PARTE PRIMA

1

Nel giorno in cui la flotta di astronavi partì per la guerra, nell’ultimo giorno della vita così come la conoscevamo, fui invitato a un party. C’erano party dappertutto, quella sera, su più di centocinquanta mondi della Rete, ma il mio era l’unico che contasse.

Per mezzo della sfera dati comunicai che accettavo l’invito, controllai che il mio migliore abito da sera fosse pulito, me la presi comoda a farmi il bagno e la barba, mi vestii con cura meticolosa e all’ora fissata adoperai il diskey usa-e-getta contenuto nel chip d’invito, per teleportarmi da Espe-

rance a Tau Ceti Centro.

In quell’emisfero di TC2 era tardo pomeriggio. Una luce bassa e intensa illuminava le alture e le valli del Parco dei Cervi, le torri grigie del complesso amministrativo più a sud, i salici piangenti e le splendide pirofelci lungo le rive del fiume Teti, i bianchi colonnati della stessa Casa del Governo. Gli ospiti arrivavano a migliaia, ma il personale del servizio di sicurezza accoglieva ciascuno di noi, confrontava con gli schemi DNA i codici d’invito e indicava con un gesto cortese come raggiungere bar e buffet.

— Signor Joseph Severn — confermò la guida, in tono educato.

— Sì — mentii. Severn era il mio nome, allora, ma non la mia identità.

— Il Primo Funzionario Esecutivo Gladstone desidera vederla più avanti nella serata. Le faremo sapere quando la signora sarà libera di riceverla.

— Grazie.

— Se desidera particolari rinfreschi o divertimenti, le basterà chiedere ad alta voce e i monitor a terra cercheranno di accontentarla.

Annuii, sorrisi e mi allontanai. Avevo fatto solo una decina di passi e la guida già si occupava di altri invitati che scendevano dalla piattaforma del terminex.

Dal mio punto d’osservazione in cima a una montagnola scorgevo alcune migliaia di ospiti in movimento su varie centinaia di ettari di prato ben curato; molti passeggiavano tra foreste d’alberi tagliali in fogge bizzarre. Più in alto rispetto al tratto erboso dov’ero fermo, già in penombra per il filare di alberi lungo il fiume, si estendevano i giardini all’italiana e al di là di essi si alzava la massa imponente della Casa del Governo. Nel patio la banda suonava, e altoparlanti nascosti portavano la musica fin nelle zone più distanti del Parco dei Cervi. Una fila continua di VEM scendeva a spirale da un teleporter posto a grande altezza. Per alcuni secondi osservai i passeggeri, vestiti a colori vivaci, sbarcare sulla piattaforma nelle vicinanze del terminex pedonale. Ero affascinato dalla varietà di velivoli: le luci si riflettevano non solo sugli scafi di comuni Vikken, Altz e Sumalso, ma anche sui ponti rococò delle chiatte a levitazione e sullo scafo metallico di antiquati skimmer già pittoreschi quando la Vecchia Terra esisteva ancora.

Scesi lungo il dolce pendio fino alla riva del Teti e oltrepassai il molo dove un incredibile assortimento d’imbarcazioni scaricava passeggeri. Il Teti era l’unico fiume che si estendesse nella Rete: scorreva nei teleporter permanenti e attraversava tratti di più di duecento fra pianeti e lune; la gente che abitava lungo le sue rive era fra la più ricca dell’Egemonia. I veicoli sul fiume comprendevano grandi cruiser merlati, brigantini a palo carichi di vele, chiatte a cinque ponti (molte di queste imbarcazioni erano attrezza-te con dispositivi di levitazione), elaborate case galleggianti munite di teleporter autonomo, piccole isole mobili importate dagli oceani di Patto-Maui, motoscafi da corsa sportivi, sommergibili pre-Egira, un assortimento di VEM nautici intagliati a mano, provenienti da Vettore Rinascimento, e pochi, moderni yacht polivalenti il cui profilo era nascosto dalla superficie ovoidale riflettente e continua dei campi di contenimento.

Gli ospiti non erano meno sgargianti e barocchi dei veicoli da cui sbar-cavano: lo stile di ciascuno andava dal tradizionale abito da sera pre-Egira, portato da gente chiaramente mai toccata dal trattamento Poulsen, a quello all’ultima moda secondo i dettami della settimana corrente su TC2, drap-peggiato su figure modellate dai più famosi ARNisti della Rete. Continuai la passeggiata e mi fermai a un lungo tavolo da buffet il tempo sufficiente per riempirmi il piatto: roast beef, insalata, filetto di calamaro volante, curry di Parvati e pane appena sfornato.

Il tardo pomeriggio era già sfumato nel crepuscolo quando trovai un posto dove sedermi, vicino ai giardini: spuntavano le prime stelle. Le luci della vicina città e del complesso amministrativo erano state abbassate per consentire di scorgere la flotta spaziale: il cielo notturno di Tau Ceti Centro era più chiaro di quanto non fosse stato per secoli.

Una donna seduta accanto a me mi lanciò un’occhiata e sorrise. — Sono sicura che ci siamo già incontrati.

Ricambiai il sorriso, certo del contrario. La donna era molto attraente, forse vicina ai sessanta standard, il doppio dei miei anni, ma sembrava più giovane dei miei ventisei, grazie al denaro e a Poulsen. La pelle era talmente chiara da sembrare quasi trasparente. I capelli erano acconciati in una treccia rialzata. I seni, rivelati più che nascosti dall’abito lungo di velo-crespo, erano perfetti. Gli occhi, crudeli.

— Forse — risposi. — Ma non mi sembra probabile. Mi chiamo Joseph Severn.

— Certo — disse lei. — Un pittore!

Non ero un pittore. Ero… fui… un poeta. Ma l’identità Severn, che avevo assunto a partire dalla morte e dalla nascita della mia persona reale un anno prima, mi proclamava pittore: era scritto nel mio file della Totalità.

— L’ho ricordato — rise la signora. Mentiva. Si era servita del costoso innesto comlog per accedere alla sfera dati.

Non avevo bisogno di accedere… parola goffa e ridondante che disprezzavo nonostante la sua antichità. Mentalmente chiusi gli occhi e fui nella sfera dati, scivolai al di là delle barriere superficiali della Totalità, sotto le onde dei dati di superficie, e seguii il lucente cavo del cordone ombelicale d’accesso, fino alle buie profondità del flusso di dati “riservati”.

— Sono Diana Philomel — disse lei. — Mio marito è amministratore zonale trasporti per Sol Draconis Septem.

Accettai la mano che mi porgeva. La donna non aveva accennato al fatto che il marito era stato capo agente provocatore per il sindacato dei gratta-muffa di Porta del Paradiso, prima che raccomandazioni politiche lo pro-muovessero a Sol Draconis… né che lei un tempo era conosciuta come Di-nee la Tettona, ex puttana di bordello e cameriera volante per i procuratori di polmotubature nelle Lande di Mediocesso… né che era stata arrestata due volte per abuso di Flashback e la seconda aveva ferito gravemente un medico dell’istituto per il recupero di ex detenute… né che a nove anni aveva avvelenato il fratellastro, dopo che lui aveva minacciato di raccontare al padre che lei s’incontrava con un minatore di Piana Fangosa, di nome…

— Lieto di conoscerla, signora Philomel — dissi. La sua mano era tiepida. Mantenne la stretta un istante di troppo.

— Non è emozionante? — sussurrò.

— Che cosa?

Mosse la mano in un ampio gesto che includeva la notte, i fotoglobi che cominciavano ad accendersi, i giardini, la folla. — Oh, il party, la guerra, tutto — rispose.

Le sorrisi, annuendo; assaggiai il roast beef. Era eccezionale, ottimo, ma con una punta del gusto pungente tipico delle vasche di clonazione di Lusus. Il calamaro pareva autentico. Gli steward erano passati a offrire coppe di champagne; lo assaggiai. Scadente. Vino di qualità, scotch e caffè erano le tre cose che nessuno era riuscito a sostituire, dopo la morte della Vecchia Terra. — Secondo lei, la guerra è necessaria? — domandai.

— Altroché, maledizione! — Diana Philomel aveva aperto la bocca, ma a rispondere era stato il marito. Era giunto di sorpresa e si sedette sul finto ceppo sul quale cenavamo. Era un colosso, almeno un piede e mezzo più alto di me, ma questo significa poco, dal momento che sono basso. La memoria mi dice che un tempo scrissi una poesia in cui mi prendevo in giro da solo: “…Mister John Keats, cinque piedi”, anche se in realtà sono cinque e uno: leggermente basso, quando Napoleone e Wellington erano vivi e la statura media maschile era di cinque piedi e sei pollici, ma ridi-colmente basso, ora che sui mondi a gravità standard la statura va da sei piedi a quasi sette. Chiaramente non avevo la muscolatura né la costituzio-

ne per sostenere di provenire da un pianeta a forte gravità, per cui agli occhi di tutti ero soltanto basso. (Mi sono espresso servendomi delle unità di misura a cui sono abituato: da quando sono rinato nella Rete, di tutti i cambiamenti mentali pensare nel sistema metrico decimale è il più difficile; a volte rifiuto perfino di provarci.)

— Perché la guerra è necessaria? — domandai a Hermund Philomel, marito di Diana.

— Perché quei maledetti l’hanno voluta — brontolò lui. Parlava ar-rotando i denti e muovendo i muscoli delle guance. Quasi privo di collo, aveva una barba sottocutanea che sfidava crema depilatoria, lametta, rasoio. Le sue mani erano grandi una volta e mezzo le mie e molte volte più robuste.

— Capisco — dissi.

— I maledetti Ouster l’hanno voluta — ripeté e passò in rassegna per me i punti principali della sua tesi. — Ci hanno rotto i coglioni su Bressia e ora ci rompono le palle su… su comesichia…

— Il sistema di Hyperion — disse sua moglie, senza mai staccare lo sguardo dal mio.

— Già — convenne il suo signore e marito. — Il sistema di Hyperion.

Ci hanno rotto le palle e ora dobbiamo andare laggiù a far vedere che l’Egemonia non ci sta. Chiaro?

Ricordai che, da ragazzo, ero stato mandato a Enfield, alla scuola secondaria John Clarke, e che lì c’era più di un paio di bulli come lui, dal cervello di gallina e dai pugni come prosciutti. Appena giunto, li evitai o cercai di vivere in pace con loro. Dopo la morte di mia madre, quando tutto il mio mondo cambiò, andai a caccia di loro anche se ero più piccolo, stringendo sassi nel pugno; e mi rialzai da terra per picchiare di nuovo, anche con il naso sanguinante e i denti che ballavano.

— Chiaro — dissi piano. Il piatto era vuoto. Alzai la coppa di champagne scadente per un brindisi a Diana Philomel.

— Mi ritragga — disse lei.

— Prego?

— Mi ritragga, signor Severn. Lei è un artista.

— Pittore — dissi, mostrando la mano vuota. — Purtroppo non ho lo stilo.

Diana Philomel frugò nella tasca della veste del marito e mi tese una penna a luce. — Mi ritragga, la prego.

La tratteggiai. Il ritratto prese forma a mezz’aria: le linee si alzarono e ri-

caddero e tornarono su se stesse come filamenti al neon in una statua di fil di ferro. Una piccola folla si raccolse a guardare. Risuonò un tiepido ap-plauso, quando terminai. Il disegno non era malvagio. Coglieva la lunga e voluttuosa curva del collo della donna, l’alta treccia di capelli, gli zigomi sporgenti… perfino il lampo lieve, ambiguo, degli occhi. Era il meglio che potessi fare, dopo che la cura RNA e le lezioni mi avevano preparato per la personalità attuale. Il vero Joseph Severn avrebbe fatto di meglio… aveva fatto di meglio. Ricordo che mi fece il ritratto, quando ero in punto di morte.

La signora Diana Philomel s’illuminò, approvando il mio lavoro. Il signor Hermund Philomel mi guardò in cagnesco.

Si alzò un grido: «Eccole!»

La folla mormorò, restò a bocca aperta, tacque. I fotoglobi e le luci del giardino si smorzarono e si spensero. Migliaia di ospiti alzarono gli occhi al cielo. Cancellai il disegno e rimisi nel taschino di Hermund la penna a luce.

— La flotta — disse un anziano signore dall’aria distinta, nell’uniforme nera della FORCE. Alzò il bicchiere a indicare qualcosa alla giovane compagna. — Hanno appena aperto il portale. Passeranno prima le navi vedetta, poi la scorta di navi torcia.

Dal nostro punto d’osservazione, il teleporter militare della FORCE non era visibile. Anche nello spazio, immagino, sarebbe apparso solo come un’aberrazione rettangolare contro la distesa di stelle. Ma le code di fusione erano ben visibili, prima come un gruppo di lucciole o di ragnatelidi luminosi, poi come comete ardenti, a mano a mano che le vedette accendevano il motore principale e sciamavano nella zona di traffico cislunare del sistema di Tau Ceti. Un altro ansito generale si levò, quando comparvero le navi torcia, con la coda cento volte più lunga di quella delle vedette. Da orizzonte a orizzonte, il cielo notturno di TC2 fu segnato da strisce rosso oro.

Qualcuno batté le mani. Nel giro di qualche secondo, i campi e i prati e i giardini del Parco dei Cervi scrosciarono di applausi sfrenati e di sonori evviva, mentre l’elegante folla di miliardari, di funzionari governativi, di esponenti di nobili casate, giunta da cento mondi diversi, dimenticava ogni cosa, tranne lo sciovinismo e la sete di guerra ora risvegliata dopo più di un secolo e mezzo di letargo.

Non applaudii. Ignorato da coloro che mi attorniavano, terminai il brindisi - non a lady Philomel, ora, ma alla durevole stupidità della mia razza -

e vuotai la coppa di champagne. Era insipido.

In alto, le navi più importanti della flotta si erano teleportate all’interno del sistema. Grazie a un brevissimo contatto con la sfera dati, la cui superficie adesso era agitata da fiotti di dati fino a sembrare un mare in tempesta, seppi che la flotta della FORCE:spazio consisteva di più di cento spin-navi importanti : assaltatori di un nero metallico, simili a lance, con i bracci di lancio ripiegati; navi comando Tre-C, belle e goffe come meteore di cristallo nero; cacciatorpediniere a forma di bulbo, che sembravano navi torcia ipersviluppate, quali in realtà erano; vedette per la difesa perimetra-le, più energia che materia, con i massicci campi di contenimento predi-sposti era per la riflessione totale… lucenti specchi che riflettevano Tau Ceti e le centinaia di scie di fiamma tutt’intorno; incrociatori rapidi, che si muovevano come squali fra banchi di navi più lente; sgraziati trasporti truppe, che portavano nelle stive a gravità zero migliaia di FORCE: marines, e decine e decine di navi appoggio: fregate, cacciatorpediniere d’assalto, lanciasiluri, vedette di relè astrotel e le stesse Balzonavi teleporter, massicci dodecaedri con un fantastico spiegamento di antenne e di sonde.

Tutt’intorno alla flotta, mantenuti a distanza di sicurezza dal controllo del traffico, svolazzavano yacht e imbarcazioni private, la cui velatura raccoglieva la luce del sole e rifletteva lo splendore delle navi da guerra.

Gli ospiti della Casa del Governo esultarono e applaudirono. Il tizio in divisa nera della FORCE piangeva in silenzio. Lì accanto, tele e olocamere ad ampia banda, nascoste, portavano su centinaia di mondi della Rete e, tramite astrotel, su decine di mondi al di fuori della Rete quello storico momento.

Scossi la testa e rimasi seduto.

— Signor Severn? — Una funzionaria del servizio di sicurezza era ferma davanti a me.

— Sì?

La donna accennò all’edificio dell’esecutivo. — Il PFE Gladstone la riceverà adesso.

2

A quanto pare, ogni epoca gravida di discordie e di pericoli produce un leader adatto ai tempi, un gigante politico la cui assenza, in retrospettiva, sembra inconcepibile nel momento in cui la storia di quei giorni viene scritta. Meina Gladstone era un leader di questo tipo, per la nostra Epoca Finale, anche se a quel tempo nessuno si sarebbe sognato che sarei stato il solo a scrivere la vera storia sua e dei suoi giorni.

Gladstone era stata paragonata tante di quelle volte alla figura classica di Abramo Lincoln che, quando infine quella sera fui ammesso alla sua presenza, rimasi quasi sorpreso nel vedere che non portava finanziera e cilin-dro nero. Il Primo Funzionario Esecutivo del Senato e capo di un governo al servizio di centotrenta miliardi di persone, indossava una giacca grigia di morbida lana, calzoni e top ornati solo da un accenno d’impuntura rossa lungo le cuciture e ai polsini. Non assomigliava certo ad Abramo Lincoln, e neppure ad Alvarez-Temp, il secondo eroe dell’antichità più comunemente citato dalla stampa come suo doppelgänger. Pensai che sembrava solo un anziana signora.

Meina Gladstone era alta e magra, e aveva un profilo più aquilino di Lincoln, col naso a becco, zigomi in rilievo, bocca ampia ed espressiva, labbra sottili, capelli grigi raccolti in un’onda a taglio irregolare che sembravano davvero piume. Ma, per me, il tratto più memorabile di Meina Gladstone era un altro: gli occhi, grandi, castani, infinitamente tristi.

Non eravamo soli. Ero stato accompagnato in una stanza lunga, illuminata da una luce soffusa, tappezzata di scaffalature di legno che contenevano centinaia di libri stampati. Un’ampia cornice olografica simulava una finestra e mostrava una vista dei giardini. La riunione in corso stava per concludersi: della decina fra uomini e donne, alcuni erano già in piedi, altri ancora seduti in semicerchio attorno alla scrivania di Gladstone. Il PFE incrociò le braccia e si appoggiò con naturalezza alla scrivania. Alzò lo sguardo, mentre entravo.

— Signor Severn?

— Sì.

