«Molto bene. Capoimmersione, passi a profondità novanta piedi.»
«Nove-zero piedi, aye.»
Dovevano staccarsi dal fondo prima di eseguire qualsiasi movimento in avanti. Mancuso osservò l'indicatore di profondità mentre il Capoimmersione aggiustava lentamente e con grande abilità l'assetto del sottomarino.
«Profondità nove-zero piedi, signore. Sarà molto difficile mantenerla.»
«Dovremo manovrare. Avanti a cinque nodi. Timoniere, barra quindici gradi a destra, venire a nuova rotta zero-tre-otto.»
«Barra quindici gradi a destra, aye, veniamo a nuova rotta zero-tre-otto»
confermò il timoniere. «Signore, il timone è quindici gradi a destra.»
«Molto bene.» Mancuso guardò la bussola giroscopica che segnava la nuova rotta a nord-est. Ci vollero cinque minuti per affiorare dal ghiaccio. Il comandante ordinò quota periscopica. Un altro minuto.
«Alza periscopio!» disse Mancuso. Un sottocapo timoniere ruotò il volantino di comando, e il comandante afferrò lo strumento appena l'oculare superò la coperta. «Fermo!»
Il periscopio si arrestò un piede sotto il pelo dell'acqua. Mancuso osservò le ombre e l'eventuale presenza di ghiaccio, ma non vide nulla. «Alzare di due piedi.» Adesso stava inginocchiato. «Altri due piedi, e stop.»
Usava il sottile periscopio d'attacco, non quello più grande da esplorazione.
Quest'ultimo aveva una capacità luminosa superiore, ma era più facile da captare per i radar a causa del maggior diametro. Nelle ultime dodici ore il sottomarino aveva usato soltanto le luci interne rosse. Davano uno strano aspetto a ciò che mangiavano, ma assicurava una migliore visione notturna.
Mancuso fece un giro d'orizzonte. Non c'era niente da vedere se non i blocchi di ghiaccio alla deriva.
«Tutto libero» annunciò. «Alzare l'ESM.» Si udì il sibilo del movimento idraulico mentre l'albero con i sensori elettronici saliva. La sottile asta di fibra di vetro aveva un diametro di dodici millimetri, ed era quasi invisibile al radar.
«Ammaina periscopio.»
«Ho un radar di sorveglianza in superficie a rilevamento zero-tre-otto»
comunicò il tecnico dell'ESM, precisando la frequenza e le caratteristiche degli impulsi. «Il segnale è debole.»
«Si va, gente.» Mancuso prese un telefono collegato al tubo della plancia.
«Pronto?»
«Sì, signore» rispose Clark.
«Stia all'erta. Buona fortuna.» Il comandante posò il telefono e si voltò. «Lo porti disopra e si tenga pronto all'immersione rapida.»
Ci vollero in tutto quattro minuti. La parte alta della nera torretta del Dallas bucò la superficie, puntando direttamente sul più vicino radar sovietico per 426
presentargli la sezione minima. Era estremamente difficile mantenere quella quota. «Clark, vada!»
«Bene.»
Con tutti i ghiacci alla deriva, lo schermo del radar sovietico sarebbe stato molto ingombro, pensò Mancuso. Vide la spia del portello cambiare da un trattino, che significava "chiuso", a un cerchio, che significava "aperto".
Il vano finiva in una piattaforma pochi piedi sotto la plancia. Clark aprì il portello e salì, poi issò il battellino con l'aiuto del marinaio che stava al fondo della scala. Solo sul piccolo ponte di comando del sommergibile — la stazione di controllo sull'alto della torretta — mise il battellino di traverso e tirò la funicella per gonfiarlo. Il sibilo acuto dell'aria compressa sembrò un urlo nella notte, e Clark rabbrividì. Appena il tessuto gommato fu teso, chiamò il marinaio affinché chiudesse il portello, poi prese il telefono di plancia.
«Qui tutto pronto. Portello chiuso. Ci vediamo fra un paio d'ore.»
«D'accordo. Buona fortuna» ripeté Mancuso. Clark salì destramente sul gommone mentre il sottomarino si immergeva sotto di lui, e avviò il motore elettrico. Disotto, il portello inferiore del vano fu aperto solo il tempo occorrente al marinaio per saltare giù. Il comandante lo aiutò a richiuderlo.
«Tutti i portelli chiusi, pronti all'immersione» comunicò l'ufficiale quando anche l'ultima spia si trasformò in un trattino.
«Fatto» disse Mancuso. «Signor Goodman, a lei il comando. Sa che cosa deve fare.»
«Prendo il comando» rispose l'ufficiale, mentre Mancuso si avviava alla sala sonar. Il tenente di vascello Goodman fece subito immergere il sottomarino puntando verso il fondale.
Sembrava di tornare ai vecchi tempi, pensò Mancuso, con Jones come caposonar. Il sottomarino venne a destra, orientando sulla rotta di Clark il sonar a schiera fissato alla prua. Ramius arrivò un minuto dopo per osservare.
«Come mai non hai guardato con il periscopio?» domandò Mancuso.
«E duro vedere casa tua e sapere che non puoi...»
«Eccolo qui.» Jones batté il dito sullo schermo. «Giri dell'elica per velocità diciotto nodi. Molto silenzioso per un fuoribordo. Elettrico, eh?»
«Giusto.»
«Spero proprio che abbia delle buone batterie, comandante.»
«Al litio, con anodo ruotante. Mi sono informato.»
«Furbo» borbottò Jones. Estrasse una sigaretta dal pacchetto e ne offrì una al comandante, che ancora una volta si dimenticò di avere smesso. Jones l'accese, e sul suo viso comparve un'espressione contemplativa.
«Lo sa, signore, adesso ricordo perché mi sono congedato...» La voce si spense mentre Jones vedeva il sonar distendersi nell'acqua. A poppavia, la 427
squadra comando tiro aggiornò la distanza, tanto per fare qualcosa. Jones allungò il collo e rimase in ascolto. Il Dallas era silenzioso al massimo, e la tensione riempiva l'aria molto più del fumo delle sigarette.
Clark era disteso piatto nel battellino. Il gommone era striato ili verde e di grigio, non molto diverso dalla superficie del mare. Avevano pensato di aggiungere qualche macchia bianca per via del ghiaccio, ma poi si erano ricordati che le rompighiaccio tenevano sempre sgombro il canale, e una macchia bianca che si spostava rapidamente su una superficie scura non era poi un'idea tanto brillante. Clark era soprattutto preoccupato dal radar. Forse lo schermo era stato troppo affollato per captare la torretta, ma se il radar russo aveva un indicatore di bersagli mobili, il computer che monitorizzava i segnali di ritorno avrebbe potuto bloccarsi su un oggetto che viaggiava a venti miglia all'ora. Il gommone sporgeva solo di trenta centimetri dal pelo dell'acqua, il motore del doppio, ma era verniciato con un prodotto radar-assorbente. Clark teneva la testa a livello del motore e si chiese di nuovo se la mezza dozzina di frammenti metallici sparsi sulla sua persona fossero abbastanza grandi per essere individuati. Sapeva che era una paura irrazionale — non avevano i metal-detector nemmeno agli aeroporti — ma gli uomini soli in posti pericolosi tendono ad avere la mente superattiva. In verità, era meglio essere stupidi, si disse. L'intelligenza ti permetteva solo di capire quanto erano rischiose certe situazioni. Al termine di ogni missione, dopo che il tremito se n'era andato, dopo il ristoro di una doccia calda, ti potevi anche crogiolare nell'aureola di quanto eri stato abile e intrepido, ma non ora. Adesso la missione appariva soltanto pericolosa, per non dire pazzesca.
La linea della costa era ben visibile, una serie nitida di puntini sull'orizzonte.
Sembrava abbastanza normale, ma era terra nemica — pensiero molto più raggelante dell'aria cristallina nella notte invernale.
Almeno il mare era calmo, si disse. Un po' di maretta avrebbe magari reso più difficile il compito del radar, ma la superficie liscia permetteva di correre veloce, e la velocità lo faceva sempre sentire meglio. Guardò indietro. Il gommone non lasciava una grossa scia, ma lui l'avrebbe comunque ridotta quando fosse stato più vicino al porto.
Pazienza, si disse del tutto inutilmente. Odiava il concetto stesso di pazienza.
A chi piace aspettare? Se deve succedere, succeda, e non se ne parli più. Non era il modo più sicuro, quello di precipitarsi nell'azione, ma almeno quando eri attivo e impegnato facevi qualcosa. Però, quando insegnava agli altri come si eseguivano quelle missioni — era la sua occupazione normale — non si stancava di ripetere che bisogna essere pazienti. Bell'ipocrita! si disse.
Le boe del porto gli dissero che non era lontano dalla costa. Ridusse la 428
velocità a dieci nodi, poi a cinque, infine a tre. Il motore elettrico emetteva un ronzìo appena percettibile. Clark girò la barra e fece virare il gommone verso un pontile sgangherato. Doveva essere un antico attracco, con i piloni scheggiati e raschiati dai ghiacci di molti inverni. Tirò fuori lentamente un binocolo per visione notturna e osservò la zona. Non vide alcun movimento. Adesso sentiva qualche suono, soprattutto i rumori del traffico riverberati dalla superficie dell'acqua, e della musica. Era venerdì sera, e anche in Unione Sovietica c'era gente che cenava allegramente nei ristoranti. Gente che ballava. In effetti, il successo del suo piano era in gran parte basato sulla presenza di un po' di vita notturna — l'Estonia era un po' più animata di altre parti del Paese — ma la banchina era squallida come gli avevano preannunciato gli informatori. Accostò e provvide subito a legare il gommone a un pilone — se fosse andato alla deriva, il problema sarebbe stato molto serio. Vicino al pilone c'era una scaletta a pioli.
Clark si sfilò la tuta e salì con la pistola in mano. Per la prima volta si accorse dell'odore del porto. Era un po' diverso da quello dei porti americani, greve di acqua di sentina e di legno marcio. Verso nord, una dozzina di motopescherecci era ancorata a un altro molo. A sud, una terza banchina era coperta di cataste di legname. Era evidente che stavano ricostruendo il porto, il che ne spiegava la condizione. Consultò l'orologio — era un vecchio "Pilot" russo — e si guardò attorno per cercare un posto in cui mettersi ad aspettare. Quaranta minuti prima che fosse ora di agire. Aveva previsto mare più mosso per il viaggio di andata; l'aver trovato acque calme gli lasciava, suo malgrado, più tempo per pensare quanto era stato pazzo ad accettare ancora un prelievo di fuggiaschi.
Boris Filipovich Morozov uscì dalla caserma in cui abitava tuttora, e guardò la volta celeste. L'illuminazione del complesso trasformava il cielo in una piumosa cupola di lumi discendenti. Gli piacevano i momenti come questo.
«Chi è là?» chiese una voce.
«Morozov» rispose il giovane tecnico alla figura che si avvicinava. Vide un berretto da ufficiale dell'Esercito.
«Buonasera, compagno ingegnere. Lei fa parte del gruppo del controllo specchi, vero?» chiese Bondarenko.
«Ci conosciamo?»
«No.» Il colonnello scosse il capo. «Sa chi sono?»
«Sì, compagno colonnello.»
Bondarenko fece un gesto verso il cielo. «Bello, non è vero?
Credo che sia una delle consolazioni che ci spettano per essere al limite estremo del nulla.»
«No, compagno colonnello. Siamo sulla soglia di qualcosa di molto importante» replicò Morozov,
429
«Mi fa piacere sentirlo! Sono tutti come lei i membri del suo gruppo?»
«Sì, compagno colonnello. Ho chiesto io di venire qui.»
«Davvero? Come faceva a conoscere l'esistenza di questo luogo?» Il colonnello era incuriosito.
«Ci sono venuto l'autunno scorso con il Komsomol. Abbiamo dato una mano a far saltare la roccia e a collocare i supporti degli specchi. Io stavo preparando la specializzazione sui laser, e ho indovinato che cos'era il progetto Stella Lucente. Naturalmente non l'ho detto a nessuno» aggiunse. «Però sapevo che era il posto per me.»
Bondarenko guardò il giovane con palese approvazione. «Come va il lavoro?»
«Avevo sperato che mi aggregassero alla squadra del laser, ma il caposezione ha insistito perché entrassi nel suo gruppo.»
«Le dispiace molto?»
«No, no — la prego di scusarmi. Non sono stato chiaro. Il fatto è che non sapevo quanto fosse importante l'altro gruppo. Adesso lo so. Stiamo cercando di adattare i sistemi di specchi a un controllo computerizzato più preciso. È
possibile che presto mi facciano vicecaposezione» disse Morozov con orgoglio.
«Ho anche familiarità con i computer, sa?»
«Chi è il suo capo? Govorov, se non sbaglio.»
«Proprio lui. Un tecnico brillante, se mi è consentito dirlo. Posso farle una domanda?»
«Certo.»
«Si dice che lei sia il nuovo colonnello di cui si parlava. Che forse sarà il nuovo vicecomandante del progetto.»
«Può darsi che le voci non siano infondate» concesse Bondarenko.
«Se è così, posso avanzare un suggerimento, compagno?» domandò Morozov.
«Sicuro.»
«Qui ci sono molti scapoli...»
«E poche donne nubili?»
«C'è bisogno di assistenti di laboratorio.»
«Prendo nota dell'osservazione, compagno ingegnere» rispose Bondarenko ridendo sotto i baffi. «Abbiamo anche in programma la costruzione di un nuovo blocco residenziale per alleviare l'affollamento. Com'è la caserma?»
«L'atmosfera è cordiale. I circoli di astronomia e di scacchi sono molto attivi.»
«Davvero? E da tanto che non gioco più a scacchi. C'è molto spirito agonistico?»
Questa volta fu il giovane a ridere. «Molto? Dica pure micidiale, addirittura selvaggio.»
430
A cinquecento metri di lì, l'Arciere benedisse il nome di Dio. Nevicava, e i fiocchi davano all'aria la qualità magica tanto cara ai poeti... e ai soldati. Si poteva udire — quasi palpare — il silenzio ovattato, grazie alla neve che attutiva ogni suono. Tutto intorno a loro, in alto e in basso fin dove giungeva lo sguardo, la bianca cortina riduceva la visibilità a duecento metri. L'Arciere riunì i comandanti delle sotto-unità e cominciò a organizzare l'assalto. Pochi minuti dopo si mossero in formazione tattica. L'Arciere era con la prima sezione, della prima compagnia, mentre il vicecomandante restava con la seconda.
Si camminava con sicurezza sorprendente. I russi avevano scaricato in quell'area le macerie delle esplosioni: anche se coperte di neve, le schegge di roccia non erano scivolose. Era molto rassicurante, perché dovevano costeggiare una pericolosa parete che precipitava per almeno cento metri. Era difficile orientarsi. L'Arciere si basava sulla memoria, e difatti aveva passato ore e ore a esaminare l'obiettivo, per cui conosceva — o credeva di conoscere — ogni curva del pendìo. Adesso venivano i dubbi, come sempre accadeva, e lui doveva fare uno sforzo enorme per concentrarsi. Prima di partire, aveva stabilito e memorizzato una dozzina di punti di riferimento: un masso qui, un avvallamento là, il punto in cui il sentiero svoltava a sinistra, e quell'altro in cui piegava a destra. Dapprima l'avanzata gli era parsa disastrosamente lenta, ma quanto più si avvicinavano all'obiettivo, tanto più rapido diventava il passo.
Nell'avvicinamento erano guidati dal riflesso delle luci. Come si sentivano sicuri i russi, pensò, a tenerle accese... C'era persino un veicolo in movimento, forse un autobus a giudicare dal rumore, con i fari accesi. I piccoli punti luminosi brillavano nella candida nube che li avvolgeva. Gli uomini di guardia, nel loro alone più grande, sarebbero stati svantaggiati. Normalmente i fasci di luce dei proiettori servivano ad accecare e confondere gli attaccanti, ma adesso sarebbe successo il contrario. Poca parte dei raggi avrebbe attraversato la neve, il più si sarebbe riflesso all'indietro disturbando la visione notturna delle sentinelle.
Infine il primo reparto giunse all'ultimo punto di riferimento e controllo.
L'Arciere spiegò i suoi uomini e aspettò l'arrivo degli altri. Ci volle mezz'ora. I mujaheddin si divisero in gruppetti di due o di tre. Si presero il tempo di bere un po' d'acqua e di raccomandare l'anima ad Allah, preparandosi tanto alla battaglia quanto alle sue tragiche conseguenze. Il loro credo era quello del guerriero. I loro nemici erano anche nemici di Allah. Qualunque cosa avessero fatto ai nemici di Dio, sarebbe stata perdonata. Ognuno dei seguaci dell'Arciere ricordava amici e parenti morti per mano dei russi.
«È incredibile» mormorò il maggiore appena lo raggiunse.
«Allah è con noi, amico» rispose l'Arciere.
«Deve esserlo.» Erano a soli cinquecento metri dall'obiettivo, senza essere stati visti. Potremmo addirittura uscirne vivi...
431
«Fin dove possiamo ancora avvicinarci?»
«Cento metri. Le fotoelettriche di cui dispongono penetreranno la neve per circa quattrocento metri. La torre più vicina è a seicento metri in quella direzione.» L'additò benché non ce ne fosse bisogno. L'Arciere sapeva esattamente dov'erano quella torre e la successiva, duecento metri più avanti.
Il maggiore guardò l'orologio e riflette per un momento.
