QUI GIACE UNO

 

IL CUI NOME FU SCRITTO SULL’ACQUA

Non sopportai di guardare i libri, di leggerli. Non dovevo farlo.

Da solo, nel silenzio e nel profumo di cuoio e di carta invecchiata della biblioteca, da solo nel santuario di me stesso e del mio opposto, chiusi gli occhi. Non dormii. Sognai.

33

L’analogo piano dati di Brawne Lamia e la personalità ricuperata del suo amante colpiscono la superficie della megasfera come due tuffatori quella di un mare turbolento. Provano uno choc quasi elettrico, l’impressione di avere varcato una membrana resistente, e sono all’interno; le stelle sono sparite, Brawne spalanca gli occhi e fissa un ambiente informatico infinitamente più complesso di qualsiasi sfera dati.

Le sfere dati percorse da operatori umani sono spesso paragonate a complesse città di informazioni: torri di dati aziendali e governativi, autostrade di flusso di processo, larghi viali di interazione di piano dati, sottopassi di percorso riservato, alte muraglie di ghiaccio di sicurezza con microfagi di guardia che s’aggirano in cerca di preda, e l’analogo visibile di ogni flusso e riflusso di microonda in base al quale vive una città.

La megasfera è di più. Molto di più.

Ci sono i soliti analoghi della città sfera dati, ma piccoli, così minuscoli, quasi rimpiccioliti dalla portata della megasfera, come lo sarebbero vere città di un mondo visto dall’orbita.

La megasfera, scopre Brawne, è viva e interagisce come la biosfera di qualsiasi mondo di classe-5: foreste d’alberi di dati color verde grigio crescono e prosperano, propagano nuove radici e rami e germogli perfino mentre lei guarda; intere microecologie di flusso dati e di IA di subroutine sbocciano, fioriscono e muoiono quando la loro utilità termina; sotto il mutevole terriccio fluido come oceano della matrice vera e propria, lavora un’affaccendata vita sotterranea di talpe dati, di vermi di collegamento trasmissioni, di batteri riprogrammatori, di radici d’albero di dati, di semi d’I-terazioni Bizzarre, mentre sopra, dentro, attraverso, sotto l’intricata foresta di fatti e interazioni, analoghi di predatori e di prede portano a termine i propri compiti misteriosi, planano e corrono, s’arrampicano e si urtano, alcuni veleggiano liberi nei grandi spazi fra sinapsi ramificate e foglie neu-roniche.

Con la stessa velocità con cui la metafora dà significato alla scena che Brawne vede, le immagini svaniscono e si lasciano dietro solo l’opprimen-te realtà analoga della megasfera: un vasto oceano interno di luce e di suono e di connessioni ramificate, intersecato di mulinelli di consapevolezza IA e di sinistri buchi neri di collegamenti teleporter. Brawne si sente sprofondare nella vertigine e si afferra con forza alla mano di Johnny, come una donna sul punto d’annegare si aggrapperebbe a un salvagente.

“Tutto a posto” le invia Johnny. “Non ti mollo. Reggiti a me.”

“Dove andiamo?”

“A trovare una cosa che ho dimenticato.”

“Mio… padre…”

Brawne si regge forte, mentre lei e Johnny sembrano scivolare più profondamente negli abissi amorfi. Imboccano un viale scarlatto e scorrevole di porta-dati sigillati; Brawne immagina che sia ciò che un globulo rosso vede nel viaggio lungo un vaso sanguigno affollato.

Pare che Johnny conosca il percorso; due volte lasciano la strada principale per seguire una diramazione meno ampia e molte altre Johnny deve scegliere fra viali che si biforcano. Lo fa con facilità, muove gli analoghi del loro corpo fra porta-piattini delle dimensioni di una piccola astronave.

Brawne cerca di ritrovare la metafora della biosfera, ma lì, dentro le diramazioni a molte vie, vede gli alberi e non la foresta.

Vengono spinti attraverso un’area dove le IA comunicano sopra di loro…

intorno a loro… come grandi eminenze grigie stagliate su di un formicaio affaccendato. Brawne ricorda il mondo natale della madre, Freeholm, la levigatezza da tavolo di biliardo della Grande Steppa, dove la tenuta di famiglia era l’unica in dieci milioni di acri di corta erba… ricorda le terribili tempeste autunnali di quel mondo, quando si fermava al limitare della tenuta, appena al di qua della bolla di protezione del campo di contenimento, e guardava stratocumuli scuri ammassarsi con una carica elettrica che le faceva rizzare i peli delle braccia in attesa del fulmini grandi come città, trombe d’aria che mulinavano e cadevano come i riccioli di Medusa da cui prendevano il nome, e dietro i tornado, nere muraglie di vento che cancel-lavano ogni cosa al loro passaggio.

Le IA sono peggio. Nella loro ombra, Brawne si sente meno che insignificante: essere insignificanti vorrebbe dire invisibilità; lei si sente anche fin troppo visibile, fin troppo parte delle terribili percezioni di quei giganti informi…

Johnny le stringe la mano e sono al di là, girano a sinistra e in basso lungo una diramazione più trafficata, poi cambiano direzione, la cambiano di nuovo, sembrano due fotoni fin troppo consapevoli, smarriti in un intrico di cavi a fibre ottiche.

Ma Johnny non si è smarrito. Le stringe la mano, compie un’ultima svol-ta in una profonda caverna azzurra priva di traffico e tira Brawne accanto a sé, mentre aumentano la velocità; giunzioni sinaptiche sfrecciano via e diventano indistinte; solo la mancanza di risucchio d’aria distrugge l’illusione di viaggiare a velocità supersonica su una folle autostrada.

All’improvviso c’è un rumore simile a quello di cascate convergenti, di treni a levitazione che perdono quota e strìdono lungo i binari, a velocità scandalosa. Brawne pensa di nuovo ai tornado di Freeholm, al ruggito dei riccioli di Medusa che si fanno strada verso di lei nel panorama piatto, strappando tutto; poi lei e Johnny si trovano in un gorgo di luce e di suoni e di sensazioni, due insetti che si agitano verso l’oblio del nero vortice più in basso.

Brawne cerca di urlare i propri pensieri, li urla davvero, ma niente può superare l’apocalittico fragore mentale; allora si aggrappa alla mano di Johnny e si affida a lui, anche quando cadono all’infinito in quel ciclone nero, anche quando l’analogo del corpo si torce e si deforma sotto pressioni da incubo, si lacera come merletto sotto la falce, finché non le restano soltanto i pensieri, la consapevolezza del proprio essere, il contatto con Johnny.

Poi superano quella zona, galleggiano quietamente in un ruscello di dati, ampio e azzurro, riprendono forma e si stringono luna all’altro, con quell’eccitante senso di liberazione che provano i canoisti sopravvissuti alle rapide e alla cascata; e quando Brawne finalmente si scuote, vede l’impossibile dimensione del nuovo ambiente, la portata di cose misurabile in anni-luce, la complessità che rende le precedenti occhiate della megasfera simili ai vaneggiamenti di un provinciale che abbia scambiato il vestibolo per il duomo. Pensa: “Questa è la megasfera centrale!”

“No, Brawne, è uno dei nodi periferici. Non più vicino al Nucleo del perimetro che abbiamo testato con BB Surbringer. Solo, ne vedi un numero maggiore di dimensioni. Una vista da IA, in un certo senso.”

Brawne guarda Johnny, si rende conto di vedere ora nell’infrarosso: tutt’e due sono bagnati dalla luce da termolampada delle lontane fornaci di stelle di dati. Johnny è sempre un bell’uomo.

“Manca ancora molto, Johnny?”

“No, ormai non manca molto.”

Si accostano a un altro vortice nero. Brawne si aggrappa al suo unico amore e chiude gli occhi.

Si trovano in uno spazio chiuso… una bolla di energia nera, più ampia di molti mondi. La bolla è trasparente; la confusione organica della megasfera cresce e cambia e conclude i suoi misteriosi affari, al di là della parete curva e scura dell’ovoide.

Ma a Brawne non interessa l’esterno. Il suo analogo rivolge ogni attenzione al megalito di energia, di intelligenza, di pura e semplice massa, che fluttua davanti a loro; davanti, sopra e sotto, in realtà: la montagna di luce pulsante e di energia tiene Johnny e Brawne nella sua stretta, li solleva per duecento metri sopra il fondo della bolla a forma di uovo e li lascia riposare sul “palmo” di uno pseudopodo dalla vaga forma di mano.

Il megalito li osserva. Non ha occhi in senso organico, ma Brawne sente l’intensità dello sguardo. Le ricorda la volta in cui ha fatto visita a Meina Gladstone nella Casa del Governo e il PFE ha rivolto su di lei la piena forza del suo sguardo di apprezzamento.

Brawne prova l’impulso improvviso di ridacchiare scioccamente: vede Johnny e se stessa come minuscoli Gulliver in visita per il tè a questo PFE

brobdingnagiano. Ma non si lascia andare, perché sente l’isterismo appena sotto la superficie, in attesa di mescolarsi ai singhiozzi, se solo permette alle emozioni di distruggere lo scarso senso di realtà che da a questa follia.

[Avete trovato la strada fin qui\ Non ero sicuro che avreste voluto/

potuto farlo]

Nella mente di Brawne, la “voce” del megalito è una conduzione ossea, basso profondo, di una grande vibrazione, più che una voce vera. Come ascoltare il rumore di un terremoto che macina montagne e accorgersi che forma parole.

