XXXIV
Da Gin Bianchi in Contrada Verla si trovava di tutto. Le scaffalature e i ripiani erano stracolmi: dai prodotti coloniali a ogni tipo di attrezzo rurale e aggeggi per la vita quotidiana. Vi erano anche scarpe, vestiti e dolciumi tra i quali le famose ciambelle ticinesi all’anice con il grosso buco al centro. Come un bambino alla Fiera delle Meraviglie, il Beretta attendeva il suo turno guardandosi attorno, attratto da tutte le innumerevoli cose, alcune delle quali neanche sapeva esistessero. Gli occhi si soffermarono su un fascio di elastici neri, quadrati, appesi sopra il bancone, che strappandogli un sorriso gli aprirono lo scrigno dei ricordi.
Ricordi del passato, così vivi e nitidi, da sembrare appena avvenuti.
«Mi hai comprato gli elastici del Gin Bianchi?».
«Ezechiele, mi raccomando non combinare disastri e non farti male...» gli disse la mamma mentre agguantava gli elastici e partiva come un razzo per andare su al bosco del Tassino. «Ezechiele, hai capito cosa ti ho detto?».
«Sì mamma, sì mamma...».
Il bosco del Tassino era l’isola che non c’è, la via Pál e l’isola del tesoro, tutto assieme in un mondo fantastico. Tra i faggi, gli olmi e i noccioli di quelle fronde, vi era il più grande assortimento di aggeggi necessari ai ragazzini di quell’età: l’unico limite era l’immaginazione.
La forcella perfetta la trovò dopo più di un’ora e dopo averne scartate altre tre. Era di nocciolo come la voleva lui e dritta come fosse stata forgiata dall’acciaio della Joyeuse di Carlo Magno.
«Ce l’hai la patella?» chiese il Vascinta.
«No. Userò un vecchio copertone di bicicletta» rispose Ezechiele.
«Non si può costruire una fionda con un copertone. Ci vuole una linguetta di cuoio».
«Ti ho detto che non ce l’ho».
«So dove trovarla».
Il giovane Beretta squadrò il giovane Moresi. «E dove...?».
«Il Pep Marchesi lavora di notte e lascia le sue scarpe incustodite nell’androne di casa».
«E cosa vorresti fare?».
«Arrembaggio da filibustiere».
Quella volta lui e il Vascinta rischiarono grosso: il buon Pep quel pomeriggio non era andato a dormire. Si ravvidero all’ultimo momento, mollarono le calzature e scapparono tra i meandri del Sassello. Alla fine scelsero le tomaie di un vecchio paio di zoccoli consumati.
Ul tirasass. Quante ore passate con quella piccola arma, non così innocua, tanto d’aver visto più di una capoccia sanguinare.
«Mi dica, signor delegato» fece l’inserviente destandolo dai sogni in cui si era perso.
«Salve. Vorrei due sacchetti per San Nicolao».
Il commesso lo guardò esitante: di solito i cartocci per i bambini si confezionavano in casa, le mamme attingevano da quello che avevano, ma tant’è; il signor delegato desiderava quei regali e quindi, senza indugi, l’inserviente si diede da fare. Da dietro il banco prese due sacchi di iuta, di quelli usati per il riso, e con consumata abilità iniziò a elencare ciò che vi metteva: «Spagnolett, portügai, qualche noce, caramelle al miele... al ribes, una tavoletta di Milka e poi un bel Toblerone. Va bene, signor delegato?».
«Ci metta anche due di queste» fece il Beretta indicando un vaso di vetro stracolmo di ciambelle all’anice.
Comprò anche una sporta di stoffa e da contrada Verla si diresse verso vicolo Brandiz su al Sassello. Non era tanto avvezzo a quelle ricorrenze e, a eccezione della sua infanzia, quando non sempre San Nicolao passava, l’aveva sempre vissute da lontano, come riflesso delle feste degli altri.
Mosè Guerreschi lo fece entrare. Agostino, seduto al tavolo, stava giocando con un’automobilina di latta; ma non vide la signora Lara e Ombretta. In quella stanza regnava un silenzio innaturale, come se chi ci viveva si muovesse accorto, misurando ogni gesto per mantenere la quiete assoluta.
«Ho portato un regalo per i bambini,» disse imbarazzato «ma forse ho sbagliato momento... non vorrei disturbare...».
La sua frase attirò l’attenzione del bambino che depose con cautela il suo giocattolo. In quel momento intravide anche Ombretta che, comparsa dall’uscio della camera, lo guardava sorridente.
«No. No. Lei è il benvenuto. Si accomodi».
Impacciato per quella sua visita, che gli sembrò d’un tratto inopportuna, decise che sarebbe rimasto il minor tempo possibile.
Disposti su un rango davanti alle sue gambe, Agostino e Ombretta sembravano due soldatini sull’attenti. Con sorrisi che raggiungevano le orecchie, lo guardavano dal basso verso l’alto tant’è che loro le nuche toccavano la schiena. Il Beretta si accosciò stabilendo un adeguato rapporto di confronto e, mentre estraeva dalla sporta i due sacchetti di iuta, narrò al suo attentissimo pubblico un breve racconto, cercando di addolcire la perenne seriosità che si portava appresso.