«Il cambio della guardia avverrà fra un'ora, se qui usano gli stessi schemi di Kabul. Quelli che smontano sono stanchi e intirizziti, quelli che devono dar loro il cambio non sono ancora svegli. Il momento è adesso.»
«Buona fortuna» disse semplicemente l'Arciere. Si abbracciarono.
«"Perché dovremmo rifiutare di combattere per la causa di Allah, quando noi e i nostri figli siamo stati scacciati dalle nostre dimore?"
«"Quando videro Golia e i suoi guerrieri, gridarono: 'Signore, riempi di fermezza i nostri cuori. Fa' saldo il nostro piede e dacci aiuto contro l'infedele'."»
Era una citazione dal Corano, e nessuno dei due si stupì che il passaggio si riferisse alla battaglia degli Israeliti contro i Filistei. I musulmani conoscevano Davide e Saul e la loro causa. Il maggiore sorrise ancora una volta e corse a raggiungere i suoi uomini.
L'Arciere si voltò e fece un gesto alla squadra missilistica. Due degli uomini misero in spalla gli Stinger e seguirono il capo su per la montagna. Ancora una gobba da superare, e poi si trovarono di fronte alle torri di guardia. L'Arciere notò con sorpresa che di lì se ne vedevano tre, per cui fu portato un terzo missile. Diede le istruzioni del caso, poi li lasciò per raggiungere il grosso della formazione. Sul piccolo rialzo del terreno, i dispositivi di acquisizione del bersaglio cantarono la loro canzone di morte nell'orecchio dei lanciatori. Le torri di guardia erano riscaldate — e lo Stinger cerca unicamente il calore.
L'Arciere fece venire avanti la batteria dei mortai — più vicino di quanto avrebbe voluto, ma la poca visibilità non giocava completamente a favore dei mujaheddin. Seguì con lo sguardo la compagnia del maggiore che scendeva a sinistra e spariva nella neve. Quel reparto avrebbe preso d'assalto l'impianto laser, mentre lui e i suoi ottanta uomini avrebbero attaccato i luoghi in cui viveva la maggior parte dei residenti. Era il loro turno. L'Arciere li portò avanti fin dove osò farlo, proprio al margine della portata utile dei riflettori attraverso la neve. Fu gratificato dalla vista di una sentinella, infagottata per il freddo, con il fiato che si condensava dietro di lei in nuvolette bianche poi disperse dal vento. Ancora dieci minuti. L'Arciere prese la radio. Ne avevano solo quattro, e lui non si era arrischiato a usarla prima per timore di essere individuato dai russi.
432
Non avremmo mai dovuto privarci dei cani, si disse Bondarenko. La prima cosa che farò quando mi insedierò qui, sarà di farli ritornare. Camminava intorno al campo godendosi il freddo e la neve, approfittando dell'atmosfera quieta per riordinarsi le idee. Alcune cose dovevano essere cambiate. C'era bisogno di un vero soldato. Il generale Pokryshkin aveva troppa fiducia nello schema della sicurezza, e gli effettivi del KGB erano troppo pigri. Ad esempio, non mandavano fuori pattuglie durante la notte. «Troppo rischioso su questo terreno» diceva il loro comandante. «Le ricognizioni diurne scopriranno chiunque tenti di avvicinarsi, le guardie sulle torri hanno i riflettori, e il resto della base è illuminato a giorno.» Però i riflettori perdono l'ottanta per cento dell'efficacia con questo tempo. E se proprio in questo momento ci fosse un gruppo di afghani? si chiese. Per prima cosa, si disse Bondarenko, chiamerò il colonnello Nikolayev, al comando degli Spetznaz, e comanderò personalmente un'esercitazione di attacco contro la base per far vedere a quegli idioti del KGB quanto sono vulnerabili. Guardò in alto. C'era una sentinella del KGB che batteva le braccia contro il corpo per riscaldarsi, con il fucile a tracolla. Avrebbe impiegato quattro secondi per sfilarlo, puntare e togliere la sicura. Quattro secondi, ma negli ultimi tre sarebbe stata a terra morta, se l'attacco fosse stato condotto da una persona competente... Bene, si disse, in qualsiasi posto il vicecomandante è tenuto a essere uno spietato figlio di puttana, e se quei cekisti vogliono giocare ai soldati, faranno dannatamente bene a comportarsi da soldati.
Il colonnello si voltò per ritornare al settore residenziale.
La vettura di Gerasimov si fermò davanti all'ingresso amministrativo del carcere di Lefortovo. L'autista rimase in macchina, mentre la guardia del corpo seguiva il superiore. Il Presidente del KGB mostrò il proprio documento d'identità al sorvegliante ed entrò senza rallentare l'andatura. Il KGB attuava rigorosamente le norme di sicurezza, ma tutti i suoi membri conoscevano bene la faccia del Presidente, e altrettanto bene il potere che rappresentava.
Gerasimov voltò a sinistra e si diresse agli uffici dell'amministrazione.
Naturalmente il capo del personale di custodia non c'era, ma era presente un suo vice. Gerasimov lo trovò intento a compilare dei formulari.
«Buonasera.» Soltanto gli occhiali impedirono agli occhi del funzionario di uscire dall'orbita.
«Compagno Presidente, non sapevo che...»
«Non era tenuto a saperlo.»
«In che cosa posso...»
«Il prigioniero Filitov. Ho bisogno di lui immediatamente» disse in tono rude Gerasimov. «Immediatamente» ripeté per ribadire il concetto.
«Subito!» Il vicecapo balzò in piedi e corse nella stanza vicina. Ritornò dopo 433
un istante. «Ci vorranno cinque minuti.»
«Dev'essere vestito in modo corretto» disse Gerasimov.
«In divisa?»
«No, imbecille» ringhiò il Presidente. «Abiti civili. Bisogna che sia presentabile. Lei ha qui tutti gli effetti personali del prigioniero, no?»
«Sì, compagno Presidente, però...»
«Non ho tutta la sera a disposizione» disse piano. Non c'era nulla di più pericoloso di un Presidente del KGB che parlava sottovoce. Il secondo vicecapo dei sorveglianti uscì quasi volando. Gerasimov si voltò verso la guardia del corpo, che sorrideva divertita. I carcerieri non piacevano a nessuno. «Quanto tempo, secondo te?»
«Meno di dieci minuti, compagno Presidente, anche se devono cercare i vestiti. Quella mezza cartuccia conosce bene questo luogo di delizie.»
«Sai chi è?»
«Era un agente della "Uno", ma se l'è cavata male al primo incarico, e da allora ha sempre fatto il carceriere.» La guardia controllò l'orologio.
Ci vollero otto minuti. Filitov comparve con quasi tutti gli indumenti indosso, la camicia aperta e la cravatta semplicemente passata intorno al collo. Il vicedirettore teneva in mano un cappotto liso. Filitov non si era mai comperato degli abiti civili. Era colonnello dell'Armata Rossa e non si sentiva mai a proprio agio senza la divisa. Il vecchio ufficiale aveva gli occhi confusi, poi riconobbe Gerasimov.
«Che cosa c'è?» chiese.
«Lei viene con me, Filitov. Si abbottoni la camicia. Cerchi di avere almeno l'aspetto di un uomo!»
Misha cominciò a dire qualcosa, ma si fermò. Lo sguardo che rivolse al Presidente bastò a indurre la guardia a muovere le mani di un centimetro. Si abbottonò la camicia e si annodò la cravatta — ma il nodo finì storto sotto il colletto per mancanza di uno specchio.
«Ora, compagno Presidente, se lei vuole firmare qui...»
«Mi da in custodia un criminale in questo modo?»
«Cosa...»
«Le manette, si svegli!» tuonò Gerasimov.
Cosa non sorprendente, il vicecapo ne aveva un paio nel cassetto. Le tirò fuori, le mise a Filitov, e stava per intascare la chiave quando vide la mano tesa di Gerasimov.
«Molto bene. Glielo riporterò domani sera.»
«Ma io ho bisogno che lei firmi...» Il funzionario si accorse che stava parlando a una schiena che si allontanava.
«Con tutte le persone ai miei ordini» commentò Gerasimov con la guardia del 434
corpo «ce ne deve essere qualcuna...»
«Proprio così, compagno Presidente.» La guardia aveva una corporatura eccezionalmente agile per un uomo di quarantadue anni. Era un ex ufficiale esperto in ogni forma di combattimento con le armi e a mani nude. La salda presa della sua mano confermò a Misha tutte queste cose.
«Filitov» disse il Presidente di sopra la spalla. «Lei farà un breve viaggio, per la precisione un volo. Nessuno le farà del male. Se si comporta correttamente, potrà anche avere un paio di pasti come si deve. Se si comporta male, il qui presente Vasiliy le farà rimpiangere di averlo fatto. E chiaro?»
«Chiaro, compagno cekista. »
La guardia scattò sull'attenti, poi aprì la porta. Le sentinelle all'esterno del carcere fecero il saluto, che fu ricambiato da un cenno del capo. L'autista tenne aperta la portiera. Gerasimov si fermò e si rivolse alla guardia.
«Mettilo dietro insieme a me, Vasiliy. Dovresti poter fare il tuo servizio dal sedile anteriore.»
«Come desidera, compagno.»
«Sheremetyevo» disse Gerasimov all'autista. «Al terminal merci sul lato sud.»
Erano all'aeroporto. Ryan soffocò un rutto che sapeva di vino e di sardine. Il corteo entrò nell'aeroporto, svoltò a sinistra superando l'ingresso normale all'aerostazione e andò direttamente all'area di parcheggio degli aerei. La sicurezza, notò, era rigorosa. Su quel punto, si poteva lasciar fare ai russi.
Dovunque volgesse lo sguardo vedeva militari in divisa del KGB armati di fucile. La vettura passò oltre l'aerostazione principale e il nuovo edificio. Non era usato, ma rassomigliava all'astronave aliena degli Incontri ravvicinati di Spielberg. Avrebbe voluto chiedere a qualcuno perché l'avevano costruito, se poi non lo usavano. Forse la prossima volta, pensò.
Gli addii ufficiali erano stati fatti al Ministero degli Esteri. Alcuni funzionari subalterni stavano ai piedi della scaletta a stringere la mano ai visitatori, ma nessuno aveva fretta di lasciare il confortevole calore delle limousine. Ciò rallentava le operazioni d'imbarco. La vettura di Ryan scattò avanti e si fermò; l'uomo alla sua destra aprì la porta, mentre l'autista apriva il bagagliaio.
Nemmeno lui aveva voglia di scendere, c'era voluto quasi tutto il tragitto per riscaldare l'automobile. Jack, presa la valigia e la cartella, si diresse alla scaletta.
«Spero che la visita le sia piaciuta» disse il funzionario sovietico.
«Mi piacerebbe ritornare e vedere la città» rispose Ryan stringendogli la mano.
«Ne saremo lieti.»
Lo sareste di certo, pensò Jack salendo. Appena fu sull'aereo, guardò in avanti. Un ufficiale russo era seduto sullo strapuntino della cabina di pilotaggio 435
per facilitare il dialogo con la torre di controllo. Teneva gli occhi fissi sulla consolle. Ryan fece un cenno del capo al pilota, che gli rispose strizzando l'occhio.
«La dimensione politica mi spaventa a morte» disse Vatutin. Al numero due della piazza Dzerzhinskiy, lui e Golovko stavano confrontando gli appunti.
«Non sono più i tempi d'una volta. Non possono fucilarci perché abbiamo rispettato le procedure e agito in conformità alla nostra preparazione.»
«Davvero? E se portassero via Filitov con il beneplacito del Presidente?»
«Assurdo» commentò Golovko.
«Sì? E se il suo antico lavoro contro i dissidenti lo avesse fatto entrare in contatto con gli occidentali? Sappiamo che è intervenuto di persona in qualche caso — soprattutto nella regione del Baltico, ma anche altrove.»
«Adesso ragioni proprio come un uomo della "Due"!»
«Rifletti un momento. Noi arrestiamo Filitov e subito dopo il Presidente ha un abboccamento con un funzionario della CIA. È mai successo prima?»
«Ho sentito delle storie su Philby, ma... no, è successo solo quando è venuto qui.»
«Diavolo di coincidenza» disse Vatutin strofinandosi gli occhi. «Non ci insegnano a credere alle coincidenze, e...»
« Tvoyu mat'! » esclamò Golovko. Vatutin alzò lo sguardo irritato, e vide l'altro con gli occhi stralunati. «L'ultima volta che sono venuti gli americani... come ho fatto a non pensarci? Ryan ha parlato con Filitov... si sono scontrati come per caso, e...»
Vatutin alzò il ricevitore e compose un numero. «Mi passi il capo dei sorveglianti di turno stasera... Parla il colonnello Vatutin. Svegliate il prigioniero Filitov. Voglio vederlo entro un'ora... Come? Chi? Molto bene.
Grazie.» Il colonnello della Seconda Direzione Centrale si alzò. «Il Presidente Gerasimov ha prelevato Filitov da Lefortovo un quarto d'ora fa. Ha detto che dovevano fare una trasferta speciale.»
«Dov'è la tua macchina?»
«Posso ordinare...»
«No» disse Golovko. «La tua personale.»
26
Operazioni nere
Non c'era fretta, non ancora. Come il personale di volo ebbe sistemato tutti i passeggeri, il colonnello von Eich verificò la lista di controllo preliminare al 436
volo. Il VC-137 riceveva la corrente elettrica da un generatore montato su autocarro. Ciò avrebbe permesso di avviare i motori più facilmente che con l'impianto di bordo. Guardò l'ora sperando che tutto andasse secondo i programmi.
Ryan passò oltre il suo posto normale davanti alla cabina centrale occupata da Ernie Allen, e scelse un sedile nell'ultima fila dello scompartimento di poppa.
Rassomigliava molto all'interno di un normale aereo di linea, con la differenza che qui le poltrone erano in file di cinque. Lo spazio a poppa accoglieva le persone che non trovavano posto nella zona anteriore riservata ai "Distinti Visitatori". Jack si accomodò a sinistra, dove le poltrone erano in coppie, mentre un'altra decina di passeggeri entrò e si sedette il più avanti possibile per sentire di meno le eventuali scosse, secondo il consiglio di un altro assistente di volo. Il capo del personale dell'aereo sarebbe stato dall'altra parte del corridoio, a destra di Ryan, non a prua con l'equipaggio. Jack avrebbe gradito avere un terzo uomo a dargli una mano, ma non potevano mettersi troppo in evidenza.
Avevano a bordo un ufficiale sovietico, secondo la normale routine. Se avessero voluto derogare, avrebbero richiamato l'attenzione generale. Il solo modo di far funzionare la cosa era di avere tutti a bordo comodamente seduti e convinti che ogni cosa andava come doveva andare.
A prua, il pilota arrivò all'ultima riga della lista di controllo.
«Tutti a bordo?»
«Sì, signore, siamo pronti a chiudere i portelli.»
«Tieni d'occhio la spia della porta dell'equipaggio. Non era tanto a posto ultimamente» disse von Eich al motorista.
«Qualche problema?» chiese il pilota sovietico dallo strapuntino. Nessun aviatore prende alla leggera il rischio di un'improvvisa depressurizzazione.
«Quando controlliamo la porta, tutto è in ordine. Forse c'è solo una resistenza difettosa nel pannello, ma fino a questo momento non siamo riusciti a trovarla.
Ho verificato personalmente la chiusura della maledetta porta» assicurò il comandante. «Dev'essere un difetto elettrico.»
«Pronti a partire» disse il motorista.
«Okay.» Il pilota guardò fuori per accertarsi che le scalette fossero state allontanate, mentre gli uomini dell'equipaggio si mettevano il casco d'ascolto cuffia-microfono. «Tutto libero a sinistra.»
«Tutto libero a destra» disse il copilota.
«Accendo uno.» Furono premuti dei pulsanti, girati degli interruttori, e la turbina del motore esterno di sinistra cominciò a girare. Le lancette di diversi quadranti si mossero fino a raggiungere la posizione normale di minimo. Adesso l'aereo era autonomo per l'alimentazione elettrica, e il camion con il generatore si ritirò.
437
«Accendo quattro» disse il pilota. Inserì il microfono per comunicare con la cabina passeggeri. «Signore e signori, vi parla il colonnello von Eich. Stiamo avviando i motori, e dovremmo muoverci fra circa cinque minuti. Vi prego di allacciare le cinture di sicurezza. Quelli di voi che fumano, cerchino di sopravvivere ancora per qualche minuto.»
Seduto nell'ultima fila, Ryan avrebbe commesso un omicidio per fumare una sigaretta. Il capo dell'equipaggio lo guardò e sorrise. Sembrava un tipo abbastanza duro per il compito che lo attendeva. Era un maresciallo d'Aviazione vicino alla cinquantina, ma aveva anche l'aspetto di un uomo capace di insegnare le buone maniere a un giocatore della National Football League.
Portava robusti guanti di pelle con i cinturini allacciati stretti.
«Tutto pronto?» domandò Jack. Non c'era pericolo di essere sentiti. Il rombo dei motori era tremendo, in fondo all'aereo.
«Appena lo dirà lei, signore.»
«Quando verrà il momento, lo capirà.»
«Hmmm » borbottò Gerasimov. «Non c'è ancora.» L'aerostazione merci era chiusa e completamente al buio, eccettuati i riflettori di sicurezza.
«Vuole che telefoni?» propose l'autista.
«Non c'è fretta. Cosa...» Una guardia in uniforme fece loro segno di fermarsi.
Avevano già passato un controllo.
«Oh, va bene. Gli americani stanno per partire, e questo causa un po' di confusione.»