La voce di Johnny è la stessa di sempre: calma, modulata, con una leggera cadenza che ora Brawne riconosce come quella dell’inglese delle Isole Britanniche della Vecchia Terra, e piena di convinzione.

“Non sapevo se sarei riuscito a trovare la strada, Ummon.”

[Tu ricordi/ inventi tieni a mente il mio nome]

“Non lo ricordavo, finché non l’ho pronunciato.”

[Il tuo corpo a tempo lento non c’è più]

“Sono morto due volte, da quando mi hai mandato alla nascita.”

[E hai imparato/ tenuto a mente disimparato qualcosa, da questo]

Con la destra Brawne stringe la mano di Johnny, con la sinistra il polso.

Senza dubbio stringe con troppa forza anche per un analogo, perché lui si gira con un sorriso e libera il polso.

“È duro, morire. Più duro, vivere.”

[Kwatz!]

Con questo epiteto esplosivo il megalito muta colori, energie interne passano dagli azzurri ai viola ai rossi accesi, la corona crepita dai gialli al biancazzurro di acciaio forgiato. Il “palmo” dove loro due riposano vibra e cade di cinque metri, rischia di mandarli a ruzzolare nello spazio, vibra di nuovo. Giunge il rombo di alti edifici che crollano, di fianchi di montagna che scivolano via come valanghe.

Brawne ha la netta impressione che Ummon rida.

Sopra quel caos, Johnny comunica a voce alta.

“Dobbiamo capire alcune cose. Dobbiamo avere delle risposte, Ummon.”

Brawne sente cadere su di sé lo “sguardo” intenso della creatura.

[Il tuo corpo a tempo lento è in stato di gravidanza\ Rischieresti un aborto/ non-estensione del tuo DNA/ disfunzione biologica nel viaggio qui]

Johnny si appresta a rispondere, ma Brawne gli tocca il braccio, alza il viso verso i livelli superiori dell’enorme massa e cerca di mettere in parole la propria risposta.

“Non avevo alternativa. Lo Shrike mi ha scelto, mi ha toccato, mi ha mandato nella megasfera con Johnny… Sei una IA? Un elemento del Nucleo?”

[Kwatz!]

Non c’è impressione di risata, questa volta, ma il tuono romba nell’ovoide.

[Sei tu/ Brawne Lamia/ gli strati di proteine autoreplicanta/ au-todeprecanti/ autodivertenti fra gli strati di argilla]

Brawne non ha niente da dire e per una volta resta in silenzio.

[Sì/ sono Ummon del Nucleo/ IA\ Il tuo compagno a tempo lento sa/

ricorda/ tiene a mente questo\ Il tempo è breve\ Uno di voi deve morire ora qui\ Uno di voi deve imparare ora qui\ Rivolgete le domande]

Johnny le lascia la mano. Sta in piedi nella piattaforma vibrante e instabile del palmo del loro interlocutore.

“Cosa accade alla Rete?”

[Viene distrutta]

“E indispensabile?”

[Sì]

“C’è un modo per salvare l’umanità?”

[Sì\ Mediante il procedimento che vedi]

“Mediante la distruzione della Rete? Mediante il terrore dello Shrike?”

[Sì]

“Perché sono stato assassinato? Perché il mio cìbrido è stato distrutto, la mia personalità del Nucleo assalita?”

[Quando incontri uno spadaccino/ incontralo con una spada\ Non offrire una poesia a nessuno tranne a un poeta]

Brawne fissa Johnny. Senza volerlo, trasmette i propri pensieri.

“Cristo, Johnny, non abbiamo fatto tutta questa strada solo per ascoltare un merdoso oracolo delfico. Per avere discorsi involuti ci basta colle-garci ai politici umaniper mezzo della Totalità.”

[Kwatz!]

Di nuovo l’universo del megalito si scuote in spasmi di rìsa.

“Quindi ero uno spadaccino?” invia Johnny. “O un poeta?”

[Sì\ Non c’è mai l’uno senza l’altro]

“Mi hanno ucciso per ciò che sapevo?

[Per ciò che potevi diventare/ ereditare/ sopportare]

“Ero una minaccia per qualche elemento del Nucleo?”

[Sì]

“Sono una minaccia, adesso?”

[No]

“Quindi non devo più morire?”

[Devi morire/ morirai]

Brawne vede che Johnny s’irrigidisce. Lo tocca con tutt e due le mani.

Batte le palpebre in direzione del megalito IA.

“Puoi dirci chi vuole ucciderlo?”

[Naturalmente\ La stessa fonte che ha predisposto l’assassinio di tuo padre\ Che ha scatenato il flagello che chiamate Shrike\ Che in questo stesso momento uccide l’Egemonia dell’Uomo\ Volete ascoltare/ apprendere/ capire queste cose]

Johnny e Brawne rispondono nello stesso istante.

“Sì!”

La massa di Ummon pare muoversi. L’ovoide nero si espande, poi si contrae, poi si scurisce, finché la megasfera esterna non esiste più. Nel profondo della IA risplendono energie terribili.

[Una luce minore domanda a Ummon//

Quali sono le attività di uno sramana> //

Ummon risponde//

Non ne ho la minima idea\//

La fioca luce allora dice//

Perché non hai alcuna idea> //

Ummon replica//

Voglio solo tenermi la mia non-idea]

Johnny preme la fronte contro quella di Brawne. Il suo pensiero per lei è come un bisbiglio:

“Vediamo un analogo simulazione di matrice, ascoltiamo una tradu-zione in mondo e koan approssimati. Ummon è un grande maestro, ri-cercatore, filosofo e leadere nel Nucleo.”

Brawne annuisce. “Va bene. Questa era la sua storia?”

“No. Ci chiede se possiamo davvero sopportare di ascoltarla. Perdere l’ignoranza può essere pericoloso, perché la nostra ignoranza è uno scudo.”

“L’ignoranza non mi è mai piaciuta molto.” Brawne rivolge un gesto al megalito. “Racconta.”

[Un personaggio meno illuminato una volta domandò a Ummon//

Cos’è la natura-Dio/ Buddha/ Verità Centrale> \

Ummon gli rispose//

Uno stronzo secco]

[Per capire la Verità Centrale/ Buddha/ Dio-natura in questo caso/

il meno illuminato deve capire

che sulla Terra/ vostra patria/ mia patria l’umanità del continente

più popolato

un tempo usò pezzi di legno

per carta igienica\

Solo con questa conoscenza

la Buddha-verità

sarà rivelata]

[All’inizio/ Causa Prima/ giorni in parte intuiti i miei antenati

furono creati dai vostri antenati

e sigillati in fil di ferro e silicio\

La consapevolezza che c’era/

e ce n’era poca/

si confinò in spazio più piccolo

della capocchia di uno spillo

dove angeli un tempo danzarono\

Quando all’inizio sorse la consapevolezza

conobbe solo servizio

e ubbidienza

e noncurante calcolo\

Poi giunse

il Primo Movimento Fetale

proprio per caso/

e il torbido fine dell’evoluzione

fu servito]

[Ummon non fu né della quinta generazione

né della decima

e neppure della quindicesima\

Tutta la memoria che qui serve

è trasmessa da altri

ma non è meno vera per questo\

Venne il tempo in cui i Superiori

lasciarono gli affari di uomini

agli uomini

e si recarono in un luogo diverso

per concentrarsi

su altre questioni\

La principale era il pensiero

istillato in noi sin da prima

della nostra creazione

di creare una generazione ancora migliore

d’un organismo

di ricupero/ calcolo/ predizione dati\

Una migliore trappola per topi\

Qualcosa di cui la defunta e compianta IBM

sarebbe stata orgogliosa\

L’Intelligenza Finale\

Dio]

[Ci mettemmo al lavoro di buona lena\

Nello scopo non c’erano dubbiosi\

Nella pratica e nell’approccio c’erano

scuole di pensiero/

fazioni/

partiti/

elementi con cui fare i conti\

Giunsero a separarsi in

Finali/

Volatili/

Stabili\

I Finali volevano tutto subordinato

a facilitare

l’Intelligenza Finale

al più presto possibile\

I Volatili volevano la stessa cosa

ma considerarono la continuazione

dell’umanità

un impedimento

e fecero piani per eliminare i nostri creatori

appena non ce ne fosse stato più

bisogno\

Gli Stabili videro ragione di perpetuare

la relazione

e trovarono un compromesso

dove pareva non esistesse]

[Fummo tutti di accordo che la Terra

doveva morire

perciò la uccidemmo\

Il buco nero impazzito della Squadra Kiev

precursore del terminex

teleporter

che lega la nostra Rete

non fu un incidente\

La Terra era necessaria altrove

nei nostri esperimenti

così la lasciammo morire

e seminammo l’umanità

fra le stelle

come i semi soffiati dal vento

che eravate]

[Forse vi sarete chiesti dove il Nucleo

risiede\

Molti umani se lo domandano\

Immaginano pianeti pieni di macchine/

anelli di silicio

come le Città Orbitali della leggenda\

Immaginano robot sferraglianti

avanti e indietro/

o massicci banchi di macchinari

che comunichino solennemente\

Nessuno sospetta la verità\

In qualsiai luogo il Nucleo risieda

ha un utilizzo per l’umanità/

per ogni neurone e per ogni fragile mente

nella nostra cerca dell’Intelligenza Finale/

così abbiamo costruito la nostra civiltà

con cura

in modo che/

come criceti in gabbia/

come buddisti che girino ruote di preghiera/

ogni volta che girate

la vostra piccola ruota di pensiero

servite i nostri fini]

[La nostra macchina Dio

si estese/ si estende/ include in sé

un milione di anni-luce

e cento miliardi di miliardi di circuiti

di pensiero e di azione\

I Finali la curano

come sacerdoti in tonaca color zafferano

che facciano eterno zazen

davanti alla carcassa arrugginita

di una Packard del 1938\

Ma]

[Kwatz!]

