XIII
Una nebbia densa aleggiava attorno al lago e, con molta probabilità, non se ne sarebbe andata prima di varie ore. Le rive erano invisibili. L’inconfondibile cima del monte San Salvatore sovrastava gli aloni biancastri ma pareva poggiare sulle nuvole.
Il Bernasconi fece scendere il delegato un po’ prima, nei pressi del cancello, e poi posteggiò l’auto di servizio in fondo alla strada. Ezechiele non lo aspettò e si diresse verso l’approdo di villa Herminones. Quando l’appuntato lo raggiunse, stava scrutando le acque come se cercasse qualcosa nella foschia, ma non si vedeva niente, solo un vago riflesso della superficie che si fondeva con la nebbia a pochi metri di distanza. Erano passate da poco le 8.00 di mattina e in un locale della villa si era appena accesa una luce.
«Ehi Beretta, qualcuno dev’esserci».
«Ho visto. Aspettiamo che vengano ad aprire».
Davanti alla porta, il delegato schiacciò con insistenza il pulsante d’ottone della suoneria, e accompagnò il gracchiare del campanello con risoluti colpi dell’anello battente che pendeva dalle fauci di un leone piuttosto minaccioso. Arrestò quel frenetico armeggiare solo quando sentì che qualcuno stava girando il chiavistello.
Una donna con uno sguardo intimorito comparve davanti all’uscio, dietro di lei s’intravedeva una figura maschile.
«Buongiorno, sono il delegato di polizia Ezechiele Beretta e lui è l’appuntato Tranquillo Bernasconi. Possiamo entrare?».
La donna, spalancando gli occhi per la sorpresa, si scansò di lato assieme alla porta. L’irruente arrivo della polizia l’aveva ammutolita.
Entrarono in un atrio gigantesco, alto quanto due piani, occupato da un invadente scalone. Un uomo, ai piedi del primo gradino della scala monumentale e aggrappato alla ringhiera, li fissava accigliato.
«Dobbiamo farvi alcune domande» disse il Beretta rivolgendosi a entrambi.
L’uomo lasciò lo scalino su cui sembrava appollaiato e si avviò verso di loro. Indossava un abito scuro che ne faceva risaltare la carnagione eburnea; rosso carota era invece la striscia di capelli a ferro di cavallo che gli contornava la gigantesca pelata. La testa glabra era coperta solo da qualche capello, sopravvissuto alla calvizie e riportato da una parte all’altra con minuziosa precisione. Avanzava a labbra serrate e, altezzoso, esibiva senza remore la propria assenza di empatia.
La donna, in una postura militare tipo At-tenti, teneva le braccia aderenti lungo gli esili fianchi e composta attendeva l’arrivo dell’uomo. Il delegato ripensò alla scarna descrizione del Bosia: «Una giovane donna sui cinquantacinque forse sessanta, magrolina...». La domestica doveva avere al massimo quarantacinque anni. Una chioma corvina, raccolta e ordinata da una riga centrale, le racchiudeva il viso dalla carnagione chiara, quadrato e spigoloso. Gli occhi grigi, che riflettevano una luce opaca, e la testa inclinata di lato indicavano in lei sottomissione e fragilità. Quando l’uomo calvo arrivò vicino ai poliziotti, la donna indietreggiò di mezzo passo.
«Lei è la signora Anke Berger?» chiese il Beretta.
Sia l’uomo sia la donna annuirono.
«E lei come si chiama?» fece il delegato rivolgendosi all’uomo con la testa pelata.
«Rudolf Berger, sono il marito».
«Siete i custodi della villa?».
Annuirono di nuovo.
«Signora Berger, veniamo subito al dunque: per chi ha comprato delle sigarette simili a queste verso la fine di ottobre?». Il Beretta era partito in quarta mostrando il pacchetto delle Belomorkanal e facendo credere che già sapesse tutto.
Anke indietreggiò con la testa raddrizzandosi sulle spalle, guardò per un istante il marito e poi balbettò: «Per un ospite del signor barone».
«Questo lo sappiamo già. Vogliamo conoscere il nome e dove possiamo trovare questo signore».
«Non è più in villa» s’intromise il marito. «Herr Meissen ha lasciato la residenza ieri mattina».
«E questo signor Meissen come fa di nome?».
«Folker, Herr Folker Meissen» rispose il Berger.
«Dunque, signora Berger, mi conferma che lei, verso la fine di ottobre e per conto del signor Folker Meissen, ha acquistato nella tabaccheria Bosia, in via Carlo Battaglini a Lugano, tre pacchetti di Belomorkanal?». Il tono del poliziotto sapeva di inquisizione.
«Non vedo cosa ci sia d’illegale nel comprare delle sigarette» s’inserì di nuovo il marito impettendosi.
«D’illegale potrebbe esserci la complicità in un efferato crimine».
I coniugi Berger fissavano i loro interlocutori, basiti per quello che stavano apprendendo.
«Riteniamo che il fumatore di queste sigarette sia anche un rapitore di bambini, o forse peggio».
«Vi sbagliate di certo. Il signor Meissen è una persona per bene, grande amico del signor barone. Un uomo integerrimo».
«Appureremo la questione. Quindi è affermativo e verbalizzeremo che la signora Anke Berger ha comprato tre pacchetti di Belomorkanal per il signor Folker Meissen» concluse risoluto il delegato fissando i due senza batter ciglio. Davanti a tale autorevolezza, entrambi assentirono.
