PARTE TERZA

31

Mi svegliai e non fui contento che mi avessero svegliato.

Mi girai, socchiusi gli occhi e imprecai all’improvvisa invasione di luce; Leigh Hunt, seduto sull’orlo del letto, reggeva ancora in mano un iniettore aerosol.

— Ha preso pillole di sonnifero sufficienti a tenerla a letto tutto il giorno

— disse. — Si alzi e scenda.

Mi tirai a sedere, mi strofinai la barba di un giorno, guardai nella direzione di Hunt. — Chi diavolo le ha dato il diritto di entrare nella mia stanza? — Per lo sforzo di parlare, cominciai a tossire e non mi fermai finché Hunt non tornò dal bagno portando un bicchiere d’acqua.

— Tenga.

Bevvi, cercando inutilmente di mostrarmi furibondo e offeso, fra uno spasmo di tosse e l’altro. Brandelli di sogno svanirono come nebbia mattutina. Un terribile senso di perdita scese su di me.

— Si vesta — disse Hunt, restando in piedi. — Il PFE vuole vederla fra venti minuti. Mentre dormiva, sono accadute diverse cose.

— Quali? — Mi strofinai gli occhi e mi passai le dita fra i capelli arruffati.

Hunt sorrise di storto. — Si colleghi alla sfera dati. Poi scenda al più presto possibile nell’ufficio di Gladstone. Venti minuti, Severn. — Uscì dalla camera.

Mi collegai alla sfera dati. Un modo di visualizzare il punto d’entrata nella sfera dati è quello di immaginare una zona a turbolenza variabile dell’oceano della Vecchia Terra. I giorni normali tendevano a mostrare un mare placido con interessanti disegni di increspature. Le crisi mostravano mare mosso e creste di onde. Oggi era in corso un uragano. L’entrata era ritar-data su ogni via d’accesso, la confusione regnava nei frangenti degli impulsi di aggiornamento, la matrice piano dati era impazzita con cambiamenti di deposito e trasferimenti di credito; e la Totalità, di solito un ronzio multistrato di notizie e di dibattiti politici, era un vento furioso di confusione, referendum abbandonati e obsoleti stampi di posizione soffiati via come brandelli di nuvole.

— Sant’Iddio — mormorai, interrompendo il contatto ma sentendo la pressione dell’ondata di notizie premermi ancora sui circuiti impiantati e sul cervello. Guerra. Attacco di sorpresa. Imminente distruzione della Rete. Proposte di incriminare Gladstone. Sommosse su decine di mondi. Ribellione del Culto Shrike, su Lusus. La flotta della FORCE in ritirata dal sistema di Hyperion con una disperata azione di retroguardia, ma troppo tardi, troppo tardi. Hyperion già sotto attacco. Timore di incursioni via teleporter.

Mi alzai, corsi a farmi la doccia e il bagno di ultrasuoni, a tempo record.

Hunt o qualcun altro mi aveva preparato un abito formale grigio con mantello; mi vestii in fretta, mi pettinai all’indietro i capelli bagnati e dei riccioli umidi mi ricaddero sul colletto.

Non andava bene far attendere il Primo Funzionario Esecutivo dell’Egemonia dell’Uomo. Oh, no, non andava bene affatto.

— Era ora che arrivasse — disse Meina Gladstone, quando entrai nelle sue stanze private.

— Che cazzo ha combinato? — replicai, brusco.

Gladstone batté le palpebre. Evidentemente il PFE dell’Egemonia dell’Uomo non era abituata a sentirsi apostrofare in quel tono. “Merda” pensai.

— Ricordi chi è e con chi parla — disse freddamente Gladstone.

— Non so chi sono. E forse parlo con il più grande assassino di massa dai tempi di Horace Glennon-Height. Perché diavolo ha permesso che questa guerra scoppiasse?

Di nuovo Gladstone batté le palpebre e si guardò intorno. Eravamo soli.

Il salotto era lungo e piacevolmente buio; alle pareti erano appese opere d’arte della Vecchia Terra. In quel momento non mi sarebbe importato nemmeno di trovarmi in una stanza piena di Van Gogh originali. Fissai Gladstone: il viso alla Lincoln era semplicemente la faccia di una donna anziana, nella scarsa luce che filtrava dalle persiane. Il PFE mi restituì lo sguardo per un momento, poi lo distolse di nuovo.

— Mi scusi — dissi bruscamente, senza traccia di scusa nella voce.

— Lei non ha permesso che scoppiasse la guerra, l’ha fatta scoppiare, vero?

— No, Severn, non l’ho fatta scoppiare. — La voce di Gladstone era smorzata, quasi un bisbiglio.

— Si spieghi. — Camminai avanti e indietro sotto le alte finestre, guardando la luce delle persiane muoversi su di me come strisce dipinte. — E

non sono Joseph Severn — aggiunsi.

Inarcò il sopracciglio. — Devo chiamarla signor Keats?

— Mi chiami Nessuno. Così, quando arriveranno gli altri ciclopi, potrà dire che Nessuno l’ha accecata, e loro se ne andranno dicendo che è il volere degli dèi.

— Intende accecarmi?

— In questo momento le torcerei il collo e me ne andrei senza un briciolo di rimorso. Milioni di persone moriranno, prima che termini la settimana. Come ha potuto permetterlo?

Gladstone si toccò il labbro inferiore. — Il futuro si dirama in due sole direzioni — disse a bassa voce. — La guerra e l’incertezza totale, oppure la pace e l’assoluta certezza dell’annichilimento. Ho scelto la guerra.

— Chi lo dice? — Ora nella mia voce c’era più curiosità che rabbia.

— È un fatto. — Diede un’occhiata al comlog. — Fra dieci minuti devo essere in Senato per dichiarare la guerra. Mi informi delle ultime novità sui pellegrini di Hyperion.

Incrociai le braccia e la fissai. — Solo se mi promette di fare una cosa.

— Se posso.

Esitai. Nessuna leva dell’universo avrebbe indotto quella donna a firmare un assegno in bianco. — E va bene — dissi. — Voglio che si metta in contatto con Hyperion, che annulli la quarantena in cui ha messo la nave del Console e che mandi qualcuno lungo l’Hoolie a cercare il Console stesso.

Si trova a circa centotrenta chilometri dalla capitale, sopra le chiuse Karla.

Forse è ferito.

Gladstone si grattò il labbro. — Manderò qualcuno a cercarlo. La revoca della quarantena dipende da quel che mi racconterà. Gli altri sono vivi?

Mi strinsi nel mantello e mi lasciai cadere sul divano, di fronte a lei. —

Alcuni.

— La figlia di Byron Lamia? Brawne?

— Lo Shrike l’ha presa. Per un poco è rimasta priva di conoscenza, collegata alla sfera dati da una sorta di shunt neurale. Ho sognato… si librava da qualche parte, riunita alla persona/impianto della prima personalità ricuperata Keats. Stavano per entrare nella sfera dati… nella megasfera, a dire il vero: connessioni col Nucleo e dimensioni che nemmeno sognavo, oltre alla sfera dati accessibile.

— È viva, al momento? — Gladstone si sporse, con espressione intensa.

— Non so. Il corpo è scomparso. Sono stato risvegliato prima di vedere la sua personalità entrare nella megasfera.

Gladstone annuì. — E il colonnello?

— Kassad è stato portato in un luogo imprecisato da Moneta, la femmina umana che pare risiedere nelle Tombe, mentre queste viaggiano nel tempo. L’ultima volta che l’ho visto, assaliva a mani nude lo Shrike. O meglio, gli Shrike: ce n’erano migliaia.

— È sopravvissuto?

Allargai le mani. — Non so. Erano sogni. Frammenti. Spizzichi di percezione.

— Il poeta?

— Sileno è stato portato via dallo Shrike. Impalato sull’albero di spine.

Ma in seguito l’ho visto di sfuggita, nel sogno di Kassad. Sileno era ancora vivo. Non so come.

— Allora l’albero di spine è reale, non semplice propaganda del Culto Shrike?

— Oh, sì, è reale.

— E il Console se n’è andato? Ha cercato di tornare alla capitale?

— Con il tappeto Hawking di sua nonna. Ha funzionato bene, fino a un punto nei pressi delle chiuse Karla. Tappeto e Console sono caduti nel fiume. — Anticipai la domanda seguente. — Non so se sia sopravvissuto.

— E il prete? Padre Hoyt?

— Il crucimorfo l’ha riportato in vita come padre Duré.

— È davvero padre Duré? O un duplicato privo d’intelligenza?

— È Duré. Ma… danneggiato. Scoraggiato.

— E si trova ancora nella valle?

— No. È scomparso in una delle Grotte. Non so cosa gli sia accaduto.