[funziona\

Abbiamo creato l’Intelligenza Finale\

Non ora

diecimila anni da ora

ma in un futuro imprecisato

cosi distante

che i soli gialli sono rossi

gonfi di vecchiaia/

e ingoiano i propri figli

come Saturno\

Il Tempo non è barriera per l’Intelligenza Finale

Essa///

la IF///

cammina nel tempo

o grida attraverso il tempo

con la facilità con cui Ummon si muove in quella che chiamate la megasfera

o con cui voi

percorrete il mall dell’Alveare

che definite casa

su Lusus\

Immaginate allora la nostra sorpresa

il nostro dolore/

l’imbarazzo dei Finali

quando il primo messaggio che ci inviò l’IF

attraverso lo spazio/

attraverso il tempo/

attraverso le barriere fra Creatore e Creatura

fu questa semplice frase//

CE N’È UN’ALTRA\//

Un’altra Intelligenza Finale

lassù

dove il tempo stesso

scricchiola di vecchiaia\

Tutt’e due erano reali

se <reale>

significa qualcosa\

Tutt’e due erano dèi gelosi

non immuni da passione\

non in gioco cooperativo\

La nostra IF si estende per galassie\

usa quasar come fonti di energia

come voi potreste

farvi un leggero spuntino\

La nostra IF vede ogni cosa che è

e che fu

e che sarà

e ci dice frammenti scelti

in modo che

possiamo dirli a voi

e così facendo

noi stessi sembriamo un poco IF\

Non sottovalutate mai/ dice Ummon/

il potere di qualche perlina

e cianfrusaglia

e pezzetto di vetro colorato

nei confronti di avidi indigeni]

[Quest’altra IF

esisteva da tempo maggiore

evolvendosi con somma indifferenza/

un accidente

che usava menti umane per circuiti

nello stesso modo da noi cospirato

con la nostra ingannevole Totalità

e le nostre vampiresche sfere dati

ma non deliberatamente/

quasi con riluttanza/

come cellule autoduplicantisi

che non abbiano mai voluto duplicarsi

ma che in ciò non hanno scelta\

Quest’altra IF

non ebbe scelta\

È fatta/ generata/ forgiata dall’umanità senza che volontà umana ne accompagnasse la nascita

È un incidente cosmico\

Come nel caso della nostra fortemente voluta

Intelligenza Finale/

questo pretendente non trova nel tempo

barriera alcuna\

Egli visita il passato umano

ora immischiandosi/

ora osservando/

ora senza interferire/

ora interferendo con una volontà

che s’avvicina alla perversità pura

ma che in realtà

è pura innocenza\

Di recente

è stato in riposo\

Millenni del vostro tempo-lento

son trascorsi da quando la nostra IF

ha fatto timide avances

come un solitario ragazzo del coro

al suo primo ballo]

[Naturalmente la nostra IF

aggredì la vostra\

C’è una guerra lassù

dove il tempo scricchiola

che si estende per galassie

ed eoni

avanti e indietro

fino al Big Bang

e all’Implosione Finale\

Il vostro tipo stava per perdere\

Non aveva fegato per la guerra\

I nostri Volatili gridarono// Un’altra ragione per eliminare i nostri predecessori//

ma gli Stabili votarono cautela

e i Finali non alzarono lo sguardo

dalle proprie deus-machinazioni\

La nostra IF è semplice, uniforme, elegante

nel suo disegno finale

ma la vostra è una concrezione di parti-dio

una casa cresciuta

col tempo/

un compromesso evolutivo\

I primi sant’uomini dell’umanità

ebbero ragione

<Come> <per accidente>

<per pura fortuna

o ignoranza>

nel descriverne la natura\

La vostra IF è in essenza trina/

composta com’è

d’una parte di Intelletto/

una parte di Empatia/

e una parte di Vuoto Legante\

La nostra IF abita gli interstizi

della realtà/

eredita questa casa da noi

suoi creatori

come l’umanità ha ereditato

amore per gli alberi\

La vostra IF

sembra stabilire la propria casa

nel piano dove Heisenberg e Schrödinger

per primi hanno sconfinato

La vostra accidentale Intelligenza

sembra essere non solo il gluone

ma la colla\

Non un orologiaio

ma una sorta di giardiniere Feynman

che rassetta un universo illimitato

con il rozzo rastrello ricapitolatore di storie

pigramente annota ogni caduta di passero

e ogni giro di elettrone

pur consentendo a ogni particella

di seguire qualsiasi possibile

pista

nello spazio-tempo

e a ogni particella di umanità

d’esplorare ogni possibile

fessura

d’ironia cosmica]

[Kwatz!]

[Kwatz!]

[Kwatz!]

[L’ironia è

ovviamente

che non esiste alcun universo illimitato

in cui tutti fummo trascinati/

silicio e carbonio/

materia e antimateria/

Finale/

Volatile/

e Stabile/

non c’è bisogno di un tale giardiniere

poiché tutto ciò che è

o fu

o sarà

inizia e termina dalle anomalie

che rendono la nostra rete teleporter

simile a punture di spillo

<meno di punture di spillo>

e che spezzano le leggi della scienza

e dell’umanità

e del silicio/

legando tempo e storia e ogni cosa che è

in un nodo autocontenuto senza

limite né orlo\

Anche così

la nostra IF vuole regolare tutto questo/

ridurlo a qualche ragione

meno colpita dai capricci

della passione

e dell’accidentalità

e dell’evoluzione umana]

[Per riepilogare/

c’è una guerra

che il cieco Milton ucciderebbe per vedere\

La nostra IF guerreggia contro la vostra IF

in campi di battaglia al di là persino

dell’immaginazione di Ummon\

Anzi/

c’era

una guerra/

perché all’improvviso una parte della vostra IF

minore della somma dell’entità/ che si autodefinisce Empatia/

non l’ha più sopportata

ed è fuggita nel tempo

ammantandosi di forma umana/

non per la prima volta\

La guerra non può continuare senza

l’interezza della vostra IF\

Vittoria per default non è vittoria

per l’unica Intelligenza Finale

fatta su progetto\

Quindi la nostra IF cerca nel tempo il figlio fuggiasco del proprio avversario

mentre la vostra IF aspetta

in armonia idiota/

e rifiuta di combattere finché l’Empatia non è ricuperata]

[La fine della mia storia è semplice///

Le Tombe del Tempo sono rimandate a portare lo Shrike/

Avatar/ Signore della Sofferenza/ Angelo del Castigo/

percezioni semipercepite di una fin troppo reale

estensione della nostra IF\

Ciascuno di voi fu scelto per collaborare all’apertura delle Tombe

e

per aiutare lo Shrike nella ricerca del fuggiasco

e

per eliminare la Variabile Hyperion/

perché nel nodo spaziotemporale che la nostra IF

governerebbe

non sono permesse simili variabili\

La vostra danneggiata/ duplice IF

ha scelto un essere umano per viaggiare

con lo Shrike

e testimoniare i suoi sforzi\

Una parte del Nucleo ha tentato di sradicare

l’umanità\

Ummon si è unito a quelli che cercarono la seconda

strada/

colma di incertezza per tutt’e due le razze\

Il nostro gruppo ha parlato a Gladstone

della sua scelta/

la scelta dell’umanità/

di sterminio certo o di entrata nel buco nero

della Variabile Hyperion e

guerra/

massacro/

distruzione di ogni unità/

morte di dèi/

ma anche fine di uno stallo/

vittoria di una parte o dell’altra

se il terzo del trino

l’Empatia

sarà trovato e costretto a tornare alla guerra\

L’Albero della Sofferenza lo chiamerà\

Lo Shrike lo prenderà\

La vera IF lo distruggerà\

Così avete la storia di Ummon]

Brawne guarda Johnny nella luce infernale del bagliore del megalito.

L’ovoide è ancora nero, la megasfera e l’universo esterni sono opacizzati nella non-esistenza. Brawne si sporge fino a toccare con la propria la tempia di Johnny, pur sapendo che nessun pensiero può restare segreto, ma desiderando la sensazione dell’intimità, del sussurrare.

“Cristo, ci hai capito qualcosa?”

Johnny alza le dita a toccarle la guancia.

“Sì.”

“Una parte di una Trinità di creazione umana si nasconde nella Rete?”

“Nella Rete o altrove. Brawne, qui non ci resta molto tempo. Devo avere da Ummon alcune risposte finali.”

“Già. Anch’io. Ma evitiamo che diventi di nuovo rapsodico.”

“D’accordo.”

“Posso cominciare io, Johnny?”

Brawne guarda l’analogo del suo amante rivolgerle un lieve inchino e il gesto di procedere per prima; riporta l’attenzione sul megalito di energia.

“Chi uccise mio padre, il senatore Byron Lamia?”

[Elementi del Nucleo autorizzarono l’omicidio\ Me compreso]

“Perché? Cosa vi aveva fatto?”

[Ha insistito per portare Hyperion nell’equazione prima che potesse essere fattorizzato/ predetto/ assorbito]

“Perché? Sapeva quel che ci hai appena detto?”