— Grazie per essere venuto. — Riconobbi subito la voce, udita in centinaia di dibattiti nell’ambito della Totalità: timbro rauco per gli anni, ma tono morbido come un liquore costoso. La cadenza era famosa: un misto di sintassi precisa e di ritmo quasi dimenticato dell’inglese pre-Egira, che ormai si trovava solo nelle regioni del delta del suo mondo d’origine, Patawpha. — Signore e signori, permettetemi di presentarvi il signor Joseph Severn — disse Gladstone.

Diversi mi rivolsero un cenno di saluto, ma era chiaro che non capivano il motivo della mia presenza. Gladstone non proseguì nelle presentazioni, allora mi collegai brevemente alla sfera dati per identificare i presenti: tre membri del gabinetto, incluso il Ministro della Difesa, due capi di stato maggiore della FORCE, due aiutanti di Gladstone, quattro senatori fra cui l’influente Kolchev, e una proiezione del consulente del TecnoNucleo noto come Albedo.

— Il signor Severn è stato invitato per portare nella discussione il punto di vista di un artista — disse Gladstone.

Il generale Morpurgo, della FORCE:terra, sbuffò e rise. — Il punto di vista di un artista? Con il dovuto rispetto, signora, cosa diavolo significa?

Gladstone sorrise. Anziché rispondere al generale, si rivolse a me. —

Cosa ne pensa, della flotta, signor Severn?

— Graziosa — risposi.

Il generale Morpurgo sbuffò di nuovo. — Graziosa? Quest’uomo vede la maggiore concentrazione di potenza di fuoco spaziale nella storia della galassia e la definisce… graziosa? — Si girò verso l’altro militare e scosse la testa.

Il sorriso di Gladstone era rimasto immutato. — E della guerra? — mi domandò. — Cosa ne pensa, del nostro tentativo di salvare Hyperion dai barbari Ouster?

— Stupido — risposi.

Nella stanza scese il silenzio. Le ultime inchieste in tempo reale della Totalità mostravano che il 98% approvava la decisione di combattere anziché cedere agli Ouster il pianeta coloniale Hyperion. Il futuro politico di Meina Gladstone dipendeva da un risultato positivo del conflitto. Gli uomini e le donne presenti nella stanza avevano contribuito a stabilire quella linea politica, avevano preso la decisione d’invadere Hyperion e si erano adoperati per risolvere i problemi logistici. Il silenzio perdurò.

— Perché stupido? — domandò con calma Gladstone.

— Fin dalla sua fondazione, sette secoli fa, l’Egemonia non è mai stata in guerra — risposi. — Mi sembra stupido mettere alla prova in questo modo la sua stabilità di base.

— Mai stata in guerra! — ruggì il generale Morpurgo. Con le grosse mani si strinse le ginocchia. — E come diavolo chiama la Rivolta Glennon-Height?

— Rivolta, appunto. Ammutinamento. Azione di polizia.

Il senatore Kolchev mise in mostra i denti in un sorriso privo di buonu-more. Proveniva da Lusus e sembrava una montagna di muscoli, non un essere umano. — Interventi della flotta, mezzo milione di morti, due divi-sioni della FORCE impegnate in combattimento per più d’un anno — dis-

se. — Gran bella azione di polizia, figliolo.

Rimasi zitto.

Leigh Hunt, un uomo di una certa età, dall’aspetto emaciato, ritenuto il più stretto collaboratore di Gladstone, si schiarì la voce. — La risposta del signor Severn è interessante. Signore, in che cosa ritiene diverso questo…

ah… conflitto, dalla guerra contro Glennon-Height?

— Glennon-Height era un ex ufficiale della FORCE — dissi, rendendomi conto di fare un’affermazione ovvia. — Per secoli gli Ouster sono stati un’incognita. Le forze ribelli erano note, rendevano facile valutarne il potenziale; gli sciami Ouster sono sempre stati al di fuori della Rete, fin dai tempi dell’Egira. Glennon-Height si manteneva all’interno del Protettorato e taceva scorrerie su mondi in un raggio non superiore a due mesi di debito temporale dalla zona della Rete; Hyperion dista tre anni da Parvati, l’insediamento più vicino della Rete.

— Crede che non abbiamo fatto anche noi queste stesse considerazioni?

— replicò il generale Morpurgo. — Cosa ne dice della battaglia di Bressia? Lì abbiamo già affrontato gli Ouster. Quella non era… una rivolta.

— Generale, la prego — intervenne Leigh Hunt. — Continui, signor Severn.

Scrollai le spalle. — La differenza principale è che in questa circostanza abbiamo a che fare con Hyperion — risposi.

La senatrice Richeau, una delle donne presenti, annuì come se mi fossi spiegato chiaramente. — Lei ha paura dello Shrike — disse. — Per caso appartiene alla Chiesa della Redenzione Finale?

— No — risposi. — Non sono membro del culto Shrike.

— Cos’è, allora? — disse Morpurgo.

— Un pittore — mentii.

Leigh Hunt sorrise e si girò verso Gladstone. — Avevamo davvero bisogno del punto di vista di quest’uomo, per tornare sobri — disse, indicando la finestra e le immagini olografiche della folla che ancora applaudiva. —

Ma le obiezioni del nostro amico pittore sono già state sollevate e soppesa-te.

Il senatore Kolchev si schiarì la voce. — Odio far notare l’ovvio, quando sembra che ci adoperiamo tutti per ignorarlo, ma questo… signore… ha il necessario nullaosta della sicurezza per presenziare a questa discussione?

Gladstone annuì e mostrò quell’accenno di sorriso che tanti caricaturisti avevano tentato di riprodurre. — Il signor Severn ha ricevuto dal Ministero delle Arti l’incarico di eseguire nel corso dei prossimi giorni una serie di schizzi con me come soggetto. In base alla teoria, ritengo, che avranno un certo significato storico e che potrebbero servire per un ritratto ufficiale. A ogni modo, il signor Severn ha ottenuto dalla sicurezza un nullaosta di grado T-oro, quindi possiamo parlare liberamente davanti a lui. Inoltre, ne apprezzo il candore. Forse il suo arrivo serve a suggerirci che la riunione è giunta al termine. Ci ritroveremo nella Sala di Guerra, alle otto di domattina, poco prima che la flotta si teleporti nel sistema di Hyperion.

Subito il gruppetto si sciolse. Nell’uscire, il generale Morpurgo mi lanciò un’occhiata astiosa. Passandomi davanti, il senatore Kolchev mi fissò con una certa curiosità. Il consulente Albedo si limitò a svanire nel nulla. Leigh Hunt fu il solo a trattenersi. Si mise comodo, posando la gamba sul bracciolo della poltrona pre-Egira, d’inestimabile valore, su cui sedeva. — Si sieda — mi disse.

Lanciai un’occhiata a Gladstone: si era seduta alla scrivania e ora annuì.

Mi accomodai nella sedia con lo schienale dritto occupata poco prima dai generale Morpurgo. Gladstone disse: — Davvero ritiene che sia stupido difendere Hyperion?

— Sì.

Gladstone unì la punta delle dita e si batté il labbro inferiore. Alle sue spalle, la finestra mostrava il fermento continuo del party in onore della flotta. — Se nutre qualche speranza di riunirsi alla sua… ah… controparte

— disse Gladstone — dovrebbe avere interesse che la campagna di Hyperion sia portata a termine.

Rimasi in silenzio. Alla finestra il panorama cambiò e mostrò il cielo notturno ancora fiammeggiante di scie di fusione.

— Ha portato i materiali da disegno? — chiese Meina Gladstone.

Estrassi la matita e il piccolo blocco per schizzi che a Diana Philomel avevo detto di non avere.

— Disegni pure, mentre parliamo — disse Meina Gladstone.

Iniziai a schizzare un abbozzo della donna in quella posa rilassata, quasi scomposta, e passai ai particolari del viso. Gli occhi stuzzicavano la mia curiosità.

Mi rendevo conto vagamente che Leigh Hunt mi fissava. — Joseph Severn — disse. — Interessante scelta di nomi.

Usai tratti rapidi e marcati per dare il senso della fronte spaziosa e del naso pronunciato di Gladstone.

— Sa perché la gente diffida dei cìbridi? — domandò Hunt.

— Sì — risposi. — La sindrome del mostro di Frankenstein. Paura di tutto ciò che, pur in forma umana, non è completamente umano. La vera ragione per cui gli androidi furono messi fuorilegge, penso.

— Ah-ha — convenne Hunt. — Ma i cìbridi sono completamente umani, no?

— Dal punto di vista genetico, sì. — Mi scoprii a pensare a mia madre, a ricordare quante volte avevo letto per lei, durante la sua malattia. Pensai a mio fratello Tom. — Ma fanno anche parte del Nucleo e così corrispondono alla definizione “non completamente umano”.

— Anche lei fa parte del Nucleo? — domandò Meina Gladstone, girandosi a guardarmi negli occhi. Iniziai un altro schizzo.

— Non proprio. Posso viaggiare liberamente nelle regioni che mi sono consentite, ma questa capacità è più simile all’accesso alla sfera dati che non alle caratteristiche di una vera personalità del Nucleo. — Il viso di Gladstone era più interessante di tre quarti, ma gli occhi avevano maggiore intensità, visti di fronte. Lavorai a riprodurre il reticolo di rughe che si allargava dagli angoli di quegli occhi. Era evidente che Meina Gladstone non si era mai concessa un trattamento Poulsen.

— Se fosse possibile mantenere dei segreti nei confronti del Nucleo —disse la donna — sarebbe follia permetterle libero accesso ai consigli di governo. Ma, visto come stanno le cose… — Abbassò le mani e si drizzò a sedere. Cambiai pagina.

— Visto come stanno le cose — riprese Gladstone — lei possiede informazioni che mi occorrono. È vero che può leggere la mente della sua controparte, la personalità ricuperata per prima?

— No — risposi. Era difficile catturare il complesso gioco di rughe e di muscoli agli angoli della bocca. Ne tracciai lo schizzo, passai al mento volitivo e alla zona d’ombra sotto il labbro inferiore.

Hunt corrugò la fronte e diede un’occhiata al PFE. Meina Gladstone unì di nuovo la punta delle dita. — Si spieghi — disse.

Alzai lo sguardo dal disegno. — Faccio dei sogni. A quanto pare, il contenuto dei sogni corrisponde a eventi che si verificano intorno alla persona che porta in sé l’innesto della precedente personalità Keats.

— Una donna di nome Brawne Lamia — disse Leigh Hunt.

— Sì.

Gladstone annuì. — Quindi la personalità Keats originale, quella che si ritiene sia stata uccisa su Lusus, è ancora viva?

Esitai. — È… è ancora consapevole — dissi infine. — Come saprà, il substrato della personalità primaria fu estratto dal Nucleo, probabilmente a opera del cìbrido stesso, e innestato nel corpo della signora Lamia, in un bio-shunt a ciclo d’iterazione Schrön.

— Sì, sì — disse Leigh Hunt. — Ma lei è davvero in contatto con la personalità Keats e, per suo tramite, con i pellegrini allo Shrike?

Tratti rapidi e marcati fornirono uno sfondo scuro per dare allo schizzo di Gladstone maggiore profondità. — In realtà non sono in contatto — replicai. — Faccio sogni su Hyperion, sogni che, secondo le vostre trasmissioni astrotel, corrispondono a eventi in tempo reale. Non posso comunicare con la personalità Keats passiva, né con il suo ospite, né con gli altri pellegrini.

Gladstone batté le palpebre. — Come fa a sapere delle trasmissioni astrotel?

— Il Console ha rivelato agli altri pellegrini che il suo comlog è in grado di collegarsi al trasmettitore astrotel della sua nave. Li ha informati poco prima che scendessero nella valle.

Il tono di Gladstone lasciava intuire gli anni passati a fare l’avvocato prima d’entrare in politica. — E gli altri come hanno reagito alla rivelazione del Console?

Rimisi in tasca la matita. — Sapevano che tra loro c’era una spia — risposi. — L’ha detto lei, a ciascuno di loro.

Gladstone scoccò un’occhiata al suo aiutante. L’espressione di Hunt era vuota. — Se lei è in contatto con loro — riprese la donna — saprà di sicuro che non abbiamo ricevuto alcun messaggio, da quando hanno lasciato Castel Crono per scendere alle Tombe del Tempo.

— Il sogno di ieri notte è terminato proprio mentre si avvicinavano alla valle.

Meina Gladstone si alzò, andò alla finestra, spense l’immagine.

— Così non sa se qualcuno di loro è ancora vivo?

— No.

— In quali condizioni si trovavano, secondo il suo ultimo… sogno?

Hunt mi osservava con la stessa intensità di sempre. Meina Gladstone fissava lo schermo buio e ci dava la schiena. — Tutti i pellegrini erano vivi

— risposi. — Tranne, forse, Het Masteen, la Vera Voce dell’Albero.

— Morto? — domandò Hunt.

— Scomparso, due notti prima, dal carro a vela, durante la traversata del mare d’Erba, poco dopo che le vedette Ouster hanno distrutto la nave-albero Yggdrasill. Però, poco prima di lasciare Castel Crono, i pellegrini hanno scorto una figura in tonaca dirigersi alle Tombe.

— Het Masteen? — domandò Gladstone.

— Loro pensano di sì. Ma non ne sono sicuri.

— Mi parli degli altri.

Presi fiato. Dai sogni sapevo che Gladstone conosceva almeno due dei partecipanti all’ultimo pellegrinaggio; il padre di Brawne Lamia era stato senatore, collega di Meina, e il Console dell’Egemonia era stato il rappresentante personale del PFE nei negoziati segreti con gli Ouster. — Padre Hoyt soffre molto — dissi. — Ha raccontato la storia del crucimorfo. Il Console ha scoperto che Hoyt stesso ne porta uno… anzi, due: il proprio e quello di padre Duré.

Gladstone annuì. — Ha sempre su di sé il parassita della resurrezione?

— Sì.

— E soffre maggiormente, ora che si avvicina al covo dello Shrike?

— Ritengo di sì.

— Continui.

— Il poeta, Sileno, è stato ubriaco per gran parte del tempo. È convinto che il suo poema incompiuto predice e determina il corso degli eventi.

— Su Hyperion? — domandò Gladstone, ancora di spalle.

— Dovunque — risposi.

Hunt lanciò un’occhiata al Primo Funzionario, poi tornò a guardarmi. —

Sileno è pazzo?

Restituii lo sguardo, ma non commentai. A dire il vero, non sapevo.

— Continui — ripeté Gladstone.

— Il colonnello Kassad ha sempre una duplice ossessione: trovare la donna, Moneta, e uccidere lo Shrike. Si rende conto che la donna e il mostro possono essere la stessa cosa.

— È armato? — La voce di Gladstone era molto bassa.

— Sì.

— Continui.

— Sol Weintraub, lo studioso del Mondo di Barnard, spera di entrare nella tomba detta Sfinge non appena…

— Mi scusi — disse Gladstone. — Sua figlia è ancora con lui?

— Sì.

— E quanto ha, ora, Rachel?

— Cinque giorni, credo. — Chiusi gli occhi per ricordare nei particolari il sogno della notte precedente. — Sì — confermai. — Cinque giorni.

— E diventa ancora più giovane?

— Sì.

— Continui, signor Severn. Mi parli, per favore, di Brawne Lamia e del Console.

— La signora Lamia porta avanti i desideri del suo ex cliente… e amante

— dissi. — La persona Keats riteneva necessario confrontarsi con lo Shrike. Al posto suo, lo fa Brawne Lamia.

— Signor Severn — intervenne Hunt — lei parla della “persona Keats”

come se non avesse importanza né legame con la sua stessa…

— Ne parliamo dopo, Leigh, per favore — disse Meina Gladstone. Si girò a guardarmi. — Il Console m’incuriosisce. Ha raccontato anche lui i motivi che l’hanno spinto a partecipare al pellegrinaggio?

— Sì.

Gladstone e Hunt attesero.

— Il Console ha parlato di sua nonna — ripresi. — La donna di nome Siri, che più di mezzo secolo fa iniziò la rivolta di Patto-Maui. Ha raccontato come morì la sua famiglia, durante la battaglia di Bressia, e ha rivelato i suoi incontri segreti con gli Ouster.

— Nient’altro? — domandò Gladstone. Lo sguardo degli occhi castani era assai intenso.

— No — risposi. — Il Console ha rivelato che fu lui a mettere in funzione il congegno Ouster per accelerare l’apertura delle Tombe del Tempo.

Hunt si drizzò a sedere. Anche Gladstone non nascose la sorpresa. — È

tutto?

— Sì.

— Come hanno reagito, gli altri, a questa rivelazione di… di tradimento?

Esitai, cercando di ricostruire le immagini del sogno in maniera più lineare di quella che la memoria mi forniva. — Alcuni si sono risentiti — dissi. — Ma a questo punto nessuno prova soverchia lealtà per l’Egemonia.

Hanno deciso di andare avanti. Secondo me, ciascun pellegrino è convinto che la punizione sarà comminata dallo Shrike, non da un’autorità umana.

Hunt batté il pugno sul bracciolo della poltrona. — Se il Console fosse qui — sbottò — scoprirebbe presto quanto si sbaglia.

— Calma, Leigh. — Gladstone tornò alla scrivania, sfogliò alcune carte.

Tutte le spie luminose dell’intercom lampeggiavano con impazienza. Fui stupito che in un momento simile il PFE sprecasse tanto tempo a parlare con me. — Grazie, signor Severn — disse Meina. — Voglio che resti con noi per alcuni giorni. Le mostreranno il suo alloggio nell’ala residenziale della Casa del Governo.

Mi alzai. — Farò un salto su Esperance per prendere le mie cose.

— Non occorre. Sono state portate qui prima ancora che lei scendesse dalla piattaforma del terminex. Leigh le mostrerà la strada.

Con un cenno d’assenso seguii Hunt alla porta.