La guardia si avvicinò al finestrino dell'autista e chiese i documenti. L'autista si limitò ad accennare al sedile posteriore.
«Buonasera, caporale» disse Gerasimov. Esibì il proprio documento, e il giovane scattò sull'attenti. «Fra qualche minuto arriverà un aereo per me. Gli americani avranno provocato qualche ritardo. È spiegata la forza di sicurezza?»
«Sì, compagno Presidente. Tutta una compagnia.»
«Mentre siamo qui, perché non facciamo un'ispezione volante? Chi è al comando?»
«Il maggiore Zarudin, compagno...»
«Che diavolo...» C'era un tenente, che venne fino al livello del caporale, prima di vedere chi c'era in macchina.
«Tenente, dov'è il maggiore Zarudin?»
«Alla torre di controllo, compagno Presidente. E il posto migliore per...»
«Sicuro. Lo chiami alla radio e gli dica che vado a ispezionare la guardia al perimetro, poi andrò da lui a riferirgli che cosa penso. Andiamo» disse all'autista. «Va' a destra.»
«Torre controllo Sheremetyevo, nove-sette-uno chiede il permesso di portarsi 438
alla pista due-cinque-destra» disse von Eich nel microfono.
«Nove-sette-uno, autorizzazione concessa. Girate a sinistra sulla pista principale di rullaggio. Vento in direzione due-otto-uno a quaranta chilometri orari.»
«Roger, chiudo» disse il pilota. «Okay, muoviamo questo apparecchio.» Il copilota spinse avanti i comandi del gas e l'aereo cominciò a rullare. A terra davanti a loro un uomo con due bastoni luminosi fece dei segnali superflui verso la pista di rullaggio; i russi pensano sempre che tutti abbiano bisogno di sentirsi dire che cosa devono fare. Von Eich uscì dall'area di parcheggio e si diresse a sud lungo la pista di rullaggio numero nove, poi svoltò a sinistra. Il piccolo volante che comandava le ruote di prua era rigido, come sempre. L'aereo avanzò lentamente spinto dal motore esterno. Le piste avevano un fondo così sconnesso che c'era sempre il timore di danneggiare qualche cosa. Non voleva che succedesse stasera. C'era più di un chilometro per arrivare al termine della pista principale, e i sobbalzi erano tali da far venire il mal di mare. Infine si immise sulla pista di rullaggio numero cinque.
«Gli uomini sembrano all'erta» osservò Vasiliy mentre attraversavano la pista di decollo venti-cinque-sinistra. L'autista aveva spento i fari e si teneva sul bordo. C'era un aereo in arrivo, per cui l'autista e la guardia del corpo tenevano gli occhi aperti. Non videro Gerasimov che, presa dalla tasca una chiave, apriva le manette del meravigliato Filitov. Subito dopo il Presidente estrasse una pistola automatica dalla tasca interna del cappotto.
«Merda, c'è un'automobile» disse il colonnello von Eich. «Cosa diavolo ci fa, qui?»
«La supereremo senza difficoltà» disse il copilota. «Si sta tenendo sul bordo.»
«Bene.» Il pilota girò di nuovo a destra verso l'inizio della pista di decollo.
«Fottuti guidatori della domenica.»
«Non le piacerà nemmeno quest'altra notizia, colonnello» annunciò il motorista di bordo. «Abbiamo di nuovo la spia accesa sulla porta posteriore.»
«Maledizione!» imprecò von Eich sull'interfono. Prese di nuovo il microfono, ma dovette controllare la voce prima di parlare. «Capoequipaggio, verifichi la porta posteriore.»
«Ci siamo» disse il maresciallo. Ryan staccò la cintura di sicurezza e si spostò di pochi passi osservando il sottufficiale che azionava la maniglia della porta.
«Abbiamo un corto circuito in qualche punto» disse il motorista di bordo.
«Non funzionano le luci della cabina di poppa. L'interruttore si è incantato e non riesco a sbloccarlo.»
«Che sia un interruttore difettoso?» domandò il colonnello von Eich.
«Posso provare a sostituirlo» rispose il motorista.
«Fallo. Io spiego ai passeggeri della cabina di poppa perché si sono spente le 439
luci.» Era una bugia, però di quelle credibili. Tutti i passeggeri avevano le cinture allacciate, per cui non potevano voltarsi a vedere il fondo dell'aereo.
«Dov'è il Presidente?» chiese Vatutin al tenente.
«Sta facendo un'ispezione. Chi è lei?»
«Il colonnello Vatutin, e questo è il colonnello Golovko. Dov'è il fottuto Presidente, giovane idiota?»
Il subalterno balbettò per qualche secondo, poi fece un segno con la mano.
«Vasiliy» disse il Presidente. Era veramente una cosa triste. La guardia del corpo si voltò e vide la canna della pistola. «La tua arma per favore.»
«Ma...»
«Non è il momento di parlare.» Prese la pistola di Vasiliy e se la mise in tasca, poi gli diede le manette. «Tutti e due, e fate passare le mani attraverso il volante.»
L'autista era esterrefatto. I due uomini eseguirono l'ordine. Vasiliy chiuse una manetta sul proprio polso sinistro, e fece passate l'altra attraverso il volante per metterla a un polso dell'autista. Nel frattempo Gerasimov staccò il ricevitore del radiotelefono e si mise in tasca anche quello.
«Le chiavi?» L'autista gliele diede con la mano sinistra che era libera. La guardia più vicina era a cento metri, l'aereo soltanto a venti. Il Presidente del Comitato per la Sicurezza dello Stato aprì personalmente la portiera, per la prima volta da parecchi mesi. «Colonnello Filitov, vuol venire con me, per favore?»
Misha era sbalordito come gli altri, ma fece ciò che gli era stato ordinato.
Sotto gli occhi di tutto l'aeroporto — o meglio, dei pochi che avevano voglia di guardare quel normale decollo — Gerasimov e Filitov si avviarono verso la coda bianca, rossa e blu del VC-137. Come se fosse stato impartito un ordine, il portello posteriore si aprì.
«Sbrighiamoci, gente.» Ryan calò una scala di corda.
Le gambe tradirono Filitov. Il vento e il soffio d'aria dei motori a reazione fecero ondeggiare la scala di corda come una bandiera.
Il colonnello non riuscì a mettere su entrambi i piedi, nonostante l'aiuto di Gerasimov.
«Mio Dio!» Golovko alzò il braccio. «Muoviti!» Vatutin non rispose.
Schiacciò l'acceleratore a tavoletta e accese i fari abbaglianti.
«Grane» disse il capoequipaggio quando vide la vettura. C'era anche un uomo armato di fucile che correva nella loro direzione. « Salta su, babbo! » disse al 440
Cardinale del Cremlino.
«Merda!» Ryan spinse da parte il maresciallo e saltò a terra. La distanza non era poca, e lui cadde in malo modo slogandosi la caviglia destra e strappandosi i pantaloni sul ginocchio sinistro. Ignorò il dolore e si rizzò in piedi. Prese Filitov per una spalla mentre Gerasimov afferrava l'altra, e fra tutti e due lo fecero salire su per la scaletta, abbastanza in alto perché il maresciallo potesse tirarlo a bordo. Poi salì Gerasimov con l'aiuto di Ryan. Venne il turno di Jack, che ebbe lo stesso problema di Filitov. Il ginocchio sinistro era già rigido e, quando tentò di salire appoggiandosi sulla caviglia slogata, la gamba destra rifiutò di collaborare. Imprecò a gran voce, tanto che lo sentirono sopra il rombo dei motori, tentò di sollevarsi a forza di braccia, ma mancò la presa e cadde per terra.
« Stai, stai! » gridò da circa tre metri un uomo armato di fucile. Jack alzò gli occhi verso il portello dell'aereo.
«Andate!» urlò. «Chiudete la fottuta porta e andate!»
Il capoequipaggio lo fece senza un attimo di esitazione. Si voltò per tirare su il portello, e Jack lo vide chiudersi in pochi secondi. All'interno, il sottufficiale prese il microfono dell'interfono e annunciò al pilota che la porta era sistemata e in ordine.
«Torre, qui nove-sette-uno. Rulliamo. Chiudo.» Il pilota avanzò i comandi fino alla potenza di decollo.
La violenza del getto d'aria fece rotolare i quattro uomini — era giunto sulla scena anche il soldato con il fucile — fino al margine della pista ghiacciata.
Jack, piatto sul ventre, seguì con lo sguardo la luce rossa lampeggiante in cima all'alto timone dell'aereo finché non la vide svanire in lontananza, poi si alzò in piedi. L'ultima visione che ebbe fu il bagliore dei raggi infrarossi di disturbo che proteggevano il VC-137 dai missili terra-aria. Cominciò a ridere, quando qualcuno lo fece voltare e gli puntò una pistola sul viso..
«Salve, Sergey» disse Ryan al colonnello Golovko.
«Pronti» disse la voce della radio all'Arciere. Alzò la pistola lanciarazzi e sparò un'unica cartuccia a stella che scoppiò direttamente su uno dei laboratori.
Tutto accadde contemporaneamente. Alla sua sinistra, tre missili Stinger furono lanciati dopo una lunga e tediosa attesa. Ognuno saettò verso una torre di guardia — o, più precisamente, verso l'impianto elettrico di riscaldamento che essa conteneva. Le due sentinelle di ciascuna torre ebbero appena il tempo di vedere il razzo di segnalazione sopra la zona centrale della base, e una sola delle sei vide una scia gialla troppo veloce per consentire qualsiasi reazione. I tre missili andarono a segno — difficilmente avrebbero potuto mancare un bersaglio statico — e in tutti e tre i casi la testata da tre chili funzionò a dovere. Meno di 441
cinque secondi dopo il lancio del primo razzo, le torri erano eliminate, e con loro il tiro delle mitragliatrici che avrebbero dovuto proteggere l'impianto laser.
Subito dopo morì la sentinella davanti all'Arciere. Non ebbe la minima possibilità. Quaranta fucili automatici le spararono addosso, e metà delle raffiche colpì il bersaglio. Poi furono i mortai a lanciare dei colpi esplorativi, e l'Arciere usò la radio per dirigere il tiro contro quella che credeva fosse la caserma delle guardie.
Il crepitìo delle armi automatiche non può essere scambiato con nessun altro rumore. Il colonnello Bondarenko aveva appena stabilito che aveva passato abbastanza tempo in comunione con la bella, ma fredda natura e stava ritornando al proprio alloggio, quando il fragore lo fermò dove si trovava. Il primo pensiero fu che una guardia del KGB avesse accidentalmente lasciato partire una raffica, ma quell'impressione non durò più di un secondo. Udì un colpo in alto, e vide la stella che si allargava, poi sentì le esplosioni dalla zona dei laser e, come se fosse stato girato un interruttore, smise di essere un uomo stupito e diventò un soldato di professione sotto un attacco nemico. La caserma del KGB era a soli duecento metri a destra, e lui corse in quella direzione più in fretta che poté.
Vide cadere dei proiettili di mortaio, proprio sulla nuova officina meccanica appena oltre la caserma. Gli uomini uscivano incespicando sulla soglia quando lui arrivò. Dovette alzare le braccia per non farsi sparare addosso.
«Sono il colonnello Bondarenko! Dov'è il vostro ufficiale?»
«Qui.» Si fece avanti un tenente. «Cosa...» Qualcuno aveva appena capito l'errore. Il successivo colpo di mortaio cadde dietro la caserma.
«Seguitemi!» urlò Bondarenko. Li portò via dal bersaglio più ovvio. Tutto intorno crepitavano le raffiche dei fucili — fucili mitragliatoti sovietici, notò subito il colonnello, rendendosi conto che non avrebbe potuto distinguere amici da nemici in base al rumore delle armi. Magnifico. «Disponetevi in formazione!»
«Cosa...»
«Siamo attaccati, tenente! Quanti uomini ha?»
Il subalterno si voltò a contare, ma Bondarenko fu più svelto di lui. C'erano quarantuno uomini, tutti armati, ma senza armi pesanti e senza radio. Si poteva fare a meno delle mitragliatrici, ma gli apparecchi radio erano indispensabili. I cani, si disse stolidamente. Avrebbero dovuto tenere i cani.
La situazione tattica era pessima, e lui sapeva che poteva solo peggiorare.
Una serie di esplosioni squarciò la notte.
«I laser, dobbiamo...» disse il tenente, ma il colonnello lo afferrò per la spalla.
«Possiamo ricostruire le macchine,» disse concitato Bondarenko «ma non gli 442
scienziati. Andiamo agli appartamenti. Li difenderemo finché qualcuno verrà a darci il cambio. Un buon sergente vada al quartiere degli scapoli e li mandi da noi.»
«No, compagno colonnello, i miei ordini sono di proteggere i laser, e io devo...»
«Le ordino di portare i suoi uomini...»
«No!» gli gridò in faccia il tenente.
Bondarenko lo buttò a terra, gli prese il fucile, tolse la sicura e gli sparò due colpi nel petto. Si voltò. «Chi è il sergente più anziano?»
«Io, colonnello» rispose tremante un giovane.
«Io sono il colonnello Bondarenko e prendo il comando!» annunciò a gran voce come se fosse un decreto di Dio. «Prendi quattro uomini, va' alla caserma degli scapoli e portali tutti su al blocco appartamenti. Più presto che puoi!» Il sergente fece un cenno a quattro soldati e partì di corsa. «Tutti gli altri, dietro di me!» Li condusse attraverso la nevicata. Non c'era tempo né per lui né per loro di chiedersi che cosa li aspettava. Prima che fossero avanzati di dieci metri, tutte le luci del campo si spensero.
Al cancello degli impianti laser era ferma una jeep russa GAZ con a bordo una mitragliatrice pesante. Il generale Pokryshkin, quando sentì le esplosioni, uscì dalla sede del comando, e rimase di sasso nel vedere tre torri di guardia ridotte a tizzoni incandescenti. Il capo del distaccamento del KGB corse verso di lui con il veicolo.
«Ci stanno attaccando» spiegò, annunciando una cosa ovvia.
«Riunisca subito i suoi uomini qui.» Il generale alzò gli occhi e vide dei soldati che correvano. Indossavano uniformi sovietiche, ma in qualche modo capì che non erano russi. Pokryshkin salì sulla jeep e brandeggiò la mitragliatrice sopra la testa dell'attonito ufficiale. La prima volta che premette il grilletto non accadde nulla, e dovette affrettarsi a inserire un colpo in canna. La seconda volta ebbe la soddisfazione di veder cadere tre uomini. Il comandante del distaccamento di guardia non ebbe bisogno di ulteriori incoraggiamenti.
Latrò qualche ordine per radio. La battaglia stava degenerando in un'indicibile confusione, fatto inevitabile dato che i combattenti delle due fazioni indossavano le medesime uniformi e usavano le stesse armi — però gli afghani erano più numerosi dei russi.
Morozov e parecchi dei suoi colleghi scapoli erano usciti appena avevano sentito gli scoppi. Alcuni di loro avevano esperienza militare, ma lui no. Non faceva differenza, perché nessuno di loro aveva la più pallida idea di che cosa doveva fare. Dall'oscurità uscirono correndo cinque uomini in divisa armati di fucile.
«Venite tutti con noi! Seguiteci!» Altri spari esplosero a breve distanza, e due 443
uomini del KGB caddero, uno morto e l'altro ferito. Il soldato rispose al fuoco scaricando il fucile in un'unica lunga raffica. Dalle tenebre si alzarono delle grida. Morozov corse dentro ed esortò gli altri a uscire. I tecnici non ebbero bisogno di molta insistenza.
«Andate su» disse il sergente. «Al blocco appartamenti. Correte!» Gli uomini del KGB restarono sul posto cercando i bersagli, ma videro solo dei lampi.
Adesso le pallottole sibilavano dappertutto. Un altro militare cadde con un ultimo grido, e il sergente abbatté il nemico che lo aveva ucciso. Quando l'ultimo dei tecnici fu uscito, i due militari incolumi raccolsero i fucili dei caduti e aiutarono il compagno ferito a salire il pendìo.
Era una missione troppo grande per ottanta uomini, pensò l'Arciere, ma ormai era tardi. Troppo terreno da coprire, troppe case, ma c'erano molti miscredenti lì attorno, ed era quello il motivo per cui aveva condotto lassù i suoi uomini. Vide uno di loro far saltare un autobus con un proiettile anticarro RPG-7. Il veicolo s'incendiò e rotolò fuori dalla strada, precipitando giù per la montagna fra le urla dei passeggeri terrorizzati. Gruppi di guerriglieri muniti di esplosivi entrarono negli edifici. Trovarono delle macchine-utensili in bagno d'olio, piazzarono velocemente le cariche, e corsero fuori prima che cominciassero le esplosioni.
L'Arciere aveva capito un minuto troppo tardi qual era la caserma delle guardie, che adesso bruciava. Condusse là il suo gruppo per eliminare i superstiti intrappolati. Troppo tardi anche per questo, ma lui non lo sapeva ancora. Un proiettile vagante di mortaio aveva tagliato il cavo che portava la corrente per l'illuminazione, e gli uomini si trovarono al buio, con la visione notturna disturbata dai lampi delle proprie armi.
«Ben fatto, sergente!» disse Bondarenko al giovane sottufficiale. Aveva già ordinato al personale civile di ritirarsi ai piani superiori. «Disporremo gli uomini intorno alla casa. È possibile che ci respingano. Se succede, resisteremo dal primo piano. I muri sono di cemento. I proiettili anticarro potranno colpirci, ma il tetto e le pareti fermeranno le pallottole. Manda dentro un uomo a cercare quelli che hanno fatto il servizio militare. Da' loro questi due fucili. Ogni volta che un soldato cade, recupera l'arma e dalla a un civile capace di usarla. Io vado dentro un momento a vedere se posso far funzionare un telefono...»