Gladstone guardò il comlog. Cercai di immaginare la confusione e il caos che regnavano nel resto dell’edificio, del pianeta, della Rete. Era chiaro che il PFE si era ritirato per quindici minuti in quel salottino, prima di tenere il discorso al Senato. Forse sarebbe stato l’ultimo momento di solitudine di cui avrebbe goduto nelle prossime settimane. Forse per sempre.

— Il capitano Masteen?

— Morto. Sepolto nella valle.

Gladstone trasse un sospiro. — Weintraub e la piccina?

Scossi la testa. — Ho sognato cose fuori sequenza, fuori tempo. Credo che sia già accaduto, ma sono confuso. — Alzai gli occhi: Gladstone aspettava pazientemente. — La piccina aveva solo alcuni secondi di vita, quando lo Shrike è venuto. Sol l’ha offerta. Penso che lo Shrike l’abbia portata dentro la Sfinge. Le Tombe brillavano di luce molto intensa. Ne uscivano… altri Shrike.

— Allora le Tombe si sono aperte?

— Sì.

Gladstone toccò il comlog. — Leigh? Dica all’ufficiale di servizio del centro trasmissioni di mettersi in contatto con Theo Lane e i responsabili militari su Hyperion. Devono lasciare libera la nave in quarantena. Inoltre, Leigh, dica al governatore generale che fra qualche minuto gli invierò un messaggio personale. — Il comlog trillò e lei tornò a guardarmi. — C’è stato altro, nei suoi sogni?

— Immagini. Parole. Non capisco che cosa accade. Questi sono i punti principali.

Gladstone sorrise appena. — Si rende conto di sognare eventi che non rientrano nell’esperienza dell’altra personalità Keats?

Rimasi in silenzio, stordito dalla sorpresa provocata da quelle parole. Il mio contatto con i pellegrini era stato possibile mediante un legame basato su tecnologie del Nucleo con l’impianto/persona nell’iterazione Schrön di Brawne, attraverso di esso e attraverso la primitiva sfera dati che avevano condiviso. Ma la persona era stata liberata; la sfera dati era stata distrutta dal distacco e dalla distanza. Anche un ricevitore astrotel non può ricevere messaggi, se non c’è trasmettitore.

Il sorriso di Gladstone sparì. — Come lo spiega? — domandò.

— Non lo spiego. — Alzai gli occhi. — Forse erano soltanto sogni. Sogni reali.

Gladstone si alzò. — Forse lo sapremo, quando e se troveremo il Console. O quando la nave arriverà nella valle. Fra due minuti devo presentarmi al Senato. C’è altro?

— Una domanda. Io chi sono? Perché sono qui?

Un nuovo accenno di sorriso. — Tutti ci poniamo queste domande, signor Se… signor Keats.

— Dico sul serio. Sono convinto che lei lo sappia meglio di me.

— Il Nucleo l’ha inviata a me per fare da collegamento con i pellegrini.

E da osservatore. In fin dei conti, lei è poeta e pittore.

Sbuffai e mi alzai. Ci avviammo lentamente al teleporter privato che l’avrebbe portata al Senato. — A cosa serve, l’osservazione, quando è la fine del mondo?

— Lo scopra. Vada a vedere la fine del mondo. — Mi tese una microcarta per il comlog. La inserii, guardai il diskey: era un chip universale che mi permetteva l’accesso a tutti i teleporter, pubblici, privati e militari.

Il biglietto per la fine del mondo.

— E se resto ucciso?

— Allora non udremo mai le risposte alle sue domande — disse Gladstone. Mi sfiorò il polso, si girò e varcò il portale.

Per alcuni minuti rimasi da solo nel suo ufficio, apprezzando la luce, il silenzio, l’arte. C’era davvero un Van Gogh alla parete, un quadro che valeva più di quanto molti pianeti potessero pagare. Era la veduta della casa dell’artista, ad Arles. La follia non è invenzione nuova.

Dopo un poco uscii e lasciai che la memoria del comlog mi guidasse nel labirinto della Casa del Governo, finché non trovai il terminex centrale del teleporter e lo varcai per vedere la fine del mondo.

C’erano due percorsi teleporter a pieno accesso, nella Rete: il Concourse e il fiume Teti. Mi teleportai nel Concourse, dove la striscia di mezzo chilometro di Tsingtao-Hsishuang Panna si collegava a quella di Nuova Terra e alla breve striscia marittima di Nevermore. Tsingtao-Hsishuang Panna era uno dei mondi della prima ondata, trentaquattro ore più tardi avrebbe subito l’assalto degli Ouster. Nuova Terra era nell’elenco della seconda ondata, annunciato adesso, e aveva poco più di una settimana standard, prima dell’invasione. Nevermore era nel cuore della Rete, ad anni di distanza dall’attacco.

Non c’erano segni di panico. La gente si dedicava alla sfera dati e alla Totalità, anziché alle vie. Camminando per gli stretti vicoli di Tsingtao, udivo la voce di Gladstone, da decine di ricevitori e di comlog personali: un bizzarro sottofondo verbale alle grida degli ambulanti e ai sibili di pneumatici sull’asfalto bagnato, mentre i risciò elettrici ronzavano più in alto, nei livelli di trasporto.

« …come un altro leader disse al suo popolo, alla vigilia di un attacco, quasi otto secoli fa: “Non ho niente da offrire, tranne sangue, fatica, lacrime e sudore”. Vi chiedete: qual è la nostra linea politica? Vi rispondo: fare guerra, nello spazio, sulla terraferma, nell’aria, per mare; fare guerra, con tutta la nostra potenza e con tutta la forza che giustizia e diritto ci conce-dono. Ecco la nostra linea politica…»

C’erano soldati della FORCE, nei pressi della zona di traslazione fra Tsingtao e Nevermore, ma il flusso di pedoni pareva normale. Mi chiesi quando i militari avrebbero requisito il viale pedonale del Concourse per adibirlo al traffico di veicoli e se l’avrebbero indirizzato verso il fronte o dalla parte opposta.

Passai su Nevermore. Le vie lì erano asciutte, a parte di tanto in tanto qualche spruzzo dell’oceano, trenta metri al di sotto dei bastioni di pietra del Concourse. Il cielo aveva le normali sfumature minacciose grigio e ocra, crepuscolo di malaugurio in pieno giorno. Negozietti di pietra risplendevano di luce e di mercanzie. Mi accorsi che le vie erano meno affollate del solito; la gente era nei negozietti o sedeva sui muriccioli di pietra o sulle panche, a capo chino, con espressione distratta, e ascoltava.

«…chiedete: a cosa miriamo? Rispondo con una parola sola: vittoria.

Vittoria a tutti i costi, vittoria nonostante tutti i terrori, vittoria per quanto possa essere lunga e dura la strada. Perché, senza vittoria, non ci sarà sopravvivenza…»

Al terminex principale di Edgartown non c’era molta coda. Battei il codice per Mare Infinitum e varcai il portale.

Il cielo era del solito verde sereno, l’oceano era di un verde più cupo, sotto la città galleggiante. Le fattorie di fuchi arrivavano all’orizzonte. La folla, così lontano dal Concourse, era ancora minore; le passerelle erano quasi vuote, alcuni negozi erano chiusi. Un gruppo di uomini, fermo vicino a un molo di barche-letto, ascoltava un antiquato ricevitore astrotel. Nell’aria riccamente salmastra, la voce di Gladstone era piatta e metallica.

« …proprio ora, unità della FORCE si trasferiscono senza soste alle proprie stazioni, ferme nel proposito e fiduciose nell’abilità di salvare non solo i mondi minacciati, ma tutta l’Egemonia dell’Uomo, dalla tirannia più sporca e devastante che abbia mai macchiato gli annali della storia…»

Mare Infinitum era a diciotto ore dall’invasione. Guardai verso il cielo, quasi aspettandomi di vedere qualche segno della flotta nemica, qualche indicazione di difese orbitali, movimenti di truppe nello spazio. C’era solo il cielo, il giorno caldo, il lieve rollio della città sulla superficie del mare.

Porta del Paradiso era al primo posto nell’elenco dell’invasione. Varcai il portale VIP di Piana Fangosa e guardai da Rifkin Heights la bella città che smentiva il proprio nome. Era notte fonda, così fonda che circolavano gli spazzini mecc; ma c’era movimento, lunghe file di gente silenziosa al ter-mincx pubblico di Rifkin Heights e code ancora più lunghe, in basso, ai portali della Passeggiata. Gli agenti della polizia locale spiccavano, alte figure in tuta blindata marrone; ma se unità della FORCE accorrevano a rinforzare la zona, non se ne vedeva segno.

Le persone in coda non erano gente del posto - chi viveva a Rifkin Heights e sulla Passeggiata quasi certamente aveva portali privati - ma parevano addetti ai lavori di bonifica parecchi chilometri al di là della foresta di felci e dei parchi. Non c’era panico e si parlava poco. Le code scorreva-no con la stoica pazienza di famiglie che andassero a guardare le attrazioni di un parco a tema. Pochi portavano bagagli più grandi di una sacca da viaggio o di uno zaino.