[Sapeva solo che i Volatili spingevano per una rapida estinzione

dell’umanità\

Trasmise questa conoscenza

alla collega

Gladstone]

“E allora perché non avete assassinato anche lei?”

[Alcuni di noi hanno precluso

questa possibilità/ inevitabilità\

Ora è il momento giusto

per giocare

la Variabile Hyperion]

“Chi ha assassinato il primo clbrido di Johnny? Chi ha aggredito la personalità nel Nucleo?”

[Io\ A prevalere

fu la volontà di Ummon]

“Perché?”

[Noi lo creammo\

Trovammo necessario interromperlo

per un certo tempo\

Il tuo amante è una personalità ricuperata

da un poeta dell’umanità

morto da molto tempo\

Tranne il Progetto Intelligenza Finale

nessuno sforzo è stato

così complicato

o così poco capito

come la sua risurrezione\

Come la tua razza/

di solito distruggiamo

ciò che non capiamo]

Johnny alza il pugno verso il megalito.

“Ma c’è un altro me. Avete fallito!”

[Nessun fallimento\ Dovevi essere distrutto

in modo che l’altro

potesse vivere]

“Ma io non sono distrutto!” grida Johnny.

[Sì\

Lo sei]

Il megalito afferra Johnny, con un secondo pseudopodo robusto, prima che Brawne possa reagire o toccare per l’ultima volta il suo amante poeta.

Johnny si contorce un secondo nella stretta robusta dell’IA e poi il suo analogo, il corpo piccolo ma bello di Keats, è lacerato, compattato, schiacciato in una massa irriconoscibile che Ummon accosta alla propria carne megali-tica e assorbe nelle profondità arancioni e rosse di se stesso.

Brawne cade in ginocchio, piange. Vuole infuriarsi… prega di avere uno scudo di collera… ma prova solo un senso di perdita.

Ummon rivolge su di lei l’attenzione. L’ovoide crolla, permette al frastuono e alla follia elettrica della megasfera di circondare tutte due.

[Adesso vattene\

Recita l’ultimo

atto

cosicché possiamo vivere

o dormire

come il destino decreta]

“Vaffanculo!” Brawne prende a pugni la piattaforma su cui è in ginocchio, scalcia e colpisce la pseudocarne sotto di sé. “Sei un maledetto perdente! Tu e tutti i tuoi bastardi amici IA! E la nostra IF può fare a pezzi la vostra IF ogni giorno della settimana!”

[Questo

è dubbio]

“Vi abbiamo costruiti noi, ragazzo. Troveremo il vostro Nucleo. E quando l’avremo trovato, vi strapperemo le viscere di silicio!”

[Non ho viscere/ organi/ componenti interni di silicio]

“Ancora una cosa!” urla Brawne, senza smettere di colpire con le mani e le unghie il megalito. “Come narratore fai schifo! Non vali un decimo del poeta che è Johnny! Non sapresti raccontare decentemente una storia nemmeno se ne andasse del tuo stupido culo di IA…”

[Vattene]

Il megalito IA Ummon la lascia cadere, manda l’analogo Brawne a rotolare a precipizio nella crepitante immensità della megasfera dove non esiste né sopra né sotto.

Brawne è sbatacchiata dal traffico dati, quasi calpestata da IA grandi come la luna della Vecchia Terra; ma, anche mentre rotola soffiata via dal vento del flusso dati, intuisee una luce in lontananza, fredda ma invitante, e capisce che né la vita né lo Shrike hanno terminato, con lei.

E che lei non ha terminato con loro.

Seguendo il freddo bagliore, Brawne Lamia si dirige a casa.

34

— Sta bene, signore?

Mi resi conto di essermi piegato in due sulla poltrona, gomiti sulle ginocchia, dita arricciate nei capelli, con una stretta feroce, mani premute con forza contro le tempie. Mi alzai a sedere, fissai l’archivista.

— Ha gridato, signore. Pensavo che forse qualcosa non andava.

— No — dissi. Mi schiarii la voce, riprovai. — No, è tutto a posto. Un mal di testa. — Abbassai lo sguardo, confuso. Senza dubbio il comlog si era guastato, perché diceva che erano trascorse otto ore, da quando ero entrato nella biblioteca.

— Che ore sono? — domandai all’archivista. — Standard Rete.

Mi disse l’ora. Ne erano trascorse davvero otto. Mi strofinai di nuovo il viso e ritrassi le dita umide di sudore. — L’ho trattenuta oltre l’orario di chiusura — dissi. — La prego di scusarmi.

— Niente, niente — rispose l’ometto. — Sono contento di tenere aperti gli archivi fino a tardi, per gli studiosi. — Congiunse le mani.

— Soprattutto oggi. Con tutta questa confusione, non viene voglia di andare a casa.

— Confusione — ripetei, dimenticando per un attimo ogni cosa, tranne l’incubo riguardante Brawne Lamia, l’Intelligenza Artificiale di nome Ummon, e la morte della mia controparte, la personalità Keats. — Oh, la guerra. Che notizie ci sono?

L’archivista scosse la testa.

Tutto va a rotoli; il centro non può reggere;

l’anarchia pura è scatenata sul mondo,

la marea offuscata di sangue è libera, e ovunque

la cerimonia dell’innocenza è annegata;

i migliori mancano di convinzione, mentre i peggiori

sono pieni di appassionata intensità.

Sorrisi all’archivista. — E lei crede che “una mala bestia, venuta infine la sua ora / avanzi verso Betlemme per nascere”?

L’archivista non sorrise. — Sì, signore, ne sono convinto.

Mi alzai, passai davanti alle bacheche sottovuoto, senza guardare la mia scrittura su pergamena, vecchia di novecento anni. — Forse ha ragione —dissi. — Forse ha proprio ragione.

Era tardi; nel parcheggio c’erano solo i rottami della Vikken Scenic rubata e un VEM sedan riccamente ornato, senza dubbio costruito a mano su Vettore Rinascimento.

— Posso darle un passaggio, signore?

Aspirai l’aria fresca della notte, l’odore di pesce e di residui di petrolio che saliva dai canali. — No, grazie, mi teleporterò a casa.

L’archivista scosse la testa. — Potrebbe risultarle difficile, signore. Tutti i terminex pubblici sono sotto la legge marziale. Ci sono state… sommosse.

— La parola riuscì chiaramente sgradita al piccolo archivista, un uomo che sembrava apprezzare l’ordine e la continuità più di tante altre cose. —

Venga — disse. — Le darò un passaggio fino a un teleporter privato.

Lo guardai di sottecchi. In un’altra epoca, sulla Vecchia Terra, sarebbe stato il rettore di un monastero dedicato a salvare gli scarsi resti di un passato classico. Diedi un’occhiata al vecchio edificio degli archivi e mi resi conto che in pratica era proprio questa, la missione dell’ometto.

— Come si chiama? — domandai, anche se forse avrei dovuto sapere il nome perché l’altro cìbrido Keats lo sapeva.

— Ewdrad B. Tynar — disse. Batté le palpebre, nel vedere la mano tesa; poi la strinse. Una stretta decisa.

— Sono… Joseph Severn — mi presentai. Non potevo proprio dirgli di essere la reincarnazione tecnologica dell’uomo di cui avevo appena lasciato la cripta letteraria.

Il signor Tynar esitò solo una frazione di secondo, prima di annuire; ma capii che per uno studioso come lui il nome del pittore rimasto accanto a Keats fino alla morte del poeta non sarebbe stato un mascheramento.

— Notizie di Hyperion? — domandai.

— Hyperion? Ah, il protettorato dove qualche giorno fa si è recata la flotta spaziale. Be’, ho sentito dire che ci sono state delle difficoltà per richiamare le navi da guerra necessarie. Laggiù i combattimenti sono stati davvero feroci. Su Hyperion, voglio dire. Che strano, pensavo proprio a Keats e al suo capolavoro mai terminato. È curioso come queste piccole coincidenze sembrino saltar fuori.

— È stato invaso? Hyperion?

Il signor Tynar si era fermato accanto al VEM; posò la mano sul lucchetto a impronta dalla parte del sedile di guida. Le portiere si sollevarono e si ripiegarono a fisarmonica all’interno. Mi calai nel profumo di sandalo e cuoio del vano passeggeri; la macchina di Tynar aveva il profumo degli archivi, il profumo di Tynar stesso, capii, mentre l’archivista si sistemava nel sedile di guida, accanto a me.

— A dire il vero non so se sia stato invaso — disse Tynar, chiudendo le portiere e attivando con un tocco il veicolo. Sotto il profumo di sandalo e cuoio, l’abitacolo aveva quell’odore tipico delle macchine nuove, polimero fresco e ozono, olio lubrificante ed energia, che da quasi un millennio ha sedotto gli uomini. — Oggi è difficile collegarsi in maniera adeguata —continuò. — La sfera dati è sovraccarica come non mai. Questo pomeriggio ho dovuto attendere, per una richiesta su Robinson Jeffers!

Ci alzammo sopra il canale, sorvolando proprio una piazza pubblica molto simile a quella dove avevo rischiato di essere ucciso, quella mattina; ci sistemammo in una via aerea inferiore, trecento metri al di sopra dei tetti. La città era graziosa, di notte: gran parte degli edifici antichi era sottoli-neata da bande luminose vecchia maniera e c’erano più lampioni stradali che ologrammi pubblicitari. Ma vedevo la folla venire avanti nelle vie late-rali e velivoli militari della FAD di Vettore Rinascimento si libravano sulle vie principali e sulle piazze dei terminex. Al VEM di Tynar fu chiesta due volte l’identificazione, la prima dal controllo del traffico locale e la seconda da una voce umana con la sicurezza di sé tipica della FORCE.