«C'è un radiotelefono nell'ufficio del primo piano» disse il sergente. «Tutti gli edifici ce l'hanno.»
«Molto bene! Difendi il perimetro, sergente, io torno fra due minuti.»
Bondarenko corse all'interno. Il radiotelefono era appeso al muro. Vide con piacere che era del tipo militare, alimentato a batteria. Se lo mise in spalla e tornò fuori di corsa.
Gli attaccanti — ma chi erano? si chiese — avevano fatto un piano scadente.
444
In primo luogo non avevano saputo identificare la caserma del KGB prima di lanciarsi all'assalto; in secondo luogo, non avevano colpito la zona residenziale in fretta come avrebbero dovuto fare. Adesso avanzavano, ma trovarono una fila di guardie distese nella neve. Erano solo guardie del KGB, Bondarenko lo sapeva, ma avevano la preparazione di base e, soprattutto, sapevano di non poter fuggire in nessun posto. Il giovane sergente era valido. Si spostava da un punto all'altro del perimetro, senza sparare, ma incoraggiando gli uomini e dando loro istruzioni. Il colonnello attivò la radio.
«Parla il colonnello Bondarenko dal progetto Stella Lucente. Siamo attaccati, ripeto, Stella Lucente è attaccata. Ogni unità su questa rete mi risponda, passo.»
«Gennady, parla Pokryshkin dagli impianti laser. Siamo nella sede del comando. Com'è la vostra situazione?»
«Sono agli appartamenti. Ho messo al riparo qui dentro tutti i civili che sono riuscito a trovare. Ho quaranta uomini, e faremo del nostro meglio per tenere la posizione. Potete darci aiuto?»
«Gennady, non possiamo mandarvi aiuti di qui. Ce la fa a resistere?»
«Me lo chieda fra venti minuti.»
«Protegga la mia gente, colonnello. Protegga la mia gente!» gridò Pokryshkin nel microfono.
«Fino alla morte, compagno generale. Chiudo.» Bondarenko si tenne la radio in spalla e soppesò il fucile. «Sergente!»
«Eccomi, colonnello» rispose il sergente. «Adesso fanno delle puntate di prova, ma non stanno veramente attaccando.»
«Cercano i punti deboli» Bondarenko si mise in ginocchio. L'aria risuonava di detonazioni isolate. Intorno ai due uomini le finestre andarono in frantumi. Le pallottole martellavano le sezioni di cemento prefabbricate che formavano il muro esterno, e facevano saltare schegge da ogni parte. «Prendi posizione all'angolo opposto al nostro. Sei responsabile delle pareti nord ed est. Io mi occupo delle altre due. Di' ai tuoi uomini di sparare solo quando hanno un bersaglio...»
«Già fatto, compagno.»
«Bene! » Bondarenko batté un pugno sulla spalla del giovane. «Non ritirarti finché non sei costretto, ma se lo fai avvisami. Le persone in questa casa sono elementi di grandissimo valore. Devono sopravvivere. Va'!» Seguì con lo sguardo il sergente che si allontanava correndo. Forse il KGB preparava qualcuno dei suoi uomini. Corse a sua volta all'altro angolo dell'edificio.
Adesso aveva ventidue — no, si corresse, diciannove uomini. Le tute mimetiche li rendevano difficilmente individuabili. Corse dall'uno all'altro, la schiena curva sotto il peso della radio, distanziandoli fra loro e raccomandando di risparmiare le munizioni. Aveva appena finito con il lato ovest quando 445
dall'oscurità si alzò un coro di voci concitate.
«Arrivano!» gridò un soldato.
« Non sparate! » tuonò il colonnello.
Le figure degli uomini in movimento apparvero come per magia. Un attimo prima la scena era deserta sotto la neve — ma d'un tratto fu invasa da una schiera di uomini che correvano sparando con i Kalashnikov tenuti all'altezza dell'anca.
Li lasciò avanzare fino a cinquanta metri.
« Fuoco! » In un istante ne vide cadere dieci. Gli altri indugiarono, si fermarono e poi batterono in ritirata lasciandosi dietro due caduti. Vi furono altri spari dai lati opposti dell'edificio. Bondarenko avrebbe voluto sapere se il sergente ce l'aveva fatta, ma la cosa era fuori dal suo controllo. Delle grida vicino a lui gli dissero che anche i suoi uomini avevano sofferto delle perdite.
Controllando la fila, ne vide uno che non avrebbe più gridato. Gli restavano quindici uomini.
Portarsi in quota era cosa di routine, pensò il colonnello von Eich. Dietro di lui il russo sullo strapuntino diede uno sguardo al quadro elettrico.
«Come va l'impianto nel circuito?» domandò il pilota con voce che denunciava una certa irritazione.
«Nessun problema per il motore e i sistemi idraulici. Si direbbe che è nel circuito di illuminazione» rispose il motorista, spegnendo silenziosamente le luci anticollisione sulle ali e sulla coda.
«Bene...» Gli strumenti in cabina di pilotaggio erano tutti illuminati, ed erano le uniche luci di cui disponevano all'interno. «Faremo la riparazione a Shannon.»
«Colonnello.» Il pilota sentì nella cuffia la voce del capoequipaggio.
«Va' avanti» disse il motorista, dopo essersi assicurato che il casco d'ascolto del russo non fosse regolato su quella lunghezza.
«Parla, sergente.»
«Abbiamo il nostro... i nostri due nuovi passeggeri, signore, ma il signor Ryan... è rimasto a terra.»
«Mi ripeti l'ultima frase?»
«Ci ha detto di andarcene, signore. Due uomini armati, signore, loro... ci ha detto di andar via, signore» disse ancora il capoequipaggio.
Von Eich sospirò. «Okay. Come vanno le cose là dietro?»
«Li ho messi nell'ultima fila, signore. Credo che nessuno se ne sia accorto, con i rumori e tutto il resto.»
«Fa' in modo che la situazione resti così.»
«Sì, signore. Freddie pensa a tenere davanti gli altri passeggeri. La toilette posteriore è guasta, signore.»
446
«Peccato. Di' loro di andare in quella anteriore, se hanno bisogno.»
«Bene, colonnello.»
«Settantacinque minuti» annunciò il navigatore.
Cristo, Ryan, pensò il pilota. Spero che ti trovi bene laggiù...
«Dovrei ucciderla qui e ora!» dichiarò Golovko.
Erano nella vettura del Presidente. Ryan si trovò di fronte a due ufficiali del KGB fuori dai gangheri. Il più inferocito sembrava quello seduto vicino all'autista. La guardia del corpo di Gerasimov, pensò Jack, quello che lo seguiva più da vicino. Sembrava un tipo atletico, e Ryan era lieto che uno schienale lo separasse da lui. Aveva un problema più immediato. Guardò Golovko e pensò che sarebbe stato bene calmarlo un poco.
«Sergey, provocherebbe solo un incidente internazionale di cui non immagina le proporzioni» gli disse con molta calma. I discorsi che udì dopo erano in russo.
Non capiva che cosa si dicevano, ma il contenuto emotivo era abbastanza chiaro. Non sapevano che cosa fare. Per Ryan andava benissimo.
Clark passeggiava in una strada a tre isolati dal porto, quando le vide. Erano le undici e quarantacinque: in perfetto orario, grazie a Dio. In quella parte della città c'erano dei ristoranti e, cosa incredibile, anche alcune discoteche. Le due donne stavano uscendo da una di queste. Due donne vestite nel modo che gli avevano preannunciato, con un accompagnatore di sesso maschile. La guardia del corpo. Una sola, in conformità agli ordini. Era una gradevole sorpresa constatare che, fino a quel momento, tutto andava secondo i piani. Clark contò all'incirca una dozzina di persone sul marciapiede, fra cui qualche gruppo rumoroso e alcune coppie silenziose, molte delle quali vacillanti per avere bevuto troppo. Era venerdì sera, e quella gente faceva ciò che tutti, in ogni parte del mondo, fanno il venerdì sera. Mantenne il contatto visivo con le tre persone che gli interessavano, e si avvicinò.
Il gorilla era un professionista. Camminava alla loro destra, tenendo libera la mano per la pistola. Stava davanti, ma ciò non gli impediva di muovere la testa per scrutare in tutte le direzioni. Clark si aggiustò la sciarpa intorno al collo, poi mise la mano in tasca a tastare la pistola. Accelerò il passo per raggiungere il gruppo. Non fu difficile. Le due donne davano l'impressione di non avere fretta, mentre si avvicinavano all'angolo. La più anziana si guardava intorno come una turista. Le case sembravano vecchie, ma non lo erano. La seconda guerra mondiale si era abbattuta su Tallinn in due ondate esplosive, lasciandosi dietro nient'altro che delle pietre annerite. Chi prendeva quel genere di decisioni aveva stabilito di ricostruire la città all'incirca com'era prima; difatti Tallin dava una sensazione molto diversa da quella delle altre città russe che Clark aveva visto.
447
Gli ricordava un po' la Germania, ma non avrebbe saputo spiegare perché. Fu il suo ultimo pensiero frivolo di quella notte. Era a una decina di metri dietro di loro, un uomo qualunque che tornava a casa in una fredda sera di febbraio, con la testa abbassata per evitare il vento, e un berretto di pelo tirato sulla fronte.
Adesso poteva udire le loro voci, e parlavano russo. Era ora.
« Russkiy» disse Clark con accento moscovita. «Volete dire che non tutti gli abitanti di questa città sono dei baltici arroganti?»
«Questa è una vecchia e bella città, compagno» rispose la donna più anziana.
«Dimostri un po' di rispetto.»
Ci siamo... si disse Clark. Avanzò a zigzag per offrire l'immagine dell'uomo che ha alzato il gomito.
«Le mie scuse, bella signora. Buona serata» disse andando oltre. Passò intorno alle donne e urtò nella guardia del corpo. «Chiedo scusa, compagno...»
L'uomo scoprì di avere una pistola puntata sul muso. «Gira a sinistra e va' nel viale. Mani in alto dove posso vederle, compagno.»
Lo sconcerto del povero disgraziato era comico da morire, pensò Clark, ma ricordò a se stesso che quello era un uomo esperto con una pistola in tasca. Lo afferrò per il bavero e lo tenne a distanza, impugnando saldamente la pistola.
«Mamma...» disse Katryn sottovoce ma allarmata.
«Zitta e fa' come ti dico. Fa' ciò che dice quest'uomo.»
«Ma...»
«Contro il muro» disse Clark all'agente. Gli tenne la pistola puntata al centro della testa mentre cambiava mano, poi colpì con forza il lato del collo con la destra. L'uomo cadde stordito, e Clark gli ammanettò i polsi. Lo imbavagliò, gli legò le caviglie e lo trascinò nell'angolo più buio che poté trovare.
«Signore, se volete venire con me, prego.»
«Che cosa succede?» domandò Katryn.
«Non lo so» ammise la madre. «Tuo padre mi ha detto di...»
«Signorina, suo padre ha sentito il desiderio di visitare l'America, e vuole avere con sé lei e la sua mamma» spiegò Clark in russo impeccabile.
Katryn non rispose. Il viale era poco illuminato, ma Clark vide il viso impallidire. La madre sembrava in migliore disposizione.
«Ma...» disse infine la ragazza. «Ma questo è tradimento... Non ci posso credere.»
«Me lo ha detto lui... mi ha detto di fare tutto ciò che ci avrebbe detto quest'uomo» disse Maria. «Katryn, dobbiamo farlo.»
«Ma...»
«Katryn» disse la madre. «Che cosa ne sarà della tua vita se tuo padre defeziona e tu resti? Che cosa succederà ai tuoi amici? Che cosa succederà a te?
Ti useranno per farlo ritornare, per tutti i loro scopi, Katusha...»
448
«È ora di andare, signore» Clark le prese entrambe per il braccio.
«Ma...» Katryn indicò la guardia del corpo.
«Non gli succederà niente. Non uccidiamo le persone. Non giova agli affari.»
Clark le riportò nella via e poi a sinistra verso il porto.
Il maggiore aveva diviso i suoi uomini in due gruppi. Quello più piccolo metteva cariche esplosive un po' dappertutto. Un palo della luce o un'apparecchiatura laser, per loro era lo stesso. Il gruppo più numeroso aveva abbattuto un buon numero di militari del KGB che avevano tentato di venire da quella parte, e adesso era schierato dietro il bunker di controllo. Non era veramente un bunker, ma chi aveva fatto i progetti delle costruzioni aveva evidentemente pensato che la sala di controllo aveva bisogno di essere protetta come il Cosmodromo Leninsk, o forse aveva previsto che la montagna sarebbe crollata a seguito di un attacco nucleare. Più probabilmente il progettista aveva concluso che il manuale prescriveva quel tipo di struttura per un complesso come Stella Lucente. Ne era risultata una costruzione con pareti di calcestruzzo spesse un metro. Gli uomini del maggiore avevano ucciso il comandante del KGB e preso il suo veicolo con la mitragliatrice pesante. Adesso sparavano raffiche su raffiche nelle feritoie del bunker. In effetti, nessuno le usava per guardare fuori. I proiettili avevano già sfondato i vetri spessi e stavano tritando i computer e gli strumenti di controllo.
All'interno, il generale Pokryshkin aveva preso il comando. Aveva una trentina di uomini del KGB con armi leggere e le poche munizioni che avevano nelle giberne quando erano stati attaccati. Un tenente dirigeva la difesa alla meno peggio, mentre il generale chiedeva soccorsi per radio.
«Ci vorrà un'ora» stava dicendo un comandante di reggimento. «I miei uomini partono in questo istante!»
«Fate più presto che potete!» raccomandò Pokryshkin. «Quassù la gente sta morendo.» Aveva pensato agli elicotteri, ma con un tempo così non avrebbero concluso nulla. Un assalto con gli elicotteri non sarebbe stato nemmeno una partita d'azzardo, sarebbe stato un suicidio. Posò la radio e prese la pistola automatica d'ordinanza. Gli giungeva il rumore della battaglia. Tutte le attrezzature della base stavano saltando in aria. Poteva sopportarlo. Per catastrofico che fosse, era meno importante delle persone. Nel bunker c'era quasi un terzo dei tecnici. Stavano finendo una lunga riunione quando era iniziato l'attacco. Se non fosse stato così, molti di loro sarebbero stati fuori a lavorare sulle apparecchiature. Almeno adesso avevano una probabilità in più.
Dall'altra parte dei muri di calcestruzzo, il maggiore stava ancora meditando il da farsi. Non si era aspettato di incontrare quel tipo di struttura. I proiettili anticarro riuscivano appena a scalfire il muro, e nell'oscurità era difficile 449
centrare le strette feritoie. I colpi della mitragliatrice potevano essere orientati con l'aiuto dei traccianti, ma nemmeno questo bastava.
Trova i punti deboli, si disse. Prenditi il tempo e pensaci bene. Ordinò agli uomini di mantenere un ritmo di fuoco costante e cominciò a muoversi intorno all'edificio. Quelli che stavano all'interno avevano distribuito bene le postazioni delle armi, ma gli edifici di quel genere avevano sempre un angolo cieco... Si trattava solo di trovarlo.
«Cosa succede?» gracidò la radio.
«Ne abbiamo ammazzati una cinquantina. Gli altri sono in un bunker, e stiamo cercando di prendere anche loro. E il tuo bersaglio?»
«La casa d'appartamenti» rispose l'Arciere. «Sono tutti lì, adesso, e...» Dalla radio venne il fragore degli spari. «Fra poco li prenderemo.»
«Fra mezz'ora dobbiamo andarcene, amico » disse il maggiore.
«Sì!» La radio tacque.
L'Arciere era bravo e valoroso, pensò il maggiore esaminando la faccia nord del bunker, ma con una settimana di addestramento formale sarebbe stato tanto più efficace... solo una settimana, per codificare le cose che aveva imparato da solo... e studiare le lezioni che erano costate il sangue di altri uomini...
Aveva trovato il posto. Quello era un angolo morto.
Gli ultimi colpi di mortaio furono indirizzati sul tetto della casa. Bondarenko sorrise. Finalmente gli avversari avevano fatto una cosa veramente sciocca. I proiettili da 82 millimetri non avevano alcuna possibilità di sfondare le lastre di cemento. Se invece avessero mirato sul perimetro della costruzione, lui avrebbe perso parecchi uomini. Ne restavano soltanto dieci, due dei quali feriti. I fucili dei caduti erano stati portati all'interno, e adesso dei civili li stavano usando per sparare dal secondo piano. Contò venti corpi lungo il perimetro, e gli attaccanti
— erano afghani, adesso ne era certo — si muovevano oltre la zona visibile cercando di decidere il da farsi. Per la prima volta Bondarenko pensò che lui e i suoi forse avrebbero potuto cavarsela. Il generale gli aveva comunicato per radio che un reggimento corazzato era in arrivo lungo la strada da Nurek. Gli venivano i brividi a pensare a come avrebbero fatto i veicoli da trasporto BTR a salire su strade di montagna coperte di neve. Tuttavia la perdita di qualche plotone di fanteria non era nulla in confronto alla somma di competenza scientifica che lui stava cercando di proteggere.
Il fuoco di fucileria degli attaccanti era diventato sporadico, solo un tiro di disturbo. Se avesse avuto più uomini avrebbe tentato un contrattacco, non fosse che per sbilanciarli ma, per come stavano le cose, era inchiodato al suo posto.