— Ah, signor Severn… — mi bloccò Gladstone.

— Sì?

Il Primo Funzionario sorrise. — Poco fa ho apprezzato il suo candore —disse. — Ma, d’ora in avanti, facciamo finta che lei sia solo un pittore di corte e nient’altro, senza opinioni, invisibile, muto. Chiaro?

— Chiaro, signora.

Gladstone annuì; già rivolgeva l’attenzione alle spie luminose dell’interfono. — Ottimo. La prego di portare il blocco per gli schizzi, alla riunione nella Sala di Guerra, domattina alle otto.

Un agente della sicurezza ci accolse nell’anticamera e mi precedette nel labirinto di corridoi e di posti di controllo. Hunt lo bloccò e mi raggiunse nell’ampio corridoio, con passo deciso che echeggiò sulle piastrelle. Mi toccò il braccio. — Non faccia errori — disse. — Sappiamo… la signora sa… chi è lei e chi rappresenta.

Sostenni il suo sguardo e con calma liberai il braccio. — Mi fa piacere

— dissi. — A questo punto, io stesso non sono sicuro di saperlo.

3

Sei adulti e una bimba, in un ambiente ostile. Il loro fuoco pare ben piccola cosa, contro l’oscurità incombente. Più avanti le montagne che circondano la valle si alzano come pareti; avvolte nel buio della valle stessa, le sagome enormi delle Tombe sembrano avvicinarsi strisciando, simili ad apparizioni di rettili scaturiti da epoche antidiluviane.

Brawne Lamia è stanca, sofferente, irritabile. Il pianto della piccina di Sol Weintraub le da ai nervi. Ma Brawne sa che anche gli altri sono stanchi: nelle ultime tre notti, nessuno ha dormito più di qualche ora; il giorno appena terminato è stato pieno di tensione e di terrori inspiegati. Lamia getta nel fuoco l’ultimo pezzo di legno.

— Non ce n’è più, dove l’abbiamo preso — sbotta Martin Sileno. Il fuoco gli illumina i lineamenti da satiro.

— Lo so — replica Brawne Lamia, troppo stanca per mettere nel tono di voce anche solo una punta di collera. La legna da ardere proviene da un deposito alimentato dai gruppi di pellegrini degli anni precedenti. Le tre piccole tende sono poste nell’area tradizionalmente usata la notte prima di affrontare lo Shrike. L’accampamento si trova nelle vicinanze della Tomba chiamata Sfinge; la sagoma nera di quella che potrebbe essere un’ala si estende a nascondere una parte di cielo.

— Useremo la lanterna, quando il fuoco si sarà spento — dice il Console. Ha un aspetto ancora più sfinito degli altri. La luce guizzante gli colori-sce i lineamenti tristi. Ha indossato per l’occasione l’abito di gala dei di-plomatici, ma ora la cappa e il tricorno sembrano sporchi e vizzi quanto lui.

Il colonnello Kassad torna accanto al fuoco e si cala sul casco il visore notturno. Indossa l’equipaggiamento militare completo: la tuta di polimero camaleonte, attivala, lascia vedere solo il viso, che pare librarsi a due metri da terra. — Niente — dice Kassad. — Nessun movimento, né tracce di calore. Solo il fruscio del vento. — Appoggia contro una roccia il fucile d’assalto multiuso della FORCE e si siede accanto agli altri: le fibre della tuta blindala si disattivano e formano un grumo nero non molto più visibile di prima.

— Credete che lo Shrike verrà stanotte? — domanda padre Hoyt. Il prete si è avvolto nel mantello nero e sembra parte della notte non meno del colonnello Kassad. Smagrito, parla con voce sofferente.

Kassad si sporge, col bastone di comando attizza il fuoco. — Non abbiamo modo di saperlo. Monterò di guardia, non si sa mai.

A un tratto tutt’e sei alzano lo sguardo: il cielo stellato si riempie di colori pulsanti, fiori rossi e arancione che sbocciano in silenzio e cancellano le stelle.

— Nelle ultime ore erano molto meno numerosi — dice Sol Weintraub, cullando la piccina. Rachel ha smesso di piangere, cerca d’afferrare la barbetta del padre. Weintraub le bacia la manina.

— Saggiano di nuovo le difese dell’Egemonia — dice Kassad. Scintille si alzano dal fuoco attizzato, faville che si librano nel cielo come per unirsi alle fiamme più vivide, su in alto.

— Chi ha vinto? — domanda Brawne Lamia, riferendosi alla silenziosa battaglia spaziale che per tutta la notte precedente e buona parte del giorno ha riempito di violenza il cielo.

— Chi cazzo se ne fotte? — replica Martin Sileno. Si fruga nelle tasche del cappotto di pelliccia, casomai ci fosse una bottiglia piena. Non ne trova. — Chi cazzo se ne fotte — borbotta di nuovo.

— Io — ribatte stancamente il Console. — Se gli Ouster sfondano, possono distruggere Hyperion prima che troviamo lo Shrike.

Sileno ride, beffardo. — Oh, sarebbe terribile, vero? Morire prima di scoprire la morte. Essere uccisi prima del momento stabilito. Scomparire rapidamente e senza dolore, anziché contorcersi per sempre sulle spine dello Shrike. Oh, che pensiero orribile!

— Chiudi il becco — dice Brawne Lamia; il tono è sempre privo di emozione, ma questa volta vi affiora la minaccia. Lamia guarda il Console.

— Allora, dov’è, lo Shrike? Perché non riusciamo a trovarlo?

Il diplomatico fissa il fuoco. — Non so. Perché dovrei saperlo?

— Forse lo Shrike è sparito — dice padre Hoyt. — Forse il collasso dei campi anti-entropici l’ha liberato per sempre. Forse quel mostro ha portato altrove il proprio flagello.

Il Console scuote la testa e non replica.

— No — dice Sol Weintraub. La piccina gli si è addormentata contro la spalla. — Verrà qui. Me lo sento.

Brawne Lamia annuisce. — Anch’io. È lì che aspetta. — Dalla sacca ha preso alcune confezioni di viveri; tira la linguetta per riscaldare il contenuto e le distribuisce.

— L’improvvisa caduta di tensione, lo so, è l’ordito e la trama del mondo

— dice Sileno. — Ma siamo davvero ridicoli. Tutti in pompa magna e senza un posto dove morire.

Brawne Lamia lo squadra con occhi di fuoco, ma rimane in silenzio; per un poco mangiano e non dicono niente. In alto, le fiammate svaniscono e compaiono di nuovo le stelle fittamente raggruppate, ma le faville continuano ad alzarsi come se cercassero una via di fuga.

Avvolto per duplice interposizione nel guazzabuglio nebbioso dei pensieri di Brawne Lamia, cerco di ricostruire gli eventi a partire dal mio ultimo sogno delle loro vite.

Prima dell’alba i pellegrini sono scesi nella valle, cantando, e le luci della battaglia in svolgimento un miliardo di chilometri più in alto ne proiet-tavano l’ombra sul terreno. Per tutto il giorno hanno esplorato le Tombe del Tempo. Da un momento all’altro s’aspettavano di morire. Dopo alcune ore, mentre il sole si levava e il freddo del deserto lasciava posto al calore, hanno sentito affievolirsi paura ed esaltazione.

Il lungo giorno è stato silenzioso, a parte il fruscio della sabbia, un grido di tanto in tanto, il gemito continuo e quasi subliminale del vento fra le rocce e le tombe. Kassad e il Console hanno portato uno strumento per mi-surare l’intensità dei campi anti-entropici, ma Lamia è stata la prima a no-

tare che era superfluo, che il flusso e il riflusso delle maree del tempo pro-ducevano una leggera nausea sovraccarica di una impressione di déjà vu che non si attenuava.

La Tomba più vicina all’ingresso della valle era la Sfinge; poi veniva la Tomba di Giada, le cui pareti erano trasparenti solo al mattino e nel crepuscolo; poi, neppure cento metri più avanti, si alzava l’Obelisco; da lì, il sentiero dei pellegrini risaliva un arroyo che si allargava fino alla tomba più grande, posta al centro, il Monolito di Cristallo, la cui superficie era priva di ornamenti e di aperture, e il cui tetto piatto si trovava allo stesso livello delle pareti della valle; poi c’erano le tre Grotte, il cui ingresso era visibile solo a causa dei sentieri molto battuti che portavano fin lì; e infine, quasi un chilometro nel cuore della valle, c’era il cosiddetto Palazzo dello Shrike, le cui flange a spigolo vivo e le guglie elevate ricordavano le spine della creatura che si riteneva infestasse quel luogo.

Per tutta la giornata i pellegrini erano passati da tomba a tomba; nessuno si avventurava da solo, ma tutto il gruppo si soffermava all’ingresso delle costruzioni dove era possibile entrare. Sol Weintraub era rimasto quasi sconvolto dall’emozione, nel vedere la Sfinge e nell’entrarvi: era proprio quella la tomba in cui, ventisei anni prima, sua figlia aveva contratto il morbo di Merlino. Gli strumenti installati dalla squadra universitaria erano ancora sui treppiedi all’esterno della tomba, anche se era impossibile dire se continuassero a eseguire il quotidiano compito di sorveglianza. I corridoi della Sfinge erano stretti e labirintici come le note sul comlog di Rachel avevano lasciato intuire; i fotoglobi e le lampadine elettriche, abbandonati da svariati gruppi di ricerca, ormai erano spenti ed esauriti. Per esplorare la tomba, i sei pellegrini avevano adoperato torce a mano e il visore notturno di Kassad. Non c’era segno della stanza in cui Rachel si trovava quando le pareti si erano chiuse su di lei e il morbo l’aveva colpita. C’erano solo tracce minime di maree del tempo una volta possenti. Non c’era segno dello Shrike.

Ogni tomba aveva offerto momenti di terrore, di speranza e di orribile aspettativa, rimpiazzati però da delusioni quando stanze vuote e polverose comparivano proprio come era accaduto ai turisti e ai Pellegrini allo Shrike dei secoli precedenti.

Alla fine, mentre le ombre della parete orientale della valle oscuravano le Tombe e il terreno come un sipario che ponesse termine a una recita di scarso successo, la giornata si era risolta in delusione e fatica. Il calore del giorno era svanito e il freddo del deserto era tornato rapidamente, sulle ali d’un vento che profumava di neve e delle alte distese della Briglia, venti chilometri a sudovest. Kassad aveva suggerito di accamparsi. Il Console aveva mostrato la strada per il luogo in cui, secondo tradizione, i Pellegrini passavano l’ultima notte prima d’incontrare lo Shrike. La zona piatta, nelle vicinanze della Sfinge, mostrava tracce di rifiuti dei gruppi di ricerca, oltre che dei pellegrini; era piaciuta a Sol Weintraub e gli aveva dato l’impressione che sua figlia si fosse accampata proprio in quel luogo. Nessuno aveva sollevato obiezioni.

Ora, nella piena oscurità, mentre l’ultimo pezzo di legna bruciava, provai la sensazione che i sei si avvicinassero maggiormente… non al semplice calore del fuoco, ma l’uno all’altro… attirati dalle fragili ma tangibili corde dell’esperienza condivisa, createsi durante la risalita del fiume, sulla chiatta a levitazione Benares, e il viaggio in funivia fino a Castel Crono. Anzi, sentii un’unità più palpabile dei legami emotivi; capii dopo un istante che il gruppo era legato da una rete sensoriale in una microsfera di dati condivisi.

In un pianeta dove i primitivi relè dati erano collassati al primo accenno di combattimento, questo gruppo aveva collegato i propri comlog e i biomonitor per condividere informazioni e per sorvegliarsi l’un altro nel miglior modo possibile.

Anche se le barriere d’ingresso erano ovvie e solide, non avevo avuto difficoltà a superarle e a rilevare gli indizi, finiti ma numerosi (pulsazioni, temperatura della pelle, attività delle onde corticali, richiesta d’accesso, in-ventario dati), che mi permettevano una certa intuizione di quel che ciascun pellegrino pensava, sentiva, faceva. Kassad, Hoyt e Lamia avevano bio-impianti che rendevano più facile intuire il loro flusso di pensiero. In quel preciso istante Brawne Lamia si domandava se non fosse stato un errore andare alla ricerca dello Shrike; era infastidita da un pensiero appena sotto la superficie della coscienza ma implacabile nella sua richiesta d’at-tenzione, come se trascurasse un indizio importantissimo che contenesse la soluzione di… di che cosa?

Brawne Lamia non aveva mai potuto soffrire i misteri; era questa una delle ragioni che l’avevano spinta ad abbandonare una vita non priva di certe comodità e di piaceri per diventare investigatrice privata. Ma quale mistero la tormentava, adesso? Aveva quasi risolto l’omicidio del cliente, e amante, cìbrido ed era venuta su Hyperion per adempiere al suo ultimo desiderio. Eppure intuiva che il dubbio da cui era assillata non aveva molto a che fare con lo Shrike. Che cos’era, allora?

Scosse la testa e attizzò il fuoco morente. Aveva un fisico robusto, cre-

sciuto per resistere alla gravità di Lusus, 1,3 g standard, e ipersviluppato dall’addestramento, ma per diversi giorni non aveva dormito ed era stanca, stanchissima. Si accorse vagamente che uno di loro parlava.

— …solo fare una doccia e mangiare un boccone — dice Martin Sileno.

— E forse usare l’astrotel per sapere chi vince la guerra.

Il Console scuote la testa. — Non ancora. La nave è riservata a casi d’emergenza.

Sileno indica la notte, la Sfinge, il vento che si leva. — E questo non è un caso d’emergenza?

Brawne Lamia capisce che Sileno cerca di convincere il Console a richiamare dalla città di Keats la propria astronave. — Sei sicuro — interviene — che il caso d’emergenza non riguardi solo la mancanza d’alcol?

Sileno le rivolge un’occhiata di fuoco. — Un goccio farebbe male?

— No — dice il Console. Si strofina gli occhi e Lamia ricorda che anche lui un tempo era un alcolizzato. Ma la risposta riguardante la nave è stata negativa. — Aspetteremo finché sarà necessario.

— E un collegamento astrotel? — propone Kassad.

Il Console toglie dalla sacca l’antiquato comlog. L’apparecchio apparteneva a sua nonna Siri e prima ancora ai nonni di lei. Il Console sfiora il diskey. — Con questo posso trasmettere, ma non ricevere.

Sol Weintraub ha deposto la bimba addormentata nell’apertura della tenda più vicina. Ora si gira verso il fuoco. — E l’ultimo messaggio trasmesso annunciava il nostro arrivo a Castel Crono?

— Sì.

Martin Sileno interviene, sarcastico. — Dovremmo credere alle parole di un traditore confesso?

— Sì. — La voce del Console è un concentrato di sfinimento.

Il viso magro di Kassad si libra nel buio. Corpo, gambe e braccia sono visibili solo come una macchia scura contro lo sfondo già buio. — Ma servirà per chiamare la nave, se ne avremo bisogno?

— Sì.

Padre Hoyt si stringe nel mantello per evitare che i lembi sbattano al vento crescente. La sabbia fruscia contro la lana e la stoffa da tenda. —

Non hai paura che le autorità portuali o la FORCE spostino la nave o la manomettano? — domanda al Console.

— No. — Il Console muove appena la testa, come se fosse troppo stanco per un cenno d’assenso completo. — I documenti d’autorizzazione hanno la firma di Gladstone in persona. Inoltre, il governatore generale è mio amico… era mio amico.

Gli altri hanno conosciuto poco dopo l’atterraggio il governatore dell’Egemonia, nominato di recente; a Brawne Lamia, Theo Lane è parso un uomo catapultato in eventi troppo grandi per le proprie capacità.

— Il vento aumenta — dice Sol Weintraub. Si gira per riparare col proprio corpo la piccina. Volano granelli di sabbia. Lo studioso continua a fissare a occhi socchiusi gli effetti delle raffiche e dice: — Chissà se là fuori c’è Het Masteen.

— Abbiamo frugato dappertutto — replica padre Hoyt. La sua voce suona soffocata, perché il prete ha chinato la testa fra le pieghe del mantello.

Martin Sileno ride. — Scusami, prete, ma non dire cazzate. — Il poeta si alza, cammina fino al limitare della zona illuminata dal fuoco. Il vento gli arruffa il pelo del cappotto e sbrindella nella notte le sue parole. — Le pareti dei dirupi hanno mille nascondigli. Il Monolito di Cristallo cela l’ingresso a noi… ma a un Templare? E poi, hai visto la scala che porta giù nel labirinto, nella stanza inferiore della Tomba di Giada.

Hoyt alza lo sguardo e socchiude gli occhi per difenderli dalle punture di spillo della sabbia. — Credi che sia laggiù? Nel labirinto?

Sileno ride e solleva le braccia. La seta dell’ampia camicia s’increspa e si gonfia. — Come cazzo faccio a saperlo, padre? Ma Het Masteen potrebbe essere qui intorno, in questo momento, e tenerci d’occhio in attesa di venire a reclamare il bagaglio. — Il poeta indica il cubo di Moebius, al centro della piccola catasta di zaini. — O potrebbe essere già morto. O peggio.

— Peggio? — dice Hoyt. Nelle ultime ore, il viso del prete è invec-chiato. Gli occhi infossati sono specchi di sofferenza, il sorriso è un rictus.

Martin Sileno torna accanto al fuoco morente. — Peggio — dice. — Potrebbe essere lì a contorcersi sull’albero d’acciaio dello Shrike. Dove saremo anche noi fra qualche…

Brawne Lamia si alza di scatto e afferra per la camicia il poeta. Lo solleva da terra, lo scuote, lo abbassa fino a guardarlo negli occhi. — Prova a ripeterti — sussurra — e ti farò qualcosa di molto doloroso. Non ti ucciderò, ma rimpiangerai d’essere vivo.

Il poeta mostra il sorriso da satiro. Lamia lo lascia cadere e gli gira la schiena. Kassad dice: — Siamo tutti stanchi. Andate a letto. Resto io di guardia.