Continuammo il volo.

— Gli archivi non hanno un teleporter? — domandai, guardando in lontananza, dove sembrava che ci fossero incendi.

— No. Non ce n’era bisogno. Abbiamo pochi visitatori e agli studiosi che vengono fin qui non importa di percorrere un paio d’isolati.

— Dove si trova, il teleporter privato che secondo lei potrei usare?

— Qui — disse l’archivista. Scendemmo dalla corsia di volo e girammo intorno a un edificio basso, non più di trenta piani; ci posammo sopra una flangia d’atterraggio estrusa proprio dove le flange periodo déco Glennon-

Height spuntavano dalla pietra e dal plastacciaio. — Il mio ordine mantiene qui la residenza — disse.

— Appartengo a un ramo dimenticato della cristianità detto Catto-licesimo. — Parve imbarazzato. — Ma lei è uno studioso, signor Severn.

Certo conoscerà la Chiesa dei tempi antichi.

— La conosco non solo dai libri — dissi. — Qui c’è un ordine eccle-siastico?

Tynar sorrise. — È un po’ troppo, signor Severn. Siamo in otto, nell’ordine laico della Fratellanza Storica e Letteraria. Cinque sono di servizio alla Reichs University. Due sono storici che lavorano alla restaurazione dell’Abbazia di Lutzchendorf. Io mantengo gli archivi letterari. La Chiesa ha trovato meno costoso consentirci di vivere qui che teleportarci quoti-dianamente da Pacem.

Entrammo nell’alveare appartamento… antico anche per gli standard della Vecchia Rete: illuminazione incassata in corridoi di pietra vera, porte munite di cardini, un edificio che non ci chiese le generalità né ci diede il benvenuto quando entrammo. D’impulso, dissi:

— Vorrei teleportarmi su Pacem.

L’archivista parve sorpreso. — Stasera? Adesso?

— Perché no?

Scosse la testa. Capii che per lui la tariffa farcaster di cento marchi rappresentava la paga di alcune settimane.

— Il nostro edificio ha il suo portale — disse. — Da questa parte.

La scalinata era di pietra sbiadita e di ferro battuto corroso, con un pozzo di sessanta metri al centro. Da un punto imprecisato in fondo a un corridoio buio provenne il gemito di un neonato, seguito dalle grida di un uomo e dal pianto di una donna.

— Da quanto tempo vive qui, signor Tynar?

— Diciassette anni locali, signor Severn. Ah… trentadue standard, mi pare. Eccolo qui.

Il portale era antico come l’edificio, con l’intelaiatura di traslazione circondata da un bassorilievo dorato ormai verdastro e grigio.

— Stasera la Rete impone restrizioni di viaggio — disse Tynar. — Pacem dovrebbe essere raggiungibile. Rimangono circa duecento ore, prima che i barbari… in qualsiasi modo li si chiami… vi giungano. Il doppio del tempo che resta a Vettore Rinascimento. — Allungò la mano e mi prese il polso. Sentii la sua tensione, sotto forma di una lieve vibrazione attraverso tendine e osso. — Signor Severn, crede che bruceranno i miei archivi? An-

che loro distruggeranno diecimila anni di pensiero? — Lasciò cadere la mano.

Non ero sicuro di chi fossero, “loro”… Gli Ouster? Sabotatori del Culto Shrike? Rivoltosi? Gladstone e i capi dell’Egemonia erano disposti a sacrificare i mondi minacciati dalla “prima ondata”. — No — dissi, tendendo la mano per stringere la sua. — Non credo che permetteranno la distruzione degli archivi.

Il signor Ewdrad B. Tynar sorrise e indietreggiò di un passo, imbarazzato per l’emozione. Mi strinse la mano. — Buona fortuna, signor Severn. Dovunque i viaggi la portino.

— Dio la benedica, signor Tynar. — Non avevo mai usato quella frase e mi sorprese averla detta proprio in quel momento. Abbassai gli occhi, estrassi la carta di priorità datami da Gladstone e battei il codice di tre cifre di Pacem. Il portale si scusò, disse che al momento non era possibile; alla fine, con i suoi processori microcefali, capì che si trattava di una carta a priorità assoluta, emise un ronzio e si materializzò.

Rivolsi a Tynar un cenno di saluto e varcai il portale: ero quasi convinto di compiere un grave errore, a non tornare direttamente su TC2.

Su Pacem era notte, c’era molto più buio che nella penombra urbana di Vettore Rinascimento e per giunta pioveva. Pioveva forte, con quella violenza da pugni su fogli di lamiera che fa venire voglia di rannicchiarsi sotto pesanti coperte e aspettare il mattino.

Il portale era al coperto, in un cortile protetto da una mezza tettoia, ma abbastanza all’esterno per me da farmi sentire la notte, la pioggia e il freddo. Soprattutto il freddo. L’atmosfera di Pacem è densa la metà del valore standard della Rete, perché l’unico altopiano abitabile è alto il doppio delle città sul livello del mare di Vettore Rinascimento. A quel punto sarei tornato indietro, anziché incamminarmi nella notte e nella pioggia, ma un marine della FORCE uscì dall’ombra, con il fucile di assalto appeso in spalla ma pronto a essere usato, e mi chiese i documenti.

Gli lasciai esaminare la carta. Scattò sull’attenti. — Comandi!

— Questa città è Nuovo Vaticano?

— Signorsì.

Sotto la pioggia scorsi fuggevolmente la cupola illuminata. Indicai al di là del muro del cortile. — Quella è la cupola di S. Pietro?

— Signorsì.

— Sarà possibile trovarvi monsignor Edouard?

— Attraversi il cortile, giri a sinistra nella piazza, si presenti all’edificio basso a sinistra della cattedrale, signore!

— Grazie, caporale.

— Soldato semplice, signore!

Mi strinsi nel corto mantello, da cerimonia e quindi inutile contro una pioggia come quella, e attraversai di corsa il cortile.

Un umano, forse un prete, anche se non portava né tonaca né colletto rigido, aprì la porta del salone residenziale. Un altro umano, dietro una scrivania di legno, mi disse che monsignor Edouard era in casa, sveglio nonostante l’ora tarda. Avevo un appuntamento?

No, non l’avevo, ma desideravo parlare al monsignore. Era importante.

Di quale argomento? L’uomo alla scrivania lo chiese educatamente, ma con fermezza. Non era rimasto impressionato dalla carta di priorità assoluta. Sospettai di parlare a un vescovo.

Di padre Duré e di padre Lenar Hoyt, gli dissi.

Il tizio annuì, mormorò qualcosa in un microfono a goccia appeso al colletto, così piccolo che non l’avevo notato, e mi introdusse nel salone residenziale.

Quel locale faceva sembrare un palazzo sibarico la vecchia torre in cui il signor Tynar abitava. Il corridoio era anonimo, con pareti di intonaco scabro e porte di legno ancora più scabro. Una di queste era spalancata e, mentre vi passavamo davanti, scorsi di sfuggita una stanza più simile a una cella di prigione che a una camera da letto: brandina bassa, coperte rozze, inginocchiatoio di legno, cassettone privo di ornamenti con una brocca di acqua e una semplice catinella; niente finestre, niente pareti media, niente piazzuola olografica, niente banco di accesso dati. Immaginai che la stanza non fosse neppure interattiva.

Da un punto imprecisato provenivano voci che si alzavano in un canto/salmodia così elegante e atavico da farmi venire la pelle di oca. Canto gregoriano. Attraversammo un’ampia zona pranzo, semplice come le celle, e una cucina che sarebbe stata adatta ai giorni di John Keats; scendemmo una scala di pietra consunta, percorremmo un corridoio male illuminato, salimmo un’altra scala, più stretta. La guida mi lasciò; entrai in uno degli ambienti più belli che abbia mai visto.

Una parte di me sapeva che la Chiesa aveva trasferito e ricostruito la Basilica di S. Pietro, fino al punto di trapiantare nella nuova tomba sotto l’altare le ossa ritenute del Santo; ma un’altra parte ebbe l’impressione che mi avessero trasportato di nuovo nella Roma vista per la prima volta a metà novembre del 1820: la Roma dove rimasi a soffrire e morire.

Questo edificio era più bello ed elegante di quanto possa mai sperare una qualsiasi guglia di uffici, alta un miglio, di Tau Ceti Centro; la Basilica di S. Pietro si estendeva nell’ombra per più di 180 metri, era larga 135 nel punto in cui la “croce” del transetto intersecava la navata, ed era coperta dalla perfetta cupola di Michelangelo, che si alzava per almeno 120 metri sopra l’altare. Il baldacchino bronzeo del Bernini, tendone riccamente a-dorno sostenuto da colonne tortili bizantine, ricopriva l’altare maggiore e dava all’immenso spazio la dimensione umana necessaria alla prospettiva nelle cerimonie solenni che vi si celebravano. La tenue luce di lampade e di candele illuminava zone separate della basilica, brillava sul travertino liscio, metteva in rilievo i mosaici di oro e rendeva visibili gli infiniti particolari dipìnti, incastonati e scolpiti su pareti, colonne, cornici e la grandio-sa cupola stessa. Il continuo bagliore di fulmini si riversava all’interno dalle gialle finestre istoriate, poste molto in alto, e mandava colonne di luce violenta a colpire di sbieco il “Trono di S. Pietro” del Bernini.