“Abbiamo raggiunto una tale equanimità” mi dissi “da comportarci di-gnitosamente anche di fronte a un’invasione?”

Porta del Paradiso era a tredici ore dall’ora H. Sintonizzai il comlog sulla Totalità.

«…se possiamo controbattere questa minaccia, allora i mondi che amiamo forse rimarranno liberi e la vita della Rete avanzerà in un futuro illuminato dal sole. Ma se falliremo, allora l’intera Rete, l’Egemonia, tutto ciò che abbiamo conosciuto e amato, sprofonderanno nell’abisso di una nuova Era Oscura, resa infinitamente più sinistra e duratura dalle luci della scienza pervertita e dell’umana libertà negata.

«Perciò rafforziamoci nei nostri compiti e comportiamoci in modo che, se pure l’Egemonia dell’Uomo e il suo Protettorato e gli alleati dovessero durare diecimila anni, l’umanità dica ancora: “Questo è stato il loro momento migliore”.»

Da qualche parte in basso, nella città fresca e silenziosa, iniziò la spara-toria. Prima venne lo strepito dei fucili a fléchettes, poi il profondo ronzio degli storditori antisommossa, poi le urla e lo sfrigolio delle armi a laser.

Sulla Passeggiata la folla si precipitò verso il terminex, ma dal parco emer-sero i poliziotti, accesero potenti riflettori alogeni che bagnarono di luce la folla, ordinarono per altoparlante di rimettersi in fila o disperdersi. La folla esitò, si mosse avanti e indietro come meduse prese in una corrente tradi-trice e poi, spronata dal rumore di spari, adesso più forte e più vicino, si lanciò verso le piattaforme del portale.

I poliziotti spararono gas lacrimogeni e granate a vertigine. Fra la folla e il teleporter, comparvero con un sibilo e un bagliore violetto i campi d’interdizione. Una squadriglia di VEM militari e di skimmer della sicurezza calò sulla città, con i riflettori che foravano il buio. Un raggio di luce mi sorprese, mi tenne prigioniero finché il mio comlog non ammiccò a un segnale interrogativo, poi passò oltre. Iniziò a piovere.

“L’equanimità è servita!”

I poliziotti controllavano il terminex pubblico di Rifkin Heights e varcavano il portale privato del Protettorato Atmosferico di cui mi ero servito.

Decisi di andare altrove.

C’erano commandos della FORCE, di guardia ai corridoi della Casa del Governo: esaminavano gli arrivi teleporter, nonostante il fatto che quello fosse uno dei portali di più difficile accesso di tutta la Rete. Oltrepassai tre posti di controllo, prima di arrivare all’ala funzionari/residenti dove allog-giavo. A un tratto le guardie svuotarono il corridoio principale e tennero sotto controllo le diramazioni; passò Gladstone, accompagnata da una mu-linante folla di consiglieri, di segretari, di capi militari. Mi vide, si fermò coinvolgendo la scorta e mi parlò attraverso la barriera di marines in tenuta da combattimento.

— Come le è sembrato il discorso, signor Nessuno?

— Bello — dissi. — Commovente. E, se non sbaglio, rubato a Winston Churchill.

Gladstone sorrise e scrollò leggermente le spalle. — Se bisogna rubare, meglio rubare ai maestri dimenticati. — Il sorriso svanì. — Notizie dalla frontiera?

— Appena adesso si comincia a recepire la realtà — risposi. — C’è da aspettarsi il panico.

— Me l’aspetto sempre. Novità sui pellegrini?

Rimasi sorpreso. — I pellegrini? Non ho… sognato.

La corrente della scorta e degli eventi cominciò a spingere il PFE lungo il corridoio. — Forse non ha più bisogno di dormire, per sognare — disse Gladstone, allontanandosi. — Provi.

La guardai sparire, ottenni il permesso di andare nel mio alloggio, trovai la porta e mi scostai, disgustato. La mia era una ritirata, per la paura e lo choc dell’orrore che scendeva su tutti noi. Sarei stato ben contento di starmene disteso nel letto, evitando il sonno, con le coperte tirate fin sotto il mento, a piangere sulla Rete, sulla piccola Rachel, su me stesso.

Lasciai l’ala residenziale, uscii nel giardino interno, vagai fra sentieri di ghiaia. Minuscole microguardie ronzavano nell’aria come api; una mi seguì attraverso il giardino di rose e nella zona dove un sentiero infossato si snodava fra umide piante tropicali, e poi nella sezione Vecchia Terra, accanto al ponticello. Mi sedetti sulla panchina di pietra, nel punto dove avevo discusso con Gladstone. “Forse non ha più bisogno di dormire, per sognare.

Provi.” Tirai sulla panchina i piedi, appoggiai il mento alle ginocchia, con la punta delle dita mi premetti le tempie e chiusi gli occhi.

32

Martin Sileno si torce e si dibatte nella pura poesia del dolore. Una spina d’acciaio, lunga due metri, gli entra fra le scapole, gli esce dal torace e si protende ancora per un metro in una punta orribile e rastremata. Le braccia non arrivano a toccarla. La spina è priva di qualsiasi asperità, le mani suda-te non vi fanno presa. Anche se è scivolosa al tatto, il corpo non scivola: Martin Sileno è impalato solidamente, come una farfalla infilzata per l’e-sposizione.

Non c’è sangue.

Nelle ore in cui la razionalità era tornata attraverso la folle nebbia della sofferenza, Martin Sileno si era chiesto il motivo. Non c’è sangue. Ma c’è sofferenza. Oh, sì, c’è sofferenza a non finire… sofferenza che trascende la più folle fantasia del poeta sull’essenza del dolore, sofferenza che trascende la sopportazione umana e i confini del dolore.

Ma Sileno sopporta. E Sileno soffre.

Urla per la millesima volta: un grido stridulo, vuoto di contenuto, privo di linguaggio, perfino di oscenità. Le parole non riescono a dare l’idea di una simile sofferenza. Sileno urla e si contorce. Dopo un poco, si affloscia; la lunga spina vibra leggermente in risposta. Altri penzolano sopra, sotto, dietro di lui, ma Sileno spreca pochissimo tempo per osservarli. Ciascuno è isolato nel suo bozzolo personale di sofferenza.

“Perché questo è l’inferno” pensa Sileno, citando Marlowe, “e non ne sono fuori.”

Ma sa che non è l’inferno. Né la vita dopo la morte. E sa pure che non è una sottobranca della realtà; la spina gli passa attraverso il corpo! Otto centimetri d’acciaio organico attraverso il petto! Eppure non è morto. Non sanguina. Quel luogo era da qualche parte ed era qualcosa, ma non l’inferno e neppure un posto vìvente.

Il tempo era strano, lì. Sileno sapeva già che il tempo si allunga e rallenta - la sofferenza del nervo esposto, sulla poltrona del dentista; il dolore dei calcoli renali, nella sala d’attesa di un ospedale - il tempo poteva rallentare, all’apparenza non muoversi affatto, mentre le lancette di un oltraggiato orologio biologico rimanevano ferme per lo choc. Ma il tempo si era mosso, allora. Il canale radicolare era perfetto. L’ultramorfina finalmente arrivava, agiva. Ma qui l’aria stessa è immobile per l’assenza di tempo. Il dolore è l’increspatura e la spuma di un’onda che non si frange.

Sileno urla, di furia e di dolore. E si contorce sulla spina.

— Maledetto! — riesce a dire finalmente. — Maledetto bastardo figlio di puttana. — Le parole sono resti di una vita differente, manufatti del sogno vissuto prima della realtà dell’albero. Sileno ricorda appena quella vita, come ricorda appena quando lo Shrike l’ha portato lì, l’ha impalato lì, l’ha lasciato lì.

— Oddiooo! — urla. Afferra a due mani la spina, cerca di spostarsi in su per dare sollievo al peso del corpo che si aggiunge incommensurabile al dolore sconfinato.

C’è un paesaggio, in basso. Può vederlo per miglia e miglia. È un impie-trito diorama di cartapesta della Valle delle Tombe del Tempo e del deserto. Anche la città morta e le lontane montagne sono riprodotte in miniatura plastificata, sterile. Non importa. Per Martin Sileno ci sono solo l’albero e la sofferenza; e le due cose sono indivisibili. Sileno snuda i denti in un sor-

riso screpolato dal dolore. Quand’era bambino, sulla Vecchia Terra, lui e Amalfi Schwartz, il suo migliore amico, avevano visitato una comune di cristiani nella Riserva Nordamericana, avevano imparato la loro rozza teologia e in seguito avevano fatto molte battute ironiche sulla crocifissione.