I miei sogni su Lamia sono mescolati con i sogni di Lamia. Non è spiacevole condividere i sogni di una donna, i pensieri di una donna, perfino di una donna separata da me da un abisso di tempo e di cultura molto più esteso di qualsiasi immaginabile baratro di sesso. In un modo bizzarro e speculare, lei ha sognato l’amante perduto, Johnny, il suo naso troppo piccolo e la mascella troppo decisa, i capelli troppo lunghi arricciati sopra il colletto e gli occhi… quegli occhi troppo espressivi, troppo rivelatori, che animavano troppo liberamente un viso che, occhi a parte, sarebbe potuto appartenere a uno qualsiasi di mille contadini nati nel raggio di un giorno di cavallo da Londra.

Il viso che sognò era il mio. La voce che udì in quel sogno era la mia.

Ma l’atto amoroso che sognò… ricordandolo adesso… non era una cosa che avessi condiviso. Cercai di sfuggire al suo sogno, anche solo per trovare il mio. Se dovevo essere un voyeur, tanto valeva esserlo nel guazzabuglio di ricordi prefabbricati che passavano per sogni miei.

Ma a me non è concesso sognare sogni miei. Non ancora. Sospetto d’essere nato… e rinato dal letto di morte… solo per sognare i sogni del mio gemello morto e remoto.

Mi rassegnai, rinunciai a lottare per svegliarmi e sognai.

Brawne Lamia si sveglia di colpo, quando un rumore o un movimento la strappano a un sogno piacevole. Per un attimo rimane disorientata; c’è buio, c’è un rumore, non meccanico, più forte di molti rumori dell’Alveare di Lusus in cui vive; è ubriaca di stanchezza, ma capisce d’essersi svegliata da un sonno assai breve; è da sola, in uno spazio piccolo, limitato, una sorta di sacco a pelo troppo grosso.

Cresciuta su un mondo dove i luoghi chiusi significano protezione dall’aria cattiva, dal vento e dagli animali, dove molti soffrono di agorafobia quando si trovano ad affrontare i rari spazi aperti e pochi conoscono la claustrofobia, Brawne ha comunque la reazione di un claustrofobo: artiglia l’aria come se le mancasse il fiato, spinge via il sacco a pelo e il lembo della tenda nel disperato tentativo di sfuggire al piccolo bozzolo di fibroplastica, striscia, si trascina a forza di mani e di gomiti fino ad avere sabbia sotto le braccia e cielo in alto.

Non proprio il cielo, capisce, ricordando a un tratto dove si trova. Sabbia. Una tormenta di granelli che le pungono il viso come spilli. Il fuoco da campo è spento, coperto di sabbia. La sabbia si è ammucchiata sul lato so-pravento di tutt’e tre le tende, il cui lembo sbatte e schiocca al vento con rumore di fucilate; nuove dune si sono formate intorno all’accampamento, hanno lasciato solchi e creste sottovento alle tende e ai bagagli. Nelle altre tende nessuno si muove. La tenda che lei divide con padre Hoyt è quasi crollata, quasi sepolta dalle dune crescenti.

Hoyt.

È stata l’assenza del prete, a svegliarla. Anche durante il sogno, Brawne si rendeva conto del lieve respiro e dei gemiti quasi impercettibili del prete addormentato e sofferente. A un certo punto, nell’ultima mezz’ora, il prete se n’è andato. Forse solo qualche minuto prima; pur sognando Johnny, Brawne Lamia ha sentito un fruscio sopra il raspare della sabbia e il ruggi-re del vento.

Lamia si alza e si scherma gli occhi. C’è buio fitto, le stelle sono nascoste dalle nuvole e dalla tempesta di sabbia, ma un fulgore quasi elettrico riempie l’aria e si riflette su rocce e dune. L’aria è piena d’elettricità statica che le fa rizzare i capelli e li muove come la chioma di Medusa. Le cariche di statica le strisciano lungo le maniche e si librano sopra le tende come fuochi di Sant’Elmo. Mentre la vista si adatta all’oscurità, Lamia capisce che le dune mobili brillano di fuoco livido. Quaranta metri a est, la tomba detta Sfinge è una sagoma che pulsa e crepita nella notte. Onde di corrente si muovono lungo le appendici spalancate spesso chiamate ali.

Brawne Lamia non vede segno di padre Hoyt e si domanda se non sia il caso di chiamare aiuto. Capisce che la voce non supererebbe il ruggito del vento. Per un istante si domanda se il prete non sia semplicemente andato in un’altra tenda o alla rozza latrina venti metri a ovest, ma qualcosa le dice che non è così. Guarda la Sfinge e, per un attimo, crede di scorgere la sagoma d’un uomo, mantello nero che pende come una bandiera afflosciata, spalle ingobbite per resistere al vento, messa in risalto dal bagliore delle statiche.

Una mano le tocca la spalla.

Brawne si sottrae di scatto, si rannicchia in posizione di combattimento, pugno sinistro teso, destra irrigidita. Riconosce Kassad, in piedi accanto a lei. Il colonnello è alto una volta e mezzo Brawne, largo la metà: fulmini in miniatura giocano sul suo fisico magro, mentre lui si china a gridarle all’orecchio: — È andato da quella parte! — Quella sorta di spaventapasseri nero tende il braccio in direzione della Sfinge.

Lamia annuisce e risponde gridando, ma nel ruggito del vento quasi non riesce a udire la propria voce: — Svegliamo gli altri? — Solo in quel momento ricorda che Kassad montava la guardia. Ma non dorme mai, quel-

l’uomo?

Fedmahn Kassad scuote la testa. Ha alzato i visori e ha modificato la struttura del casco che ora forma un cappuccio sulla schiena della tuta blindata da combattimento. Sembra pallidissimo, sotto il bagliore emesso dalla tuta. Indica la Sfinge. Nell’incavo del braccio sinistro regge il fucile multiuso della FORCE. Granate, custodia col binocolo e altri oggetti misteriosi pendono da ganci e cinghie disseminati sulla tuta blindata. Kassad indica di nuovo la Sfinge.

Lamia si protende verso di lui e grida: — L’ha preso lo Shrike?

Kassad scuote la testa.

— Riesci a vederlo? — Lamia indica il visore notturno e il binocolo.

— No — risponde Kassad. — La tempesta. Rovina le tracce termiche.

Brawne Lamia gira la schiena al vento, sente i granelli di sabbia colpirle la nuca come proiettili di una pistola a fléchettes. Interroga il comlog, ma l’apparecchio le risponde solo che Hoyt è vivo e si muove; non ci sono altre trasmissioni sulla banda comune. Lamia si sposta fino a trovarsi a fianco di Kassad: la loro schiena forma un muro contro la tempesta. — Lo seguiamo? — grida.

Kassad fa un cenno di diniego. — Non possiamo lasciare incustodito il campo. Ho disposto alcuni rivelatori, ma… — Indica la tempesta.

Brawne Lamia torna nella tenda, s’infila gli stivali, indossa il mantello per tutte le stagioni, impugna l’automatica paterna ed esce. Nella tasca del mantello ha un’arma più convenzionale, uno storditore Gier. — Allora vado io — dice.

Sulle prime pensa che il colonnello non abbia udito, ma poi scorge l’espressione degli occhi slavati e capisce che Kassad ha sentito. Il colonnello batte un colpetto sul comlog militare che porta al polso.

Lamia annuisce e si assicura che il proprio impianto comlog sia regolato sulla banda più ampia possibile. — Tornerò — dice e si avvia a risalire la duna. Le gambe dei calzoni brillano per le scariche statiche e la sabbia sembra viva per gli argentei impulsi di corrente che guizzano sulla superficie variegata.

Percorsi venti metri, Lamia non vede più l’accampamento. Dopo altri dieci metri, si trova davanti alla Sfinge. Non c’è segno di padre Hoyt. Nella tempesta le impronte di passi non durano dieci secondi.

L’ampio ingresso alla Stinge è aperto, come sempre da quando l’umanità ha scoperto l’esistenza delle Tombe. Ora appare come un rettangolo nero in una parete debolmente luminosa. La logica suggerisce che Hoyt sia entra-

to, se non altro per togliersi dalla tempesta; ma un’intuizione al di là della logica dice a Brawne Lamia che la meta del prete non è quella.

La donna oltrepassa la Sfinge, per qualche istante si tiene al riparo dell’edificio per togliersi dal viso la sabbia e respirare liberamente, poi riprende ad avanzare seguendo un sentiero di terra battuta appena visibile fra le dune. Più avanti, la Tomba di Giada risplende di un verde latteo nella notte: le morbide curve e gli spigoli sono unti di lucore sinistro.

Lamia aguzza lo sguardo e vede, per un fuggevole istante, qualcuno o qualcosa stagliarsi contro il bagliore. La figura svanisce subito: o è entrata, o è invisibile contro il semicerchio nero dell’ingresso.

Lamia china la testa e avanza, sotto la pressione del vento che pare spingerla di fretta verso qualcosa di grande importanza.

4

La riunione informativa militare proseguì, monotona, fin verso metà mattino. Sospetto che da parecchi secoli simili riunioni abbiano sempre le stesse caratteristiche: discorsi vivaci e monotoni come un ronzio di fondo, gusto stantio di troppo caffè, cappa di fumo, pile di bozze, vertigine corti-cale per sovrapposizione di dati. Ho l’impressione che fosse più semplice, quand’ero ragazzo: Wellington radunava i propri uomini (quelli che con accuratezza spassionata definì “i rifiuti della società”), non dava spiegazioni e li mandava a morire.

Riportai l’attenzione sul gruppo. Ci trovavamo in una sala spaziosa: pareti grigie alleggerite da rettangoli bianchi di luce, tappeto grigio, tavolo color bronzo, a ferro di cavallo, con diskey neri e qua e là una brocca d’acqua. Il Primo Funzionario Esecutivo Meina Gladstone sedeva all’apice della curva del tavolo e aveva ai lati i senatori di maggiore importanza e i ministri di gabinetto, e poi ufficiali militari e funzionari di livello inferiore.

Alle spalle di tutti quelli seduti al tavolo c’era l’inevitabile grappolo d’aiu-tanti di campo (nel caso dei militari, come minimo del grado di colonnello) e dietro costoro, su poltrone dall’aria meno comoda, gli aiutanti degli aiutanti.

Io non avevo poltrona. Con un gruppo di altri invitati chiaramente inutili, sedevo su uno sgabello nell’angolo in fondo alla sala, a venti metri dal PFE e anche più lontano dall’ufficiale relatore, un giovane colonnello che impugnava una bacchetta e non aveva la minima esitazione nel tono di voce. Dietro il colonnello c’era la piastra grigia e oro di una lavagna di ri-

chiamo della memoria del computer; davanti a lui, l’onnisfera leggermente rialzata del tipo che si trova nelle piazzuole di proiezione. Di tanto in tanto la lavagna di richiamo si scuriva e si attivava; in altre occasioni, complesse olografie si formavano a mezz’aria. Miniature di questi diagrammi brillavano su ogni piastra diskey e si libravano sopra alcuni comlog.

Sedevo sullo sgabello, osservavo Gladstone e di tanto in tanto disegnavo uno schizzo.

Quel mattino, quando mi ero svegliato nella stanza per gli ospiti della Casa del Governo, mentre la vivida luce del sole Tau Ceti filtrava dalle tende color pesca che si erano aperte automaticamente al momento della sveglia fissata per le 6,30, per un istante mi ero sentito perduto, fuori posto, ancora all’inseguimento di Lenar Hoyt e con la paura dello Shrike e di Het Masteen. Poi, come se un potere sconosciuto avesse esaudito il mio desiderio di sognare i miei sogni, c’era stato un minuto di confusione, in cui mi ero alzato a sedere ansimando, allarmato, aspettandomi che il tappeto color limone e la luce color pesca svanissero come il sogno febbricitante che erano, lasciando solo il dolore e il catarro e le terribili emorragie, sangue sulle lenzuola, la stanza piena di luce che si dissolveva nelle ombre dell’appartamento buio in Piazza di Spagna, mentre su tutto incombeva il viso sensibile di Joseph Severn che si chinava, si sporgeva, osservava e aspettava che morissi.

Feci due docce, la prima d’acqua e la seconda di ultrasuoni, indossai un abito grigio, nuovo, che trovai sul letto appena rifatto quando uscii dallo stanzino da bagno, e mi avviai a trovare la corte orientale dove, come diceva l’appunto gentilmente lasciato accanto all’abito nuovo, avrebbero servito la prima colazione.

Il succo d’arancia era appena spremuto. Il bacon era croccante e autentico. Il giornale diceva che il PFE Gladstone avrebbe rivolto un discorso alla Rete, tramite la Totalità e i media, alle 10,30 standard. Le pagine erano piene di notizie di guerra. Fotografie bidimensionali della flotta splendevano a tutto colore. Da pagina tre il generale Morpurgo fissava, truce, i lettori; il giornale lo definiva “l’eroe della seconda rivolta Height”. Da un tavolo vicino, dove faceva colazione insieme con quel Neanderthal di marito, Diana Philomel mi rivolse un’occhiata. Ora indossava un abito più formale, blu scuro, che rivelava molto meno, anche se lo spacco lungo il fianco permetteva una breve visione dello spettacolo della notte precedente.

Continuò a tenere gli occhi puntati su di me, mentre con unghie smaltate prendeva una fetta di bacon e dava un morso prudente. Hermund Philomel emise un brontolio, leggendo qualcosa di piacevole nelle pagine fi-nanziarie.

— Il grappolo di migrazione Ouster, comunemente definito Sciame, è stato scoperto, poco più di tre anni standard fa, da un congegno per la rile-vazione di distorsioni Hawking — diceva in quel momento il giovane colonnello. — Subito dopo la scoperta, l’Unità Operativa 42 della FORCE, predisposta per l’evacuazione del sistema di Hyperion, ha lasciato, in stato C-più, il sistema solare di Parvati, con l’ordine sigillato di creare un teleporter nel raggio d’utilizzo di Hyperion. Nello stesso tempo, l’Unità Operativa 87.2 è partita dalla zona di sosta Solkov-Tikata, intorno a Camn III, con l’ordine di unirsi all’unità di evacuazione nel sistema di Hyperion, di trovare il grappolo di migrazione Ouster e di attaccare e distruggere la componente militare… — Immagini della flotta comparvero sulla lavagna di richiamo e di fronte al giovane colonnello. L’ufficiale mosse la bacchetta e una linea di luce color rubino tagliò l’ologramma più grande per illu-minare una delle navi Tre-C in formazione. — L’Unità Operativa 87.2 è sotto il comando dell’ammiraglio Nashita a bordo della AE Ebridi…

— Sì, sì — brontolò Morpurgo. — Lo sappiamo tutti, Yani. Vieni al so-do.

Il giovane colonnello simulò un sorriso, annuì impercettibilmente verso il generale e Gladstone, e ricominciò, in tono un briciolo meno fiducioso.

— Messaggi in codice dell’UO 42, nel corso delle ultime 72 ore standard, segnalano scontri fra vedette della flotta di evacuazione ed elementi avan-zati del grappolo di migrazione Ouster…

— Lo Sciame — lo interruppe Leigh Hunt.

— Sì — disse Yani. Si rivolse alla lavagna di richiamo e cinque metri di vetro smerigliato brillarono di vita. Per me il quadro era un labirinto incomprensibile di simboli arcani, vettori colorati, codici secondari e acro-nimi della FORCE che aumentavano il guazzabuglio generale. Forse non aveva significato neppure per i pezzi grossi militari e politici presenti in sala, ma nessuno vi accennò. Iniziai un nuovo disegno della Gladstone sullo sfondo del profilo da bulldog di Morpurgo.

— Anche se i primi rapporti indicavano nelle vicinanze scie di quattro-mila motori Hawking, questa cifra induce in errore — continuò il colonello Yani. — Come sapete, gli… ah… Sciami Ouster possono comprendere fino a diecimila unità motrici diverse, ma la parte maggiore consiste in veicoli piccoli e disarmati o di scarsa importanza militare. La valutazione delle tracce microonda, astrotel e altre fonti d’emissioni suggerisce…

— Mi scusi — disse Meina Gladstone, con voce rauca che faceva stri-dente contrasto col flusso sciropposo dell’ufficiale relatore. — Può dirci quante navi Ouster hanno reale importanza militare?

— Ah… — disse il colonnello, con un’occhiata ai superiori.

Il generale Morpurgo si schiarì la voce. — Riteniamo circa seicento…

settecento al massimo — disse. — Niente di cui preoccuparsi.

Gladstone inarcò il sopracciglio. — E la grandezza dei nostri gruppi da combattimento?

— L’Unità Operativa 42 conta circa sessanta navi, signora. L’Unità Operativa…

— La 42 è il gruppo d’evacuazione?

Il generale Morpurgo annuì; mi parve di scorgere nel suo sorriso una traccia di condiscendenza. — Sì, signora — rispose. — L’Unità Operativa 87.2 è il gruppo d’intervento che un’ora fa si è teleportato nel sistema…

— Sessanta navi sono in grado d’affrontarne seicento o settecento? —domandò Gladstone.

Morpurgo lanciò un’occhiata ai colleghi, quasi a chiedere che portassero pazienza. — Sì — rispose. — Più che in grado. Seicento motori Hawking possono sembrare un bel mucchio, signora, ma non destano preoccupazioni, se spingono mononavi, o vedette, o le piccole cinque posti che loro chiamano lancer. L’Unità Operativa 42 comprende circa venticinque spin-navi principali, inclusi i trasporti truppe Ombra di Olympus e Stazione Nettuno. Ciascuno di questi ultimi può lanciare più di cento astrocaccia o ALR. — Morpurgo si frugò in tasca, estrasse un bastoncino di tabacco ricombinante grosso quanto un sigaro, parve ricordare che Gladstone disapprovava il fumo, lo ripose nella giubba. Si accigliò. — Quando l’Unità Operativa 87.2 completa lo spiegamento, avremo potenza di fuoco sufficiente per affrontare una decina di Sciami. — Sempre accigliato, rivolse a Yani il cenno di continuare.