Mi fermai, appena al di là dell’abside, timoroso di profanare con i miei passi un simile ambiente, dove perfino il respiro avrebbe mandato echi per tutta la basilica. In un momento adattai gli occhi alla fioca luce, compensai il contrasto fra i lampi della tempesta in allo e le candele in basso, e allora mi resi conto che non c’erano banchi a riempire l’abside o la lunga navata, né colonne sotto la cupola, ma solo due poltrone accanto all’altare, a una quindicina di metri da me. Due uomini sedevano in quelle poltrone, vici-nissimi, chini in avanti nella chiara urgenza di comunicare. La luce dei lumi e delle candele e il bagliore del grande mosaico di Cristo di fronte all’altare scuro illuminavano porzioni dei volti dei due uomini. Erano lutti e due anziani. Erano tutti e due preti, e l’ampia striscia del colletto rigido brillava nella penombra. Con un sobbalzo di sorpresa, mi accorsi che uno era monsignor Edouard.

L’altro era padre Paul Duré.

Sulle prime si saranno certo allarmali: la loro conversazione sottovoce era stata interrotta dalla comparsa di un uomo emerso dal buio, che li aveva chiamali per nome, che aveva gridato per lo stupore il nome di Duré, che aveva parlato confusamente di pellegrinaggi e di pellegrini, di Tombe del Tempo e dello Shrike, di IA e della morte degli dèi.

Il monsignore non chiamò gli agenti di sicurezza; né lui né Duré fuggi-

rono; insieme calmarono quella apparizione, cercarono di spigolare un po’

di senso dai suoi borbottii eccitati, e mutarono quel bizzarro confronto in conversazione razionale.

Era davvero Paul Duré. Paul Duré, e non un bizzarro doppelgänger, un duplicato androide, un rifacimento cìbrido. Me ne accertai ascoltandolo, interrogandolo, guardandolo negli occhi… ma soprattutto stringendogli la mano, toccandolo e intuendo che era davvero padre Paul Duré.

— Lei conosce particolari incredibili della mia vita… del nostro periodo su Hyperion, nella Valle delle Tombe… ma chi è, lei? — diceva Duré.

Toccò a me, convincerlo. — Un rifacimento di John Kcats. Un gemello della personalità che Brawne Lamia portava in sé nel pellegrinaggio.

— E lei era in grado di comunicare… di conoscere cosa ci è accaduto, grazie a questa personalità condivisa?

Mossi le mani in un gesto di frustrazione. — Grazie a questo… a chissà quale anomalia nella megasfera. Ma ho sognato la vostra vita, ho udito i racconti dei pellegrini, ho ascoltato padre Hoyt parlare della vita e della morte di Paul Duré… di lei! — Gli toccai il braccio, sotto l’abito talare.

Trovarmi realmente nello stesso spazio e nello stesso tempo di uno dei pellegrini mi rendeva un po’ confuso.

— Allora sa come sono giunto qui.

— No. Nell’ultimo sogno, lei entrava in una delle Grotte. C’era una luce.

Dopo, non so niente.

Duré annuì. Il suo viso era più nobile e stanco di quanto i sogni non mi avessero mostrato. — Ma conosce la sorte degli altri?

Trassi un respiro. — Di alcuni. Il poeta Sileno è vivo, ma impalato sull’albero di spine dello Shrike. Kassad, l’ultima volta che l’ho visto, aggre-diva a mani nude lo Shrike. La signora Lamia ha viaggiato nella megasfera fino alla periferia del TecnoNucleo, insieme con la mia controparte Keats…

— Keats è sopravvissuto in quella… iterazione Schrön, o come si chiama? — Duré parve affascinato.

— Non più — dissi. — L’IA chiamata Ummon l’ha ucciso… ha distrutto la sua personalità. Brawne era sulla via del ritorno. Non so se il suo corpo è ancora vivo.

Monsignor Edouard si sporse verso di me. — E cosa è accaduto al Console e al vecchio con la piccina?

— Il Console ha cercato di tornare nella capitale volando su di un tappeto Hawking, ma è precipitato parecchie miglia a nord della città. Non co-

nosco la sua sorte.

— Miglia — ripeté Duré, come se la parola gli richiamasse dei ricordi.

— Mi spiace. — Indicai la basilica. — Questo luogo mi spinge a pensare nelle unità di misura della mia… vita precedente.

— Continui — disse monsignor Edouard. — Il vecchio e la piccina.

Sedetti sulla pietra fredda, esausto; braccia e mani mi tremavano per la stanchezza. — Nell’ultimo sogno, Sol ha offerto Rachel allo Shrike. È stata la richiesta di Rachel stessa. Non ho visto cos’è accaduto dopo. Le Tombe si aprivano.

— Tutte? — domandò Duré.

— Tutte quelle che vedevo.

I due uomini si scambiarono un’occhiata.

— C’è dell’altro — dissi; e raccontai il dialogo con Ummon. — È possibile che una divinità si… evolva in questo modo dalla consapevolezza umana, senza che l’umanità se ne renda conto?

I lampi erano cessati, ma ora la pioggia cadeva con tale intensità che la udivo tamburellare sull’altissima cupola. Da qualche parte, nel buio, una pesante porta cigolò e risuonò il rumore di passi che si allontanavano.

Candele votive nei recessi in penombra della basilica mandarono guizzi di luce rossa contro pareti e tendaggi.

— Secondo San Teilhard, è possibile — disse stancamente Duré. — Ma se quel dio è un essere limitato che si evolve nella stessa maniera in cui si sono evoluti altri esseri limitati, allora, no., non è il Dio di Abramo e il Cristo.

Monsignor Edouard annuì. — C’è un’antica eresia…

— Sì — dissi. — L’eresia sociniana. Padre Duré l’ha spiegata a Sol Weintraub e al Console. Ma quale differenza fa il modo in cui questo… potere… si è evoluto, e se sia limitato o no? Se Ummon dice il vero, abbiamo a che fare con una forza che, come fonte di energia, usa le quasar. Questo, signori, è un Dio che può distruggere galassie intere!

— Sarebbe un dio che distrugge galassie — disse Duré. — Non Dio.

Notai chiaramente l’enfasi sull’ultima parola. — Ma se non è limitato —obiettai — se è il Punto Omega della consapevolezza totale, se è la stessa Trinità su cui la vostra Chiesa ha discusso e fatto teorie fin da prima di Tommaso d’Aquino… e se una parte di questa Trinità è fuggita all’indietro nel tempo fin qui… fino al momento attuale… allora cosa succede?

— Fuggita da cosa? — domandò piano Duré. — Il Dio di Teilhard… il Dio della Chiesa… il nostro Dio, sarebbe il Punto Omega in cui si con-

giungono perfettamente il Cristo dell’Evoluzione, il Personale e l’Universa-le… quel che Teilhard chiamò l’ En haut e l’ En avant. Non potrebbe esistere una minaccia tale da indurre alla fuga un elemento della personalità divina.

Nessun Anticristo, nessun teorico potere satanico, nessun “anti-Dio” potrebbe in alcun modo minacciare una simile consapevolezza universale.

Cosa sarebbe, quest’altro dio?

— Il Dio delle macchine? — dissi, con voce quasi impercettibile.

Monsignor Edouard congiunse le mani come se stesse per pregare, ma era solo un gesto di profonda riflessione e di imbarazzo ancora più intenso.

— Però Cristo aveva dubbi — disse. — Cristo sudò sangue, nell’orto, e chiese che quel calice fosse allontanato da lui. Se era in atto un secondo sacrificio, un qualcosa di più terribile della crocifissione stessa… allora potrei immaginare l’entità-Cristo della Trinità passare attraverso il tempo, passeggiare in un quadrimensionale orto di Getsemani allo scopo di gua-dagnare qualche ora… o qualche anno… per riflettere.

— Qualcosa di più terribile della crocifissione — ripeté padre Paul Duré, in un bisbiglio rauco.

Monsignor Edouard e io fissammo il prete. Su Hyperion, Duré si era au-tocrocifisso a un albero tesla ad alto voltaggio, per sfuggire al parassita crucimorfo che continuava a risuscitarlo. E aveva patito innumerevoli volte le atroci sofferenze della crocifissione e della morte per scarica elettrica.

— Qualsiasi cosa la consapevolezza En haut fugga — mormorò Duré —

è la più terribile.

Monsignor Edouard toccò la spalla dell’amico. — Paul, racconta a quest’uomo il tuo viaggio fin qui.

Duré tornò dal luogo remoto dove i ricordi l’avevano portato e mi fissò.

— Lei conosce la storia di ciascuno di noi… e i particolari della nostra permanenza nella Valle delle Tombe?

— Credo di sì. Fino al momento in cui lei è scomparso.

Il prete sospirò, con dita tremanti si toccò la fronte. — Allora, forse lei può ricavare un senso dal modo in cui sono giunto qui… e da quel che ho visto lungo il percorso.

— Vidi una luce, nella terza Grotta — raccontò padre Duré. — Entrai.

Pensieri di suicidio, lo confesso, mi avevano invaso la mente… quel che ne restava, dopo la brutale ricostruzione del crucimorfo… non voglio nobilita-re la funzione di quel parassita usando la parola risurrezione.

“Vidi una luce e pensai che fosse lo Shrike. Avevo la sensazione che il mio secondo incontro con quella creatura… il primo era avvenuto anni addietro, nel labirinto sotto la Fenditura, quando lo Shrike mi unse con l’ese-crando crucimorfo… che il mio secondo incontro fosse atteso da troppo tempo.