«Bene, ora ditemi: dove posso trovare quest’uomo integerrimo?».
«Come le ho detto è partito ieri mattina» ripeté il custode.
«Per quale meta?».
«Non saprei».
«Aveva un’auto? Se n’è andato a piedi? In barca? A nuoto?».
«Non mi pare».
«Senta un po’, Berger, vuol farmi credere che non sa nulla di un ospite che risiedeva in questa villa? Chiamerò il barone von Günther e chiederò spiegazioni a lui».
L’uomo sminuì di colpo la sua reticenza.
«Il signor Folker Meissen è arrivato da noi alla metà di ottobre e ieri mattina è partito senza darci spiegazioni. Mia moglie ha fatto le commissioni da lui richieste e io mi sono limitato ad accompagnarlo alla stazione. Altro non sappiamo».
«A che ora l’ha portato in stazione?».
«Aveva un treno per Zurigo alle 10.00».
«Direzione?».
«Gliel’ho detto, non lo so. Forse Berlino».
«Eravate soli?».
«Sì».
«Con che auto l’ha accompagnato?».
«Con quella del signor barone».
La vicenda si stava illuminando di una luce plumbea e impenetrabile come le rive del lago. Se quell’uomo, sospettato del rapimento, fosse davvero tornato in Germania, avrebbero dovuto cercare un cadavere e non più la piccola Ombretta.
«Che cosa faceva a Lugano il Meissen?».
«Non lo so».
«Va bene, signor Berger, ora stia zitto perché voglio sentire sua moglie». Il pensiero che Folker Meissen fosse scappato da Lugano, magari dopo aver ucciso la bambina, innervosì il delegato tanto da farlo diventare intollerante a qualunque ingerenza.
Rudolf Berger lo guardò dall’alto in basso con borioso disprezzo.
«Signora Berger, dove alloggiava il Meissen?».
La donna, intimorita, non sapeva chi guardare e non dava segni di voler comunicare. Il marito la osservava severo trasmettendole moniti per nulla velati.
«Allora, è una domanda facile» fece il Beretta spazientito.
«In una ca...» accennò il marito.
«Bernasconi,» minacciò il delegato «preparati ad arrestare quest’uomo per intralcio alla giustizia». L’appuntato si avvicinò al Berger sventolandogli le manette sotto il naso e quello indietreggiò. Un’ira repressa l’aveva fatto diventare paonazzo, sembrava che da un momento all’altro stesse per scoppiare.
«In una camera al primo piano» rispose la moglie di getto stemperando la tensione che si stava accumulando nell’aria.
«Che abitudini aveva?».
«Scendeva per la colazione e poi tornava in stanza fino all’ora di pranzo». Le manette avevano reso la Berger più disponibile al dialogo e, anche se con poca speditezza, stava finalmente rispondendo. «Passava il pomeriggio tra la biblioteca e il parco, poi, prima di cena, lasciava la villa».
«A piedi?».
«Con la vettura del signor barone».
«Da solo?».
Anke guardò il marito e poi annuì.
«E quando ritornava?».
«Non saprei. Tardi».
«Mi dica, signora Berger, il Meissen non è mai uscito di mattina con l’auto del barone?».
A labbra arricciate scosse la testa in senso di diniego, precisando: «Usciva solo nel tardo pomeriggio. A volte rientrava a mezzogiorno...». Sfumò l’ultima parte, folgorata dall’occhiataccia del marito.
Chi diavolo fosse, e soprattutto che cosa ci facesse a Lugano quel tipo era ancora un’incognita. Un tedesco che bighellonava per tutta la giornata in una villa sul lago e poi, all’imbrunire, usciva come i pipistrelli per poi rientrare a notte fonda, o addirittura non rientrare: dove andava?
L’interrogatorio continuò per una ventina di minuti. Anke Berger rispondeva a monosillabi, con assensi, dinieghi e magre precisazioni. Con una fatica immensa i poliziotti riuscirono a farsi un quadro di cosa succedeva lì e di chi frequentava villa Herminones: il barone von Günther non ci veniva quasi mai, troppo impegnato a gestire le sue acciaierie; un paio di volte l’anno arrivavano la moglie, le due figlie e il seguito e, per il resto, vi era un discreto viavai di amici e conoscenti, per lo più in estate e d’inverno; gli ospiti, a quanto pareva, vi soggiornavano per il clima e le vacanze.
Non si erano ancora mossi dal monumentale atrio e i custodi sembravano non volersi spostare da quello spazio nemmeno a domande concluse. Rudolf Berger aveva ripreso il suo pallido colorito, la vicinanza del Bernasconi gli aveva calmato i bollori. Il Beretta rinunciò per il momento a visitare la camera del Meissen e il resto della villa, era certo che l’avessero rassettata per bene. Aveva altro in mente.
«Signor custode, potrebbe portarci nell’autorimessa? Vogliamo vedere la vettura del barone von Günther».
Appoggiandogli la mano sulla schiena, il Bernasconi diede una spintarella al Berger e accompagnò quell’apparente atto di gentilezza con un deciso e irrifiutabile assenso a labbra gonfiate e mento verso l’alto. Uscirono nel parco e si diressero verso il garage.