Non poteva correre quel rischio, con l'unica squadra rimasta a difendere la casa.
Devo ritirarmi? Quanto più a lungo riesco a tenerli lontani dalla casa, tanto 450
meglio per noi, ma non dovrei ripiegare in questo momento? Era incerto sulla decisione. Stando all'interno le sue truppe avrebbero fruito di maggior protezione, ma lui non sarebbe stato più in grado di controllarle, divise nei vari appartamenti. Se si radunavano per ritirarsi ai piani superiori, avrebbero permesso ai guastatori afghani di riempire la casa di cariche esplosive — no, quello era il consiglio della disperazione. Bondarenko tendeva l'orecchio agli spari isolati che punteggiavano le grida dei feriti, e non riusciva a prendere una decisione.
A duecento metri, l'Arciere stava per decidere in sua vece. Credendo, a torto, che le perdite subite significassero che quella parte della costruzione era quella più strenuamente difesa, stava conducendo i guerriglieri superstiti sull'altro lato.
Impiegarono cinque minuti a spostarsi, mentre gli uomini rimasti alla postazione precedente mantenevano un martellamento regolare sul perimetro dei russi.
Senza più proiettili di mortaio, esauriti anche gli RPG anticarro, disponevano solo dei fucili, di qualche bomba a mano e di cariche esplosive a sacchetto.
Tutto intorno a loro rosseggiavano i fuochi, con fiamme che sembravano alzarsi verso il cielo a sciogliere la neve. L'Arciere raccolse i cinquanta uomini che gli erano rimasti. Si sarebbero lanciati all'attacco come una massa unica, seguendo il capo che li aveva portati lassù. Mentre toglieva la sicura al suo AK-47, l'Arciere ricordò i primi tre uomini che aveva ucciso con quell'arma.
Bondarenko volse la testa di scatto quando udì le grida provenire dall'altro lato della casa. Constatò che, di fronte a lui, non era in corso nessuna attività.
Era ora di fare qualche cosa, e sperava che fosse quella giusta.
«Torniamo tutti alla casa, presto!» Due dei dieci superstiti erano feriti e dovettero essere aiutati. Impiegarono più di un minuto, mentre la notte veniva di nuovo lacerata dal crepitìo delle raffiche. Bondarenko prese cinque uomini, corse lungo il corridoio principale del primo piano e uscì sull'altro lato.
Non poteva capire se era stato aperto un varco o se gli uomini stavano ripiegando anche da quella parte, perché tanto i suoi quanto gli afghani portavano le stesse uniformi. Poi, uno di quelli che correvano verso la casa sparò; il colonnello posò un ginocchio a terra e abbatté il guerrigliero con una raffica di cinque colpi. Comparvero altri attaccanti, e lui continuò a sparare.
« Nashi, nashi! » Contò otto uomini. L'ultimo era il sergente, ferito a tutte e due le gambe.
«Troppi, non abbiamo potuto...»
«Va' dentro» gli ordinò Bondarenko. «Puoi ancora sparare?»
«Sì, maledizione!» Si guardarono attorno. Non era possibile combattere dalle singole stanze. Dovevano asserragliarsi nei corridoi e sulle scale.
«Stanno arrivando i rinforzi. Un reggimento è in viaggio da Nurek.
451
Cerchiamo di resistere!» disse Bondarenko agli uomini. Era la prima buona notizia da mezz'ora a quella parte. Due civili scesero dal piano superiore, armati entrambi di fucile.
«Serve aiuto?» chiese Morozov. Era stato esonerato dal servizio militare, ma aveva imparato or ora che non è tanto difficile usare un fucile.
«Com'è la situazione disopra?» domandò Bondarenko.
«Il mio caposervizio è morto. Ho preso la sua arma. Molte persone sono malconce, e le altre sono terrorizzate. Come me.»
«Stia con il sergente» gli disse il colonnello. «Conservi la calma, compagno ingegnere, e forse ce la caveremo. I rinforzi sono in arrivo.»
«Spero che si sbrighino.» Morozov aiutò il sergente, che era ancora più giovane di lui, a raggiungere il fondo del corridoio.
Bondarenko piazzò metà degli uomini sull'alto della scala e l'altra metà presso gli ascensori. C'era di nuovo silenzio. Dall'esterno giungevano delle voci, ma la sparatoria era cessata, per il momento.
«Giù per la scaletta. Attenta» disse Clark. «In fondo c'è una trave. Può fermarsi lì.»
Maria guardò con disgusto il legno viscido, e si mosse come in un sogno. La figlia la seguì. Clark scese per ultimo, girò intorno alle due donne e saltò nel gommone. Sciolse le cime e portò l'imbarcazione sotto la trave dove si erano fermate le due donne. C'era un salto di novanta centimetri.
«Una per volta. Prima lei, Katryn. Scenda adagio e io la prenderò.» La ragazza eseguì, con le ginocchia vacillanti per la paura e l'insicurezza. Clark le prese una caviglia e la tirò a sé. La ragazza cadde nel gommone con l'eleganza di un sacco di patate. Poi venne Maria. Le diede le stesse istruzioni che anche lei eseguì, ma Katryn cercò di aiutarla e, così facendo, mosse l'imbarcazione.
Maria mollò la presa e cadde in acqua con un grido.
«Cosa c'è?» chiese una voce dall'altra estremità del pontile.
Clark la ignorò, afferrò le mani annaspanti della donna e la issò a bordo.
Boccheggiava e tremava dal freddo, ma Clark non poteva farci niente. Mentre avviava il motore e si dirigeva verso il mare aperto, udì il tonfo di piedi che correvano sul pontile. « Stoi! » intimò la voce. Un poliziotto. Doveva proprio essere un fottuto poliziotto. Si voltò e vide la luce di una torcia elettrica. Non arrivava fino al gommone, ma illuminava la scia. Clark prese la radio. «Zio Joe, qui Willy. Sono in viaggio. È spuntato il sole!»
«Devono averli individuati» disse a Mancuso l'ufficiale capo delle comunicazioni.
«Che bellezza.» Il comandante andò a prua. «Goodman, venga a rotta zero-otto-cinque. Diriga a dieci nodi verso la costa.»
452
«Plancia, qui sonar. Contatto a rilevamento due-nove-sei. Motore diesel»
annunciò la voce di Jones. «Doppia elica.»
«Forse è fregata guardacoste del KGB — forse classe Grisha» disse Ramius.
«Perlustrazione ordinaria.»
Mancuso non disse nulla, ma fece un gesto verso la squadra di controllo del tiro. Avrebbero elaborato una soluzione per il bersaglio al largo, mentre il Dallas procedeva verso terra a quota periscopica, tenendo alzata l'antenna radio.
«Nove-sette-uno, qui il centro Velikiye Luki. Virate a destra su nuova rotta uno-zero-quattro » disse la voce russa al colonnello von Eich. Il pilota premette il grilletto del microfono sulla cicche.
«Ripetete, Luki. Passo.»
«Nove-sette-uno, avete l'ordine di virare a destra su nuova rotta uno-zero-quattro e ritornare a Mosca. Passo.»
«Oh, grazie, Luki. Negativo. Proseguiamo su rotta due-otto-sei come da piano di volo. Passo.»
«Nove-sette-uno, avete l'ordine di ritornare a Mosca!» insisté il controllore.
«Roger. Grazie. Chiudo.» Von Eich guardò in basso per assicurarsi che il pilota automatico segnasse la rotta giusta, poi riprese a scrutare il cielo alla ricerca di altri aerei.
«Ma lei non sta tornando indietro» disse il russo sull'interfono.
«No.» Von Eich si voltò a guardarlo. «Che io sappia, non abbiamo dimenticato niente a Mosca.» Non proprio...
«Però le hanno ordinato...»
«Figliolo, io ho il comando di questo aereo, e i miei ordini sono di andare a Shannon» spiegò il pilota.
«Ma...» Il sovietico sganciò la cintura di sicurezza e cominciò ad alzarsi.
«Seduto!» ordinò il pilota. «Nessuno lascia la cabina di pilotaggio senza il mio permesso, egregio! Lei è ospite sul mio apparecchio, e avrà la fottuta compiacenza di fare come le dico!» Che diavolo, non era previsto che fosse così difficile! Fece segno al motorista, che azionò un altro interruttore, spegnendo tutte le luci interne dell'aereo. Adesso il VC-137 era completamente oscurato.
Von Eich inserì di nuovo la radio. «Luki, parla il nove-sette-uno. Abbiamo problemi con l'impianto elettrico. Non intendo fare cambiamenti radicali di rotta finché non avremo chiarito di che cosa si tratta. Avete sentito? Passo.»
«Che problema avete?» chiese il controllore di volo. Il pilota si domandò che cosa potevano avere detto al russo, e intanto snocciolò un'altra sfilza di bugie.
«Luki, non lo sappiamo ancora. Stiamo perdendo energia elettrica. Tutte le nostre luci hanno smesso di funzionare. In questo momento l'aereo è oscurato, ripeto, stiamo viaggiando senza luci. Sono un po' inquieto, e ho bisogno di non 453
essere distratto in questo momento. Chiudo.» Il colonnello von Eich guardò l'ora sul quadro di controllo. Ancora trenta minuti alla costa.
«Cosa?» esclamò il maggiore Zarudin. «Chi è salito sull'aereo?»
«Il Presidente Gerasimov e un agente nemico prigioniero» spiegò Vatutin.
«Su un aereo americano? Lei mi sta dicendo che il Presidente sta disertando su un aereo americano?» L'ufficiale capo del distaccamento di guardia all'aeroporto aveva preso il comando delle operazioni, come la sua funzione lo autorizzava a fare. Scoprì che, in quell'ufficio, aveva davanti a sé due colonnelli, un tenente colonnello, un autista e un americano, che cercavano di propinargli la storia più pazza che avesse mai sentito. «Devo chiedere istruzioni.»
«Io sono suo superiore!» gridò Golovko.
«Ma non lo è del mio comandante!» ribatté Zarudin allungando la mano verso il telefono. Era riuscito a far richiamare l'aereo americano dai controllori di volo, ma il pilota aveva deciso di non ritornare, cosa che non sorprendeva affatto gli altri ospiti dell'ufficio.
Ryan sedeva perfettamente immobile, respirando in silenzio, senza nemmeno muovere la testa. Si era detto che non sarebbe stato del tutto salvo finché quegli altri avessero continuato a essere così eccitati. Golovko era troppo furbo per commettere gesti inconsulti. Sapeva chi era Jack e che cosa sarebbe successo se avesse fatto anche solo un graffio a un membro accreditato di una missione diplomatica. Il graffio Ryan l'aveva avuto. La caviglia gli faceva un male d'inferno e il ginocchio sanguinava, ma era tutta opera sua. Golovko, a pochi passi da lui, lo guardava con occhi di fuoco. Ryan non ricambiò lo sguardo.
Ingoiò la paura e cercò di apparire innocuo come, in effetti, era in quel momento.
«Dove sono la moglie e la figlia di Gerasimov?» chiese Vatutin.
«Partite ieri in volo per Tallinn» rispose Vasiliy a disagio. «Andavano a trovare degli amici...»
Il tempo fuggiva per tutti. Gli uomini di Bondarenko erano ridotti a mezzo caricatore ciascuno. Altri due erano stati uccisi dalle granate a mano lanciate nella casa. Sotto gli occhi del colonnello, un uomo si era gettato su una delle bombe, facendosi fare a pezzi per salvare i compagni. Il sangue del ragazzo tingeva il pavimento come vernice. I corpi di sei afghani erano ammucchiati davanti alla porta. A Stalingrado era stato così, pensò il colonnello. Nessuno superava il soldato russo nel combattimento di casa in casa. Quanto poteva distare ancora il reggimento motorizzato? Un'ora era un tempo così breve...
Bastava per mezzo film, per uno spettacolo televisivo, per una dolce passeggiata vespertina... molto breve davvero, tranne quando c'era gente che ti sparava 454
addosso. In quel caso, ogni secondo ti passava lento davanti agli occhi e le lancette dell'orologio erano congelate; l'unica cosa che correva veloce era il tuo cuore. Per Bondarenko era solo la seconda esperienza di combattimento ravvicinato. Dopo la prima gli avevano concesso una decorazione. Chissà se la seconda sarebbe finita con il suo funerale? Non poteva permetterlo. Ai piani superiori c'erano alcune centinaia di persone: tecnici e scienziati con le mogli e i figli. Le loro vite dipendevano dalla sua capacità di bloccare gli attaccanti afghani per meno di un'ora.
Andate via, li pregava in cuor suo. Credete che siamo venuti di nostra iniziativa a farci impallinare in questa miserabile pietraia che voi chiamate Paese? Se volete uccidere i veri responsabili, perché non andate a Mosca? Ma non era così che succedeva in guerra, vero? I politicanti non si avvicinavano mai troppo alle cose che avevano architettato. Non sapevano mai bene che cosa facevano, e adesso i maledetti avevano i missili a testata nucleare. Avevano il potere di uccidere milioni di persone, ma non il coraggio di vedere gli orrori di una semplice, trascurabile battaglia all'antica.
Ma di che sciocchezze ti metti a farneticare in un momento come questo?
disse aspramente a se stesso.
Aveva fallito. I suoi uomini gli avevano affidato il comando, si disse l'Arciere, e lui era venuto meno alla loro fiducia. Guardò i corpi che giacevano sulla neve tutto intorno, e ognuno sembrava accusarlo. Lui era capace di uccidere le persone singole, di far cadere aerei ed elicotteri dal cielo, ma non aveva mai imparato a guidare un grosso reparto. Era il castigo di Allah perché aveva torturato gli aviatori russi? No! C'erano ancora nemici da uccidere. Con un gesto ordinò ai suoi uomini di entrare nell'edificio attraverso le finestre sfasciate del pianterreno.
Il maggiore afghano era in testa, come i mujaheddin si aspettavano che fosse.
Ne aveva portati dieci sul fianco del bunker, poi li aveva guidati lungo il muro verso la porta principale, mentre il resto della compagnia li proteggeva con fuoco di copertura. Stava andando bene, pensò. Aveva perso cinque uomini, ma non erano tanti per una missione come quella. Grazie, amici russi, per tutto ciò che mi avete insegnato...
La porta centrale era d'acciaio. Piazzò personalmente le cariche a sacchetto ai due spigoli bassi e attivò i detonatori, poi tornò strisciando alla postazione dietro l'angolo.
Pokryshkin sussultò quando udì lo schianto. Si voltò e vide la pesante porta metallica volare attraverso la sala e abbattersi su una consolle. Il tenente del KGB fu ucciso sull'istante dallo scoppio. Altre tre cariche esplosive caddero 455
all'interno mentre gli uomini di Pokryshkin correvano a difendere la breccia nel muro. Non c'era nessun posto in cui rifugiarsi. Le guardie continuarono a sparare, uccidendo sulla soglia uno degli attaccanti, ma in quel momento le cariche esplosero.
Era un suono stranamente sordo, pensò il maggiore. La forza dell'esplosione fu contenuta dai massicci muri di calcestruzzo. Si slanciò immediatamente, seguito dai suoi uomini. I circuiti elettrici emanavano scintille, e presto si sarebbe scatenato l'incendio. Tutti gli uomini nella sala di controllo erano a terra. Il maggiore vide un ufficiale russo con le stelle da generale. Sanguinava dal naso e dalle orecchie, ma tentò ugualmente di estrarre la pistola. Il maggiore lo falciò con una raffica. Un minuto dopo erano tutti morti. L'edificio si stava rapidamente riempiendo di un fumo acre e denso. Ordinò agli uomini di uscire.
«Qui abbiamo finito» comunicò via radio. Non vi fu risposta. «Siete in ascolto?»
L'Arciere era contro una parete, a lato di una porta socchiusa. La sua radio era spenta. Oltre la porta c'era un soldato che guardava verso il fondo del corridoio.
Il Combattente per la Libertà spalancò il battente con la canna del fucile e colpì il russo prima che avesse avuto il tempo di voltarsi. Gridò un ordine, e cinque uomini uscirono dalle stanze, ma due di loro furono abbattuti prima di poter usare le armi. Guardò su e giù per il corridoio, ma non vide niente se non i lampi degli spari e alcune forme umane seminascoste.
Cinquanta metri più in là, il colonnello Bondarenko reagì alla nuova minaccia. Ordinò ai suoi di stare al riparo e poi, con micidiale precisione, individuò e attaccò i bersagli in movimento. Il corridoio, illuminato dall'impianto di emergenza, era come un poligono di tiro. Il colonnello sparò due raffiche uccidendo due uomini. Un altro corse verso di lui urlando parole inintelligibili e scaricando la propria arma in un'unica lunghissima raffica.
Bondarenko lo mancò e ne fu stupito, ma l'afghano fu abbattuto da qualcun altro. Vi furono altri spari, e il loro fragore riverberato dai muri di cemento assordò tutti quanti. Infine il colonnello vide che restava in piedi soltanto un nemico. Altri due soldati caddero, e la raffica dell'ultimo afghano fece volare le schegge dal muro a pochi centimetri dal suo volto. Bondarenko sentì bruciare gli occhi, e tirò indietro la testa per il dolore improvviso. Arretrò dalla linea di tiro, passò l'arma al modo automatico, inspirò profondamente e balzò nel corridoio.
L'avversario era a meno di dieci metri.