Il giovane Martin aveva allargato le braccia, incrociato le gambe, sollevato la testa e dichiarato: «Oddio, da qui vedo tutta la città». Amalfi era scop-piato a ridere.

Sileno urla.

Il tempo non passa veramente, ma dopo un poco la mente di Sileno torna a qualcosa che sembra l’osservazione lineare… qualcosa di diverso dalle oasi disperse di pura sofferenza, separate dal deserto di dolore ricevuto scioccamente… e in quella percezione lineare della propria sofferenza, Sileno comincia a imporre tempo su un luogo senza tempo.

Per prima cosa, le oscenità aggiungono chiarezza alla sofferenza. Urlare fa male, ma la rabbia chiarisce e chiarifica.

Poi, nelle pause esauste fra le urla o i puri spasmi di dolore, Sileno si concede pensiero. All’inizio si tratta semplicemente di un tentativo di mantenere sequenze, di recitare a mente le tabelline, qualsiasi cosa che separi la sofferenza di dieci secondi prima dalla sofferenza a venire. Sileno scopre che, nello sforzo di concentrarsi, la sofferenza diminuisce un poco: è sempre insopportabile, spinge sempre come fumo al vento ogni pensiero, ma diminuisce di una quantità imprecisabile.

Allora Sileno si concentra. Urla e grida e si contorce, ma si concentra.

Poiché non ha altro su cui concentrarsi, si concentra sul dolore.

Il dolore, scopre, ha una struttura. Ha una pianta. Ha disegni più intricati del guscio di un nautilus, tratti più barocchi della cattedrale gotica più ricca di contrafforti. Anche mentre urla, Martin Sileno studia la struttura di questo dolore. Si rende conto che è una poesia.

Inarca corpo e collo per la millesima volta, cerca sollievo dove nessun sollievo è possibile, ma stavolta vede una figura nota, cinque metri più in alto, infilzata in una spina simile alla sua, che si agita sotto l’irreale brezza della sofferenza.

— Billy! — ansima Sileno. È il suo primo pensiero vero e proprio.

Il suo ex signore e mecenate fissa un abisso invisibile, reso cieco dal dolore che ha accecato Sileno, ma si gira leggermente come in risposta al proprio nome urlato in questo posto al di là dei nomi.

— Billy! — grida di nuovo Sileno; poi, per il dolore, perde vista e pensiero. Si concentra sulla struttura del dolore, ne segue il disegno come se seguisse il contorno del tronco, dei rami, dei ramoscelli, delle spine dell’albero stesso. — Maestà!

Al di sopra delle grida, ode una voce e con stupore scopre che grida e voce sono sue:

…tu sei una cosa sognante;

febbre di te stesso… pensa alla Terra;

quale felicità esiste per te, anche nella speranza, solamente?

Quale asilo? Ogni creatura ha dimora;

ogni uomo vive giorni di gioia e di dolore,

che abbia compiuto imprese sublimi o infime…

solo il dolore solo la gioia, distinti:

il sognante, appena, avvelena tutti i suoi giorni,

subisce più dolore di quanto meritino i suoi peccati.

Riconosce i versi, non suoi, di John Keats, e sente che le parole ac-crescono la struttura dell’apparente caos di dolore che lo circonda. Capisce che il dolore è stato con lui fin dalla nascita… il dono dell’universo a un poeta. È un riflesso fisico del dolore, quello che ha sentito e cercato inutilmente di mettere in versi, d’appuntare in prosa, per tutti gli inutili anni di vita. È peggio del dolore; è infelicità perché l’universo offre dolore a tutti.

Il sognante, appena avvelena tutti i suoi giorni,

soffre più dolore di quanto meritino i suoi peccati!

Sileno declama a voce alta, ma non grida. Il ruggito di dolore che proviene dall’albero, più psichico che fisico, diminuisce per una minima frazione di secondo. C’è un’isola di turbamento, in quell’oceano di determinazione.

— Martin!

Sileno s’inarca, solleva la testa, cerca di mettere a fuoco la vista tra la foschia di dolore. Re Billy il Triste gracchia una parola che dopo un istante infinito Sileno riconosce: “Ancora!”

Sileno urla di sofferenza atroce, si contorce in uno spasmo di sciocca risposta fisica; ma quando si ferma, penzolando esausto, con il dolore non attenuato ma spinto via dalle zone motrici del cervello dalle tossine della fatica, permette alla voce che ha in sé di gridare e bisbigliare la propria canzone:

Spirito che qui regni!

Spirito che qui soffri!

Spirito che qui bruci!

Spirito che qui piangi!

Spirito! Chino

la fronte,

Ombrata dai tuoi vanni!

Spirito! Guardo

appassionato

I tuoi lividi dominii!

Il piccolo cerchio di silenzio si allarga a includere diversi rami vicini, una manciata di spine con i loro grappoli di esseri umani in extremis.

Sileno fissa re Billy il Triste, vede il suo signore tradito aprire gli occhi afflitti. Per la prima volta in più di due secoli, mecenate e poeta si guardano. Sileno consegna il messaggio che l’ha portato qui, che l’ha appeso lì. —

Maestà, sono spiacente.

Prima che Billy possa rispondere, prima che il coro di grida soffochi qualsiasi risposta, l’aria muta, l’impressione di tempo congelato si agita, l’albero si scuote come se tutto intero fosse caduto di un metro. Sileno urla con gli altri, mentre il ramo si scuote e la spina gli lacera le interiora, gli strazia di nuovo la carne.

Sileno apre gli occhi e vede che il cielo è reale, il deserto è reale, le Tombe risplendono, il vento soffia, il tempo è ricominciato. Non c’è dimi-nuzione del tormento, ma la chiarezza è tornata.

Martin Sileno ride fra le lacrime. — Ehi, mamma! — grida, ridac-chiando scioccamente, anche se la lancia d’acciaio gli trapassa ancora il petto. — Da quassù vedo tutta la città!

— Signor Severn? Si sente bene?

Ansimando, a quattro zampe, mi girai verso la voce. Aprire gli occhi fu doloroso, ma nessun dolore era paragonabile a quello che avevo appena provato.

— Sta bene, signore?

Accanto a me, nel giardino, non c’era nessuno. La voce proveniva dalla microguardia che ronzava a mezzo metro dal mio viso, controllata da un agente della sicurezza chissà dove nella Casa del Governo.

— Sì — riuscii a dire, tirandomi in piedi e spazzolandomi pietruzze dalle ginocchia. — Sto bene. Un… un dolore improvviso.

— Il pronto soccorso può essere qui in due minuti, signore. Il suo biomonitor non segnala disfunzioni organiche, ma possiamo…

— No, no — dissi. — Sto benissimo. Lasciate stare. E lasciatemi in pace!

La microguardia sfarfallò come un colibrì nervoso. — Sì, signore. Ma chiami, se le occorre qualcosa. Il monitor del giardino risponderà.

— Se ne vada — dissi.

Lasciai il giardino, percorsi il corridoio principale della Casa del Governo, ora pieno di posti di controllo e di guardie della sicurezza, e uscii nel panoramico Parco dei Cervi.

La zona del molo adesso era silenziosa; non avevo mai visto il fiume Teti così immobile. — Cosa succede? — domandai a uno degli agenti della sicurezza fermi sulla banchina.

L’agente si collegò al mio comlog, ottenne conferma del mio livello di priorità e dell’autorizzazione PFE, ma rispose senza fretta. — I portali sono stati deviati da TC2 — disse, con cadenza strascicata. — Aggirati.

— Aggirati? Vuol dire che il fiume non scorre più attraverso Tau Ceti Centro?

— Esatto. — Si calò il visore all’avvicinarsi di una piccola imbarcazione e tornò a sollevarlo, quando identificò a bordo due agenti della sicurezza.

— Posso uscire da quella parte? — Indicai a monte del fiume, dove gli alti portali mostravano un’opaca cortina di grigio.

L’agente scrollò le spalle. — Già. Ma da lì non le sarà permesso rientrare.

— Va bene lo stesso. Posso prendere quella piccola barca?

L’agente bisbigliò nel microfono a goccia e annuì. — Vada pure.

Salii cautamente sulla barca, mi sedetti sulla panca posteriore e mi ressi alle falchette finché il dondolio non smise; toccai il diskey di potenza e dissi: — Parti.

I jet elettrici ronzarono, la piccola lancia tolse gli ormeggi e puntò il muso nel fiume; indicai di risalirlo.

Non sapevo che una parte del fiume Teti fosse isolata, ma ora vedevo chiaramente che la cortina del teleporter era una membrana semi-permeabile unidirezionale. La barca l’attraversò ronzando; mi scrollai di dosso la sensazione di formicolio e mi guardai intorno.