«Stamattina, giù in centro, ho incontrato un signore vestito di rosso e con una lunga barba bianca».
«San Nicolao!» chiosarono i due con un grido di gioia.
«Non conosco il suo nome, sembra però che di questi tempi sia indaffarato e mi ha supplicato di aiutarlo».
«Non conosci San Nicolao?» chiese Ombretta sbarrando gli occhi e manifestando meraviglia e preoccupazione.
Per la miseria, pensò il Beretta, l’ho fatta grossa, ora devo correre ai ripari. «Ma certo che lo conosco. Vi ho fatto solo uno scherzo: era San Nicolao».
«La polizia che fa gli scherzi...» ridacchiarono i due bambini.
Corretto l’errore diplomatico e mitigata la portata della propria incompetenza, diede loro i regali. Senza neppure aprirli si precipitarono nella camera dove, sul letto, s’intravedeva la madre.
«Come sta sua moglie, signor Guerreschi?».
«Non tanto bene. Tutti questi brutti avvenimenti l’hanno affaticata, ma presto si riprenderà. È una donna forte».
«Posso salutarla?».
«Prego» assentì l’uomo indicando la camera.
Con le nocche dell’indice e del medio bussò allo stipite della porta semiaperta.
«Avanti» rispose una voce fievole.
La donna condivideva la gioia dei due bimbi mentre curiosavano nelle sporte di iuta confrontando se quello che aveva uno l’aveva pure l’altra. Lo guardò con un sorriso appassito e gli fece cenno di entrare.
Questa donna non è solo affaticata, pensò il Beretta, una qualche malattia deve gravare sul suo giovane corpo. Ombre profonde sulla pelle bianca sottolineavano i tratti di un volto scavato e la cute non mimetizzava più le forme del cranio che trasparivano sinistre dalla macilenza. Gli occhi cerulei, persi in orbite scure, erano privi di luce, spenti come se la vita se ne dovesse andare via da un momento all’altro. Una stretta al cuore, di quelle che tolgono il fiato, afferrò il delegato.
In poco tempo la consunzione si era presa quella bellezza botticelliana trasformandola nella sua ombra. In silenzio, guardava i bambini attorno alla mamma che trafficavano con i sacchetti di San Nicolao, mostrandole a turno il contenuto, e lei affettuosa rispondeva a ogni gesto con un tenue sorriso. Loro la guardavano felici con gli occhi del cuore, indifferenti al degrado manifesto che crudele progrediva.
«Buongiorno, signor Beretta». La donna lo accolse con un filo di voce.
Contraccambiò con un nodo in gola. «Volevo solo salutarla...» balbettò mentre pensava a come fosse ingiusto che le vittime di un destino spietato fossero spesso perseguitate da infinite disgrazie: come se la malasorte attirasse altra malasorte.
«Non l’ho mai ringraziata abbastanza per quello che ha fatto per la mia famiglia».
Ezechiele accennò un breve sorriso. Non gli uscirono né frasi d’incoraggiamento né consolatorie e davanti a tanta tribolazione riuscì solo a comunicare un atterrito silenzio.
In strada cercava qualcosa, tra gli esterni caduchi del Sassello, in cui trasferire la malinconia che con troppa facilità gli si incollava addosso. Aveva lasciato casa Guerreschi ma non le pene che vi abitavano. In fondo a via Cioccaro, poco prima del passaggio porticato che conduceva in piazza Funicolare, c’era il ristorante del Pesce e subito dopo il Croce d’Oro; decise che si sarebbe fermato in uno dei due.
«Un caffè lungo?» chiese Gaetano da dietro il bancone interrompendo un’animata discussione con l’unico avventore. Lo conoscevano anche al Croce d’Oro e sapevano cosa beveva in determinati orari. Dal tavolo davanti alla vetrina osservava l’animosità della piazza e l’operosità della via, ma la sua concentrazione era diretta sul caffè amaro e sui fondi che pian piano comparivano nella tazzina. Pensava alla famiglia Guerreschi, alla povera Lara e ai due bambini. Combattuto, sentiva il desiderio di fare qualcosa, di aiutarli. L’idea di intromettersi negli affari degli altri, quando non si trattava di lavoro, si scontrava con il riserbo che gli inibiva qualunque forma di spontaneità. Decise infine di non subire, almeno quel giorno, le elaborate riflessioni provocate dall’insofferente e cervellotica mente e telefonò.
«Ciao Aldo, ho bisogno di un piacere».
Le luci blu intermittenti, proiettate sulle facciate della stretta via, trasformarono per pochi istanti i mansueti prospetti del vicolo nelle vetrine di un’effervescente città. L’ambulanza si muoveva piano nello stretto passaggio, realizzato per mezzi ben più antichi. Dalle finestre, dalle logge, dappertutto, volti curiosi scrutavano interrogativi e con apprensione l’evento.
Sull’ingresso del Croce D’Oro il Beretta seguì con lo sguardo il traballante viaggio dell’autolettiga finché non la vide fermarsi davanti a vicolo Brandiz: Aldo si era attivato subito. Lara Guerreschi ora si trovava in buone mani, in quelle degli specialisti esperti in medicina, ma forse per lei era necessario qualcun altro: qualcuno esperto in miracoli.