L'attimo divenne eternità mentre i due uomini puntavano le armi. Bondarenko vide gli occhi dell'afghano, sotto la debole luce delle lampade. Il viso era giovane, ma gli occhi... la collera, l'odio che contenevano quasi fermarono il cuore del colonnello. Ma Bondarenko era prima di tutto un soldato. Il primo 456
colpo dell'afghano andò a vuoto, ma non quello dell'ufficiale sovietico.
Mentre cadeva, l'Arciere sentì nel petto il colpo, ma non il dolore. Il cervello trasmise alle mani l'ordine di puntare il fucile a sinistra, ma esse ignorarono il comando e lasciarono cadere l'arma. Cadde lentamente, prima sulle ginocchia, poi sulla schiena, e si trovò a guardare il soffitto. Dopo tanto tempo, era finita.
Poi vide l'ufficiale in piedi davanti a lui. Non aveva una faccia crudele, pensò l'Arciere. Era il nemico, era un miscredente, ma era anche un uomo. C'era curiosità nel suo sguardo. Vuole sapere chi sono. L'Arciere glielo disse con l'ultimo respiro.
« Allahu Akhbar! » Dio è grande.
Sì, credo che lo sia, mormorò Bondarenko al caduto. Conosceva bene quella frase. È per questo che sei venuto? Vide a terra una radio, che cominciò a gracidare. Il colonnello si chinò a raccoglierla.
«Siete in ascolto?» chiese la voce della radio. La domanda era in lingua pashto, ma la risposta fu in russo.
«Qui è tutto finito» disse Bondarenko.
Il maggiore guardò per un momento la radio, poi tirò fuori il fischietto e chiamò a raccolta i superstiti. La compagnia dell'Arciere conosceva la strada per il luogo del raduno, ma l'unica cosa che contava in quel momento era tornare in Patria. Contò gli uomini: ne aveva perduti undici, e altri sei erano feriti. Con un po' di fortuna avrebbero potuto raggiungere il confine prima che smettesse di nevicare. Cinque minuti dopo lui e i suoi uomini si avviavano giù per la montagna.
«Controllate la zona!» disse Bondarenko ai sei uomini che gli restavano.
«Raccogliete le armi e distribuitele.» Probabilmente era finita, pensò, ma sarebbe finita veramente solo dopo l'arrivo della compagnia motorizzata.
«Morozov!» chiamò. Il tecnico comparve prontamente.
«Sì, colonnello?»
«C'è un medico disopra?»
«Ce ne sono diversi. Vado a chiamarne uno.»
Il colonnello si accorse di essere sudato. L'edificio conservava ancora un po'
di calore. Posò la radio da campo che aveva in spalla e notò con meraviglia che era stata colpita da due proiettili. Fu ancora più sorpreso nel vedere del sangue su una delle cinghie. Era ferito e non se n'era accorto. Il sergente si avvicinò a guardare.
«Solo un graffio, compagno colonnello, come quelli sulle mie gambe.»
«Aiutami a togliere questo, per favore.» Scuotendo le spalle, Bondarenko uscì dal pesante cappotto, scoprendo la giacca dell'uniforme con le decorazioni. Si staccò il nastrino della Bandiera Rossa e lo appuntò al colletto del giovane.
«Meriti di più, sergente, ma questo è tutto ciò che posso darti, per ora.»
457
«Alza periscopio!» Mancuso adoperava il periscopio di ricerca con i dispositivi di amplificazione della luce. «Ancora niente...» Girò lo strumento per guardare a ovest. «Uhm! Ho una luce di testa d'albero a due-sette-zero...»
«E il nostro contatto sonar» osservò il tenente Goodman.
«Sonar, qui plancia, avete un'identificazione del contatto?» chiese Mancuso.
«Negativo» rispose Jones. «Riceviamo riverberi dal ghiaccio, signore. Le condizioni acustiche sono abbastanza cattive. Sappiamo che si tratta di una nave a motore diesel e doppia elica, ma niente di più.»
Mancuso accese lo schermo televisivo del periscopio. A Ramius bastò un'occhiata all'immagine sul teleschermo. «Grisha.»
Mancuso guardò i tracciatori della centrale controllo tiro. «Soluzione?»
«Sì, ma non delle migliori» rispose l'ufficiale. «Il ghiaccio non ci aiuterà di certo.» Voleva dire che il siluro M-48 regolato per l'attacco in superficie poteva farsi ingannare dai blocchi di ghiaccio. Riflette un momento. «Signore, se è della classe Grisha, come mai niente radar?»
«Nuovo contatto! Plancia, qui sonar, nuovo contatto a rilevamento zero-otto-sei — dal suono sembra il nostro amico, signore» annunciò Jones. «Qualcos'altro vicino a questo rilevamento, eliche ad alta velocità... decisamente qualcosa di nuovo, signore, diciamo a zero-otto-tre.»
«Salire di due piedi» disse Mancuso al secondo capotimoniere. «Lo vedo, giusto sull'orizzonte... diciamo a tre miglia. C'è una luce dietro di loro!» Chiuse le maniglie del periscopio, che scese immediatamente. «Andiamoci subito e in fretta! Avanti due terzi!»
«Avanti due terzi, aye» Il timoniere trasmise l'ordine con il telegrafo di macchina.
L'ufficiale di rotta tracciò la posizione dell'unità diretta verso di loro e cominciò a scalare i metri.
Clark stava guardando indietro, verso riva. C'era una luce che ruotava da sinistra a destra sull'acqua. Di chi era? Non sapeva se la polizia locale aveva delle imbarcazioni, ma doveva esserci un distaccamento delle Guardie di Frontiera del KGB. Queste avevano una loro piccola Marina, e forse anche una piccola Aviazione. Chissà se erano ben all'erta il venerdì sera? Forse un po' di più di quando quel ragazzo tedesco aveva deciso di andare a Mosca con il suo aereo... sorvolando proprio questo settore. Qui devono essere all'erta... dove sei, Dallas? Chiamò di nuovo il sottomarino via radio.
«Zio Joe, parla Willy. Il sole sorge, e noi siamo lontani da casa.»
«Dice che è vicino, signore» riferì il radiotelegrafista.
«Ufficiale di rotta?» chiamò Mancuso.
L'ufficiale alzò lo sguardo. «Lo valuto a velocità quindici nodi. Adesso 458
dovremmo essere a cinquecento metri.»
«Avanti un terzo» ordinò il comandante. «Alza periscopio!» Il tubo d'acciaio lubrificato salì sibilando fino all'altezza massima.
«Comandante, ho un trasmettitore radar a poppavia, rilevamento due-sei-otto.
E un Don-2» disse il tecnico dell'ESM.
«Plancia, qui sonar, entrambi i contatti ostili hanno aumentato la velocità. Il conteggio pale corrisponde a venti nodi. Raggiunge il Grisha, signore» disse Jones. «Confermo l'identificazione del contatto come fregata di classe Grisha. Il contatto a est è tuttora sconosciuto, elica singola, forse motore a benzina, conteggio pale per circa venti nodi.»
«Distanza circa seicento metri» comunicò la centrale comando tiro.
«Questa è la parte divertente» osservò Mancuso. «Li vedo. Rilevamento...
mark! »
«Zero-nove-uno.»
«Distanza.» Mancuso tirò il grilletto del telemetro a laser montato sul periscopio. « Mark! »
«Seicento metri.»
«Buona valutazione, ufficiale di rotta. Soluzione sul Grisha?» chiese alla centrale tiro.
«Predisposta ai tubi due e quattro. Portelli esterni ancora chiusi, signore.»
«La tenga così.» Mancuso andò al portello inferiore della plancia. «Secondo, a lei il comando della navigazione. Vado personalmente a fare il recupero.
Sbrighiamolo in fretta.»
«Fermare tutta» disse il comandante in seconda. Mancuso aprì il portello e salì la scaletta. Il portello fu richiuso dietro di lui. Udì lo sciabordìo dell'acqua contro la torretta. L'interfono gli comunicò che poteva aprire il portello del ponte di comando. Mancuso girò il volantino e spinse il pesante coperchio d'acciaio. Ricevette in faccia uno spruzzo di acqua di mare fredda e oleosa, ma lo ignorò e salì in coperta.
Guardò prima a poppa. C'era il Grisha, con la luce dell'albero bassa sull'orizzonte. Poi guardò a prora ed estrasse la torcia elettrica dalla tasca. La puntò direttamente sul battellino e trasmise una linea e due punti, la lettera"D".
«Una luce, una luce!» disse Maria. Clark si voltò a guardare, la vide e virò in quella direzione. Poi vide qualcos'altro.
La motovedetta dietro Clark era a due buone miglia, con il faro di ricerca puntato nella direzione sbagliata. Mancuso si voltò a ovest per vedere l'altro contatto. Sapeva confusamente che i Grisha portavano riflettori, ma aveva rifiutato di pensarci. Quando mai un sottomarino dovrebbe preoccuparsi dei riflettori? Quando è in superficie, si rispose. La fregata era ancora troppo 459
distante per vederli, con o senza riflettori, ma per poco. La guardò mentre solcava la superficie a poppavia del sommergibile, e si rese conto in ritardo che in quel momento il Dallas doveva avere il radar inserito.
«Vieni qui, Clark, muovi le chiappe!» gridò nelle tenebre oscillando la torcia a destra e a sinistra. Il mezzo minuto che seguì sembrò prolungarsi fino al mese successivo. Alla fine Clark fu sottobordo.
«Aiuti le signore» disse. Tenne con il motore il gommone contro la torretta del sottomarino. Il Dallas si stava ancora muovendo, doveva farlo per conservare quella precaria profondità, né in superficie né immerso. La prima passeggera si muoveva come una ragazza giovane, pensò il comandante nel tirarla a bordo. La seconda tremava dal freddo. Clark si prese un momento per posare una scatoletta sopra il motore. Mancuso si domandò come faceva a restare in equilibrio, poi capì che doveva essere magnetica, oppure incollata in qualche modo.
«Giù per la scaletta» disse Mancuso alle signore. Clark si arrampicò a bordo e disse la stessa cosa in russo. Poi si rivolse a Mancuso in inglese. «Esplode fra cinque minuti.»
Le donne erano già a metà scaletta. Clark le seguì, e poi anche Mancuso, dopo un ultimo sguardo al battellino. L'ultima cosa che vide fu la motovedetta che adesso correva verso di lui. Si lasciò cadere tirandosi dietro il portello.
Premette il pulsante dell'interfono. «Immersione e via!»
Il boccaporto inferiore si aprì. Mancuso sentì la voce del comandante in seconda. «Scendiamo a profondità novanta piedi, avanti due terzi, barra tutta a sinistra!»
Un sottufficiale incontrò le signore al fondo della scala. Lo stupore che gli si dipinse sul viso sarebbe stato comico in un altro momento. Clark le prese per un braccio e le portò nella propria cabina. Mancuso andò a poppa.
«Riprendo il comando» annunciò.
Il secondo confermò l'ordine e aggiunse: «Quelli dell'ESM dicono di avere del traffico radio VHF molto vicino, probabilmente il Grisha che parla alla motovedetta».
«Timoniere, venire a nuova rotta tre-cinque-zero. Portiamola sotto il ghiaccio.
Devono sapere che siamo qui, o che c'è qualcosa da questa parte. Ufficiale di rotta, che cosa dice la carta?»
«Presto dovremo virare. Acqua bassa fra ottomila metri. Consiglio nuova rotta due-nove-uno.» Mancuso ordinò subito la variazione.
«Profondità adesso piedi otto-cinque, ci mettiamo in assetto» disse l'ufficiale alle immersioni. «Velocità diciotto nodi.» Un rumore secco annunciò la distruzione del battello e del suo motore.
«Okay, gente, non dobbiamo far altro che andarcene» comunicò Mancuso alla 460
centrale operativa. Un suono acuto improvviso disse loro che non sarebbe stato tanto facile.
«Plancia, qui sonar. Stanno emettendo impulsi contro di noi. E il "raggio della morte" del Grisha» segnalò Jones usando la definizione in gergo. «Forse ci hanno individuati.»
«Siamo sotto il ghiaccio» comunicò l'ufficiale di rotta.
«Distanza dal bersaglio?»
«Poco meno di quattrocento metri» rispose l'ufficiale alle armi. «Soluzione predisposta ai tubi due e quattro.»
Il problema era che non potevano sparare. Il Dallas era in acque territoriali sovietiche e, anche se il Grisha gli avesse sparato, rispondere al fuoco sarebbe stato un atto di guerra e non di difesa. Mancuso guardò la carta. Aveva trenta piedi d'acqua sotto la chiglia, e solo venti sopra la torretta — meno lo spessore del ghiaccio...»
«Marko?» chiamò il comandante.
«Prima devono chiedere istruzioni» disse Ramius. «Più tempo hanno, più probabile che sparino.»
«Okay. Avanti tutta!» ordinò Mancuso. Alla velocità di trenta nodi sarebbe uscito dalle acque territoriali in dieci minuti.
«Il Grisha sta passando al traverso sul lato di babordo» disse Jones. Mancuso lo raggiunse al sonar.
«Che cosa succede?» chiese.
«I dispositivi ad alta frequenza funzionano bene, sul ghiaccio. Sta cercando con il proiettore da tutte le parti. Sa che qui c'è qualcosa, ma non esattamente dove, almeno per ora.»
Mancuso diede un ordine per telefono. «Camera di lancio da cinque pollici, lanciare due emettitori di disturbo.»
Un paio di emettitori di bolle fu lanciato dal lato di babordo.
«Buona, Mancuso» approvò Ramius. «Loro sonar si fissa su quelle. Non può manovrare bene con ghiaccio.»
«Lo sapremo con precisione fra un minuto.» Proprio mentre lo diceva, un'esplosione a poppa scosse il sommergibile. Da prua venne un grido molto femminile.
«Avanti tutta!» ordinò il comandante.
«Emettitori» disse Ramius. «Sorprendente che abbia sparato così presto...»
«Efficienza del sonar in diminuzione, comandante» disse Jones quando lo schermo diventò vuoto per il rumore di flusso. Mancuso e Ramius vennero a poppa. L'ufficiale di rotta l'aveva segnala sulla carta.
«Oh oh, dobbiamo transitare in questo punto, proprio dove finisce il ghiaccio.
Quanto vuoi scommettere che il Grisha lo sa?» Mancuso guardò in alto. Erano 461
ancora colpiti dagli impulsi del sonar sovietico, ma non potevano ancora sparare, e magari quel Grisha avrebbe avuto fortuna...
«Radio... Mancuso, lasciami parlare su radio!» disse Ramius.
«Non facciamo le cose in questo modo...» obiettò Mancuso. La dottrina americana diceva di evadere, senza mai dare agli avversari la certezza che c'era un sottomarino.
«Lo so. Ma non siamo sottomarino americano, comandante, siamo sottomarino sovietico» insisté Ramius. Bart Mancuso annuì. Non aveva mai giocato quella carta prima d'ora.
«Saliamo a quota d'antenna!»
Un operatore radio si sintonizzò sulla frequenza della guardia costiera sovietica, e la snella antenna VHF fu alzata appena il sommergibile fu oltre il ghiaccio. Salì anche il periscopio.
«Eccolo. Angolo di prua zero. Giù periscopio.»
«Contatto radar a rilevamento due-otto-uno» annunciò l'altoparlante.
Il comandante del Grisha usciva da una settimana di servizio di pattuglia sul Baltico, e aveva atteso con impazienza i quattro giorni di licenza. Poi c'era stata una comunicazione via radio della polizia portuale di Tallinn a proposito di una strana imbarcazione salpata dal pontile, quindi un altro messaggio del KGB.
Poco dopo c'era stata una piccola esplosione a breve distanza dalla motovedetta della polizia, quindi diversi contatti sonar. Il tenente di vascello con tre mesi di comando aveva valutato come meglio poteva la situazione e aveva sparato contro quello che l'operatore sonar chiamava "un positivo contatto con un sottomarino". Adesso si stava chiedendo se aveva commesso uno sbaglio, e quanto poteva essere grave. Sapeva solo di non avere la benché minima idea di ciò che stava accadendo — però, se quello che inseguiva era un sommergibile, doveva per forza essere diretto a ovest.
Adesso aveva un contatto radar a proravia. L'altoparlante sulla frequenza della guardia costiera cominciò a gracidare.
«Cessa il fuoco, cretino!» urlò per tre volte la voce metallica.
«Identificatevi!» rispose il comandante del Grisha.
«Parla il Novosibiirsk Komsomolets! Siete matti a usare munizioni vere durante un'esercitazione? Voi dovete identificarvi!»
Il giovane ufficiale fissò il microfono e lanciò un'imprecazione. Il Novosibiirsk Komsomolets era una nave per operazioni speciali con base a Kronshtadt, sempre occupata nei giochetti Spetznaz...
«Qui Krepkiy. »
«Grazie. Discuteremo questo episodio dopodomani. Chiudo!»
Il comandante della fregata guardò gli altri uomini in plancia, «Che esercitazione...?»
462
«Peccato» disse Marko posando il microfono. «Ha reagito bene. Adesso impiegherà qualche minuto per chiamare sua base, e...»
«È tutto ciò che ci serve. Intanto continuano a non sapere che cosa è successo.» Mancuso si voltò. «Ufficiale di rotta, qual è la via d'uscita più breve?»
«Consiglio due-sette-cinque, la distanza è di undicimila metri.»
Alla velocità di trentaquattro nodi, la distanza residua fu percorsa rapidamente. Tre minuti dopo il sottomarino era nuovamente in acque internazionali. L'effetto distensivo fu rilevante, soprattutto per gli uomini della centrale di comando tiro. Mancuso cambiò rotta dirigendo verso acque più profonde, ordinò di ridurre la velocità a un terzo, poi ritornò al sonar.