Mi trovavo in una delle grandi città lagunari - Ardmen, o forse Pamolo -

di Vettore Rinascimento. Lì il Teti era la via principale, dalla quale si di-partivano parecchi affluenti. Normalmente, il traffico fluviale era composto solo di gondole di turisti nelle corsie esterne e di yacht e di spazioanfibi dei ricchissimi nelle corsie centrali. Quel giorno era un manicomio.

Imbarcazioni di ogni forma e grandezza intasavano nei due sensi i canali centrali. Sulle case galleggianti c’erano pile di masserizie, le imbarcazioni più piccole erano così cariche da far pensare che una piccolissima ondata o una scia le avrebbe capovolte. Centinaia di giunche ornamentali di Tsingtao-Hsishuang Panna e di condom-chiatte fluviali di Fuji rivaleggiavano per una fetta di fiume; immaginai che ben poche di quelle imbarcazioni residenziali avessero lasciato gli ormeggi in precedenza. Fra la confusione di legno, di plastacciaio e di perspex, gli spazioanfibi si muovevano come uova d’argento, con il campo di contenimento regolato sulla massima riflessione.

Interrogai la sfera dati: Vettore Rinascimento era un mondo della seconda ondata, centosette ore dall’invasione. Mi parve strano che profughi di Fuji affollassero qui le vie d’acqua, dal momento che quel mondo aveva più di duecento ore di tempo, prima che la scure calasse; ma poi capii che, a parte la rimozione di TC2 dal fiume, il Teti scorreva ancora lungo la solita serie di mondi. Profughi di Fuji avevano preso il fiume da Tsingtao, trenta ore dagli Ouster, attraverso Deneb Drei a 147 ore, attraverso Vettore Rinascimento, verso Parsimony oppure Grass, tutti e due non minacciati, al momento. Scossi la testa, trovai un corso d’acqua tributario relativamente tranquilla da dove guardare la folla, e mi chiesi quando le autorità avrebbero cambiato il corso del fiume in modo che tutti i mondi minacciati scorressero verso la salvezza.

“Potranno farlo?” mi domandai. Il TecnoNucleo aveva installato il fiume Teti come dono all’Egemonia in occasione del Quinto Centenario. Ma senz’altro Gladstone o altri avevano pensato di chiedere al Nucleo aiuto per l’evacuazione. “L’avranno chiesto?” mi domandai. E il Nucleo sarebbe stato disposto ad aiutare? Gladstone era convinta che elementi del Nucleo intendevano eliminare la razza umana… la guerra, vista l’alternativa, era stata per Gladstone la scelta di Hobson. Quale semplice mezzo di portare a termine il proprio programma, per gli elementi del Nucleo contrari alla razza umana! Il semplice rifiuto di evacuare i miliardi di individui minacciati dagli Ouster!

Avevo sorriso, anche se amaramente; ma il sorriso svanì, quando mi resi conto che il TecnoNucleo curava la manutenzione e controllava la griglia teleporter da cui anch’io dipendevo per uscire dai territori minacciati.

Avevo legato la lancia alla base di una scala di pietra che scendeva nell’acqua salmastra. Le pietre inferiori erano coperte di muschio verde. I gradini - forse portati dalla Vecchia Terra, dal momento che alcune città classiche erano state trasferite via teleporter su altri pianeti, nei primi anni dopo il Grande Errore — erano consunti e mostravano una rete di crepe sottili che univano puntini scintillanti, come in una rappresentazione schemati-ca della Rete dei Mondi.

Faceva molto caldo e l’aria era troppo densa, troppo pesante. Il sole di Vettore Rinascimento era basso, sopra le torri dal tetto a due spioventi. La luce era troppo rossa e troppo sciropposa per i miei occhi. Il frastuono proveniente dal Teti assordava anche lì, cento metri in fondo all’equivalente di un vicolo. Piccioni svolazzavano agitati fra muri scuri e gronde sporgenti.

“Cosa posso fare?” Tutti parevano comportarsi come se il mondo scivo-lasse verso la distruzione e il meglio che mi riusciva di fare era andarmene in giro senza meta.

“Questo è il suo compito. Lei è un osservatore.

Mi strofinai gli occhi. Chi aveva detto che i poeti dovevano essere os-servatori? Pensai a Li Po e a George Wu, che guidavano il proprio esercito attraverso la Cina e scrivevano alcune delle più sensibili poesie della storia, mentre i soldati dormivano. E se non altro Martin Sileno aveva vissuto una vita lunga e piena d’eventi, anche se metà di quegli eventi era oscena e l’altra metà sterile.

Al pensiero di Martin Sileno, mi lasciai sfuggire un gemito.

“In questo momento anche la piccola Rachel penzola da un albero di spine?”

Per un secondo soppesai il pensiero e mi domandai se una simile sorte fosse preferibile alla rapida estinzione dovuta al morbo di Merlino.

“No.”

Chiusi gli occhi, mi concentrai per non pensare a niente, con la speranza di stabilire contatto con Sol, di scoprire quale fosse stata la sorte di sua figlia.

La piccola imbarcazione dondolò dolcemente sotto la spinta di una scia lontana. In alto, i colombi volarono sopra un cornicione e tubarono fra loro.

— Me ne frego, delle difficoltà! — urla Meina Gladstone. — Voglio che tutta la flotta del sistema di Vega difenda Porta del Paradiso. Poi sposti gli elementi necessari su Bosco Divino e sugli altri mondi minacciati. L’unico nostro vantaggio, in questo momento, è la mobilità!

La faccia dell’ammiraglio Singh è nera di rabbia repressa. — Troppo pericoloso, signora! — ribatte l’ammiraglio. — Se muoviamo la flotta direttamente nello spazio di Vega, corriamo il terribile rischio che sia tagliata fuori. Gli Ouster tenteranno senza dubbio di distruggere la sfera d’anomalia che collega alla Rete quel sistema.

— Proteggetela! — sbotta Gladstone. — Le costose navi da guerra servono proprio a questo.

Singh lancia un’occhiata a Morpurgo e agli altri pezzi grossi, in cerca d’aiuto. Nessuno apre bocca. Il gruppo si trova nella Sala di Guerra del complesso esecutivo. Le pareti sono piene di olografie e di colonne di dati in rapido scorrimento. Nessuno le guarda.

— Occorrono tutte le nostre risorse, per proteggere la sfera d’anomalia nello spazio di Hyperion — dice l’ammiraglio Singh, a voce bassa, staccando con cura le parole. — La ritirata sotto il fuoco, soprattutto sotto l’assalto dell’intero Sciame, è molto difficile. Se la sfera andasse distrutta, la nostra flotta si troverebbe a diciotto mesi di debito temporale dalla Rete.

Prima che possa essere di ritorno, la guerra sarebbe perduta.

Gladstone annuisce seccamente. — Non chiedo di rischiare la sfera d’anomalia prima che tutti gli elementi della flotta siano stati teleportati, ammiraglio… ho già accettato di lasciare che prendano Hyperion prima che tutte le nostre navi escano dal sistema… ma, ripeto, non dobbiamo cedere mondi della Rete senza combattere.

Il generale Morpurgo si alza. Il lusiano sembra già esausto. — Signora, combatteremo di sicuro. Ma è molto più ragionevole iniziare le difese su Hebron o su Vettore Rinascimento. Non solo acquistiamo quasi cinque giorni per prepararci, ma…

— Ma perdiamo nove mondi! — lo interrompe Gladstone. — Miliardi di cittadini dell’Egemonia! Esseri umani. Porta del Paradiso sarebbe una perdita terribile, ma Bosco Divino è un tesoro culturale ed ecologico. Insosti-tuibile.

— Signora — dice Allan Imoto, ministro della Difesa — c’è la prova che da molti anni i Templari sono in combutta con la cosidetta Chiesa Shrike.

Gran parte dei fondi per i programmi del Culto Shrike proveniva da…

Con un gesto Gladstone lo zittisce. — Me ne frego. L’idea di perdere Bosco Divino è insostenibile. Se non possiamo difendere Vega e Porta del Paradiso, tracciamo la linea intorno al pianeta dei Templari. È deciso.

Singh sembra appesantito da catene invisibili, mentre tenta un sorriso ironico. — Così acquistiamo meno di un’ora.

— È deciso — ripete Gladstone. — Leigh, qual è la situazione delle sommosse su Lusus?

Hunt si schiarisce la voce. Si comporta con l’aria abbattuta e la calma di sempre. — Signora, adesso sono coinvolti almeno cinque Alveari. Danni per centinaia di milioni di marchi. Reparti della FORCE:terra sono stati teleportati da Freeholm e a quanto sembra hanno contenuto la fase più violenta dei saccheggi e delle dimostrazioni, ma non si sa quando il servizio teleporter potrà essere riattivato, in questi Alveari. Non c’è dubbio che la Chiesa dello Shrike sia responsabile delle sommosse. La prima rivolta, nell’Alveare Bergstrom, è iniziata con una manifestazione di fanatici del Culto e il Vescovo si è inserito nei programmi della TVE finché non è stato interrotto da…

Gladstone abbassa la testa. — Finalmente è rispuntato. Si trova su Lusus?