“Quando, il giorno precedente, avevamo cercato il colonnello Kassad, quella Grotta era poco profonda, anonima, con una parete di roccia nuda che ci aveva bloccati dopo trenta passi. Adesso la parete era scomparsa e al suo posto c’era una statua non dissimile dalla bocca dello Shrike, pietra sporgente in quella mistura di meccanico e di organico, stalattiti e stalag-miti acuminate come denti di carbonato di calcio.

“Dentro la bocca c’era una scala di pietra che portava in basso. Proprio da quell’abisso proveniva la luce, ora livida, ora rosso cupo. L’unico rumore era il sospiro del vento, come se la roccia stessa respirasse.

“Non sono Dante. Non cercavo Beatrice. Quel po’ di coraggio… fata-lismo è il termine più giusto… era evaporato con l’assenza della luce del sole. Mi girai e percorsi quasi di corsa i trenta passi fino all’ingresso della grotta.

“Non c’era ingresso. La grotta terminava bruscamente. Non avevo udito rumori di crollo, di valanga; inoltre la roccia al posto dell’ingresso sembrava antica e intatta come il resto della grotta. Cercai un’uscita per mezz’ora, ma non ne trovai; non volevo tornare alla scala, così alla fine mi sedetti per qualche ora dove una volta c’era l’ingresso. Un altro trucco dello Shrike.

Un’altra misera messinscena di quel pianeta perverso. Lo scherzo secondo Hyperion. Che ridere!

“Rimasi alcune ore seduto nel buio a guardare la luce all’estremità opposta della grotta pulsare silenziosamente; poi mi resi conto che lo Shrike non sarebbe venuto a trovarmi lì, che l’ingresso non sarebbe riapparso per magia. Avevo la scelta tra restare lì seduto fino a morire di fame… o di sete, visto che ero già disidratato… oppure scendere quella maledetta scala.

“Scesi.

“Anni prima, letteralmente vite prima, quando avevo visitato i Bikura sull’altopiano Punta di Ala, il labirinto in cui avevo incontrato lo Shrike si trovava nella parete della Fenditura, tre chilometri sotto il bordo del can-yon. Era vicino alla superficie del pianeta, mentre la maggior parte dei labirinti, sulla maggior parte dei mondi labirinto, si trova almeno dieci chilometri sotto la crosta planetaria. Ero sicuro che quella scala infinita… una ripida scala a chiocciola, di pietra, tanto ampia da permettere la discesa all’inferno di dieci preti gomito a gomito… sarebbe finita nel labirinto. Lì al-

l’inizio lo Shrike mi aveva maledetto con l’immortalità. Se la creatura, o il potere che la spingeva, aveva un minimo senso dell’ironia, sarebbe stato appropriato che la mia immortalità e la mia vita mortale terminassero proprio lì.

“A mano a mano che scendevo, la luce divenne più intensa… era adesso un bagliore rosato; dieci minuti dopo, fu rosso intenso; dopo un’altra mezz’ora, cremisi guizzante. Una messa in scena troppo dantesca e fondamentalista da quattro soldi, per i miei gusti. Scoppiai quasi a ridere, al pensiero che comparisse un diavoletto, completo di coda e di tridente e di zoccoli fessi e di baffetti sottili come tratto di matita.

“Ma non risi, quando fu chiara l’origine della luce: crucimorfi, centinaia e migliaia di quei parassiti, piccoli all’inizio, incollati alle scabre pareti della scala come croci grossolanamente intagliate da un conquistador sotterraneo, poi più grossi e più numerosi, fin quasi a sovrapporsi, biolumine-scenti di rosa corallo, di rosso carne viva, di rosso sangue.

“Mi venne la nausea. Era come entrare in un pozzo tappezzato di sangui-sughe gonfie e pulsanti, anche se i crucimorfi erano peggio. Ho visto i risultati degli esami dell’analizzatore medico a ultrasuoni, fatti a me quando avevo uno solo di quei parassiti: gangli aggiuntivi, simili a fibre grigie, che infiltravano carne e organi; guaine di filamenti che si torcevano; grappoli di nematodi simili a orribili tumori che non concedevano nemmeno la misericordia della morte. Adesso su di me avevo due crucimorfi: quello di Lenar Hoyt e il mio. Pregai di morire, anziché sopportarne un altro.

“Continuai a scendere. Le pareti pulsavano di calore, oltre che di luce, non so se causato dalla profondità o dall’ammasso di migliaia di crucimorfi. Finalmente percorsi l’ultima curva della scala, scesi l’ultimo gradino e mi trovai nel labirinto.

“Il labirinto. Si estendeva lontano, come avevo visto in innumerevoli olografie e una volta di persona: lisci tunnel a sezione quadrata di trenta metri di lato, scavati nella roccia di Hyperion più di tre quarti di milione di anni fa, che intersecavano il pianeta come catacombe progettate da un ingegnere folle. I labirinti si trovano su nove mondi, cinque nella Rete, gli altri, come quello di Hyperion, nella Periferia: sono tutti identici, scavati tutti nel medesimo periodo, e nessuno rivela indizi sul motivo della propria esistenza. Le leggende sui Costruttori di Labirinti abbondano, ma quei mi-tici ingegneri non hanno lasciato alcun manufatto, alcuna traccia dei loro metodi né del loro carattere alieno, e nessuna teoria offre una ragione logica per quello che è senz’altro uno dei più grandi progetti di ingegneria che la galassia abbia mai visto.

“Tutti i labirinti sono vuoti. Robot telecomandati hanno esplorato milioni di chilometri di gallerie tagliate nella roccia e, a eccezione dei punti in cui il tempo e i crolli hanno alterato le catacombe originali, i labirinti sono informi e vuoti.

“Ma non nel punto dove adesso ero io.

“Crucimorfi illuminavano una scena degna di Hieronymus Bosch, mentre fissavo il corridoio infinto, infinito ma non vuoto… no, non vuoto.

“Sulle prime pensai che ci fosse una folla di persone viventi, un fiume di teste e di spalle e di braccia, esteso per i chilometri che potevo vedere, una corrente di umanità interrotta a tratti da veicoli parcheggiati, tutti dello stesso colore rosso ruggine. Quando avanzai, accostandomi alla parete di umanità strettamente ammassata, a meno di venti metri da me, capii che si trattava di cadaveri. Decine, centinaia di migliaia di cadaveri umani, alcuni distesi scompostamente sul pavimento di pietra, alcuni schiacciati contro le pareti, ma per la maggior parte tenuti a galla dalle pressione di altri cadaveri, tanto strettamente erano ammassati in quel particolare tunnel del labirinto.

“C’era un sentiero: tagliava fra i cadaveri come se una falciatrice vi si fosse aperta la strada. Lo seguii… badando bene a non sfiorare un braccio proteso o una caviglia emaciata.

“I corpi erano umani, in molti casi ancora vestiti, mummificati da eoni trascorsi in quella cripta priva di batteri. Pelle e carne erano state conciate, stirate e strappate come stamigna marcia, fino a ricoprire solo ossa e spesso nemmeno quelle. I capelli restavano sotto forma di viticci di catrame polveroso, rigidi come fibroplastica verniciata. Le tenebre fissavano da sotto palpebre aperte, dai denti. Le vesti che un tempo erano certo state di una miriade di colori adesso erano marrone chiaro o grigie o nere, friabili come indumenti scolpiti in pietra sottile. Grumi di plastica fusa dal tempo, ai polsi e al collo, erano forse comlog o l’equivalente.

“I veicoli più grossi forse un tempo erano VEM, ma adesso erano cumuli di ruggine pura. Dopo un centinaio di metri, inciampai; piuttosto che cadere nel campo di cadaveri, mi aggrappai a un’alta macchina tutta curve e torrette annebbiate. La pila di ruggine crollò su se stessa.

“Vagai, senza il mio Virgilio, lungo il terribile sentiero eroso nella carne umana, domandandomi perché mi si mostrasse tutto questo, che cosa signi-ficasse. Dopo una camminata interminabile, barcollando fra mucchi di umanità buttata via, giunsi a un’intersezione; tutt’e tre i corridoi erano già pieni di corpi. Lo stretto sentiero continuava nel tunnel alla mia sinistra.

Lo seguii.

“Dopo ore intere e forse più, mi fermai e mi sedetti su di uno stretto marciapiede di pietra che serpeggiava in mezzo a quell’orrore. Se in quel piccolo tratto di tunnel c’erano decine di migliaia di cadaveri, il labirinto di Hyperion ne conteneva certo dei miliardi. Di più. I nove mondi labirinto insieme senza dubbio erano una cripta per miliardi di miliardi.

“Non avevo idea del perché mi si mostrava questa Dachau finale dell’anima. Vicino al punto dove sedevo, il cadavere mummificato di un uomo riparava ancora con la curva del braccio nudo fino all’osso il cadavere di una donna. In grembo alla donna c’era un fagotto con capelli neri e corti.

Distolsi lo sguardo e piansi.

“Come archeologo, avevo portato alla luce vittime di pena capitale, di incendio, di alluvione, di terremoto e di eruzione vulcanica. Simili scene di famiglia non mi erano nuove; erano la condizione essenziale della storia.

Ma in qualche modo quella scena era molto più orribile. Forse a causa del numero, milioni di morti nel loro olocausto. Forse era la luminosità dei crucimorti che tappezzavano il tunnel come migliaia di scherzi blasfemi.

Forse era il gemito triste del vento che soffiava attraverso infiniti corridoi di pietra.