Il colonnello si schiarì la voce e con la bacchetta indicò la lavagna di richiamo. — Come vedete, l’UO 42 non ha avuto difficoltà a ripulire il volume di spazio necessario a iniziare la costruzione di un teleporter. L’attività ha avuto inizio sei settimane fa, tempo standard della Rete, e si è con-clusa ieri alle 16,24. Le prime scaramucce con gli Ouster si sono risolte senza perdite per l’UO 42 e nelle ultime 48 ore una battaglia importante ha avuto luogo fra unità avanzate dell’UO e il grosso degli Ouster. Il punto focale dell’azione di guerra era in questa zona… — Yani mosse di nuovo la bacchetta e una sezione della lavagna pulsò di luce azzurra — ovvero 29

gradi sopra il piano dell’eclittica, trenta unità astronomiche dal sole di Hyperion, circa 0,35 UA dal bordo ipotetico della nube del sistema di O-

ört.

— Perdite? — disse Leigh Hunt.

— Entro limiti del tutto accettabili, per uno scontro di questa durata —rispose il giovane colonnello, che aveva l’aria di chi non si è mai trovato a meno di un anno luce dal fuoco nemico. Aveva capelli biondi, pettinati accuratamente di lato, e pelle lustra sotto l’intenso bagliore dei faretti. —

Ventisei caccia rapidi dell’Egemonia distrutti o dispersi, dodici ALR porta-torpedini, tre navi-torcia, il trasporto carburante Orgoglio di Asquith e l’incrociatore Draconis III.

— Quante perdite umane? — domandò Gladstone. La voce era molto bassa.

Yani rivolse a Morpurgo una rapida occhiata ma rispose senza attendere l’autorizzazione. — Circa duemilatrecento — disse. — Ma sono in corso operazioni di recupero e ci sono speranze di trovare i superstiti della Draconis III. — Si lisciò la giubba e continuò in fretta.

— Questa cifra va confrontata con la distruzione di almeno centocinquanta navi da guerra Ouster. Le nostre incursioni nel loro grappolo… nel loro Sciame hanno prodotto un’ulteriore distruzione di un numero di imbarcazioni compreso fra trenta e sessanta, incluse fattorie cometa, navi per la lavorazione dei minerali e almeno un grappolo comando.

Meina Gladstone si strofinò le dite nodose. — La stima delle perdite, delle nostre perdite, comprende i passeggeri e l’equipaggio della nave-albero Yggdrasill, da noi noleggiata per l’evacuazione?

— No, signora — rispose vivacemente Yani. — Secondo la nostra analisi, anche se a quel tempo era in atto un’incursione Ouster, la Yggdrasill non fu distrutta dal nemico.

Gladstone inarcò il sopracciglio. — E da chi, allora?

— Sabotaggio, per quanto ne sappiamo — rispose il colonnello. Chiamò sulla lavagna un altro diagramma del sistema di Hyperion.

Il generale Morpurgo diede un’occhiata al proprio comlog e disse:

— Va bene, Yani, salta alle difese a terra. Fra trenta minuti il PFE deve tenere il discorso.

Completai lo schizzo di Gladstone e di Morpurgo, mi stiracchiai, mi guardai intorno alla ricerca di un altro soggetto. Leigh Hunt sembrava una sfida, con quei lineamenti indefinibili, quasi emaciati. Quando tornai a sollevare lo sguardo, l’ologramma del globo di Hyperion aveva smesso di girare su se stesso ed era diventato una serie di proiezioni bidimensionali: equirettangolare obliqua, di Bonne, ortografica, a rosetta, di Van der Grin-ten, di Gores, ad angoli omologici interrotti di Goode, gnomonica, sinusoidale, equidistante azimutale, policonica, ipercorretta Kuwatsi, computer-escherata, di Brisemeister, di Buckminster, cilindrica Miller, multicoligra-fica e standard da satellite, prima di risolversi in una mappa standard Robinson-Baird.

Sorrisi. Era stata la cosa più gradevole che avessi visto dall’inizio della riunione informativa. Alcuni funzionari di Gladstone si agitavano con impazienza. Volevano almeno dieci minuti con il PFE, prima dell’inizio della trasmissione.

— Come sapete — attaccò il colonnello — Hyperion ha un indice di somiglianza con la Vecchia Terra pari al 9,89 della scala Thuron-Laumier delle…

— Oh, perdio — brontolò Morpurgo — passa alla disposizione delle truppe e concludi.

— Sissignore. — Yani deglutì e sollevò la bacchetta. La voce era un po’

meno fiduciosa. — Come sapete… voglio dire… — Indicò il continente set-tentrionale che galleggiava come uno schizzo malamente eseguito della testa e del collo d’un cavallo e terminava in una linea frastagliata dove sarebbero dovuti iniziare i muscoli del petto e della schiena dell’animale. —

Questo è Equus. Ha un nome ufficiale diverso, ma tutti lo chiamano così, da quando… questo è Equus. La catena di isole che corre verso sudest… qui e qui… si chiama il Gatto e le Nove Code. In realtà è un arcipelago che comprende più di cento… comunque, il secondo continente in ordine di grandezza si chiama Aquila e forse riconoscerete che assomiglia come forma all’aquila della Vecchia Terra, con il becco qui, sulla costa di nordovest, e gli artigli protesi qui, verso sudovest, e un’ala sollevata in questo punto, fino alla costa di nordest. Questa sezione si chiama pianoro Punta d’Ala ed è quasi inaccessibile a causa delle foreste di fuoco, ma qui e qui, a sudovest, ci sono le principali piantagioni di fibroplastica…

— La disposizione delle truppe! — ringhiò Morpurgo.

Disegnai Yani. Scoprii che è impossibile riprodurre a carboncino il velo di sudore della pelle.

— Sissignore. Il terzo continente è Ursa, ha grosso modo la forma di un orso, ma lì non sono atterrate truppe della FORCE, perché si trova intorno al polo sud ed è quasi inabitabile, anche se la Forza di Autodifesa di Hyperion vi mantiene un posto d’ascolto… — Yani parve rendersi conto di parlare in modo confuso. Drizzò le spalle, con il dorso della mano si asciugò il labbro e continuò in tono più composto. — Le installazioni primarie della FORCE:terra si trovano qui, e qui, e qui. — La bacchetta illuminò zone in vicinanza della capitale Keats, in alto sul collo di Equus. — Unità della FORCE:spazio hanno fortificato lo spazioporto principale intorno a Keats e anche campi secondari, qui e qui. — Toccò le città di Endymion e di Port Romance, tutt’e due sul continente chiamato Aquila. — Unità della FORCE:terra hanno approntato installazioni di difesa in questo punto… —

Venticinque luci rosse si accesero; per la maggior parte, nella zona del collo e della criniera di Equus, ma parecchie anche nel Becco d’Aquila e nelle vicinanze di Port Romance. — Queste unità comprendono reparti di marines, oltre alle difese terrestri e a componenti terra-aria e terra-spazio. L’Alto Comando si aspetta che, a differenza di Bressia, non ci saranno battaglie sul pianeta; ma se gli Ouster dovessero tentare un’invasione, saremo pronti a riceverli.

Meina Gladstone controllò il comlog. Mancavano diciassette minuti alla trasmissione dal vivo. — E i piani di evacuazione?

La compostezza di Yani si sbriciolò. Con una certa disperazione, il colonnello lanciò un’occhiata ai superiori.

— Niente evacuazione — disse l’ammiraglio Singh. — Era una finta, un’esca per gli Ouster.

Gladstone batté la punta delle dita. — Su Hyperion ci sono alcuni milioni di persone, ammiraglio.

— Sì — disse Singh — e li proteggeremo; ma l’evacuazione, anche solo dei sessantamila cittadini dell’Egemonia, è impensabile. Sarebbe il caos, se permettessimo l’ingresso nella Rete ai tre milioni di abitanti di Hyperion.

Inoltre, per ragioni di sicurezza, è impossibile.

— Lo Shrike? — domandò Leigh Hunt.

— Ragioni di sicurezza — ripeté il generale Morpurgo. Si alzò, tolse a Yani la bacchetta. Il giovanotto rimase lì fermo per un istante, indeciso, non vedendo posto dove sedersi o stare in piedi; poi si spostò in fondo al salone, accanto a me, assunse la posizione di riposo e fissò un punto nelle vicinanze del soffitto… forse la fine della sua carriera militare.

— L’Unità Operativa 87.2 si trova nel sistema solare di Hyperion — disse Morpurgo. — Gli Ouster si sono ritirati intorno al centro dello Sciame, a circa sessanta UA dal pianeta. Sotto tutti i punti di vista, il sistema è si-

curo. Hyperion è sicuro. Attendiamo un contrattacco, ma sappiamo di poterlo respingere. Di nuovo, sotto tutti i punti di vista, Hyperion adesso fa parte della Rete. Domande?

Non ce ne furono. Gladstone uscì, con Leigh Hunt, un gruppo di senatori e i suoi aiutanti personali. I pezzi grossi militari formarono capannelli, a seconda del grado, si sarebbe detto. Gli aiutanti si sparpagliarono. I pochi giornalisti presenti corsero dai propri tecnici d’olocamera in attesa all’esterno. Il giovane colonnello Yani rimase in posizione di riposo, sguardo perso nel vuoto, viso pallidissimo.

Mi trattenni un momento a osservare la mappa di Hyperion. Dalla mia posizione, la rassomiglianza del continente Equus con una testa di cavallo era maggiore: distinguevo appena le montagne che formano la Briglia e il grande deserto giallastro al di sotto dell‘“occhio”. A nordest delle montagne non c’era segno di postazioni difensive della FORCE: nessun simbolo, a parte un minuscolo puntino rosso che forse indicava le rovine della Città dei Poeti. Le Tombe del Tempo non erano segnate affatto. Come se le Tombe non avessero importanza militare, non giocassero alcuna parte negli atti del giorno. Ma io sapevo come stavano le cose. Sospettavo che la guerra intera, il movimento di migliaia d’individui, la sorte di milioni, forse miliardi, dipendeva dalle azioni di sei persone che si trovavano in quella distesa gialla e arancione, priva di contrassegni.

Chiusi l’album degli schizzi, misi in tasca le matite, cercai l’uscita, la trovai e ne approfittai.

Leigh Hunt mi venne incontro, in uno dei lunghi corridoi che portavano all’ingresso principale. — Se ne va? — disse.

Sospirai. — Non mi è permesso?

Hunt sorrise, se sorriso si può chiamare quel modo di piegare verso l’alto le labbra sottili. — Sì, certo, signor Severn. Ma il Primo Funzionario Gladstone vorrebbe parlarle ancora, oggi pomeriggio.

— A che ora?

Hunt alzò le spalle. — Una qualsiasi, dopo il discorso. Scelga pure quella che le fa più comodo.

Annuii. Milioni di maneggioni politici, di gente in cerca di lavoro, di se-dicenti biografi, di uomini d’affari, di sostenitori del PFE e di assassini potenziali avrebbero dato qualsiasi cosa, per disporre di un minuto in compagnia della leader più in vista dell’Egemonia, di pochi secondi con il PFE

Gladstone, e io potevo “scegliere l’ora che mi faceva più comodo”. L’uni-

verso è proprio pazzo.

Passai davanti a Leigh Hunt e mi diressi all’ingresso principale.

Per lunga tradizione, la Casa del Governo non ha teleporter pubblici nel proprio comprensorio. Dopo una breve camminata al di là degli schermi di sicurezza dell’ingresso principale e attraverso il giardino, arrivai al basso fabbricato bianco che serviva da sala stampa e da terminex. I robocronisti erano raggruppati intorno alla piazzuola di visione centrale, dove il viso e la voce ben noti di Lewellyn Drake, “la voce della Totalità”, davano informazioni sul discorso del PFE Gladstone, “di vitale importanza per l’Egemonia”. Rivolsi a Drake un cenno di saluto, trovai un portale libero, usai la carta universale e andai a cercare un bar.

Il Grand Concourse era, una volta raggiunto, l’unico luogo della Rete dove si potesse usare gratis il teleporter. Ogni mondo della Rete ha offerto almeno uno dei propri isolati urbani più eleganti (TC2 ne aveva forniti ventitré) per shopping, divertimenti, ristoranti raffinati e bar. Soprattutto bar.

Come il fiume Teti, il Grand Concourse scorreva fra portali di formato militare, alti duecento metri. A forma di fascia richiusa su se stessa, faceva l’effetto di un corso cittadino infinito, un toroide lungo cento chilometri di delizie mondane. Si poteva stare, come facevo io quella mattina, sotto il vivido sole di Tau Ceti e guardare giù lungo il Concourse nella notte di Deneb Drei, viva di luci al neon e di ologrammi, e dare un’occhiata al Mall di Lusus, con i suoi cento livelli, sapendo che più in là c’erano le boutique ombrose di Bosco Divino con il suo viale di mattoni e l’ascensore per raggiungere il Treetops, il più costoso ristorante della Rete.

Me ne fregavo, di tutto questo. Volevo solo trovare un bar tranquillo.

I bar di TC2 erano troppo pieni di burocrati, robocron e gente d’affari; perciò presi una navetta del Concourse e sbarcai nella draga principale di Sol Draconis Septem. La gravità scoraggiava molti - scoraggiava perfino me! - ma significava che i bar erano meno affollati e che gli avventori avevano solo voglia di bere.

Scelsi un locale a pianoterra, quasi nascosto sotto le colonne di sostegno e gli scivoli di servizio che portavano al pergolato principale per le compe-re, con l’interno scuro: pareti scure, legno scuro, avventori scuri… pelle nera quanto è chiara la mia. Era un buon bar per bere in pace: iniziai con un doppio scotch, ma più andavo avanti, più ci davo dentro.

Perfino lì non mi ero liberato di Gladstone. In fondo alla sala, una TV

bidimensionale mostrava il viso della donna contro lo sfondo azzurro e oro usato per le trasmissioni ufficiali. Alcuni avventori si erano riuniti a guardare. Mi giunsero brandelli del discorso: «…per garantire la sicurezza dei cittadini dell’Egemonia e… non si può mettere a repentaglio la sicurezza della Rete e dei nostri alleati in… così ho autorizzato una piena risposta militare al…»

— Abbassate quel maledetto affare! — Fui sorpreso nel riconoscere, in quel grido, la mia stessa voce. Gli avventori girarono la testa e mi lanciarono occhiate di fuoco, ma abbassarono l’audio. Per un istante guardai Gladstone muovere le labbra, poi mi trascinai verso il barista per farmi dare un altro doppio.

Più tardi, forse erano passate ore intere, alzai lo sguardo dal bicchiere e mi accorsi che qualcuno sedeva di fronte a me, nel séparé in penombra.

Battei le palpebre e impiegai un secondo per riconoscere l’intruso, nella luce fioca. Per un attimo sentii il cuore accelerare i battiti, mentre pensavo:

“Fanny”; poi battei di nuovo le palpebre e dissi: — Lady Philomel.

Indossava ancora l’abito blu scuro che le avevo visto durante la prima colazione. Il viso e le spalle parvero brillare, nella penombra. — Signor Severn — disse lei, con voce che era quasi un sussurro. — Sono venuta perché mantenga la promessa.

— Promessa? — Con un cenno chiamai il barista, che non rispose. Mi accigliai e guardai Diana Philomel. — Quale promessa?

— Di farmi il ritratto, ovviamente. Ha dimenticato di averlo promesso, al party?

Schioccai le dita, ma l’insolente barista ancora non si degnò di guardare dalla mia parte. — Le ho già fatto il ritratto — risposi.

— Sì — disse lei. — Ma non tutto il ritratto.

Con un sospiro prosciugai le ultime gocce di scotch. — Bevo — dissi.

Lady Philomel sorrise. — Vedo.

Mi mossi per alzarmi e andare dal barista, ci ripensai, tornai lentamente a sedermi sul legno stagionato della panca. — Armageddon — dissi. —

Giocano con l’Armageddon. — Guardai attentamente la donna, socchiu-dendo un poco gli occhi per metterla a fuoco. — Conosce questa parola, signora?

— Non credo che il barista le servirà altri alcolici — disse lei. — Ne ho, a casa. Potrà bere, mentre disegna.

Socchiusi di nuovo gli occhi, stavolta con aria astuta. Forse avevo bevuto qualche scotch di troppo, ma non avevo perso completamente la lucidi-

tà. — Marito — obiettai.

Diana Philomel sorrise di nuovo, e anche questo sorriso era radioso. —

Trascorre alcuni giorni nella Casa del Governo — disse, ora davvero in un sussurro. — Non riesce a stare lontano dalla fonte del potere, in tempi così importanti. Su, andiamo, il mio VEM è qui a due passi.

Non ricordo di avere pagato, ma immagino di averlo fatto. Oppure fu lady Philomel a provvedere. Non ricordo che mi abbia aiutato a uscire, ma presumo che qualcuno l’abbia fatto. Forse il suo chauffeur. Ricordo un uomo in veste e calzoni grigi, ricordo di essermi appoggiato a lui.

Il VEM aveva il tetto a bolla, polarizzato dall’esterno ma trasparente da dove sedevamo sprofondati nei cuscini e guardavamo fuori. Contai un portale, due, e poi fummo fuori del Concourse e salimmo sopra campi azzurri sotto un cielo giallo. Case riccamente ornate, di un legno color ebano, sor-gevano sulla cima di alture circondate da campi color papavero e da laghi color bronzo. Vettore Rinascimento? Era un enigma di difficile soluzione, al momento; appoggiai la testa alla bolla di perspex e decisi di riposarmi per un paio di minuti. Dovevo essere riposato, per fare il ritratto di lady Philomel… eh, eh!