— Non lo sappiamo, signora — risponde Hunt. — Funzionari dell’Ente Transiti cercano di rintracciare lui e gli accoliti di grado più elevato.

Gladstone si gira verso un giovanotto che per un attimo non riconosco. È

il capitano di fregata William Ajunta Lee, l’eroe della battaglia di Patto-Maui. Secondo le ultime notizie, era stato trasferito nei mondi periferici per avere osato esprimere le proprie idee davanti ai superiori. Adesso le spalline dell’uniforme della FORCE:mare hanno l’oro e lo smeraldo da ammiraglio di divisione.

— E combattere per ciascun mondo? — gli chiede Gladstone, anche se lei stessa ha proclamato che tutto è deciso.

— Lo ritengo un errore, signora — risponde Lee. — Tutti e nove gli Sciami sono coinvolti nell’attacco. L’unico di cui non dobbiamo preoccu-parci per i prossimi tre anni, presumendo di sganciare le nostre forze, è proprio lo Sciame che in questo momento attacca Hyperion. Se concen-triamo la flotta, anche metà della flotta, per controbattere la minaccia contro Bosco Divino, c’è quasi il cento per cento di probabilità che non riusciremo a spostare queste forze per difendere gli altri otto mondi minacciati dalla prima ondata.

Gladstone si strofina il labbro inferiore. — Lei cosa consiglia?

L’ammiraglio di divisione Lee respira a fondo. — Ridurre le perdite, far saltare le sfere d’anomalia di questi nove mondi e prepararci ad attaccare gli Sciami della seconda ondata prima che raggiungano sistemi solari abi-

tati.

Intorno al tavolo scoppia il pandemonio. La senatrice Feldstein, del Mondo di Barnard, scatta in piedi, grida qualcosa.

Gladstone aspetta che la tempesta si calmi. — Portare da loro lo scontro, vuol dire? Contrattaccare gli Sciami, non aspettare una battaglia difensiva?

— Sì, signora.

Gladstone guarda l’ammiraglio Singh. — Si può fare? Possiamo pianifi-care, preparare e lanciare un’offensiva tra… — consulta il flusso di dati sulla parete di fronte — novantaquattro ore standard da adesso?

Singh si mette sull’attenti. — Possiamo? Ah… forse, signora. Ma le ri-percussioni politiche della perdita di nove mondi della Rete… ah… le difficoltà logistiche di…

— Ma si può fare? — lo incalza Gladstone.

— Ah… sì, signora. Però, se…

— Facciamolo — taglia corto Gladstone. Si alza e tutti al tavolo si af-frettano a imitarla. — Senatrice Feldstein, parlerò nel mio ufficio con lei e con gli altri legislatori interessati. Leigh, Allan, per favore, tenetemi informata sulle sommosse di Lusus. Il Consiglio di Guerra tornerà a riunirsi qui, fra quattro ore. Buongiorno, signori.

Camminai per le vie come stordito, la mente rivolta agli echi. Lontano dal Teti, dove i canali erano meno numerosi e i passaggi pedonali più ampi, la folla riempiva i viali. Lasciai che il comlog mi guidasse a diversi terminex, ma ogni volta la folla era più fitta. Impiegai alcuni minuti a capire che non erano solo abitanti di Vettore Rinascimento che cercavano di andarsene, ma visitatori di tutta la Rete che spingevano per entrare. Mi domandai se qualcuno, nell’unità operativa di evacuazione, avesse considerato la possibilità che milioni di curiosi affollassero i teleporter per veder iniziare la guerra.

Non sapevo come mi fosse possibile sognare conversazioni avvenute nella Sala di Guerra, ma ero sicuro che fossero reali. Ripensandoci, ricordai particolari dei sogni della lunga notte precedente… non solo sogni di Hyperion, ma la passeggiata fra i mondi fatta da Gladstone e particolari di conferenze ad alto livello.

Chi ero?

Un cìbrido era un telecomando biologico, un’appendice delle IA (nel caso specifico, una personalità ricuperata dalle IA), messo al sicuro chissà dove nel Nucleo. Era concepibile che il Nucleo conoscesse tutto ciò che accadeva nella Casa del Governo, negli svariati corridoi del posto di comando umano. La razza umana era diventata tanto blasée, nel condividere la vita con potenziali monitoraggi IA, quanto le famiglie degli Stati Uniti meridionali pre-guerra civile sulla Vecchia Terra lo erano nel parlare in presenza di schiavi umani. Impossibile evitarlo: ogni essere umano al di sopra della classe più povera delle infime zone di Alveare Sedimento possedeva un comlog con biomonitor, parecchi avevano impianti e ciascuno di essi era sintonizzato sulla musica della sfera dati, controllato da elementi della sfera dati, dipendente da funzioni della sfera dati… gli esseri umani accettavano così la mancanza di riservatezza. Un artista su Esperance una volta mi aveva detto: «Avere rapporti sessuali o una lite in famiglia, con i monitor domestici accesi, è come spogliarsi davanti a un cane o a un gatto: la prima volta esiti, poi te ne dimentichi».

In quel momento mi collegavo forse, mediante un canale secondario, proprio con il Nucleo? C’era un modo assai semplice, per scoprirlo: lasciare il cìbrido e percorrere le autostrade della megasfera fino al Nucleo, come Brawne e la mia controparte priva di corpo avevano fatto, l’ultima volta che avevo condiviso le loro percezioni.

“No.”

Il pensiero mi intontì, quasi mi fece stare male. Trovai una panca e mi sedetti un momento, chinando la testa sulle ginocchia e respirando lentamente, a fondo. La folla mi passò davanti. Da qualche parte, qualcuno si rivolgeva alla gente servendosi di un altoparlante.

Ero affamato. Non mangiavo da almeno ventiquattro ore: cìbrido o no, il mio corpo era debole e aveva bisogno di nutrimento. Mi infilai in una via laterale dove le grida dei venditori sovrastavano il normale frastuono e re-clamizzavano prodotti esposti su girocarri a una ruota.

Trovai un carro davanti al quale c’era poca coda, ordinai pasta fritta col miele, una tazza di fragrante caffè bressiano e una ciotola di pane di pita con insalata; pagai la donna usando la carta universale e salii una scala fino a un edificio abbandonato per sedermi sulla veranda a mangiare. Il cibo era buonissimo. Sorseggiavo il caffè e pensavo di comprare altra pasta, quando notai che nella piazza in basso la folla aveva smesso di muoversi in ondate noncuranti e si era radunata intorno a un gruppetto di uomini in piedi sul bordo dell’ampia fontana centrale. Le parole amplificate giunsero fino a me.

«…l’Angelo della Vendetta è stato sguinzagliato fra noi, le profezie si sono compiute, il Millennio sta per arrivare… il piano dell’Avatar richiede un simile sacrificio… come profetizzato dalla Chiesa della Redenzione Finale che sapeva, ha sempre saputo, che una simile redenzione deve avvenire… troppo tardi per queste mezze misure… troppo tardi per la lotta fratri-cida… la fine dell’umanità è su di noi, le Tribolazioni sono iniziate, il Millennio del Signore sta per vedere la luce.»

Capii che gli uomini vestiti di rosso erano sacerdoti del Culto Shrike; la folla rispondeva, prima con grida sparse di assenso, qualche “Sì, sì!” e qualche “Amen!” di tanto in tanto, poi con una salmodia all’unisono, pugni alzati e agitati sopra la testa, feroci grida di estasi. Una scena a dir poco in-consueta. In quel periodo, dal punto di vista religioso, la Rete ricordava molto la Roma della Vecchia Terra poco prima dell’Era cristiana: una politica di tolleranza e una miriade di religioni (per la maggior parte, come lo Gnosticismo Zen, complesse e rivolte all’introspezione, non al proseliti-smo), mentre il tenore generale era di leggero cinismo e di indifferenza.

Ma non ora, non in quella piazza.

In quel momento pensavo che nei secoli recenti le sommosse in pratica non erano esistite: perché si formi una folla tumultuante sono necessarie riunioni pubbliche, ma nel nostro tempo le riunioni pubbliche consistevano di individui in comunione tramite la Totalità o altri canali della sfera dati; è difficile creare una sommossa, quando ogni persona dista chilometri e anni-luce dalle altre, collegata solo mediante linee di comunicazione e cavi astrotel.

All’improvviso fui strappato dalle mie fantasticherie: il ruggito della folla era diventato silenzio, mentre migliaia di facce si giravano nella mia direzione.

