VII

Il Beretta, concentrato e inquieto, si aggirava per i luoghi del delitto. Come un segugio, puntava gli occhi a terra e scandagliava ogni palmo di terreno attorno alle casupole della Tosetti. Quando i suoi occhi incontravano un intralcio – un muro, un albero, un palo, o altro – lo sguardo cambiava prospettiva e la minuziosità adoperata in orizzontale si spostava in verticale. Controllava tutto, ogni minimo dettaglio fino ad altezza uomo, ma nulla di nulla.

Arrivato alla conigliera si piantonò di fronte a Nerofumo. L’animale sembrava cheto e non scalpitava, pareva quasi che sapesse qualcosa e avesse delle informazioni sul delitto. Il Beretta, sconfortato, lo fissò: «Di’ un po’ tu, sai com’è andata? “Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome. E tu fa cenno. Dio t’insegni, come”». Si era ritrovato a interrogarlo con i versi del Pascoli. «Per la miseria!» imprecò. «Qualcosa deve pur esserci: nessuno è in grado di muoversi senza lasciare una traccia, un pur minimo segno di una presenza anomala».

Cambiò posizione. Certo che il fattaccio fosse stato frutto di preparazione, iniziò a cercare un luogo ideale per un ipotetico appostamento. Si spostò verso l’alto, vicino al ponte di ferro. Già in precedenza aveva ritenuto quel posto un buon punto di osservazione. Se il delinquente avesse spiato le vittime, attendendo il momento opportuno per agire, da quella posizione avrebbe potuto vedere senza essere visto.

Un cilindretto di cartone color seppia, ai piedi del pilone in pietra che sosteneva i binari della funicolare, lo incuriosì. La visione di quel tubetto, pressato in due punti tanto da formare un tetraedro, con residui di bruciatura su un bordo, lo riportò a Niederdorf, a Zurigo, e a un caso di un paio d’anni addietro. Gli rammentò Nikita Volkov, un barbone testimone di un efferato delitto che si aggirava per i meandri e le bettole del Nieder con le dita avvolte da mezzi guanti di lana sudicia, ingialliti dalla nicotina della sigaretta perennemente incollata fra l’indice e il medio.

«Sigarette russe» fece ad alta voce. «Sigarette russe...».

Fra le infinite incertezze che accompagnavano il caso, forse una quasi certezza: nessuno a Lugano fumava sigarette russe e, con molta probabilità, neanche erano conosciute. Si ripromise di verificare presso la tabaccheria Bosia.

La osservava perplesso. Sfiorandola con il portamine le cambiò posizione un paio di volte. Si guardò attorno ma non ne trovò altre. Usando di nuovo la sua matita, infilò il tubicino di cartone e lo depose in una busta di carta che aveva in tasca. Se è vero che l’uomo nero aveva anche le mani nere, quindi i guanti, di impronte non ce ne saranno. Quel pensiero lo sconsolò.

Al vespro la luce era ormai scomparsa. Altre prove o indizi, se ve ne fossero stati, da lì a poco sarebbero sfumati nell’oscurità. Insoddisfatto ritornò in centro.

Ognissanti e non era neppure andato a trovare i suoi morti. L’efferato delitto richiedeva da subito tutte le sue energie. Doveva pensare ai vivi, alla bambina rapita. Del resto, erano anni che non andava al cimitero e le scuse, anche in momenti meno impegnativi, le trovava sempre.

Doveva riflettere su quel poco che aveva e a quell’ora l’unico posto dove riusciva a conciliare i pensieri era il Bar Lugano.

«Il solito, signor delegato?» chiese l’intrepido Mario, che non mollava mai. Al Beretta pareva che fosse sempre lì, ogni giorno per tutte le quattro stagioni. Annuì.

Nel tavolino buio in fondo al locale aveva l’impressione di essere nel seno della sua Lugano, un luogo appartato, sicuro, discosto dai cambiamenti e dal logorio della quotidianità; lontano dallo spazio che si trasforma e dal tempo che passa. Estrasse il suo taccuino. Mario si avvicinò e con abili mosse servì nel calice di cristallo, dalla caraffa di due quinti, un paio di dita di Sauvignon blanc.

«Grazie, Mario».

«Si figuri, signor delegato. Brutte nuove a quanto pare».

«A quanto pare...».

Il Beretta non amava parlare con i civili delle indagini. Da tempo, la sua freddezza tarpava le ali a qualunque curioso chiedesse lumi sugli sviluppi dei casi in corso. Le voci sul fattaccio del rapimento e delle aggressioni si erano diffuse in poco tempo in tutta la città e la gente mormorava. Al suo passaggio però attenuavano il mormorio, quasi avessero paura di essere redarguiti. Mario, invece, incurante delle vaghe risposte che riceveva, arrotondava sempre il suo interloquire con battute cariche di ardore per le occupazioni degli altri: «Beato lei che ha un mestiere avventuroso e per nulla monotono».

Ezechiele sorrise e sorseggiò il suo vino.

Gli indizi da annotare erano ben miseri. Fece mente locale e cercò di trascriverli nell’ordine in cui gli erano apparsi:

1. uomo nero (vestito di nero e con – forse – il morso di un bambino sul polso);

2. auto quadrata a tre ruote;

3. sigaretta russa (consumata fino al bordo).

Con il pollice e l’indice si massaggiò gli occhi fino all’attaccatura del naso. Per la miseria, non aveva mai iniziato un’indagine con così poche e assurde tracce! Assaporò il resto del Sauvignon che appena sporcava il fondo del bicchiere; lo scosse un leggero tremito e dalla caraffa ne versò dell’altro.