In basso, la campagna scorreva.

5

Il colonnello Fedmahn Kassad segue Brawne Lamia e padre Hoyt nella tempesta di sabbia, verso la Tomba di Giada. Ha mentito a Lamia: il visore notturno e i sensori funzionano bene, nonostante le scariche elettriche che guizzano tutt’intorno. Seguire i due gli è parsa l’opportunità migliore per trovare lo Shrike. Kassad ha ricordato come si dà la caccia al leone delle rocce su Hebron… si lega una capra e si aspetta.

Dati provenienti dai rivelatori disposti intorno all’accampamento lam-peggiano sul display tattico di Kassad e bisbigliano attraverso l’impianto. È

un rischio calcolato, lasciare Weintraub e sua figlia, Martin Sileno e il Console, addormentati nel campo, senza protezione a parte le armi auto-matiche e un segnale d’allarme. Ma, tanto, Kassad non è affatto convinto di poter fermare lo Shrike, in caso di necessità. I sei pellegrini sono tutti ca-pre impastoiate in attesa. Prima di morire, Kassad è deciso a trovare la donna, il fantasma di nome Moneta.

Il vento ha continuato a riforzarsi e ora ruggisce intorno a Kassad, riduce a zero la visibilità normale e tempesta la tuta blindata. Le dune brillano di scariche, fulmini in miniatura scoppiettano intorno agli stivali e alle gambe di Kassad, mentre il colonnello avanza deciso per non perdere di vista la traccia termica di Lamia. Riceve il flusso di dati proveniente dal comlog aperto della donna. I canali chiusi di Hoyt rivelano solo che il prete è vivo e che si muove.

Kassad passa sotto l’ala tesa della Sfinge, la sente incombergli addosso come un enorme tacco di stivale. Poi si dirige nella valle, dove la Tomba di Giada compare come assenza di calore nell’infrarosso, un freddo contorno. In quel momento Hoyt varca l’apertura semisferica; Lamia è indietro di venti metri. Niente altro si muove, nella valle. I rivelatori intorno al campo, nascosti dalla notte e dalla tempesta, dicono che Sol e la piccina dormono, che il Console è sveglio ma non si muove, che non c’è nessuno, all’interno del perimetro.

Kassad toglie la sicura al fucile e avanza a grandi passi. In quel momento darebbe qualsiasi cosa per avere accesso a un satellite di rico-gnizione, per la completezza dei canali tattici, anziché accontentarsi del quadro parziale di una situazione frammentaria. Dentro la tuta blindata, scrolla le spalle e continua ad avanzare.

Brawne Lamia quasi non porta a termine gli ultimi quindici metri del viaggio alla Tomba di Giada. Il vento è salito a raffiche di burrasca e la spinge, tanto da farle perdere l’equilibrio due volte e mandarla lunga distesa sulla sabbia. I fulmini ora sono reali, lacerano il cielo con grandi scoppi luminosi che illuminano la tomba lucente più avanti. Due volte lei cerca di chiamare Hoyt, Kassad, o gli altri, convinta che al campo nessuno possa dormire con quel frastuono, ma il comlog e gli impianti le danno solo statiche, le bande registrano solo farfugliamenti. Dopo la seconda caduta, Lamia si alza in ginocchio e guarda avanti; non c’è stato segno di Hoyt, dopo la fuggevole visione di qualcuno che si muoveva verso l’ingresso.

Lamia stringe la rivoltella automatica e si tira in piedi; si lascia spingere dal vento per gli ultimi metri. Si sofferma davanti alla semisfera d’ingresso.

Che sia dovuto alla tempesta e alle scariche elettriche oppure ad altro, la Tomba di Giada brilla di un vivido verde bilioso che colora le dune e illi-vidisce i polsi e le mani della donna, facendoli sembrare resti appena usciti dalla fossa. Lamia fa un ultimo tentativo di evocare qualcuno nel comlog, poi entra nella tomba.

Padre Lenar Hoyt, della Compagnia di Gesù antica di milleduecento anni, residente a Nuovo Vaticano su Pacem e servo leale di Sua Santità Papa Urbano XVI, in quel momento urla frasi oscene.

Hoyt è perduto e soffre disperatamente. Le ampie stanze vicino all’entrata della Tomba di Giada si sono ristrette, il corridoio ha fatto tante di quelle svolte che ora padre Hoyt non trova più la strada in una serie di catacombe, vaga fra pareti che risplendono di luce verdastra, in un labirinto che non ricorda d’avere visto durante l’esplorazione del giorno precedente né rilevato sulle mappe lasciate al campo. Il dolore - dolore che è stato con lui da anni, dolore che l’ha accompagnato da quando la tribù dei Bikura gli impiantò i due crucimorfi, il suo e quello di Paul Duré - ora minaccia di farlo impazzire, con la sua rinnovata intensità.

Il corridoio si stringe di nuovo. Lenar Hoyt urla, non si rende più conto di urlare, né delle parole che grida… parole che non ha più adoperato da quando era bambino. Vuole liberazione. Liberazione dal dolore. Liberazione dal fardello di portare il DNA di padre Duré, la personalità… l’anima!… di Duré, nel parassita a forma di croce che ha sulla schiena. E dalla terribile sciagura della propria risurrezione nel crucimorfo che ha sul petto.

E mentre urla, Hoyt capisce che non sono stati i Bikura ormai estinti a condannarlo a una simile sofferenza: i coloni che formavano quella tribù perduta, risuscitati dal proprio crucimorfo tante di quelle volte da essere divenuti idioti, semplice veicolo del proprio DNA e di quello del parassita, erano stati anche sacerdoti… sacerdoti dello Shrike.

Padre Hoyt della Compagnia di Gesù ha portato con sé una fiala d’acqua santa benedetta da Sua Santità, un’Ostia consacrata durante una Messa solenne e una copia dell’antico rito d’esorcismo della Chiesa. Tutte cose adesso dimenticate, chiuse in una bolla di perspex, tenute in una tasca del mantello.

Hoyt barcolla contro la parete e urla di nuovo. Ora la sofferenza è una forza che sfida ogni descrizione, che non reagisce all’effetto della fiala d’ultramorfina che Hoyt si è iniettato solo quindici minuti prima. Il prete urla e si artiglia le vesti, si strappa il pesante mantello, la tonaca nera e il solino rigido, i calzoni e la camicia e la biancheria, finché non rimane tutto nudo a rabbrividire di dolore e di freddo nei corridoi lucenti della Tomba di Giada e a urlare oscenità nella notte.

Avanza di nuovo barcollando, trova un’apertura, passa in una sala più ampia di quanto non ricordi dalle precedenti esplorazioni. Pareti spoglie e trasparenti si alzano per trenta metri su ogni lato dello spazio vuoto. Hoyt cade sulle mani e sulle ginocchia, guarda in basso e si rende conto che il pavimento è divenuto quasi trasparente. Adesso la sottile membrana del pavimento lo separa da un pozzo verticale che sprofonda per un chilometro o più nelle fiamme. La stanza si riempie della luce rossastra e pulsante che proviene dal fuoco sul fondo lontanissimo del pozzo.

Hoyt si rotola sul fianco e ride. Se questa vuole essere un’immagine dell’inferno evocata a suo uso e consumo, è un fiasco. Hoyt vede l’inferno come qualcosa di tattile: il dolore che si muove in lui come fili frastagliati tirati lungo le vene e i visceri. Inferno è anche il ricordo di bambini affamati nei quartieri poveri di Armaghast e il sorriso dei politici che mandano ragazzi a morire nelle guerre coloniali. Inferno è il pensiero che, durante la sua vita, durante la vita di Duré, la Chiesa si estingue e gli ultimi credenti sono una manciata di vecchi e di vecchie che riempiono solo alcuni banchi delle gigantesche cattedrali su Pacem. Inferno è l’ipocrisia di celebrare la messa del mattino, con il male del crucimorfo che pulsa, caldo, osceno, sopra il suo cuore.

C’è una folata d’aria rovente; una sezione del pavimento scivola via, forma una botola. La stanza si riempie di puzza di zolfo. Hoyt ride, a questo cliché, ma subito la risata si muta in pianto. Ora Hoyt è in ginocchio, con le unghie sanguinanti si gratta i crucimorfi che porta sul petto e sulla schiena. I due gonfiori a forma di croce sembrano brillare nella luce rossastra. Hoyt sente il crepitio della fiamme, in basso.

— Hoyt!

Continuando a piangere, Hoyt si gira: la donna, Lamia, si staglia nel vano d’ingresso. Guarda al di là del prete e alza una rivoltella antica. Ha gli occhi spalancati.

Padre Hoyt sente il calore alle spalle, ode il ruggito d’una fornace lontana, ma su tutto avverte a un tratto il raspare del metallo sulla pietra. Passi.

Continuando ad artigliare il gonfiore insanguinato sul petto, Hoyt si gira, si scortica le ginocchia contro il pavimento.

Vede prima l’ombra: dieci metri d’angoli vivi, di spine, di lame… gambe simili a tubature d’acciaio con una rosetta di lame da scimitarra alle ginocchia e alle caviglie. Poi, fra le pulsazioni di luce ardente e d’ombra buia, Hoyt vede gli occhi. Centinaia, migliaia di sfaccettature ardenti di luce rossa, un laser che brilla fra due rubini gemelli, sopra il collare di spine d’acciaio e il torace argento vivo che riflette fiamma e ombra…

Brawne Lamia spara con la rivoltella paterna. Lo schiocco dei colpi echeggia, forte e secco, sopra il rombo della fornace.

Padre Lenar Hoyt si gira di scatto verso di lei, alza la mano. — No, non sparare! — grida. — Lui concede un desiderio! Devo esprimere…

Lo Shrike, che era là, a cinque metri, a un tratto è qui, a un braccio da Hoyt. Lamia smette di sparare. Hoyt alza gli occhi, vede il proprio riflesso nel cromo brunito del carapace… in quell’istante scorge qualcos’altro, negli occhi dello Shrike… e poi il mostro è svanito, lo Shrike è svanito, e Hoyt solleva lentamente la mano, si tocca la gola, quasi assorto, fissa per un secondo la cascata di rosso che gli copre la mano, il petto, il crucimorfo, il ventre…

Si gira verso la porta: Lamia guarda ancora, atterrita e sconvolta, non più lo Shrike, ma proprio lui, padre Lenar Hoyt della Compagnia di Gesù, e in quell’istante il prete si accorge che il dolore è sparito e apre la bocca per parlare, ma emette solo altro rosso, un geyser di rosso. Abbassa di nuovo lo sguardo, nota per la prima volta di essere nudo, vede il sangue colare dal mento e dal petto, gocciolare e fluire sul pavimento, adesso scuro, vede il sangue scorrere come se qualcuno avesse capovolto un secchio di vernice rossa, e poi non vede più nulla, cade bocconi contro il pavimento lontano, lontanissimo, in basso.

6

Il corpo di Diana Philomel era perfetto quanto la scienza cosmetica e l’abilità di un ARNista permettevano. Al risveglio, rimasi disteso per alcuni minuti ad ammirarne il corpo girato dall’altra parte: la classica curva della schiena e del fianco offriva una geometria più bella e potente di qualsiasi cosa scoperta da Euclide, le due fossette visibili nella parte inferiore della schiena, appena sopra le natiche bianco latte, erano morbidi angoli interse-cantisi, la parte posteriore delle cosce piene era in qualche modo più sensuale e solida di quanto possa sperare di essere qualsiasi aspetto dell’ana-tomia maschile.

Lady Diana era addormentata, o lo sembrava. I nostri abiti erano sparpagliati sull’ampio tappeto verde. Luce densa, colorata di rosso magenta e di blu, inondava ampie finestre dalle quali si scorgevano cime d’albero, grigie e oro. Larghi fogli di carta da disegno erano disseminati tutt’intorno, sotto e sopra i vestiti. Mi sporsi a sinistra, presi un foglio e guardai un abbozzo frettoloso di seni, cosce, un braccio ridisegnato in fretta, un viso senza lineamenti. Disegnare bozzetti dal vivo, quando si è ubriachi e sul punto di essere sedotti, non è una formula che produca arte di qualità.

Mandai un gemito, mi girai sulla schiena ed esaminai le volute ornamentali a intaglio sul soffitto alto quattro metri. Se la donna al mio fianco fosse stata Fanny, forse non avrei voluto più muovermi. Invece, scivolai da sotto le lenzuola, cercai il mio comlog, notai che era prima mattina su Tau Ceti Centro, quattordici ore dopo il mio appuntamento con il PFE, e andai in bagno per procurarmi una pillola contro i postumi di sbronza.

Nell’armadietto dei medicinali di lady Diana c’erano diversi medicamenti fra cui scegliere. In aggiunta alle solite aspirine ed endorfine, vidi stimolanti, tranquillanti, tubetti di Flashback, derma orgasmico, manuali di shunt, inalatori per canapa indiana, sigarette di tabacco non ricombinante e un centinaio di medicinali di più difficile identificazione. Trovai un bicchiere e mi costrinsi a inghiottire due pastiglie di Giornodopo: quasi subito nausea e mal di testa scomparvero.

Uscii dalla stanza da bagno; lady Diana, sveglia, sedeva sul letto, ancora nuda. Iniziai a sorridere, poi vidi i due uomini accanto alla porta est. Nessuno dei due era il marito, anche se tutti e due erano grandi e grossi quanto lui e condividevano lo stile niente collo, pugni come prosciutti, mascella scura, che Hermund Philomel aveva portato a perfezione.

Nel lungo spettacolo drammatico della storia umana sono sicuro che sia esistito l’uomo capace di stare in piedi, sorpreso e nudo, davanti a due estranei vestiti, potenzialmente ostili e rivali, senza farsi piccolo piccolo, senza provare l’impulso a coprirsi i genitali e ingobbirsi, senza sentirsi totalmente vulnerabile e svantaggiato… ma di certo quell’uomo non sono io.

Ingobbii la schiena, mi coprii il basso ventre, indietreggiai verso il bagno e dissi: — Cosa… chi… — Lanciai a Diana Philomel una muta richiesta d’aiuto e la vidi sorridere: un sorriso che uguagliava la crudeltà che al primo incontro le avevo scorto negli occhi.

— Prendetelo. Presto! — ordinò la mia amante di poco prima.

Tornai nella stanza da bagno e cercai di premere l’interruttore manuale che avrebbe fatto dilatare la porta chiudendola; ma il più vicino dei due mi raggiunse, mi agguantò, mi spinse di nuovo nella camera da letto e mi lanciò al socio. I due erano originari di Lusus o di un altro pianeta ad alta gravità, oppure seguivano esclusivamente una dieta di steroidi e di sansoncel-lule, perché mi sbatterono avanti e indietro senza sforzo evidente. Non importava quanto fossero grandi e grossi. A parte la breve carriera di pugile da campo sportivo scolastico, la mia vita… il ricordo della mia vita… offriva poche occasioni di violenza e ancora meno occasioni in cui ero emerso vincitore dalla zuffa. Un’occhiata ai due che si divertivano a mie spese mi disse che quelli erano proprio del tipo di cui si legge ma senza crederci sul serio: individui che ti spezzano le ossa, ti schiacciano il naso o ti fracas-sano la rotula, senza maggior rimorso di quanto non ne abbia io a buttare via uno stilo difettoso.

— Svelti! — sibilò di nuovo Diana.

Esaminai minuziosamente la sfera dati, la memoria della casa, il cordone ombelicale del comlog di Diana, il tenue legame dei due sgherri con l’universo dell’informazione… e pur sapendo ora dove mi trovavo, ossia nella tenuta di campagna dei Philomel, seicento chilometri dalla capitale Pirre, nella fascia terraformata per l’agricoltura di Rinascimento Minore… e chi erano con esattezza i due sgherri, cioè Debin Farrus e Hemmit Gorma, agenti della sicurezza impianti per il Sindacato dei Grattamuffa di Porta del Paradiso… non avevo la minima idea del perché uno dei due stesse sopra di me e mi puntasse il ginocchio nell’incavo della schiena, mentre l’altro fra-cassava sotto il tacco il mio comlog e mi metteva al polso una manetta a osmosi e la faceva scivolare su per il braccio…

Udii il sibilo e mi rilassai.

— Chi sei?

— Joseph Severn.

— È il tuo vero nome?

— No. — Sentii gli effetti della scioglilingua e seppi di poter battere la droga con il semplice atto di andarmene, di tornare nella sfera dati o di riti-rarmi completamente nel Nucleo. Ma questo significava abbandonare il mio corpo alla mercé di chi m’interrogava in quel momento. Rimasi lì. Tenevo gli occhi chiusi, ma riconobbi la voce seguente.

— Chi sei, in realtà? — domandò Diana Philomel.

Sospirai. Una domanda a cui non era facile rispondere onestamente. —

John Keats — dissi infine. Il silenzio mi disse che il nome non aveva significato, per loro. “Perché dovrebbe averne?” mi domandai. Un tempo avevo predetto che sarebbe stato un nome “scritto sull’acqua”. Non mi potevo muovere, né aprire gli occhi, ma non trovai difficoltà a esaminare la sfera dati, seguendo i loro vettori d’accesso. Il nome del poeta si trovava fra gli ottocento John Keats nell elenco offerto dal file pubblico, ma loro non parvero interessarsi molto a un personaggio morto da novecento anni.

— Per chi lavori? — Era la voce di Hermund Philomel. Non so il motivo, ma rimasi un poco sorpreso.

— Per nessuno.

Il fievole effetto Doppler di voci cambiò: i quattro discutevano fra loro.

— Possibile che resista alla droga?

— Nessuno può resistere — disse Diana. — Si può morire, nel momento della somministrazione, ma non si può resistere.

— Allora cosa c’è in ballo? — domandò Hermund. — Perché, alla vigilia della guerra, Gladstone porterebbe nel Consiglio una nullità?