— E laggiù c’è uno di loro! — gridava il sant’uomo del Culto Shrike, con uno sventolio di vesti rosse, additandomi. — Uno di quelli che appartengono al circolo ristretto dell’Egemonia… uno di quei peccatori che con le loro trame oggi hanno portato su di noi la Redenzione. Lui e quelli come lui vogliono che lo Shrike Avatar faccia pagare a voi i loro peccati, e si nascondono al sicuro nei mondi segreti approntati dal governo dell’Egemonia proprio per un simile giorno!

Posai la tazza di caffè, mandai giù l’ultimo boccone di pasta fritta, fissai il sant’uomo. Diceva un mucchio di stupidaggini. Ma come sapeva che ero giunto da TC2? O che potevo mettermi in contatto con Gladstone? Guardai meglio, schermandomi gli occhi e cercando di non badare alla gente che agitava il pugno nella mia direzione, e mi concentrai sulla faccia dell’uomo in veste rossa…

Oddio, era Spenser Reynolds! L’artista mimico che durante il nostro ultimo incontro aveva cercato di dominare la conversazione, nella cena al Treetops. Si era rasato completamente i capelli ricci e ben pettinati, la-sciandosi solo un codino, secondo i dettami del Culto Shrike; ma il viso era ancora abbronzato e bello, anche se stravolto dalla rabbia simulata e dal fanatismo di un vero credente.

— Prendetelo! — gridò Reynolds, agitatore del Culto Shrike, sempre indicando me. — Prendetelo e fate in modo che paghi, per la distruzione delle nostre case, per la morte delle nostre famiglie, per la fine del nostro mondo!

Mi guardai davvero alle spalle, sicuro che quel pomposo poseur non parlasse di me.

Intanto una parte di spettatori si era mutata in folla tumultuante: un’ondata di persone vicino al demagogo urlante si mosse verso di me, fra agitare di pugni e volare di sputi, e quell’ondata ne spinse altre più lontano dal centro, finché le frange di folla si mossero anch’esse nella mia direzione per evitare di essere calpestate.

L’ondata divenne una massa urlante di rivoltosi; in quel momento, la somma dei quozienti d’intelligenza era molto inferiore a quella del più mo-desto componente singolo. La folla ha passioni, non cervello.

Non volevo fermarmi a spiegare loro il concetto. La folla si divise e cominciò a lanciarsi su per le ali della scalinata. Alle spalle avevo una porta sbarrata da assi di legno. Mi girai e provai ad aprirla. Era chiusa con un ca-tenaccio.

La presi a calci; al terzo tentativo la porta si sfasciò. La varcai appena in tempo per sfuggire alle mani protese e mi lanciai di corsa su per una scala buia in un corridoio che puzzava di antico e di muffa. Mi giunsero grida e fracasso di legno fatto a pezzi, quando la folla demolì la porta.

Al secondo piano c’era un alloggio, anche se dall’esterno l’edificio era parso abbandonato. La porta non era chiusa a chiave. La spalancai, quando dalla rampa in basso mi giunse il rumore di passi.

— Per favore, aiuto… — Mi fermai di colpo. Nella stanza buia c’erano tre donne, forse tre generazioni femminili della stessa famiglia, perché si rassomigliavano un poco. Sedevano su poltrone cadenti, vestivano stracci luridi, tenevano le braccia distese, le dita livide strette su sfere invisibili; un sottile cavo metallico si arricciava fra i capelli canuti della donna più anziana e arrivava al pacchetto nero posto sul piano impolverato del tavolo. Cavetti identici si snodavano dal cranio della figlia e della nipote.

Neurocavodipendenti. All’ultimo stadio di anoressia da collegamento, a occhio e croce. Senza dubbio di tanto in tanto qualcuno veniva a nutrirle per endovena e a cambiare loro gli indumenti sporchi, ma forse la paura della guerra aveva tenuto lontano chi se ne occupava.

Il rumore di passi risuonò sulle scale. Chiusi la porta e salii di corsa altre due rampe. Porte chiuse a chiave o stanze con pozze d’acqua che sgocciolava da cannicci esposti. Iniettori vuoti di Flashback sparsi in giro come bulbi di bevande analcoliche. “Non è un vicinato di prima categoria” pensai.

Raggiunsi il tetto, con dieci passi di vantaggio sulla muta di inseguitori.

Se per il distacco dal guru la folla aveva perso un poco dell’irrazionale passione, lo riguadagnò nello spazio buio e claustrofobico della rampa di scale. Forse aveva dimenticato perché mi dava la caccia, ma questo non rendeva più piacevole l’idea che mi catturassero.

Mi sbattei la porta alle spalle e cercai un chiavistello, qualcosa per barri-care il corridoio. Non c’era chiavistello. Niente di tanto grosso da bloccare il vano della porta. Passi frenetici risuonarono sull’ultima rampa di scale.

Esaminai il tetto: miniriflettori parabolici per comunicazioni spaziali sparsi come funghi rugginosi capovolti, una corda da bucato dimenticata forse da anni, cadaveri decomposti di una decina di colombi, una Vikken Scenic vecchissima.

Raggiunsi il VEM prima che il più rapido degli inseguitori varcasse la porta. La Vikken era un pezzo da museo. Polvere ed escrementi di colombi oscuravano quasi il parabrezza. Qualcuno aveva rimosso i repulsori originali e li aveva sostituiti con apparecchiature a basso costo comprate al mercato nero che non avrebbero mai superato il collaudo. Il tettuccio di perspex era fuso e annerito sul retro, come se qualcuno l’avesse usato da bersaglio per allenarsi con armi laser.

Di maggiore e più immediata importanza, tuttavia, era il fatto che il VEM non aveva lucchetto a impronta del palmo, ma un semplice lucchetto a chiave, forzato da tempo. Mi lanciai sul sedile impolverato e cercai di sbattere la portiera: non si bloccò, ma rimase socchiusa, penzoloni. Non speculai sulle scarse probabilità che il VEM si mettesse in moto né su quelle, ancora più ridotte, di riuscire a trattare con la folla quando mi avesse strappato dalla macchina e trascinato di sotto… se non si fosse limitata a buttarmi giù dal tetto. Dalla piazza saliva il profondo ruggito della folla inferocita.

I primi a sbucare sul tetto furono un uomo tozzo in tuta cachi da mecca-

nico, uno smilzo con l’abito nero opaco all’ultima moda di Tau Ceti, una donna terribilmente grassa che agitava quella che pareva una lunga chiave inglese, e un bassotto in divisa verde delle Forze di Autodifesa di Vettore Rinascimento.

Inserii nel diskey di avviamento la microcarta a priorità assoluta datami da Gladstone. La batteria mandò un gemito, lo starter di transizione brontolò e io chiusi gli occhi e mi augurai che i circuiti fossero a carica solare e ad autoriparazione.

Pugni sbatterono sul tettuccio, mani schiaffeggiarono il perspex ammac-cato a pochi centimetri dal mio viso, qualcuno spalancò la portiera nonostante i miei sforzi per tenerla chiusa. Le grida della folla lontana sembravano il rumore di fondo di un oceano; le urla del gruppo sul tetto parevano le strida di gabbiani troppo cresciuti.

I circuiti di sollevamento si accesero, i repulsori inondarono di polvere e di escrementi di colombi la gente sul tetto; infilai la mano nell’onnicoman-do, mi spostai a destra, sentii la vecchia Scenic sollevarsi, vacillare, cadere, risollevarsi. Virai dritto sulla piazza, rendendomi conto solo in parte che gli allarmi del cruscotto suonavano e che qualcuno era rimasto appeso alla portiera aperta. Scesi in picchiata, sorridendo senza accorgermene quando l’oratore Reynolds del Culto Shrike si affrettò a scansarsi e la folla a disperdersi; poi mi alzai al di sopra della fontana, con una brusca virata a sinistra.

Il passeggero urlante non mollò la presa, ma la portiera cedette, per cui l’effetto fu identico. Notai che si trattava della cicciona, l’istante prima che lei e la portiera colpissero l’acqua da otto metri d’altezza, schizzando Reynolds e la folla. Portai il VEM in quota e ascoltai le unità di sollevamento da mercato nero brontolare contro la mia decisione.

Chiamate irose dal controllo locale del traffico si unirono al coro degli allarmi sul cruscotto; la vettura barcollò, quando la polizia rilevò i comandi di guida, ma con la microcarta toccai di nuovo il diskey e annuii di sod-disfazione quando la leva onnicomando riacquistò il controllo del veicolo.

Volai sopra la parte più antica e più povera della città, mantenendomi a poca distanza dai tetti e scansando guglie e torri con orologio, per tenermi al di sotto del campo radar della polizia. In una giornata normale, gli agenti addetti al controllo del traffico, su sollevatori personali e bastoni skimmer, sarebbero sciamati su di me e mi avrebbero già bloccato; ma a giudicare dalla folla nelle vie e dai tumulti intravisti nelle vicinanze dei terminex pubblici, quella non sembrava proprio una giornata normale.

