangiare. Era andato all’imboccatura della valle, ma ora tornò lentamente alla Sfinge. Le Tombe brillavano come non mai, increspate dalla cruda luce di neon eccitato da elettroni. Gli ultimi raggi del sole mutarono le nuvole in un soffitto di fiamme color pastello.
Mancavano meno di tre minuti alla celebrazione finale della nascita di Rachel. Anche se la nave del Console fosse arrivata in quel momento, Sol non avrebbe avuto il tempo di salire a bordo né di mettere in crio-sonno la piccina.
Preferiva non pensarci.
Lentamente salì la scalinata della Sfinge: Rachel aveva fatto quella stessa strada, ventisei anni prima, senza sospettare il destino che l’attendeva in quella cripta tenebrosa.
Sol si fermò in cima all’ultimo gradino e prese fiato. La luce del sole era una cosa palpabile, riempiva il cielo e accendeva le ali e la parte superiore della Sfinge. La Tomba stessa sembrava rilasciare la luce immagazzinata, come le pietre del deserto di Hebron, dove Sol aveva vagato anni prima, cercando illuminazione e trovando solo dolore. L’aria brillava di luce, il vento diventava più forte, soffiava sabbia sul fondo della valle, poi si cal-mava.
Sull’ultimo gradino Sol piegò il ginocchio, tolse a Rachel la coperta, lasciò la piccina con la semplice veste di cotone da neonata. Una veste fatta di fasce.
Rachel si agitò fra le sue braccia. Il viso era paonazzo e lustro, le manine erano rosse per lo sforzo di stringersi e aprirsi. Sol la ricordava proprio così, quando il medico gliel’aveva data in braccio e lui aveva fissato la figlia appena nata proprio come la fissava adesso, prima di deporla sul ventre di Sarai in modo che anche lei la vedesse.
— Ah, Dio — mormorò. Piegò anche l’altro ginocchio. Adesso era davvero inginocchiato.
L’intera valle vibrò come per il tremito di un terremoto. Sol udiva vagamente le esplosioni che continuavano lontano verso sud. Ma era più colpito dal terribile bagliore della Sfinge. L’ombra di Sol balzò cinquanta metri dietro di lui giù per la scalinata e sul fondovalle, mentre la tomba pulsava e vibrava di luce. Con la coda dell’occhio Sol vide che le altre Tombe brillavano con uguale intensità: enormi, barocchi reattori negli ultimi istanti prima della fusione.
L’ingresso della Sfinge pulsò di blu, poi di viola, poi di un bianco terrificante. Dietro la Sfinge, sulla parete dell’altopiano sopra la Valle delle Tombe, un albero impossibile brillò dal nulla, un tronco gigantesco e affi-lati rami d’acciaio che si alzavano fra le nuvole rilucenti e ancora più in alto. Con una rapida occhiata, Sol vide spine lunghe tre metri e gli orribili frutti che portavano; poi tornò a guardare l’ingresso della Sfinge.
Da qualche parte il vento ululò e il tuono rombò. Da qualche parte la polvere vermiglia si alzò come una cortina di sangue secco nella terribile luce delle Tombe. Da qualche parte una voce mandò un grido e un coro urlò.
Sol non vi badò. Aveva occhi solo per il visetto della figlia e, dietro di lei, per le ombre che ora riempivano l’ingresso lucente della tomba.
Lo Shrike uscì. Con i suoi tre metri di mole e di lame d’acciaio, fu costretto a chinarsi per passare sotto l’architrave. Uscì sulla terrazza della Sfinge e venne avanti, parte creatura, parte statua, camminando con l’orribile determinazione di un incubo.
Dall’alto la luce morente guizzò sul carapace della creatura, ruscellò lungo la piastra pettorale ricurva e le spine d’acciaio che ne sporgevano, tremolò sulle dita a lama e sui bisturi che spuntavano da ogni giuntura. Sol strinse al petto Rachel, fissò le fornaci rosse e sfaccettate che passavano per gli occhi dello Shrike. Il tramonto svanì nel bagliore rosso sangue del sogno ricorrente di Sol.
Lo Shrike girò leggermente la testa, ruotandola senza attrito, di novanta gradi a destra, di novanta a sinistra, come se sorvegliasse il proprio domi-
nio.
Avanzò di tre passi, si fermò a meno di due metri da Sol. Le quattro braccia si sollevarono, snudarono le lame simili a dita.
Sol abbracciò più strettamente Rachel. La piccina aveva la pelle madida, il viso graffiato e macchiato dallo sforzo di nascere. Restava solo qualche secondo. Gli occhi si mossero separatamente, parvero mettersi a fuoco su Sol.
“Rispondi di sì, papà.” Sol ricordò il sogno.
Lo Shrike abbassò la testa, finché gli occhi di rubino non fissarono altro che Sol e sua figlia. Le fauci argento vivo si socchiusero, mostrarono strati di denti d’acciaio. Quattro mani si protesero, palmo metallico in alto, e si fermarono a mezzo metro dal viso di Sol.
“Rispondi di sì, papà.” Sol ricordò il sogno, ricordò l’abbraccio della figlia e capì che alla fine - quando tutto il resto è polvere - la lealtà nei confronti di chi amiamo è tutto quel che possiamo portare con noi nella fossa.
La fede, la vera fede, era la fiducia in questo amore.
Sol sollevò la figlia, appena nata e in punto di morte, qualche secondo appena, che ora strillava con il primo e ultimo fiato, e la tese allo Shrike.
L’assenza di quel piccolo peso colpì Sol con un’orribile vertigine.
Lo Shrike sollevò Rachel, indietreggiò di un passo, fu avviluppato di luce.
Dietro la Sfinge, l’albero di spine smise di tremolare, entrò in fase con l’adesso, fu orribilmente a fuoco.
Sol venne avanti, implorando a braccia tese, mentre lo Shrike arretrava nella luce e svaniva. Esplosioni incresparono le nuvole e sbatterono Sol in ginocchio, con la pressione delle onde d’urto.
Dietro Sol, intorno a Sol, le Tombe del Tempo si aprivano.