— Può sentirci, sapete — disse un’altra voce maschile, uno dei due gorilla.

— Non importa — rispose Diana. — Tanto, dopo l’interrogatorio non rimarrà in vita. — Si rivolse di nuovo a me. — Perché il PFE ti ha invitato al Consiglio… John?

— Non saprei. Per avere notizie dei pellegrini, probabilmente.

— Quali pellegrini, John?

— I Pellegrini allo Shrike.

Qualcun altro emise un rumore. — Silenzio — disse Diana Philomel. E

a me: — Questi Pellegrini allo Shrike sono su Hyperion, John?

— Sì.

— C’è un pellegrinaggio, in questo momento?

— Sì.

— E perché Gladstone chiede a te, John?

— Sogno i pellegrini.

Seguì un versaccio di disgusto. Hermund disse: — È pazzo. Anche sotto la scioglilingua non sa chi è e ora ci racconta questa storia. Facciamola finita e…

— Chiudi il becco — disse lady Diana. — Gladstone non è pazza. L’ha invitato lei, non dimenticarlo. John, cosa significa che li sogni?

— Sogno le impressioni della prima personalità ricuperata di Keats —dissi. Avevo la voce impastata, come se parlassi nel sonno. — Quando hanno ucciso il suo corpo, si è inserita in uno dei pellegrini e ora vaga nella loro microsfera. Non so come, ma le sue percezioni sono i miei sogni.

Forse le mie azioni sono i suoi sogni, non so.

— Follia — disse Hermund.

— No, no — replicò lady Diana. Aveva la voce tesa, quasi sconvolta. —

John, sei un cìbrido?

— Sì.

— Oh, Cristo e Allah! — disse lady Diana.

— Cos’è un cìbrido? — domandò uno dei gorilla. Aveva una voce acuta, quasi femminile.

Per un momento ci fu silenzio, poi Diana disse: — Idiota. I cìbridi erano umani controllati a distanza, creati dal Nucleo. Ce n’erano alcuni nella Commissione di Consulenza, fino al secolo scorso, quando furono messi fuorilegge.

— Come gli androidi e cose del genere? — disse il secondo gorilla.

— Chiudi il becco — rispose Hermund.

— No — disse Diana. — I cìbridi erano geneticamente perfetti, ri-combinati da DNA che risaliva alla Vecchia Terra. Bastava un osso… un frammento di capello… John, mi ascolti? John?

— John, sei un cìbrido… sai qual è la fonte della tua personalità?

— John Keats.

Inspirò a fondo. — Chi è… era… John Keats?

— Un poeta.

— Quando visse, John?

— Dal 1795 al 1821.

— Secondo quale calendario, John?

— Quello della Vecchia Terra — risposi. — Pre-Egira. Era moderna…

Intervenne Hermund, con voce agitata. — John, sei… sei in contatto con il TecnoNucleo, in questo momento?

— Sì.

— Puoi… sei libero di comunicare nonostante la scioglilingua?

— Sì.

— Oh, cazzo — disse il gorilla dalla voce acuta.

— Dobbiamo andarcene di qui — sbottò Hermund.

— Ancora un minuto — disse Diana. — Dobbiamo sapere…

— Non possiamo portarlo con noi? — domandò il gorilla dalla voce profonda.

— Idiota — disse Hermund. — Se è vivo e in contatto con la sfera dati e col Nucleo… diavolo, lui vive nel Nucleo, la sua mente è lì… allora può collegarsi a Gladstone, all’EsecSicur, alla FORCE, a chiunque!

— Sta’ zitto — disse lady Diana. — Lo uccideremo, appena avremo terminato. Ancora qualche domanda. John?

— Sì.

— Perché Gladstone ha bisogno di sapere cosa accade ai Pellegrini allo Shrike? Riguarda la guerra con gli Ouster?

— Non lo so con certezza.

— Merda — mormorò Hermund. — Andiamo via!

— Zitto. John, da dove provieni?

— Ero su Esperance, negli ultimi dieci mesi.

— E prima?

— Sulla Terra.

— Quale Terra? — domandò Hermund. — Nuova Terra? Terra Due?

Terra City? Quale?

— Terra — dissi. Poi ricordai. — Vecchia Terra.

Vecchia Terra? — disse un gorilla. — Questo qui è suonato. Me ne vado subito.

Ci fu lo sfrigolio di pancetta fritta tipico di un’arma laser. Sentii un odore più dolce di quello della pancetta in padella e udii il tonfo di un corpo pesante. Diana Philomel disse: — John, ti riferisci alla vita della tua personalità originaria sulla Vecchia Terra?

— No.

— Tu… tu come cìbrido… eri sulla Vecchia Terra?

— Sì — dissi. — Lì mi sono destato dalla morte. Nella stessa stanza della casa in Piazza di Spagna dove morii. Severn non c’era, ma il dottor Clark e alcuni altri erano prese…

— È davvero pazzo — disse Hermund. — La Vecchia Terra è stata distrutta più di quattro secoli fa… a meno che i cìbridi non vivano più di quattrocento anni…

— No — sbottò lady Diana. — Chiudi il becco e lasciami terminare.

John, perché il Nucleo… ti ha riportato in vita?

— Non lo so con certezza.

— Riguarda la guerra civile in corso fra le Intelligenze Artificiali?

— Forse — dissi. — È probabile. — Diana faceva domande interessanti.

— Quale gruppo ti ha creato? I Finali, gli Stabili o i Volatili?

— Non so.

Udii un sospiro d’esasperazione. — John, hai comunicato a nessuno dove ti trovi e che cosa ti accade al momento?

— No — dissi. Era un segno dell’intelligenza della donna, il fatto che avesse atteso tanto per porre la domanda.

Anche Hermund emise un sospiro. — Magnifico — disse. — Filiamocela prima che…

— John — disse Diana — sai perché Gladstone ha fabbricato questa guerra contro gli Ouster?

— No — dissi. — O meglio, potrebbero esserci diversi motivi. Il più probabile sembra una manovra contrattuale nell’ambito dei suoi rapporti con il Nucleo.

— Perché?

— Elementi nella ROM governativa del Nucleo hanno paura di Hyperion — dissi. — Hyperion è una variabile ignota in una galassia dove ogni variabile è stata quantificata.

— Chi ha paura, John? I Finali, gli Stabili o i Volatili? Quale gruppo di IA ha paura di Hyperion?

— Tutt’e tre — dissi.

— Merda — mormorò Hermund. — Sta’ a sentire… John… le Tombe del Tempo e lo Shrike hanno a che fare con questa storia?

— Sì, hanno un mucchio a che fare.

— Come? — domandò Diana.

— Non so. Nessuno lo sa.

Hermund, o un altro, mi colpì malignamente, con forza, al petto. —

Vuoi dire che la merdosa Commissione di Consulenza del Nucleo non ha previsto il risultato di questa guerra, di questi eventi? — ringhiò Hermund.

— Vorresti farmi credere che Gladstone e il Senato s’imbarcano in una guerra senza avere una previsione di probabilità?

— No — dissi. — È stata predetta da secoli.

Diana Philomel emise un verso simile a quello di un bambino di fronte a una montagna di dolci. — Cosa hanno predetto, John? Riferisci tutto.

Avevo la bocca secca. La scioglilingua mi aveva prosciugato della saliva. — Hanno predetto la guerra — dissi. — L’identità dei partecipanti al Pellegrinaggio allo Shrike. Il tradimento del Console dell’Egemonia che ha attivato un congegno che avrebbe aperto… che ha aperto… le Tombe del Tempo. L’emergenza del Flagello Shrike. Il risultato della guerra e il Flagello…

— Qual è il risultato, John? — bisbigliò la donna con cui avevo fatto l’amore qualche ora prima.

— La fine dell’Egemonia — dissi. — La distruzione della Rete dei Mondi. — Provai a umettarmi le labbra, ma avevo la lingua secca. — La fine della razza umana.

— Oh, Gesù e Allah — mormorò Diana. — C’è qualche possibilità che la previsione sia errata?

— No — dissi. — O meglio, solo per quanto riguarda l’effetto di Hyperion sul risultato. Le altre variabili sono chiare.

— Uccidilo — gridò Hermund Philomel. — Uccidi questo… oggetto.

Così possiamo andarcene e informare Harbrit e gli altri.

— D’accordo — disse lady Diana. Poi, l’attimo dopo: — No, non il laser, idiota. Gli inietteremo la dose letale d’alcol, secondo il piano. Tieni, reggi la manetta a osmosi, così collego la fleboclisi.

Sentii una pressione al braccio destro. Subito dopo ci furono esplosioni, scosse violente, un grido. Odore di fumo e d’aria ionizzata. Uno strillo di donna.

— Toglietegli la manetta — disse Leigh Hunt. Me lo vedevo, lì in piedi, sempre con il tradizionale abito grigio, circondato dai commandos dell’Esecutivo di Sicurezza in tuta blindata e polimero camaleonte. Un commando alto il doppio di Hunt si mise a tracolla la frustalaser e si precipitò a eseguire l’ordine.

In uno dei canali tattici, che da qualche tempo tenevo sotto controllo, vedevo l’immagine di me stesso… nudo, disteso sul letto, braccia e gambe divaricate, manetta a osmosi al braccio destro e un livido sempre più scuro sulla cassa toracica. Diana Philomel, suo marito e uno dei due gorilla giacevano, privi di conoscenza, fra schegge di legno e frantumi di vetro. L’altro gorilla era riverso sulla soglia: la parte superiore del corpo aveva il colore e la consistenza di una bistecca troppo cotta.

— Sta bene, signor Severn? — domandò Leigh Hunt; mi sollevò la testa e mi mise sul naso e sulla bocca la membrana sottile di una maschera a ossigeno.

— Hrrmmmggh — dissi. — Arrct. — Nuotai alla superficie dei miei sensi come un tuffatore che risalga troppo in fretta dalle profondità. La testa mi doleva. Le costole mi facevano un male d’inferno. Gli occhi ancora non mi funzionavano bene, ma attraverso il canale tattico riuscii a vedere Leigh Hunt piegare le labbra in quella piccola smorfia che passava per un sorriso.

— L’aiuteremo a vestirsi — disse Hunt. — Le daremo del caffè, nel volo di ritorno. Andiamo alla Casa del Governo, signor Severn. È in ritardo all’appuntamento con il PFE.

7

Le battaglie spaziali, nei film e negli olodrammi, mi avevano sempre an-noiato, ma una battaglia vera aveva un certo fascino: era un po’ come guardare la cronaca dal vivo di una serie di incidenti per il traffico. In effetti, i costi di produzione della realtà - come indubbiamente è sempre stato nei secoli - erano molto inferiori anche allo stanziamento per un olodramma di media qualità. Pur considerando le tremende energie in atto, di fronte a una vera battaglia spaziale si aveva la sconvolgente impressione che lo spazio fosse smisurato e che le flotte e le navi e le corazzate e tutto il resto fossero tremendamente piccole.

Almeno così pensavo, seduto nel Centro d’Informazione Tattica, la cosiddetta Sala di Guerra, con Gladstone e con i suoi sciocchi militari, nel guardare le pareti trasformarsi in buchi di venti metri nell’infinito mentre quattro massicce cornici olografiche ci circondavano con lo scenario tridi-mensionale e i commentatori riempivano la stanza di trasmissioni astrotel: chiacchiere radio fra caccia, brontolio di canali tattici di comando, messaggi nave-nave su banda larga, canali laserizzati, astrotel in codice, e tutte le grida, gli urli, gli strilli, le oscenità di battaglia preesistenti a ogni tipo di media, a parte l’aria e la voce umana.

Era una versione drammatica del caos totale, una definizione funzionale della confusione, una danza non coreografica di violenza disperata. Era la guerra.

Gladstone e una manciata di suoi collaboratori sedevano nel mezzo di tutto quel frastuono e quelle luci; la Sala di Guerra galleggiava come un rettangolo dal tappeto grigio fra stelle ed esplosioni, il limbo di Hypcrion era uno splendore color lapislazzuli che riempiva metà della parete olografica nord, le urla dei moribondi erano su ogni canale e in ogni orecchio.

Facevo parte della manciata di collaboratori di Gladstone con il privilegio e la maledizione di trovarsi lì.

Il PFE ruotò sulla poltrona a spalliera alta, unì la punta delle dita, si batté il labbro, si rivolse al gruppo di militari. — Cosa ne pensate?

I sette in divise piene di decorazioni si guardarono l’un l’altro, poi sei fissarono il generale Morpurgo. Quest’ultimo mordicchiò il sigaro spento. —

Non va come dovrebbe — disse. — Li teniamo lontano dalla posizione del teleporter… lì le nostre difese reggono bene… ma sono penetrati troppo nel sistema.

— Ammiraglio? — disse Gladstone, inclinando d’un millimetro la testa in direzione dell’ufficiale alto e magro in divisa nera della FORCE:spazio.

L’ammiraglio Singh si accarezzò la barbetta. — Il generale Morpurgo ha ragione. La campagna non procede secondo i piani. — Accennò alla quarta parete, dove diversi diagrammi, in gran parte ellissoidi, ovali e archi, erano sovrimpressi su un’inquadratura statica del sistema di Hyperion. Alcuni archi s’ingrandirono. Le vivide linee blu indicavano le traiettorie dell’Egemonia. Le linee rosse, quelle degli Ouster. Le rosse erano molto più nume-

rose delle blu.

— I due trasporti truppe d’assalto assegnati all’Unità Operativa 42 sono stati messi fuori combattimento — continuò l’ammiraglio Singh. — L’ Ombra di Olympus è stato distrutto insieme con tutto l’equipaggio e lo Stazione Nettuno è stato gravemente danneggiato, ma in questo momento fa ritorno all’area cislunare d’attracco, sotto scorta di cinque navi torcia.

Gladstone annuì lentamente, sporgendo il labbro fino a toccare la punta delle dita. — Quante persone erano a bordo dell’ Ombra di Olympus, ammiraglio?

Gli occhi castani di Singh, larghi come quelli del PFE, non suggerivano la stessa profondità di tristezza. L’ammiraglio resse per alcuni secondi lo sguardo della donna. — Quattromiladuecento — rispose. — Senza contare il distaccamento di marines, pari a seicento unità. Una parte di questi ultimi si è imbarcata alla stazione teleporter di Hyperion, quindi non abbiamo dati precisi sul numero esatto.

Gladstone annuì. Si rivolse di nuovo al generale Morpurgo. — Come mai queste difficoltà improvvise, generale?

Morpurgo era calmo in viso, ma aveva quasi tranciato il sigaro stretto fra i denti. — Un numero di unità da combattimento superiore al previsto, signora — rispose. — Inoltre, hanno i lancer… veicoli a cinque posti, in realtà navi torcia in miniatura, più veloci e meglio armati dei nostri caccia a-lungo raggio… piccoli, micidiali calabroni. Li distruggiamo a centinaia, ma se un lancer supera lo sbarramento, schizza all’interno delle difese della flotta e semina il panico. — Morpurgo scrollò le spalle. — Più d’uno l’ha superato.

Il senatore Kolchev sedeva dall’altra parte del tavolo, insieme con otto colleghi. Ruotò la poltroncina girevole fino a guardare la mappa tattica. —

Si direbbe che abbiano quasi raggiunto Hyperion — disse. La sua voce, famosa in tutta la Rete, era rauca.

Rispose Singh. — Non dimentichi la scala, senatore. A dire il vero con-trolliamo ancora la maggior parte del sistema. Ogni cosa, nel raggio di dieci UA dal sole di Hyperion, è nostra. La battaglia si è spostata al di là della nube di Oört e al momento ci riorganizziamo.

— E quei… grumi… rossi sopra il piano dell’eclittica? — domandò la senatrice Richeau. Anche lei vestiva di rosso, uno dei suoi tratti caratteristici, al senato.

Singh annuì. — Uno stratagemma interessante — rispose. — Lo Sciame ha scatenato un attacco di circa tremila lancer per completare un movimen-

to a tenaglia contro il perimetro elettronico dell’UO 87.2. L’attacco è stato rintuzzato, ma bisogna ammirare l’astuzia della…

— Tremila lancer? — lo interruppe Gladstone, a bassa voce.

— Sì, signora.

Gladstone sorrise. Smisi di disegnare e mi rallegrai che quel particolare sorriso non fosse rivolto a me.

— Nella conferenza di ieri non si era detto che gli Ouster avrebbero messo in campo seicento lancer… settecento al massimo? — Le parole erano le stesse di Morpurgo. Gladstone ruotò la poltrona per guardare in viso il generale. Inarcava il sopracciglio.

Morpurgo si tolse di bocca il sigaro, lo fissò, accigliato, si tolse dai denti inferiori un frammento di tabacco. — Erano dati del nostro servizio segreto. Sbagliati.

— La Commissione di Consulenza delle IA era coinvolta in questa valutazione del controspionaggio?

Tutti si girarono verso il consulente Albedo. Costui era una proiezione perfetta: sedeva nella poltroncina fra gli altri, le mani strette sui braccioli, in posizione rilassata; mancava completamente della nebulosità e della tra-sparenza assai comuni alle proiezioni mobili. Aveva il viso allungato, zigomi alti, bocca espressiva con una traccia di sorriso ironico perfino nei momenti di maggiore serietà. E quello era un momento del genere.

— No, signora — disse il consulente Albedo. — La Commissione non ha avuto la richiesta di valutare le forze degli Ouster.

— Presumevo — disse Gladstone, rivolta sempre a Morpurgo — che le stime del servizio segreto della FORCE tenessero conto anche delle proiezioni della Commissione.

Il generale della FORCE:terra lanciò ad Albedo un’occhiata di fuoco. —

No, signora — disse. — Dal momento che il Nucleo dichiara di non avere contatti con gli Ouster, abbiamo ritenuto che le sue proiezioni non fossero migliori delle nostre. Per calcolarle, abbiamo usato la rete SCO:RTS ag-gregata alle IA. — Si rimise in bocca il sigaro smozzicato, protese il mento e continuò: — La Commissione avrebbe potuto fare di meglio?