«Se Dio vuole, è fatta.»
«Signore, di cosa si è trattato?» chiese Jones.
«Non mi risulta di poterglielo dire.»
«Come si chiama la ragazza?» dal suo posto Jones poteva vedere nel corridoio.
«Non lo so nemmeno io, ma voglio scoprirlo.» Mancuso attraversò il corridoio e bussò alla porta di Clark.
«Chi è?»
«Provi a indovinare» replicò Mancuso. Clark aprì la porta. Il comandante vide una donna vestita in modo presentabile, ma con i piedi bagnati. Poi uscì dal bagno una donna più anziana. Indossava la camicia kaki e i pantaloni del direttore di macchina del Dallas, e teneva in mano i propri vestiti bagnati. Li porse a Mancuso dicendo una frase in russo. «Desidera che lei li faccia lavare»
tradusse Clark, e scoppiò a ridere. «Le presento le nuove ospiti. La signora Gerasimov e sua figlia Katryn.»
«Che. cos'hanno di tanto speciale?» domandò Mancuso.
«Mio padre è il capo del KGB!» disse Katryn.
Per poco il comandante non lasciò cadere i vestiti bagnati.
«Abbiamo compagnia» disse il copilota. Le luci di quelli che sembravano due aerei da caccia si stavano avvicinando da destra. «Arrivano veloci.»
«Venti minuti di qui alla costa» riferì il navigatore. Il pilota l'aveva già vista da un bel po'.
«Merda!» imprecò. I caccia passarono a meno di duecento metri sopra, ma lateralmente molto vicini al suo aereo. Un attimo dopo il VC-137 saltellava per la turbolenza prodotta dalle scie.
«Controllo di Engure, questo è il volo della U.S. Air Force numero nove-sette-uno. Ci avete mancati di poco. Che accidenti succede laggiù?»
«Fatemi parlare con l'ufficiale sovietico!» rispose la voce. Non suonava come 463
quella di un controllore.
«Sono io quello che parla per questo aereo» replicò il colonnello von Eich.
«Stiamo volando su rotta due-otto-sei, quota undicimilaseicento metri. Siamo su un piano di volo regolarmente approvato, sul corridoio aereo stabilito, e abbiamo problemi all'impianto elettrico. Non abbiamo bisogno che qualche zuccone di pilota acrobatico si metta a giocare a guardie e ladri con noi. Questo è un aereo americano con una missione diplomatica a bordo. Volete fare scoppiare la terza guerra mondiale? Passo!»
«Nove-sette-uno, vi ordiniamo di ritornare!»
«Negativo! Abbiamo problemi all'impianto elettrico e non possiamo, ripeto, non possiamo obbedire. Questo aereo vola senza luci, e quei pazzi furiosi dei Mig ci hanno quasi speronato. State cercando di ammazzarci ? Passo.»
«Avete rapito un cittadino sovietico e dovete ritornare a Mosca!»
«Volete ripetere?» chiese von Eich.
Il capitano non poteva. Era un ufficiale dei caccia da intercettazione al suolo.
Lo avevano spedito in fretta e furia a Engure, l'ultimo posto di controllo del traffico aereo in territorio sovietico. Era stato messo al corrente da un ufficiale del KGB locale, che gli aveva detto di costringere l'aereo americano a tornare.
Non avrebbe dovuto dire in chiaro l'ultima frase.
«Lei deve fermare quell'aereo!» urlò il generale del KGB.
«Facile!» gli gridò in faccia l'ufficiale. «Ordino ai miei Mig di abbatterlo! Mi da l'ordine, compagno generale?»
«Non ho l'autorità per farlo. Lei deve fermare l'aereo.»
«È impossibile. Possiamo abbatterlo, ma non possiamo fermarlo. »
«Vuole essere fucilato?» chiese il generale.
«Dove diavolo è andato a sbattersi?» domandò il pilota del Foxbat al collega dell'altro caccia. Lo avevano visto una volta sola, per un breve terribile istante.
Potevano seguire con il radar l'aereo che aveva sconfinato nel loro territorio —
solo che non era in fuga, e non aveva nemmeno sconfinato o compiuto azioni di disturbo, come ben sapevano. Sì, potevano seguirlo con il radar e abbatterlo con i missili radar-guidati, ma avvicinarsi al bersaglio nell'oscurità... Anche se la notte era relativamente chiara, il bersaglio stava volando senza luci. Cercare di avvicinarsi significava correre il rischio di provocare quello che i piloti dei caccia americani chiamavano scherzosamente un Fox-Four, "volpe quattro": una collisione in cielo, con la morte rapida e spettacolare di tutti gli interessati.
«Capo Martello, qui Cassetta-attrezzi. Avete l'ordine di avvicinarvi al bersaglio e costringerlo a virare» disse il controllore. «Adesso il bersaglio è a ore dodici, distanza tremila metri.»
464
«Lo so» si disse il pilota. Aveva l'aereo americano sul radar ma non visivamente. Il suo radar non poteva localizzarlo in modo abbastanza preciso per segnalare in tempo un'imminente collisione. Il pilota doveva anche preoccuparsi dell'altro Mig.
«Sta' indietro» ordinò al collega. «Me la sbrigo da solo.» Spinse leggermente i comandi del gas e spostò la cloche di un millimetro a destra. Il Mig-25 era pesante e goffo, non molto manovrabile per un caccia. Aveva due missili aria-aria attaccati sotto ciascuna ala, e tutto ciò che poteva fare per fermare quell'aereo era... Purtroppo, invece di ordinargli una cosa che era addestrato a fare, un qualche somaro di ufficiale del KGB voleva...
Eccolo. Non vide veramente l'aereo, bensì un punto distante che scompariva.
Tirò a sé la cloche per guadagnare qualche centinaio di metri di quota, e... sì!
Poteva distinguere il Boeing sullo sfondo del mare. Lentamente e con cautela, corse avanti finché fu a lato del bersaglio e duecento metri più in alto.
«Vedo delle luci sulla destra» disse il copilota. «Un caccia, ma non distinguo il tipo.»
«Se tu fossi al suo posto, che cosa faresti?» domandò von Eich.
«Andrei a chiedere asilo politico!» O abbatterei il nostro aereo...
Dietro di loro, seduto sullo strapuntino, il pilota sovietico, il cui unico incarico era di parlare russo se ce n'era bisogno, era bloccato al proprio posto dalle cinture di sicurezza e non sapeva che cosa fare. Era stato escluso dalla conversazione via radio e poteva solo parlare sull'interfono. Mosca voleva fare ritornare l'aereo. Non sapeva perché, ma... ma in fondo, perché agitarsi?
«Eccolo che arriva, scivolando d'ala verso di noi.»
Il pilota del Mig manovrò con la massima attenzione il caccia verso sinistra.
Voleva portarsi sopra la fusoliera del Boeing e di lì ridurre gradualmente l'altezza e obbligarlo a scendere. Per farlo gli occorreva tutta la sua destrezza, e poteva solo pregare che il pilota americano fosse altrettanto abile. Si piazzò in modo da poter fare...
Il Mig-25 era nato come intercettore, e la carlinga lasciava al pilota una visibilità molto ristretta. Non riusciva più a vedere l'altro caccia con cui era stato in formazione. Guardò avanti. La costa era solo pochi chilometri avanti a lui.
Anche se fosse riuscito a fare perdere quota all'americano, sarebbero stati sul Baltico e la manovra non avrebbe avuto alcuna utilità. Il pilota tirò la cloche e cabrò in virata verso destra, poi invertì la rotta.
Il controllore aveva osservato i due segnali radar confondersi sul suo schermo, e si stupiva che il cuore non gli si fosse fermato. Che diavolo stava accadendo? Era un aereo americano. Non potevano costringerlo a fermarsi. Se ci 465
fosse stato un incidente, con chi se la sarebbero presa? Adottò una rapida decisione.
«Ritornate alla base. Chiudo.»
«Gliela faremo pagare» assicurò il generale del KGB all'ufficiale, ma si sbagliava.
«Dio sia ringraziato» disse von Eich mentre superava la linea della costa. Poi chiamò lo steward della cabina principale. « Come stanno i passeggeri laggiù in fondo?»
«Dormono quasi tutti. Devono avere avuto un grande ricevimento prima di partire. Quando riavremo la corrente?»
«Motorista di bordo,» disse il pilota «vogliono sapere a che punto sono i problemi dell'impianto elettrico.»
«Sembra un brutto guasto, signore. Credo... Oh, finalmente l'ho riparato.»
Il pilota guardò fuori. Le luci alle estremità delle ali erano di nuovo accese, e anche quelle della cabina passeggeri, fuorché nelle ultime file. Passato Ventspils, virò a sinistra sulla nuova rotta due-cinque-nove. Emise un lungo sospiro. Ancora due ore e mezza per Shannon. «Ci starebbe bene un caffè»
disse, pensando ad alta voce.
Golovko riattaccò il telefono e sputò poche parole che Jack non afferrò con precisione, anche se il messaggio sembrava abbastanza chiaro.
«Sergey, posso ripulirmi il ginocchio?»
«Che cosa ha fatto esattamente, Ryan?» chiese l'ufficiale del KGB.
«Sono caduto dall'aereo, e quei maledetti se ne sono andati senza di me.
Voglio essere portato alla mia Ambasciata, ma prima occupiamoci del ginocchio, che mi fa male.»
Golovko e Vatutin si guardarono chiedendosi, l'uno e l'altro, alcune cose. Che cosa era successo veramente? Che cosa sarebbe successo a loro? Che cosa fare di Ryan?
«E inoltre, chi possiamo chiamare?» concluse Golovko.
27
In segreto
Vatutin decise di rivolgersi al capo della sua Direzione, il quale telefonò al primo vicepresidente del KGB, che cercò qualcun altro e poi richiamò l'ufficio dell'aeroporto dove il gruppo era in attesa. Vatutin prese nota delle istruzioni, portò tutti alla vettura di Gerasimov e diede degli ordini che Jack non capì. La 466
macchina andò subito a Mosca e percorse le strade deserte nel primo mattino —
era passata da poco la mezzanotte, e gli spettatori dei cinema, dell'opera o del balletto erano già a casa. Jack era schiacciato fra i due colonnelli del KGB e sperava che lo portassero all'Ambasciata. Viceversa la macchina proseguì attraversando la città a velocità sostenuta, oltre le colline Lenin e i boschi intorno a Mosca. Adesso aveva paura. L'immunità diplomatica sembrava più sicura all'aeroporto che nella foresta.
Dopo un'ora la vettura rallentò, svoltò dalla strada principale in un sentiero inghiaiato che serpeggiava tra gli alberi. Dal finestrino Jack vide uomini in uniforme un po' dappertutto. Quella scoperta gli fece dimenticare il ginocchio escoriato e la caviglia dolorante. Dove si trovava? Perché lo portavano lì? Che cosa ci facevano le guardie armate? Gli venne spontanea una risposta semplice e sinistra: ti portano a fare due passi...
No! Non possono farlo, replicò la mente. Ho un passaporto diplomatico.
Molte persone mi hanno visto vivo. Forse l'ambasciatore ha già... No, non può aver fatto niente. Non era stato informato e, se non aveva ricevuto notizie dall'aereo... A parte tutto il resto, non potevano assolutamente... ma correva voce che in Unione Sovietica succedessero cose che assolutamente non succedevano. La portiera dell'automobile si spalancò. Golovko scese prendendo Ryan con sé. L'unica cosa di cui Jack era sicuro, a questo punto, era che non valeva la pena di tentare qualsiasi forma di resistenza.
Era una casa, una normale casa di legno in mezzo ai boschi. La finestra era illuminata di giallo dalle lampade dietro le tendine. Ryan vide almeno una dozzina di uomini in piedi, tutti in divisa, tutti armati di fucile mitragliatore, che lo guardavano con lo stesso grado d'interesse che avrebbero accordato a un bersaglio di cartone. Uno di loro, un ufficiale, si avvicinò e perquisì Ryan molto scrupolosamente, provocando un gemito quando arrivò al ginocchio insanguinato e ai pantaloni laceri. Stupì Ryan con quella che poteva essere una sommaria frase di scuse. L'ufficiale fece un segno affermativo a Golovko e a Vatutin, che consegnarono le proprie pistole e portarono Ryan in casa.
Come furono entrati, un uomo prese i loro cappotti. Altri due individui in abiti borghesi erano palesemente poliziotti o agenti del KGB. Indossavano giubbotti con la cerniera aperta, e dal loro atteggiamento era chiaro che erano armati di pistola. Li salutò con un cenno del capo, e non ebbe risposta se non in forma di un'ulteriore perquisizione eseguita da uno dei due, mentre l'altro vigilava da distanza sicura di tiro. Ryan notò con meraviglia che venivano perquisiti anche i due ufficiali del KGB. Esaurita l'operazione, uno dei due guardiani li fece passare in un'altra stanza.
Andrey Il'ych Narmonov, Segretario Generale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica, sedeva in una poltrona pesantemente imbottita davanti al 467
caminetto acceso da poco. Quando i quattro uomini entrarono, si alzò e con un gesto li invitò a sedersi sul sofà di fronte a lui. La guardia del corpo prese posizione mettendosi in piedi dietro il capo del Governo sovietico. Narmonov parlò in russo, e Golovko tradusse.
«Lei è?»
«John Ryan, signore» disse Jack. Il Segretario Generale gli indicò una poltrona di fronte alla sua, e notò che Ryan muoveva a fatica una gamba.
«Anatoliy» disse alla guardia del corpo, che prese Ryan per un braccio e lo guidò a una stanza da bagno al primo piano. L'uomo immerse un asciugamano nell'acqua calda e lo diede all'ospite. Mentre si puliva, Ryan sentiva gli altri parlare in salotto, ma la sua conoscenza del russo era troppo scarsa per afferrare anche solo una parte di ciò che si stavano dicendo. Era gradevole lavarsi la gamba, ma i pantaloni erano completamente rovinati, e i più vicini indumenti di ricambio — guardò l'ora — in quel momento dovevano essere sopra la Danimarca. Anatoliy lo osservò per tutto il tempo. Prese alcune compresse di garza da un armadietto, e aiutò Ryan a fissarle con il cerotto, poi lo riaccompagnò nel soggiorno con tutta la buona grazia possibile.
C'era ancora Golovko, ma Vatutin se n'era andato. La seconda poltrona era vacante. Anatoliy riprese il posto di prima dietro Narmonov.
«Il fuoco è davvero piacevole» disse Jack. «La ringrazio per avermi permesso di lavare il ginocchio.»
«Golovko mi dice che non siamo stati noi a farle questo. È vero?»
La domanda sembrò strana a Jack, dato che era Golovko a tradurre per loro.
Quindi Andrey Il'ych parla un po' l'inglese...
«No, signore, me lo sono fatto da solo. Non ho subito alcun maltrattamento.»
Ho solo avuto una fifa boia, pensò, ma il guaio al ginocchio è colpa mia.
Narmonov lo osservò con silenzioso interesse per un buon mezzo minuto prima di parlare di nuovo.
«Non avevo bisogno del suo aiuto.»
«Non so che cosa vuoi dire, signore» mentì Ryan.
«Credeva davvero che Gerasimov potesse destituirmi?»
«Signore, non so proprio di che cosa stia parlando. La mia missione era di salvare la vita a uno dei nostri agenti. Per farlo era necessario compromettere Gerasimov. Si trattava solo di usare l'esca adatta.»
«E di pescare il pesce giusto» commentò Narmonov. Il tono divertito della voce non concordava con l'espressione del viso. «Il vostro agente era il colonnello Filitov?»
«Sì, signore. Lo sa anche lei.»
«L'ho appena saputo.»
Allora sai che anche Yazov era compromesso. Fino a che punto erano 468
arrivati, compagno Segretario Generale? pensò Ryan. Forse non lo sapeva neppure Narmonov.
«Sa perché è diventato un traditore?»
«No, signore, mi è stato detto solo ciò che avevo bisogno di sapere.»
«Quindi lei non sa dell'attacco al nostro progetto Stella Lucente?»
«Come?» Jack era sorpreso e lo dimostrò.
«Non mi offenda, Ryan. Lei conosce il nome.»
«È a sud-est di Dushanbe, questo lo so. Attaccato?» chiese.
«Come pensavo. Lo sa che è stato un atto di guerra?» «Signore, qualche settimana fa degli agenti del KGB hanno rapito uno scienziato americano che lavorava allo scudo spaziale. Si chiama Alan Gregory. È maggiore dell'Esercito degli Stati Uniti, e i nostri sono riusciti a liberarlo.»
«Non ci credo» disse Golovko prima di tradurre. Narmonov era seccato per l'interruzione, ma scosso per la sostanza della notizia data da Ryan.
«Uno dei vostri agenti è stato catturato, ed è vivo. È la verità, signore»
assicurò Jack.
Narmonov scosse il capo e si alzò per gettare un altro ceppo sul fuoco, poi lo sistemò con l'attizzatoio. «È follia, lo sa?» disse guardando il camino. «Adesso abbiamo una situazione del tutto soddisfacente.»
«Mi scusi, ma non capisco» disse Ryan.
«Il mondo è stabile, no? Però il suo Paese vuole cambiare questo stato di cose e ci obbliga a perseguire il medesimo scopo.» Il fatto che il centro sperimentale antimissili balistici a Sary Shagan fosse in attività da più di trent'anni, per il momento sembrava cosa estranea al discorso.