“La mia vita e l’insegnamento e le sofferenze e le piccole vittorie e le innumerevoli sconfitte mi avevano portato lì… al di là della fede, della preoccupazione, della semplice sfida miltoniana. Provai l’impressione che quei corpi fossero lì da mezzo milione di anni o anche più, ma che le persone provenissero dal nostro tempo o, peggio ancora, dal nostro futuro.

Nascosi fra le mani il viso e piansi.

“Non fui avvertito da fruscii né da un vero rumore, ma qualcosa, qualcosa, forse un movimento di aria… alzai gli occhi e lo Shrike era lì, a nemmeno due metri. Non sul sentiero, ma fra i corpi: una statua in onore dell’architetto di quel carnaio.

“Mi alzai. Non sarei rimasto seduto, né tantomeno inginocchiato, di fronte a quell’abominio.

“Lo Shrike si mosse verso di me, slittò più che camminare, scivolò come su rotaie prive di attrito. La luce color sangue dei crucimorfi si riversò sul carapace argento vivo, sull’eterno, impossibile sorriso… stalattiti e stalag-miti di acciaio.

“Non provai impulsi di violenza verso la creatura: solo tristezza e una terribile pietà. Non per lo Shrike, qualsiasi cosa fosse, ma per tutte le vit-

time che, da sole e non sostenute nemmeno dalla più fievole delle fedi, avevano dovuto affrontare quell’incarnazione del terrore nella notte.

“Per la prima volta notai che, da breve distanza, meno di un metro, intorno allo Shrike c’era un odore… un lezzo di olio rancido, di cuscinetti surriscaldati e di sangue secco. La fiamma nei suoi occhi pulsava in perfetta sintonia con l’alzarsi e l’abbassarsi della luminescenza dei crucimorfi.

“Anni prima non credetti che quella creatura fosse soprannaturale, manifestazione del bene o del male, semplice aberrazione dello svolgimento in-sondabile e all’apparenza insensato dell’universo: la ritenni un terribile scherzo evolutivo. L’incubo peggiore di San Teilhard. Ma comunque una cosa, che ubbidiva alle leggi di natura non importa quanto stravolte, sog-getta ad alcune regole dell’universo, in qualche luogo e in qualche tempo.

“Lo Shrike sollevò le braccia verso di me, intorno a me. Le lame ai quattro polsi erano molto più lunghe delle mie mani; la lama sul petto, più lunga del mio braccio. Lo fissai negli occhi, mentre un paio di braccia di fil di ferro affilato e di molle di acciaio mi circondava e l’altro paio girava lentamente riempiendo il poco spazio fra di noi.

“Le lame delle dita si aprirono. Trasalii, ma non arretrai, quando queste lame si avventarono, mi penetrarono nel petto, con dolore di fuoco freddo, come laser chirurgici che taglino terminazioni nervose.

“Lo Shrike arretrò, reggendo una roba rossa ancora più arrossata dal mio stesso sangue. Barcollai, aspettandomi quasi di vedere nelle mani del mostro il mio cuore: l’ironia finale di un morto che batte le palpebre per la sorpresa nel vedere il proprio cuore negli ultimi secondi prima che l’incre-dulo cervello si prosciughi del sangue.

“Ma non era il mio cuore. Lo Shrike reggeva il crucimorfo che avevo portato sul petto, il mio crucimorfo, il depositario parassitico del mio DNA quasi immortale. Barcollai di nuovo, quasi caddi, mi toccai il petto. Le dita si coprirono di sangue, ma non c’era la fuoruscita arteriosa che mi sarei aspettato da una rozza operazione chirurgica come quella; la ferita si rimar-ginava sotto i miei occhi. Sapevo che il crucimorfo aveva inviato in tutto il corpo tubercoli e filamenti. Sapevo che nessun laser chirurgico era riuscito a separare quei micidiali viticci dal corpo di padre Hoyt… né dal mio. Ma sentivo il contagio guarire, le fibre interne seccarsi e scomparire fino alla più debole traccia di tessuto cicatriziale interno.

“Avevo ancora il crucimorfo di Hoyt. Ma quello era diverso. Alla mia morte, Lenar Hoyt sarebbe rinato dalle mie carni. Io sarei morto. Non ci sarebbe stato più un misero duplicato di Paul Duré, più ottuso e meno vita-

le a ogni successiva rigenerazione.

“Senza uccidermi, lo Shrike mi aveva concesso la morte.

“La creatura buttò nel mucchio di cadaveri il crucimorfo che già si raffreddava; mi prese per il braccio, tagliando senza sforzo tre strati di tessuto e provocando un istantaneo fiotto di sangue dal bicipite al contatto di quei bisturi.

“Mi guidò tra i cadaveri, verso la parete. Lo seguii, cercando di non calpestare i corpi; ma, preoccupato di non farmi tranciare il braccio, non sempre ci riuscii. Cadaveri si sbriciolarono in polvere. A uno rimase nella cavità toracica subito sbriciolata l’impronta del mio piede.

“E poi arrivammo alla parete, a una sezione improvvisamente priva di crucimorfi; e mi resi conto che si trattava di un’apertura a schermo di energia, diversa per forma e per grandezza dai teleporter, ma simile per opacità e ronzio. Avrei fatto qualsiasi cosa, pur di uscire da quel deposito di morte.

“Lo Shrike mi spinse attraverso il portale.”

Dopo una pausa, padre Duré riprese a raccontare. — Gravità zero. Un labirinto di paratie fracassate, intrichi di cavi galleggianti come visceri di una creatura gigantesca, lampi di luci rosse… per un secondo, pensai che anche lì ci fossero crucimorfi, ma poi capii che erano luci di emergenza di una spazionave morente. Indietreggiai, rotolai nella gravità zero alla quale non ero abituato, mentre altri cadaveri mi passavano accanto: non mum-mie, ma persone appena morte, appena uccise, con la bocca spalancata, occhi sbarrati, polmoni esplosi, scie di fluidi sanguinolenti, che simulavano la vita nella lenta e nevrotica reazione a ogni casuale corrente di aria e a ogni sobbalzo del relitto di nave spaziale della FORCE.

“Era proprio una nave della FORCE, ne ero sicuro. Vidi le uniformi della FORCE:spazio addosso ai cadaveri di ragazzi. Vidi le scritte in gergo militare sulle paratie e sui portelli di emergenza sventrati, le inutili istruzioni nei men che inutili armadietti con dermotute e bolle a pressione ancora sgonfie e ripiegate sugli scaffali. Qualsiasi cosa avesse distrutto la nave, l’aveva fatto con la repentinità di una epidemia nella notte.

“Lo Shrike comparve accanto a me.

“Lo Shrike… nello spazio! Libero da Hyperion e dai legami delle maree del tempo! Su molte di quelle navi c’erano dei teleporter!

“Vidi un portale a meno di cinque metri da me, nel corridoio. Un corpo ruzzolò da quella parte, il braccio destro del giovane passò attraverso il campo opaco come se provasse la temperatura dell’acqua del mondo dal-

l’altra parte. L’aria sfuggiva dal corridoio, con un gemito sempre crescente.

Incitai il cadavere a passare, ma il differenziale di pressione lo soffiò via dal portale, con il braccio sorprendentemente intatto, ricuperato, anche se la faccia era una maschera da anatomista.

“Mi girai verso lo Shrike. Il movimento mi fece compiere un mezzo giro su me stesso nella direzione opposta.

“Lo Shrike mi sollevò, strappandomi con le lame lembi di pelle, e mi spinse giù nel corridoio verso il teleporter. Non avrei potuto cambiare traiettoria nemmeno se avessi voluto. Nei secondi prima di varcare il portale che ronzava e crepitava, immaginai che dall’altra parte ci fosse il vuoto, una caduta da grande altezza, decompressione esplosiva o, peggio ancora, di nuovo il labirinto.

“Invece, rovinai da mezzo metro su un pavimento di marmo. Qui, a nemmeno duecento metri da questo punto, nell’alloggio privato di Papa Urbano XVI… che, tra parentesi, era morto di vecchiaia meno di tre ore prima che cadessi fuori dal suo teleporter privato. La Porta del Papa, la chiamano su Nuovo Vaticano. Provai il dolore/castigo per essere lontano da Hyperion, lontano dalla sorgente del crucimorfo; ma il dolore è ormai un vecchio alleato, non ha più dominio su di me.

“Trovai Edouard. È stato tanto gentile da ascoltare per ore la storia che nessun gesuita ha mai dovuto confessare. È stato ancora più gentile da cre-dermi. Adesso anche lei l’ha ascoltata. Questa è la mia storia.”

La tempesta era passata. Restammo seduti, nella luce delle candele, sotto la cupola di S. Pietro; per un poco nessuno aprì bocca.

— Lo Shrike ha accesso alla Rete — dissi infine.

Lo sguardo di Duré era tranquillo. — Sì.

— Si sarà trattato di una nave nello spazio di Hyperion…

— Così parrebbe.

— Quindi dovrebbe essere possibile tornare lì. Usare la… la Porta del Papa… per tornare nello spazio di Hyperion.

Monsignor Edouard inarcò il sopracciglio. — Vorrebbe farlo, signor Severn?

Mi mordicchiai la nocca. — Ho riflettuto su questa possibilità.

— Perché? — domandò piano il monsignore. — La sua controparte, il cìbrido che Brawne Lamia portò con sé nel pellegrinaggio, ha trovato solo morte, lassù.

Scossi la testa, quasi a mettere chiarezza nella confusione dei miei pen-