Gladstone fissò Albedo.

Il consulente mosse appena le lunghe dita della destra. — Le nostre stime, per questo Sciame, indicavano da quattro a seimila unità da combattimento.

— Lei… — iniziò Morpurgo, paonazzo.

— Lei non ne ha parlato, durante l’incontro informativo — intervenne Gladstone. — E neppure durante le deliberazioni precedenti.

Il consulente Albedo si strinse nelle spalle. — Il generale ha ragione —disse. — Non abbiamo contatti con gli Ouster. Le nostre stime non sono più attendibili di quelle della FORCE; si basano su premesse differenti, ecco tutto. La Scuola Comando Olympus:Rete Tattica Storica fa un lavoro eccellente. Se lì le IA fossero di un solo ordine d’acume più in alto nella scala Turing-Demmler, saremmo costretti a trasferirle nel Nucleo. — Mosse di nuovo la mano in un gesto aggraziato. — Sta di fatto che le premesse della Commissione potranno essere utili per piani futuri. Ovviamente pas-seremo a questo gruppo tutte le proiezioni, in qualsiasi momento.

Gladstone annuì. — Le passi immediatamente.

Tornò a rivolgersi allo schermo e gli altri la imitarono. I monitor della sala registrarono il silenzio e aumentarono il volume dei ricevitori: di nuovo fu possibile udire le grida di vittoria, le richieste di aiuto, la calma elen-cazione di posizioni, le direttive di fuoco, gli ordini. La parete più vicina era alimentata in tempo reale dalla nave torcia AE N’Djamena, che cercava superstiti fra i resti del Gruppo di Battaglia B-5. La nave torcia danneggiata alla quale in quel momento si avvicinava, ingrandita mille volte, sembrava una melagrana esplosa, i cui semi e la buccia rossa si riversavano all’esterno con moto lento e ruzzolavano in una nuvola di particelle, di gas, d’idrocarburi volatili congelati, di milioni di microcircuiti strappati dalle intelaiature, di depositi di cibo, d’attrezzature aggrovigliate e - riconoscibili di tanto in tanto per il movimento simile a quello delle marionette di braccia o gambe - di molti, molti corpi umani. Il riflettore della N’Djamena, un fascio luminoso fuori asse di dieci metri dopo il balzo coerente di ventimi-la miglia, giocava sui relitti congelati e illuminati dalle stelle, mettendo a fuoco singoli oggetti, sfaccettature e facce. Era uno spettacolo bellissimo e orribile a un tempo. Il riflesso rese ancora più vecchio il viso di Gladstone.

— Ammiraglio — disse il PFE — è normale che lo Sciame abbia atteso finché l’Unità Operativa 87.2 non si è teleportata nel sistema?

Singh si toccò la barbetta. — Vuole sapere se era una trappola, signora?

— Sì.

L’ammiraglio lanciò un’occhiata ai colleghi, poi guardò Gladstone. —

Credo di no. Pensiamo… io, almeno… che gli Ouster, nel vedere l’elevato numero di forze da noi impiegate, abbiano risposto di conseguenza. Significa tuttavia che sono fermamente decisi a prendere il sistema di Hyperion.

— Possono riuscirci? — domandò Gladstone, continuando a fissare il vortice di relitti in alto sulla parete. Il cadavere di un giovane, metà dentro la tuta spaziale e metà fuori, rotolò verso la telecamera. Si vedevano chiaramente gli occhi e i polmoni scoppiati.

— No — disse l’ammiraglio Singh. — Possono coprirci di sangue. Possono costringerci ad arretrare fino a un perimetro totalmente difensivo intorno a Hyperion stesso. Ma non possono sconfiggerci né mandarci via.

— Né distruggere il teleporter? — La voce della senatrice Richeau era tesa.

— Né distruggere il teleporter — confermò Singh.

— Ha ragione — disse il generale Morpurgo. — Mi ci gioco la carriera.

Gladstone sorrise e si alzò. Gli altri, me compreso, si affrettarono a imitarla. — Se la gioca — disse piano Gladstone a Morpurgo. — Se la gioca.

— Si guardò intorno. — Ci ritroviamo qui appena gli eventi lo giustifica-no. Il signor Hunt sarà il mio collegamento con voi. Per ora, signori, il lavoro del governo continuerà come al solito. Buongiorno.

Mentre gli altri uscivano, tornai a sedermi e alla fine rimasi da solo nella sala. Il volume degli altoparlanti aumentò di nuovo. Su una banda, un uomo piangeva. Tra le statiche si udivano risa di follia. Sopra di me, dietro di me, ai due lati, i campi di stelle si muovevano lentamente contro l’oscurità e la luce degli astri si rifletteva, gelida, sui relitti.

La Casa del Governo aveva la forma di una stella di David; nel centro della stella, schermato da muretti e da alberi piantati in posizione strategica, c’era un giardino: più piccolo degli acri a classiche aiuole fiorite del Parco dei Cervi, ma non meno bello. Vi passeggiavo mentre calava la sera, con il vivido biancazzurro di Tau Ceti che svaniva nell’oro, quando Meina Gladstone mi si avvicinò.

Per un poco passeggiammo insieme, in silenzio. Notai che aveva cambiato abito e indossava ora una lunga veste come quelle delle nobildonne di Patawpha; l’ampia veste, ricamata a intricati disegni blu scuro e oro che quasi emulavano il cielo al crepuscolo, si gonfiava al vento. Le mani non si vedevano, infilate in tasche nascoste; le ampie maniche si agitavano alla brezza; l’orlo della veste frusciava sulle pietre bianco latte del sentiero.

— Ha lasciato che mi interrogassero — dissi. — Sono curioso di sapere perché.

La voce di Gladstone era stanca. — Non trasmettevano. Non c’era pericolo che le informazioni fossero riferite ad altri.

Sorrisi. — Tuttavia, ha lasciato che subissi l’interrogatorio.

— Il servizio di sicurezza voleva scoprire su di loro tutto il possibile.

— A spese di un… piccolo fastidio… da parte mia.

— Si.

— E il servizio di sicurezza sa per chi lavoravano?

— L’uomo ha fatto il nome di Harbrit. Il servizio è abbastanza sicuro che si tratti di Emlem Harbrit.

— La mediatrice di materie prime di Asquith?

— Sì. Lei e Diana Philomel hanno legami con le vecchie fazioni realiste di Glennon-Height

— Erano dilettanti — dissi. Hermund si era lasciato sfuggire il nome di Harbrit e Diana mi aveva interrogato in modo assai confuso.

— Mi sembra chiaro.

— I realisti sono collegati a un gruppo serio?

— Solo alla Chiesa Shrike — disse Gladstone. Si soffermò nel punto dove il sentiero attraversava un ruscello, mediante un ponte di pietra. Raccolse la veste e si sedette su una panchina di ferro battuto. — Nessuno dei loro vescovi è ancora uscito dal nascondiglio, sa?

— Considerando le sommosse e le reazioni violente, non li biasimo —risposi. Restai in piedi. In vista non c’erano guardie del corpo né monitor, ma sapevo che, se avessi fatto un gesto di minaccia verso Gladstone, mi sarei svegliato in una cella dell’EsecSicur. In alto, le nuvole perdettero le ultime sfumature dorate e cominciarono a brillare dell’argenteo riflesso delle innumerevoli città torre di TC2. — Cosa ne ha fatto, la sicurezza, di Diana e del marito? — domandai.

— Sono stati interrogati a fondo. Al momento sono… trattenuti.

Annuii. Interrogati a fondo significava che ora il loro cervello galleggiava in vasche di shunt totale. Il corpo sarebbe stato mantenuto in crio-deposito finché un processo segreto non avesse stabilito se le loro azioni erano da considerare alto tradimento. Dopo il processo, i corpi sarebbero stati distrutti e Diana e Hermund sarebbero rimasti “trattenuti”, mediante il distacco di ogni canale sensorio e di comunicazione. Da secoli l’Egemonia non usava la pena di morte, ma l’alternativa non era piacevole. Mi sedetti sulla panchina, a due metri da Gladstone.

— Scrive ancora poesie?

La domanda mi sorprese. Lasciai vagare lo sguardo lungo il sentiero, dove lanterne giapponesi e fotoglobi nascosti si erano appena accesi. — In pratica, no — risposi. — A volte, sogno in versi. O solevo farlo…

Meina Gladstone piegò in grembo le mani e rimase a fissarle. — Se per caso scrivesse degli eventi attuali — disse — che genere di poema cree-

rebbe?

Scoppiai a ridere. — Già due volte l’ho iniziato e l’ho lasciato perdere…

o meglio, è stato lui. Parlava della morte degli dèi e della loro difficoltà ad accettare la rimozione. Parlava di mutamento e sofferenza e ingiustizia. E

parlava soprattutto del poeta… che lui riteneva avesse sofferto, più di ogni altro, di simile ingiustizia.

Gladstone mi guardò. Nella luce fioca, il viso era una massa di linee e di ombre. — E questa volta quali dèi sono rimossi, signor Severn? È l’umanità, o sono i falsi dèi da noi creati, a deporci?

— Come diavolo faccio, a saperlo? — replicai, brusco. Mi girai a guardare il ruscello.

— Lei fa parte di tutt’e due i mondi, no? Dell’Umanità e del TecnoNucleo.

Scoppiai a ridere di nuovo. — Non faccio parte né dell’una, né dell’altro.

Qui sono un mostro, un cìbrido; là, un progetto di ricerca.

— Sì, ma ricerca di chi? E a quale scopo?

Mi strinsi nelle spalle.

Gladstone si alzò e io la imitai. Superammo il ruscello e ascoltammo l’acqua scorrere sulle pietre. Il sentiero serpeggiava tra massi alti e coperti di eleganti licheni che brillavano alla luce delle lanterne.

Gladstone si soffermò in cima a una breve rampa di gradini di pietra. —

Ritiene che i Finali, nel Nucleo, riusciranno a costruire quella che chiamano l’Intelligenza Finale, signor Severn?

— Costruiranno Dio? — replicai. — Ci sono IA che non vogliono costruire Dio. Dall’esperienza umana hanno imparato che costruire il passo seguente della coscienza è un invito alla schiavitù, se non l’estinzione vera e propria.

— Ma un vero Dio estinguerebbe le proprie creature?

— Nel caso del Nucleo e dell’ipotetica IF — dissi — Dio è la creatura, non il creatore. Forse un dio deve creare gli esseri inferiori a contatto con se stesso, per sentirsi responsabile verso di loro.

— Eppure sembra che il Nucleo si sia assunto la responsabilità degli esseri umani, nei secoli a partire dalla Secessione delle IA — disse Gladstone. Mi fissava intensamente, come se valutasse qualcosa basandosi sulla mia espressione.

Guardai il giardino. Il sentiero brillava, bianco, quasi irreale nel buio. —

Il Nucleo opera secondo fini propri — dissi, pur sapendo che nessun essere umano conosceva questo fatto meglio del PFE Meina Gladstone.

— E lei ritiene che l’umanità non rappresenti più un mezzo verso questi fini?

Mossi la destra in un gesto sprezzante. — Sono una creatura che non appartiene a queste due culture — dissi. — E neppure graziata dall’innocenza dei creatori involontari, né maledetta dalla terribile consapevolezza delle proprie creature.

— Dal punto di vista genetico, lei è pienamente umano.

Non era una domanda. Non risposi.

— Fu detto che Gesù Cristo fosse pienamente umano — riprese Gladstone. — E anche pienamente divino. Umanità e divinità al punto d’inter-sezione.

Mi meravigliai che facesse riferimento a quell’antica religione. Il Cristianesimo era stato rimpiazzato dapprima dal Cristianesimo Zen, poi dallo Gnosticismo Zen, poi da un centinaio di teologie e di filosofie più vitali. Il mondo natale del PFE non era un ricettacolo di credenze già scartate: pre-sumevo, e mi auguravo, che non lo fosse nemmeno Gladstone. — Se era pienamente uomo e pienamente Dio — replicai — allora sono la sua immagine di antimateria.

— No — disse Gladstone. — Ritengo che questa definizione corri-sponda allo Shrike che in questo momento si confronta con i suoi amici pellegrini.

La fissai. Per la prima volta con me aveva citato lo Shrike, anche se sapevo - e lei sapeva che sapevo - che proprio il piano di Gladstone aveva indotto il Console ad aprire le Tombe del Tempo e a liberare quella creatura.

— Forse avrebbe dovuto prendere parte al pellegrinaggio, signor Severn

— disse il PFE.

— In un certo senso, vi prendo parte — replicai.

Gladstone mosse la mano e materializzò una porta per i suoi alloggi privati. — Sì, in un certo senso vi prende parte — ammise. — Ma se la donna che porta in sé la sua controparte finisce crocifissa sul leggendario albero di spine dello Shrike, lei, signor Severn, soffrirà in sogno per l’eternità?

Non sapevo che cosa rispondere, quindi rimasi lì, zitto.

— Parleremo ancora domattina, dopo la conferenza — disse Meina Gladstone. — Buona notte, signor Severn. Sogni d’oro.

8

Martin Sileno, Sol Weintraub e il Console risalgono barcollando le dune in direzione della Sfinge, mentre Brawne Lamia e Fedmahn Kassad tornano portando il corpo di padre Hoyt. Weintraub si stringe nel mantello, cerca di riparare la piccina dalla furia delle raffiche di sabbia e dal crepitio luminoso. Guarda Kassad discendere la duna, con le gambe lunghe e nere da vignetta umoristica contro la sabbia elettrizzata, mentre le braccia e le mani di Hoyt penzolano e si muovono lievemente a ogni scivolone e a ogni passo.

Sileno grida, ma il vento porta via le parole. Brawne Lamia indica l’unica tenda ancora in piedi; la tempesta ha fatto crollare o ha strappato le altre. Si affollano nella tenda di Sileno, il colonnello Kassad per ultimo, passando con gentilezza agli altri il corpo. Nella tenda, le urla superano il crepitio della tela di fibroplastica e il rumore dei fulmini, simile a fruscio di carta strappata.

— Morto? — grida il Console, togliendo il mantello che Kassad ha avvolto intorno al corpo nudo di Hoyt. Il crucimorfo brilla, roseo.

Il colonnello indica i rivelatori che ammiccano sul medipac militare applicato al torace del prete. Le spie palpitano di luce rossa, a parte quelle gialle dei filamenti e dei noduli di sostentamento del sistema. La testa di Hoyt rotola all’indietro e rivela la sutura a forma di millepiedi che tiene insieme i lembi frastagliati dello squarcio alla gola.

Weintraub cerca manualmente le pulsazioni; non ne trova. Si china, posa l’orecchio sul petto del prete. Non c’è battito cardiaco, ma il gonfiore del crucimorfo è tiepido, contro la guancia. Weintraub guarda Brawne Lamia.

— Lo Shrike?

— Sì… penso… non so. — Indica l’antica rivoltella che ancora stringe in mano. — Ho vuotato il caricatore. Dodici colpi contro… contro qualsiasi cosa fosse.

— L’hai visto? — domanda il Console a Kassad.

— No. Sono entrato nella stanza dieci secondi dopo Brawne, ma non ho visto niente.

— E i tuoi stronzissimi marchingegni militari? — dice Martin Sileno. Se ne sta rannicchiato in fondo alla tenda, quasi in posizione fetale. — Tutta quella merda della FORCE non ha mostrato niente?

— No.

Dal medipac proviene un lieve segnale acustico; Kassad stacca dalla cintura un’altra cartuccia di plasma e la inserisce nella fessura del medipac; torna a sedersi sui talloni e abbassa il visore per osservare l’apertura della tenda. La voce è distorta dal microfono del casco.

— Ha perso più sangue di quanto possiamo compensare qui. Qualcuno ha portato una valigetta di pronto soccorso?

Weintraub fruga nella sacca. — Ho l’equipaggiamento essenziale. Ma non basta, questa volta. Chi gli ha tagliato la gola, ha reciso tutto.

— Lo Shrike — mormora Martin Sileno.

— Non importa — dice Lamia, stringendosi nelle braccia per smettere di tremare. — Dobbiamo trovargli aiuto. — Guarda il Console.

— È morto — obietta il Console. — Neppure l’attrezzatura chirurgica di una nave lo riporterebbe in vita.

— Dobbiamo fare il tentativo! — grida Lamia, afferrando il Console per la camicia. — Non possiamo lasciarlo a quelle… robacce. — Indica il crucimorfo che brilla sotto la pelle del torace del morto.

Il Console si strofina gli occhi. — Possiamo distruggere il cadavere. Usare il fucile del colonnello e…

— Moriremo tutti, se non ci togliamo da questa tempesta di merda! —urla Sileno. La tenda vibra, a ogni raffica il telo di fibroplastica sbatte contro la testa del poeta. Il frastuono di sabbia contro stoffa sembra un razzo in fase di decollo proprio davanti alla tenda.

— Chiama la maledetta nave! Chiamala!

Il Console tira a sé la sacca, come per proteggere l’antiquato comlog.

Gocce di sudore gli brillano sulle guance e sulla fronte.

— Possiamo rifugiarci in una Tomba e aspettare che la tempesta finisca

— propone Sol Weintraub. — Nella Sfinge, per esempio.

— Non dire cazzate — ribatte Martin Sileno.

Lo studioso cambia posizione nello spazio ristretto e fissa il poeta.

— Hai fatto tutta questa strada per trovare lo Shrike. Vuoi dire d’avere cambiato idea, adesso che a quanto pare ha fatto la prima comparsa?

Da sotto l’orlo del berretto calato sulla fronte gli occhi di Sileno mandano lampi. — Non dico niente, tranne che voglio qui quella maledetta nave, e la voglio subito!

— Forse è una buona idea — dice il colonnello Kassad.

Il Console lo guarda.