«Signor Segretario Generale, se lei pensa alla capacità di trasformare ogni città, ogni casa del mio Paese in una fiammata come quella che arde nel suo camino...»
«Anche il mio Paese, Ryan» disse Narmonov.
«Sì, signore, anche il suo Paese e diversi altri. Lei può uccidere quasi tutti i civili del mio Paese, e noi possiamo eliminare quasi ogni persona del suo, entro sessanta minuti dal momento in cui lei prende in mano il ricevitore... o lo fa il mio Presidente. E che nome diamo a questa situazione? La chiamiamo stabilità. »
« È stabilità, Ryan» disse Narmonov.
«No, signore, il nome tecnico che noi usiamo è MAD: Mutual Assured Destruction — distruzione reciproca assicurata. Lascia un po' a desiderare, come qualità di frase, ma è abbastanza precisa. La situazione che noi abbiamo è veramente mad, folle. Non la rende più sensata il fatto che l'abbiano prodotta delle persone ritenute intelligenti.»
«Funziona, no?»
469
«Signore, in che modo è stabilizzante l'avere alcune centinaia di milioni di persone a meno di un'ora dalla morte? Perché consideriamo pericolose le armi che potrebbero proteggere queste persone? Non è un modo di andare indietro?»
«Però, se non le usiamo mai... Crede che potrei vivere con un simile delitto sulla coscienza?»
«No, credo che nessun uomo possa, ma qualcuno può commettere uno sbaglio. Forse si sparerebbe un colpo in testa una settimana dopo, ma potrebbe essere un po' tardi per tutti noi. Quei maledetti congegni sono troppo facili da usare. Si preme un pulsante, e loro partono; probabilmente funzioneranno a meraviglia, perché non c'è niente che possa fermarli. Se non c'è qualche altra cosa che interferisce, non c'è motivo di pensare che non funzionino. E fintanto che qualcuno è convinto che possono funzionare, è troppo facile servirsene.»
«Sia realistico, Ryan. Crede che ci libereremo delle armi atomiche?» chiese Narmonov.
«No, non ci libereremo mai di tutte le armi, lo so. Avremo sempre entrambi la possibilità di farci reciprocamente molto male, però possiamo rendere più complicato il procedimento. Possiamo dare a tutti un motivo in più per non premere il pulsante. Non è destabilizzante, signore, è solo buon senso. Una cosa in più a protezione della sua coscienza.»
«Parla come il suo Presidente» disse Narmonov con un sorriso.
«Il Presidente ha ragione» rispose Ryan sorridendo a sua volta.
«È già abbastanza duro per me dover discutere con un americano, e non discuterò con un secondo. Che cosa farete di Gerasimov?» chiese il Segretario Generale.
«La cosa sarà trattata con la massima discrezione, per ovvi motivi» rispose Jack sperando di dire la verità.
«Sarebbe estremamente dannoso per il mio Governo se la sua defezione fosse resa pubblica. Proporrei di annunciare che è morto in una sciagura aerea...»
«Lo riferirò al mio Governo, se lei mi autorizza a farlo. Possiamo anche tenere segreto il nome di Filitov. Non abbiamo nulla da guadagnare dalla pubblicità. Complicherebbe solo le cose per il suo e il mio Paese. Vogliamo entrambi che il trattato sugli armamenti vada in porto... e tutto il denaro che farebbe risparmiare a voi e a noi.»
«Non è poi tanto» riflette Narmonov. «Qualche punto sul bilancio della Difesa per entrambe le parti.»
«Nelle nostre sfere governative c'è un detto, signore. "Un miliardo di dollari qui e un miliardo di dollari là, poco alla volta finisce per fare cifra".» La battuta provocò una risata. «Posso farle una domanda, signore?»
«Mi dica.»
«Che cosa ne farà dei soldi risparmiati? Ho l'incarico di fare delle previsioni 470
sull'argomento.»
«Allora forse potrà darmi qualche consiglio. Che cosa le fa pensare che io lo sappia?» chiese Narmonov. Si alzò, e Ryan fece altrettanto. «Ritorni all'Ambasciata. Dica ai suoi che è meglio per tutti e due se questo episodio non diventa pubblico.»
Mezz'ora dopo Ryan fu accompagnato fino alla porta dell'Ambasciata. Il primo a vederlo fu un sergente dei Marines. Il secondo fu Candela.
Il VC-137 atterrò a Shannon con dieci minuti di ritardo a causa dei venti sopra il Mare del Nord. Il capoequipaggio e un altro sottufficiale fecero uscire i passeggeri dalla porta anteriore. Quando tutti ebbero lasciato l'aereo, ritornarono ad aprire la porta posteriore. Mentre i flash dei fotografi lampeggiavano nell'aerostazione, fu piazzata la scaletta vicino alla coda del Boeing. Ne uscirono quattro uomini che indossavano la giacca a vento regolamentare dei sergenti dell'Aviazione degli Stati Uniti. Salirono in vettura e furono portati all'estremità opposta dell'aeroporto, dove salirono su un altro aereo dell'89°
Gruppo Militare, un VC-20A, versione militare dell' executive jet Gulfstream-III.
«Salute, Misha.» Mary Pat Foley lo accolse sulla porta e gli diede il benvenuto. Non lo aveva mai baciato prima, ma lo fece adesso. «Abbiamo da mangiare e da bere, Misha, e un altro volo per andare a casa. Venga, Misha.» Lo prese per il braccio e lo guidò alla sua poltrona.
Qualche metro più in là, Robert Ritter accolse Gerasimov.
«Mia moglie e mia figlia?» chiese quest'ultimo.
«Sane e salve. Arriveranno a Washington fra due giorni. In questo momento sono a bordo di una nave della Marina degli Stati Uniti in acque internazionali.»
«Si aspetta dei ringraziamenti?»
«Ci aspettiamo che lei collabori.»
«Avete avuto fortuna.»
«È vero» ammise Ritter.
Una vettura dell'Ambasciata portò Ryan a Sheremetyevo il giorno dopo, a prendere il volo di linea Pan Am 727 per Francoforte. Il biglietto che gli avevano dato era di classe turistica, ma Ryan pagò la differenza e passò in prima. Tre ore dopo saliva sul Pan Am 747 diretto all'aeroporto Dulles di Washington. Dormì per quasi tutto il viaggio.
Bondarenko verificò il massacro. Gli afghani avevano lasciato quarantasette cadaveri sul terreno, ma i morti dovevano essere di più. Solo due degli impianti laser erano sopravvissuti. Tutte le macchine-utensili erano danneggiate, come pure il teatro e gli alloggi degli scapoli. L'ospedale, in gran parte intatto, era 471
pieno di feriti. Tre quarti degli scienziati e dei tecnici erano salvi, e quasi tutti i loro familiari. Quattro generali vennero sul posto a dire a Bondarenko quanto era stato eroico, promettendogli medaglie e promozione, ma lui aveva già avuto il premio che contava. Appena giunti i rinforzi, si era accertato che la gente fosse salva. Adesso guardava dal tetto dell'edificio degli appartamenti.
«C'è molto da fare» disse una voce. Il colonnello, presto generale, si voltò.
«Morozov, abbiamo ancora due laser. Possiamo ricostruire le officine e i laboratori. Un anno, forse uno e mezzo.»
«All'incirca» confermò il giovane. «I nuovi specchi e i loro sistemi computerizzati richiederanno almeno altrettanto tempo. Compagno colonnello, i colleghi e le loro famiglie mi hanno chiesto di...»
«È il mio compito, compagno Morozov, e dovevo anche salvare il mio buco del sedere, non crede? Un episodio del genere non si ripeterà. Di qui in avanti avremo un battaglione di fanteria motorizzata proveniente da un reggimento delle Guardie. Ho già fatto il necessario. Per la prossima estate la base sarà sicura come i posti meglio protetti di tutta l'Unione Sovietica.»
«Sicura? Che cosa vuoi dire, compagno colonnello?»
«È il mio nuovo incarico. E anche il suo» disse Bondarenko. «Ricorda?»
EPILOGO
Terreno comune
Ortiz non fu sorpreso nel vedere il maggiore che entrava da solo. La relazione della battaglia richiese un'ora, e anche questa volta il funzionario della CIA ricevette diversi zaini pieni di materiali. La banda dell'Arciere si era aperta la strada della ritirata combattendo. Dei quasi duecento uomini partiti dal campo profughi, meno di cinquanta erano ritornati in quel primo giorno di primavera. Il maggiore si mise subito al lavoro per prendere contatto con altri gruppi. Il prestigio della missione eseguita dal suo reparto gli consentiva di trattare quasi alla pari con i capi più potenti. Nel giro di una settimana riuscì a rimpiazzare i caduti e reintegrare le file con nuovi guerrieri impazienti di combattere.
L'accordo che l'Arciere aveva stipulato con Ortiz rimase in vigore.
«Ritorni già?» chiese l'uomo della CIA al nuovo capo.
«Naturalmente. Ora stiamo vincendo» disse il maggiore con una fiducia che nemmeno lui riusciva a spiegarsi.
Ortiz stette a guardarli, quella notte, mentre partivano in fila indiana: piccoli, feroci combattenti, adesso guidati da un militare esperto. Sperava che ciò costituisse una differenza.
472
Gerasimov e Filitov non si videro mai più. Le loro relazioni richiesero parecchie settimane, e furono fatte in località separate. Filitov fu portato a Camp Peary, in Virginia, dove conobbe un occhialuto maggiore dell'Esercito degli Stati Uniti al quale raccontò quanto ricordava del progresso realizzato dai russi nel campo della potenza del laser. Sembrava strano al vecchio ufficiale che il ragazzo si entusiasmasse tanto per cose che lui aveva imparato a memoria, ma non aveva mai veramente capito.
Vennero poi le spiegazioni sulla seconda carriera che aveva condotto parallelamente alla prima. Un'intera generazione di ufficiali superiori venne a trovarlo e gli tenne compagnia a tavola, a passeggio, o anche in poderose bevute che preoccupavano i medici, ma che nessuno poteva negare al Cardinale. Il suo alloggio era sottoposto a stretta sorveglianza e collegato a dispositivi d'ascolto.
Gli incaricati constatarono con sorpresa che ogni tanto parlava nel sonno.
Un funzionario della CIA, che sarebbe andato in pensione di lì a sei mesi, interruppe la lettura del giornale per ascoltare, quando il fatto si ripeté. Sorrise dei rumori negli auricolari, e accantonò l'articolo che stava leggendo sulla visita del Presidente a Mosca. Poveruomo, pensò, vecchio e triste, così solo. Quasi tutti gli amici morti, e lui li vede nel sonno. E per questo motivo che ha cominciato a lavorare per noi? Il mormorìo cessò e, nell'appartamento attiguo, il "baby-sitter" del CARDINALE riprese la lettura dell'articolo.
«Compagno capitano » disse Romanov.
«Sì, caporale.» Sembrava più reale che nei sogni, pensò Misha. Un momento dopo seppe perché.
Stavano trascorrendo la luna di miele sotto la protezione degli agenti di sicurezza — tutti i quattro giorni, il tempo massimo che Al e Candi erano disposti a stare lontani dal lavoro. Quando squillò il telefono, fu il maggiore Gregory a rispondere.
«Già — voglio dire, sì, signore» lo sentì dire Candi. Un sospiro. Uno scuotere di testa nell'oscurità. «Nemmeno un posto in cui mandare dei fiori, vero?
Possiamo Candi e io... oh, capisco. Grazie per avere telefonato, generale.» Lo sentì riattaccare ed emettere un altro sospiro.
«Candi, sei sveglia?»
«Sì.»
«Il nostro primo bambino lo chiameremo Mike.»
Il posto di addetto militare all'Ambasciata sovietica di Washington comportava per il maggiore generale Grigoriy Dalmatov una quantità di impegni mondani in contrasto con la sua missione primaria, e cioè la raccolta 473
d'informazioni. Fu un po' seccato quando ricevette la telefonata dal Pentagono che lo pregava di recarsi subito al quartier generale delle Forze Armate americane, per di più — cosa quanto mai sorprendente — in alta uniforme. La vettura lo depositò all'ingresso, e un giovane capitano dei paracadutisti lo scortò all'interno, poi all'ufficio del generale Ben Crofter, Capo di Stato Maggiore dell'Esercito degli Stati Uniti. «Posso chiederle che cosa succede?»
«Qualcosa che lei dovrebbe vedere, Grigoriy» rispose enigmatico Crofter.
Passarono oltre il palazzo per raggiungere l'eliporto del Pentagono dove, con grande meraviglia di Dalmatov, salirono su un elicottero dei Marines che faceva parte della flotta presidenziale. Il Sikorsky decollò immediatamente e si diresse a nord-ovest fra le colline del Maryland. Venti minuti dopo stavano già scendendo. La mente di Dalmatov registrò un'altra sorpresa. Il velivolo atterrava nell'eliporto personale del Presidente a Camp David. Un graduato del reparto dei Marines di guardia, in alta uniforme blu, li salutò al piede della scaletta mentre scendevano dall'elicottero, poi li scortò tra gli alberi. Pochi minuti dopo giunsero in una radura. Dalmatov non sapeva che in quel posto ci fossero delle betulle, forse per un mezzo acro. La radura era presso la cima di un colle che offriva una bella vista della campagna circostante.
Nel terreno c'era una grande fossa rettangolare, profonda esattamente un metro e ottanta. Sembrava strano che non ci fosse una lapide, e che le zolle fossero state accuratamente tagliate e tenute da parte.
Dalmatov vide altri Marines sulla linea degli alberi. Questi, però, erano in tenuta mimetica da campagna e con le pistole al cinturone. Non era strano che adottassero delle rigorose misure di sicurezza, e il generale trovò distensivo che, in quell'ultima ora, fosse accaduto almeno un fatto comprensibile.
Comparve prima una jeep. Due Marines — di nuovo in alta uniforme —
scesero e montarono un podio prefabbricato vicino alla fossa. Dovevano essersi allenati, pensò il generale, perché impiegarono solo tre minuti del suo cronometro. Giunse quindi tra gli alberi un autocarro di media portata seguito da altre jeep. Sul cassone del camion c'era una bara di quercia lucida. Il camion si fermò a pochi metri dalla fossa. Fu schierata la guardia d'onore.
«Posso chiedere perché mi trovo qui?» domandò Dalmatov quando non ce la fece più a stare zitto.
«Lei ha iniziato la carriera come carrista, vero?»
«Sì, generale Crofter, come lei.»
«Il motivo è questo.»
I sei uomini della guardia d'onore deposero la bara sul podio. Il sergente al comando del distaccamento tolse il coperchio. Quando vide chi c'era dentro la cassa, Dalmatov sussultò.
«Misha.»
474
«Pensavo proprio che lo conoscesse» disse un'altra voce. Dalmatov si voltò.
«Lei è Ryan.» C'erano anche altri: Ritter della CIA, il generale Parks e una coppia di giovani sulla trentina. La moglie sembrava incinta, ma non di molto.
Piangeva silenziosamente nella dolce brezza di primavera.
«Sì, signore, sono Ryan.»
Il russo fece un gesto verso la bara. «Dove... Come ha fatto lei...»
«Sono appena rientrato da Mosca. Il Segretario Generale è stato tanto gentile da darmi l'uniforme e le decorazioni del colonnello. Ha detto che... ha detto che, nel caso di quest'uomo, preferisce ricordare i motivi per cui ha avuto le tre stelle d'oro. Noi speriamo che lei dirà alla sua gente che il colonnello Mikhail Semyonovich Filitov, tre volte Eroe dell'Unione Sovietica, è morto serenamente nel sonno.»
Dalmatov arrossì. «Ha tradito il suo Paese — io non resterò qui a...»
«Generale,» disse Ryan con asprezza «dovrebbe esserle chiaro che il Segretario Generale non condivide i suoi risentimenti. Forse quest'uomo è stato un eroe più importante di quanto lei possa immaginare — eroe del suo Paese e del mio. Mi dica, generale, quante battaglie ha combattuto, lei? Quante volte è stato ferito per il suo Paese? Può veramente guardare quest'uomo e chiamarlo traditore? In ogni caso...» Ryan fece un cenno al sergente, che chiuse la cassa.
Quando ebbe finito, un altro Marine l'avvolse nella bandiera sovietica. Una squadra di fucilieri comparve e si mise in formazione in testa alla fossa. Ryan estrasse un foglio dalla tasca e lesse le motivazioni delle medaglie di Misha. I fucilieri imbracciarono le armi e spararono le salve di rito. Un trombettiere suonò il silenzio.
Dalmatov si mise rigidamente sull'attenti e fece il saluto. A Ryan dispiaceva che la cerimonia dovesse restare segreta, ma la semplicità la rendeva altamente dignitosa e appropriata.
«Perché qui?» chiese Dalmatov.
«Avrei preferito Arlington, ma lì forse sarebbe stato notato da qualcuno.
Proprio al di là di quelle colline c'è il campo della battaglia di Antietam. Nel giorno più sanguinoso della guerra civile, le forze dell'Unione respinsero, dopo una disperata battaglia, la prima invasione di Lee al Nord. Ci è sembrato il luogo giusto» disse Ryan. «Se un eroe deve avere una tomba anonima, dev'essere almeno vicina al posto dove sono caduti i suoi compagni.»
«Compagni?»
«In un modo o nell'altro, combattiamo tutti per le cose in cui crediamo. Non pensa che questo ci dia una specie di terreno comune?» chiese Jack. Andò alla sua vettura, lasciando Dalmatov solo con quel pensiero.
FINE
475