La Scenic mi avvertì che la sua resistenza in volo ormai si contava in secondi; il repulsore di dritta cedette con uno schianto nauseante; mi diedi da fare con l’onni e col pedale del gas per far scendere la vecchia carretta in un piccolo parcheggio fra un canale e un grosso edificio sporco di fuliggine. Il posto era almeno a dieci chilometri dalla piazza in cui Reynolds aveva sobillato la folla, per cui mi parve più sicuro affrontare i rischi a terra…

anche se al momento non avevo molta scelta.

Volarono scintille, il metallo si lacerò, parti del pannello posteriore, alet-toni e il pannello d’accesso frontale si staccarono dal resto del veicolo… ma atterrai e mi fermai a due metri dal muro prospiciente il canale. Mi allontanai dalla Vikken, con tutta la noncuranza che mi fu possibile.

Le vie erano ancora sotto il controllo della folla - non ancora marmaglia tumultuante - e i canali erano un guazzabuglio di piccole imbarcazioni, perciò entrai nel più vicino edificio pubblico, per togliermi di vista. L’edificio era in parte museo, in parte biblioteca e in parte archivio; mi piacque a prima vista… e a primo fiuto, perché c’erano migliaia di libri stampati, alcuni davvero antichi, e niente ha il meraviglioso profumo dei vecchi libri.

Giravo nell’anticamera e guardavo i titoli chiedendomi oziosamente se vi fossero le opere di Salmud Brevy, quando mi si accostò un vecchietto raggrinzito in completo di lana e fibroplastica fuori moda. — Signore — disse

— è da tanto che non abbiamo il piacere della sua compagnia.

Gli rivolsi un cenno, sicuro di non averlo mai incontrato, di non avere mai visitato quell’edificio.

— Tre anni, no? Almeno tre anni! Dio, come vola, il tempo. — La voce dell’ometto era poco più di un bisbiglio, il tono smorzato di chi ha trascorso nelle librerie la maggior parte della vita, ma non si poteva negare che contenesse un sottofondo di entusiasmo. — Sono sicuro che vorrà andare direttamente alla collezione — disse, facendosi da parte come per lasciarmi il passo.

— Sì — dissi, con un lieve inchino. — Dopo di lei.

L’ometto (ero quasi sicuro che fosse un archivista) parve contento di farmi strada. Chiacchierò di nuove acquisizioni, di recenti stime, di visite di studiosi della Rete, mentre attraversavamo una serie di stanze tutte piene di libri: alte cripte di libri disposti su diversi piani, intimi corridoi tappez-zati di mogano e di libri, vasti locali dove il rumore dei nostri passi rim-balzava contro lontane pareti di libri. Non vidi nessuno, durante il percorso.

Attraversammo una passerella piastrellata, con ringhiere di ferro battuto, sopra uno stagno di libri dove campi di contenimento azzurri proteggevano dall’aria rotoli, pergamene, mappe che minacciavano di sbriciolarsi, manoscritti miniati e antichi libri a fumetti. L’archivista aprì una porta, più spessa di molti ingressi a tenuta stagna, e ci trovammo in una stanzetta priva di finestre dove pesanti tendaggi quasi nascondevano rientranze foderate di volumi antichi. Sul tappeto persiano pre-Egira c’era una singola poltrona in pelle; una campana di vetro conteneva alcuni frammenti di pergamena sotto vuoto.

— Intende pubblicare presto, signore? — domandò l’ometto.

— Prego? — Diedi le spalle alla campana di vetro. — Oh… no — risposi.

L’archivista si lisciò il mento. — Voglia scusare la franchezza, signore, ma è uno spreco terribile, se non pubblica. Dalle nostre discussioni nel corso degli anni, per quanto scarse, è chiaro che lei è, se non il migliore, uno dei migliori studiosi di Keats, in tutta la Rete. — Sospirò e arretrò di un passo. — Mi scusi se l’ho detto, signore.

Lo fissai. — È vero — dissi. A un tratto avevo capito chi pensava che fossi e perché quella persona era venuta lì.

— Immagino che vorrà stare da solo, signore.

— Se non le spiace.

L’archivista mi rivolse un breve inchino, uscì dalla sala e lasciò socchiusa la pesante porta. L’unica luce proveniva da tre sottili lampade incassate nel soffitto: perfetta per la lettura, ma non tanto forte da rovinare l’atmosfera da cattedrale della saletta. L’unico rumore era quello dei passi dell’archivista che si allontanava. Mi accostai alla campana e posai le mani lungo i bordi, attento a non sporcare il vetro.

Evidentemente il primo cìbrido con la personalità ricuperata di Keats,

“Johnny”, era venuto lì spesso, durante i pochi anni di vita nella Rete. Ora ricordavo un accenno alla biblioteca su Vettore Rinascimento, nel racconto di Brawne Lamia. La donna l’aveva seguito fin lì, nei primi tempi delle in-dagini sulla “morte” di Johnny. In seguito, quando Johnny era stato ucciso davvero, a parte la personalità registrata nell’iterazione Schrön della donna, Brawne Lamia aveva visitato quell’edificio. Aveva citato due poesie che il primo cìbrido ogni giorno era andato a guardare nel tentativo di capire la ragione propria della esistenza… e della morte.

Quei due manoscritti originali erano sotto la campana. Il primo era, secondo me, una poesia d’amore piuttosto melensa che cominciava con il verso: “Il giorno è andato, andate tutte le sue dolcezze!”. Il secondo era migliore, per quanto contaminato dalla morbosità romantica di un’età ec-cessivamente romantica e morbosa:

Questa mano viva, ora calda e in grado

d’afferrare con gioia, se fosse fredda

e gelida nel silenzio della tomba,

tormenterebbe i tuoi giorni e gelerebbe le notti sognanti tanto da farti desiderare d’avere il cuore esangue

perché nelle mie vene scorra ancora la rossa vita

e la tua coscienza sia in pace… vedi, eccola qui…

a te la tendo…

Brawne Lamia l’aveva considerato quasi un messaggio personale tra-smessole dall’amante ormai morto, il padre del figlio non ancora nato. Fissai la pergamena, chinando il viso tanto da annebbiare con l’alito il vetro.

Non era un messaggio dal passato per Brawne e neppure un lamento contemporaneo per Fanny, l’unico e vero desiderio del mio cuore. Fissai le parole sbiadite (scrittura a mano eseguita con cura, lettere ancora ben leggibili attraverso gli abissi del tempo e l’evoluzione della lingua) e ricordai di averle scritte nel dicembre del 1819… un brano di poesia scribacchiato sulla pagina di una “fiaba” satirica appena iniziata, Il cappello a sonagli, o le gelosie, un orribile esempio di umorismo un po’ assurdo, giustamente abbandonato dopo un breve periodo di divertimento.

“Questa mano viva” era uno di quei ritmi poetici con echi simili a un accordo non risolto nella mente, che ti spingono a vederlo in inchiostro, su carta. Ed esso, a sua volta, era l’eco di un verso precedente, mal riuscito (il diciottesimo, credo), del mio secondo tentativo di raccontare la storia della caduta del dio del sole Iperone. Ricordo che la prima stesura… quella senza dubbio ancora stampata dovunque le mie ossa letterarie siano esposte come i resti mummificati di un santo disattento, sepolto in cemento e vetro sotto l’altare della letteratura… diceva:

…Chi, vivo, può dire:

“Tu non sei Poeta… non puoi narrare i tuoi sogni”?

Poiché ogni uomo la cui anima non sia materia bruta

ha visioni, e parlerebbe, se avesse amato,

e se fosse ben educato nella lingua madre.

Se il sogno ora inteso a esser narrato

sia di Poeta o di Fanatico, si saprà

quando la mia mano d’autore sarà nella tomba.

Mi piacque la versione scarabocchiata, con quel senso dell’ossessionare e d’essere ossessionati, e l’avrei sostituita a “Quando la mia mano d’autore…”, anche a costo di un briciolo di revisione e dell’aggiunta di quattordici versi al già troppo lungo brano d’apertura del primo Canto…

Barcollai all’indietro verso la poltrona e mi sedetti, chinando il viso fra le mani. Piangevo. Senza sapere perché. Non riuscivo a smettere.

Per un bel pezzo, dopo che le lacrime smisero di scorrere, restai lì seduto a pensare, a ricordare. Una volta, forse dopo parecchie ore, udii il rumore di passi che giungevano da lontano, esitavano rispettosamente davanti alla saletta, svanivano di nuovo in lontananza.

Mi resi conto che tutti i libri, in tutte le rientranze, erano opera del “Signor John Keats, un metro e cinquanta”, come avevo scritto io stesso una volta… John Keats, il poeta tisico che aveva chiesto solo che la propria tomba rimanesse senza nome e recasse solo la scritta: