«Belle foto» disse Mary Pat. «Dov'è l'uomo della mia Ambasciata?»
«Non siamo obbligati ad autorizzarla a parlare con qualcuno. Possiamo tenerla qui tutto il tempo che vogliamo. Per anni, se occorre» aggiunse minaccioso.
«Senta, egregio, io sono americana, okay? Mio marito è un diplomatico. Gode dell'immunità diplomatica, e anch'io. Solo perché lei pensa che io sia una stupida donna di casa americana, pensa di potermi strapazzare e mettermi paura finché non avrò firmato una confessione fasulla in cui dichiaro di essere una qualche specie di spia idiota. Ebbene, non lo sono, non lo sarò, e il mio Governo mi difenderà. Per quanto mi riguarda, lei può avere quella confessione, metterci su la senape e mangiarla. Dio sa quanto si mangia male qui da voi, forse la fibra della carta migliorerebbe la sua dieta» osservò. «E lei mi dice che ha arrestato anche quel simpatico vecchio signore al quale stavo portando la foto della squadra? Ma sì, lei deve proprio essere pazzo. »
«Sappiamo che vi siete incontrati parecchie volte.»
«Due. L'ho visto a una partita l'anno scorso — no, chiedo scusa, anche a un ricevimento diplomatico qualche settimana fa. Totale: tre volte, però contano solo gli incontri alle partite. È per questo che gli ho portato la fotografia. I ragazzi della squadra pensano che lui porti loro fortuna — vada a sentirli, hanno firmato tutti, no? Le due volte che lui è venuto, abbiamo vinto la partita e mio figlio ha segnato due reti. E lei lo considera una spia solo perché è andato a vedere due partite della lega giovanile? Dio mio, secondo voi ci dev'essere una spia americana sotto ogni letto.»
In effetti, Mary Pat si stava divertendo. L'avevano trattata con attenzione. Non c'è nulla di meglio di una gravidanza in pericolo, si disse, infrangendo un'altra norma tradizionale dell'onorato mestiere di spia: Non dire nulla. Continuò a 256
sproloquiare, come avrebbe fatto una qualunque cittadina privata —
naturalmente sotto l'usbergo dell'immunità diplomatica — insistendo sulla crassa stupidità dei russi. Osservò attentamente per vedere le reazioni. Se c'era una cosa che i russi odiavano, era di essere guardati dall'alto in basso, soprattutto dagli americani, nei cui confronti avevano un inguaribile complesso d'inferiorità.
«Credevo che gli addetti alla sicurezza che abbiamo all'Ambasciata fossero dei rompiscatole» aggiunse in tono sprezzante. «Non faccia questo, non faccia quello, stia attenta con la macchina fotografica... Io non stavo facendo fotografie, ne stavo dando una a lui! E tutti i ragazzi nella foto sono russi, tranne mio figlio.» Si voltò a guardare nello specchio. Le sarebbe piaciuto sapere se i russi avevano avuto quell'idea da soli, oppure se l'avevano copiata dai telefilm sui poliziotti americani.
«Quelli che hanno addestrato questa donna sapevano il fatto loro» disse Vatutin nella stanza vicina, guardando attraverso il finto specchio. «Sa che siamo qui, ma non lo fa capire. Quando la liberiamo?»
«Nel tardo pomeriggio» rispose il capo della Seconda Direzione. «Tenerla qui non vale lo sforzo. Suo marito sta già sgomberando l'appartamento. Avrebbe dovuto aspettare ancora un attimo, compagno...» aggiunse il generale.
«Lo so.» Non valeva la pena di spiegare il caso della serratura difettosa. Il KGB non accettava scuse, nemmeno dai colonnelli. In ogni modo, il fatto era marginale. Era importante, invece, avere preso Filitov — non in flagrante, ma comunque preso. Quello era lo scopo dell'operazione, per quanto riguardava loro. Entrambi gli uomini conoscevano gli altri aspetti, ma li trattavano come se non esistessero. Era l'atteggiamento più intelligente, per l'uno come per l'altro.
«Dov'è il mio uomo?» domandò Yazov.
«Al carcere di Lefortovo, naturalmente» rispose Gerasimov.
«Voglio vederlo, e subito.» Il ministro della Difesa non si era nemmeno tolto il berretto, e se ne stava in piedi, con il pastrano lungo fino a metà polpaccio, le guance ancora colorite per l'aria fredda di febbraio — o forse per la collera, pensò Gerasimov. Magari anche per la paura...
«Questo non è un posto in cui si avanzano pretese, Dmitri Timofeyevich.
Anch'io faccio parte del Politburo, e ho un posto al Consiglio della Difesa. È
possibile che anche tu sia implicato nell'indagine.» Le dita di Gerasimov giocherellavano con un dossier sulla scrivania.
Il discorso fece cambiare il colorito di Yazov. Il ministro impallidì, certamente non per paura. Gerasimov era stupito di vedere come il militare conservava il controllo di sé. Il maresciallo fece uno sforzo supremo e gli parlò come a una recluta:
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«Fammi vedere le prove qui e subito, se hai i coglioni per farlo!».
«Molto bene.» Il Presidente del KGB aprì di scatto il dossier, ne tolse una serie di fotografie e le porse al ministro.
«Tenevi sotto sorveglianza anche me? »
«No, ci occupavamo di Filitov. Tu ti sei trovato lì per caso.»
Yazov gettò le foto sul tavolo con gesto sprezzante. « E con questo? Misha è stato invitato a una partita di hockey. Io l'ho accompagnato. È stata una bella partita. C'è un ragazzo americano nella squadra — avevo conosciuto la madre in occasione di un ricevimento — sì, ricordo, nella sala San Giorgio quando i negoziatori americani sono stati qui l'ultima volta. Lei era alla partita, e l'abbiamo salutata. È una donna divertente, in un suo modo scervellato. Il mattino dopo ho compilato la relazione sul contatto, e anche Misha.»
«Se lei è così scema, perché ti sei preso quel disturbo?» volle sapere Gerasimov.
«Perché è americana e suo marito è un diplomatico di qualche specie e io sono stato tanto sciocco da permetterle di toccarmi, come vedi dalla foto. Il rapporto è agli atti. Ti manderò una copia del mio e di quello di Filitov.» Adesso Yazov parlava con più sicurezza. Gerasimov doveva avere sbagliato qualche calcolo.
«Lei è un'agente della CIA.»
«Allora confido che il socialismo prevarrà, Nikolay Borissovich. Non credo che tu impieghi gente cretina come quella donna — almeno, non lo credevo prima d'oggi.»
Il ministro Yazov si degnò di calmarsi. Benché fosse nuovo sulla scena moscovita — fino a poco tempo prima era stato il comandante del Distretto Militare Orientale, dove Narmonov lo aveva scoperto — sapeva qual era il vero oggetto della competizione. Non credeva, non poteva credere, che Filitov fosse un traditore — non lo credeva in virtù del curriculum del suo aiutante; non era disposto a crederlo, perché lo scandalo avrebbe distrutto una delle carriere più accuratamente programmate nell'ambito dell'Esercito sovietico: la sua.
«Se hai delle vere prove a carico del mio uomo, voglio che siano esaminate dai miei addetti alla sicurezza. Tu, Nikolay Borissovich, stai giocando una partita politica con il mio Ministero. Non tollererò interferenze del KGB sul modo in cui comando il mio Esercito. Alcuni ufficiali del GRU verranno qui nel pomeriggio. Tu collaborerai con loro. Se non lo farai, sarò costretto a deferire personalmente la cosa al Politburo.»
Gerasimov non ebbe reazioni visibili mentre il ministro della Difesa usciva dall'ufficio, ma si rese conto di avere commesso un errore. Aveva giocato troppo pesantemente la propria mano — no, si corresse, l'aveva giocata un giorno troppo presto. Si era aspettato che Yazov crollasse, che cedesse alla pressione, 258
che accettasse una proposta non ancora fatta.
Tutto questo grazie a Vatutin, che non ha raccolto prove concrete. Perché non ha aspettato un secondo di più? Ebbene, l'unica cosa da fare è ottenere una confessione completa da Filitov.
Ufficialmente, l'incarico di Colin McClintock era presso l'ufficio commerciale dell'Ambasciata di Sua Maestà Britannica, sull'altra riva della Moscova, di fronte al Cremlino. L'Ambasciata occupava quella sede da prima della rivoluzione, ma la cosa non aveva mai smesso di disturbare i leaders sovietici fin dai tempi di Stalin. Sotto quella copertura, McClintock era un altro dei partecipanti al Grande Gioco. Difatti, era lui che "gestiva" Svetlana Vaneyeva e l'aveva distaccata alla CIA per uno scopo mai ben chiarito, su ordine trasmesso direttamente dalla Century House di Londra, il quartier generale del SIS. In quel momento il funzionario britannico stava portando al GOSPLAN un gruppo di uomini d'affari venuti dal Regno Unito, per presentarli ai burocrati con i quali avrebbero dovuto negoziare i contratti per gli articoli che speravano di vendere ai barbari locali. McClintock era un "isolano" di Whalsay, al largo della costa scozzese, e considerava barbari tutti coloro che erano nati a sud di Aberdeen —
il che non gli impediva di lavorare per il Secret Intelligence Service. Parlava inglese con un accento fortemente cadenzato e con l'inclusione di un certo numero di parole usate soltanto nel nord della Scozia; il suo russo era poco comprensibile, però lui era un uomo che sapeva inserire ed escludere gli accenti ogni volta che voleva, con la facilità con cui si gira un interruttore. Le sue orecchie, poi, erano assolutamente prive di accento. Tutti immancabilmente pensano che una persona che ha difficoltà a parlare una lingua trovi anche difficile capirla — e McClintock faceva del suo meglio per avvalorare quell'errata convinzione.
Aveva conosciuto Svetlana, l'aveva proposta a Londra come possibile candidata, e un ufficiale superiore del SIS aveva provveduto a reclutarla nella sala al secondo piano della Langan's Brasserie in Stratton Street. Da allora, McClintock l'aveva vista solo per motivi di servizio, sempre alla presenza di altri cittadini britannici e sovietici. Altri collaboratori del SIS a Mosca le recapitavano dati in "cassette delle lettere" convenute, ma il superiore diretto di Svetlana era lui. I dati che lei forniva di solito erano deludenti, ma qualche volta avevano una certa utilità a livello commerciale. Con gli agenti segreti si tendeva ad accettare quello che davano, e lei riferiva le chiacchiere e i pettegolezzi interni che sentiva dal padre.
Però qualche cosa doveva essere andata storta per Svetlana Vaneyeva. Era sparita dall'ufficio e poi era ritornata; secondo l'opinione della CIA, dopo essere stata sottoposta a interrogatorio a Lefortovo. L'ipotesi sembrava poco credibile a 259
McClintock. Chi veniva portato a Lefortovo, di solito ne aveva per uno o due giorni. Era intervenuto qualche fatto strano, e lui aveva lasciato passare una settimana prima di cercare di sapere con esattezza che cosa era accaduto.
Naturalmente, i messaggi da lei depositati alla "cassetta" adesso restavano intatti. Gli agenti del SIS si limitavano a verificare — da rispettosa distanza — se erano stati toccati o ritirati da qualcuno.
Adesso McClintock aveva un'occasione per vederla, mentre guidava il gruppo britannico nell'ufficio che ospitava il settore tessili dell'agenzia di pianificazione. Svetlana alzò gli occhi e vide i forestieri. McClintock le fece il segnale ordinario di domanda. Non sapeva come avrebbe reagito la ragazza, e nemmeno che significato poteva avere un'eventuale risposta. Doveva presumere che lei fosse stata bruciata, compromessa al massimo, però avrebbe dovuto reagire in qualche modo. Eseguì il segnale, passandosi le mani sui capelli con assoluta naturalezza. Lei avrebbe dovuto rispondere aprendo un cassetto della scrivania ed estraendone una matita o una penna. La prima significava "tutto a posto", l'altra era un segnale di pericolo. Lei non prese né l'una né l'altra, e tornò a occuparsi del documento che stava leggendo. Il giovane funzionario ne fu stupito al punto di fermarsi a guardarla, ma ricordò immediatamente dove si trovava. Si voltò a scrutare in viso altri impiegati, muovendo nervosamente le mani in gesti che avrebbero potuto significare qualsiasi cosa per gli eventuali osservatori.
Lo aveva colpito il viso inespressivo di lei. Dove una volta c'era stata animazione, adesso c'era il vuoto. Dove c'era stata vivacità, ora c'era l'apatia che si poteva osservare su migliaia e migliaia di volti nelle vie di Mosca. Quella che pochi giorni prima era ancora la privilegiata figlia di un altissimo personaggio del Partito, appariva profondamente cambiata. Non stava recitando una parte, McClintock ne era certo; Svetlana non era abbastanza abile per farlo.
L'hanno scoperta, si disse, l'hanno presa e poi rilasciata. Non aveva la minima idea del motivo per cui era stata rimessa in libertà, ma non era affar suo.
Un'ora dopo ricondusse la delegazione britannica in albergo e tornò in ufficio. Il rapporto che trasmise a Londra era di sole tre pagine. Non immaginava che razza di pandemonio avrebbe suscitato. Non sapeva nemmeno che un altro funzionario del SIS aveva inviato una relazione quello stesso giorno nella medesima valigia diplomatica.
«Salve, Arthur» disse la voce nel ricevitore.
«Buongiorno — chiedo scusa, buonasera Basil. Com'è il tempo a Londra?»
«Freddo, umido e tetro. Stavo meditando di venire da voi a prendere un po' di sole.»
«Non scordarti di passare al negozio.»
260
«Contavo proprio di farlo. Prima cosa domattina?»
«Nella mia agenda c'è sempre posto per te.»
«A domani, allora.»
«Magnifico. A presto.» Il giudice Moore riattaccò.
Che accidente di giornata! pensò. Prima perdiamo CARDINALE, adesso Sir Basil Charleston vuole venire qui a dirmi qualcosa che non si arrischia a comunicare per telefono, nemmeno sull'impianto più sicuro che la NSA e il GCHQ hanno mai inventato! Non era ancora mezzogiorno, e lui era in ufficio da nove ore. Cosa diavolo sta andando male?
«E lei la chiama una prova?» Il generale Yevgeniy Ignat'yev era il capo dell'ufficio controspionaggio del GRU, il "braccio segreto" dell'Esercito.
«Questi occhi stanchi hanno l'impressione che i suoi uomini siano caduti sul ghiaccio sottile mentre cercavano un pesce.»
Vatutin era meravigliato e furioso perché il Presidente del KGB aveva mandato quell'uomo nel suo ufficio a verificare il suo caso.
«Se lei mi trova una spiegazione plausibile per la pellicola, la macchina fotografica e il diario, forse avrà la compiacenza di farmene partecipe, compagno.»
«Lei dice di averla presa dalla mano di lui, non da quella della donna.» Era un'affermazione, non una domanda.
«Un mio errore del quale non tento di scusarmi» rispose Vatutin con una dignità che suonò strana a lui come all'interlocutore.
«E l'apparecchio fotografico?»
«Era attaccato magneticamente all'interno del frigorifero.»
«Non lo avete trovato la prima volta che avete perquisito l'appartamento, a quanto vedo. E non ci sono impronte digitali. Inoltre, la vostra registrazione televisiva non fa mai vedere Filitov nell'atto di usarla. Se lui mi dice che siete stati voi a mettergli in casa la macchina e la pellicola, come posso convincere il ministro che è lui il bugiardo?»
Vatutin fu sorpreso dal tono in cui era stata rivolta la domanda. «Quindi lei crede che sia una spia?»
«Quello che credo non ha importanza. L'esistenza del diario mi rende perplesso, ma lei non immagina quante infrazioni alla sicurezza mi tocca vedere, soprattutto ai livelli più alti. Quanto più importanti diventano le persone, tanto più se ne fregano delle norme. Lei sa chi è Filitov. È più di un eroe, compagno.
È famoso in tutta l'Unione Sovietica — il "Vecchio Misha", l'Eroe di Stalingrado. Ha combattuto a Minsk, a Vyasma, davanti a Mosca quando abbiamo fermato i fascisti, alla disfatta di Kharkov, alla ritirata su Stalingrado, al contrattacco...»
261
«Ho letto il suo dossier» interruppe Vatutin con tono neutro.
«È un simbolo per tutto l'Esercito. Lei non può far fucilare un uomo in base a prove dubbie come queste, Vatutin. Tutto ciò che ha sono questi fotogrammi, senza alcun elemento per sostenere che li ha scattati lui.»
«Non lo abbiamo ancora interrogato.»
«E lei crede che sarà facile?» Ignat'yev alzò gli occhi al cielo. La sua risata sembrava un latrato. «Ma lo sa, lei, chi è Filitov? E l'uomo che, mentre stava bruciando, ha fatto fuori dei tedeschi. Ha guardato la morte negli occhi un migliaio di volte e le ha pisciato sul muso!»
«Posso cavare da lui tutto ciò che voglio» insisté Vatutin con voce calma.
«La tortura, eh? Siamo impazziti? Non dimentichi che la divisione di fanteria motorizzata delle Guardie di Taman è di stanza a pochi chilometri di qui. Crede che l'Armata Rossa se ne starà tranquilla a sedere mentre lei tortura uno dei suoi eroi? Stalin è morto, compagno colonnello, ed è morto anche Beria.»
«Possiamo tirargli fuori le informazioni senza fargli male fisicamente» disse Vatutin. Quello era uno dei segreti più gelosamente custoditi del KGB.
«Idiozie!»
«Se è così, generale, che cosa suggerisce?»
«Mi lasci prendere in mano il caso. Faremo noi in modo che non tradisca mai più la Rodina,, può stare sicuro» promise Ignat'yev.
«E toglierà dall'imbarazzo l'Esercito, naturalmente.»
«Vorremmo togliere tutti dall'imbarazzo, non ultimo lei, compagno colonnello, per avere sballato questa cosiddetta indagine.»
Bene, grosso modo è quanto mi aspettavo. Un po' di arroganza e qualche minaccia, miste a un po' di simpatia e di cameratismo. Vatutin capì di avere una via d'uscita, che prometteva la sicurezza ma, al tempo stesso, la morte della sua promozione. Il messaggio scritto del Presidente lo aveva chiarito in modo inequivocabile. Era stretto fra due avversari e, mentre poteva ancora meritare l'approvazione di uno, il traguardo più grande comportava anche il rischio maggiore. Poteva ancora recedere dal vero obiettivo dell'indagine e restare colonnello per il resto della sua vita, oppure fare ciò che aveva sperato all'inizio
— senza motivazioni politiche, ricordò cupo — e rischiare di cadere in disgrazia.
La decisione era paradossalmente semplice. Vatutin era un uomo della "Due".
«Il caso è mio. Il Presidente me lo ha affidato, e lo condurrò a modo mio.
Grazie del consiglio, compagno generale.»
Ignat'yev apprezzò l'uomo e la sua presa di posizione. Non gli succedeva spesso di imbattersi nell'integrità, e si sentiva vagamente rattristato al pensiero di non potersi congratulare con l'uomo che dimostrava di possedere quella dote così rara. Però veniva prima la fedeltà all'Esercito sovietico.
«Come vuole. Mi aspetto di essere tenuto al corrente di ogni sua iniziativa.»
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Ignat'yev uscì senza aggiungere altro.
Vatutin rimase alla scrivania ancora per qualche minuto valutando la propria posizione, poi chiamò il garage. Venti minuti dopo era a Lefortovo.
«Impossibile» rispose il medico senza lasciargli finire la domanda.
«Come?»
«Lei vuole mettere quell'uomo nella vasca di privazione sensoria, giusto?»
«Naturalmente.»
«Con ogni probabilità, equivale a ucciderlo, e non credo che lei lo voglia.
Quanto a me, non intendo assolutamente arrischiare il mio progetto in una situazione del genere.»
«È il mio caso, e lo conduco...»
«Compagno colonnello, l'uomo in questione ha più di settant'anni. Ho qui la sua cartella medica. Presenta tutti i sintomi di moderati disturbi cardiocircolatori
— normali alla sua età — e tutta una casistica di disturbi respiratori.
L'instaurazione del primo periodo di ansia gli farebbe scoppiare il cuore come un palloncino. Posso quasi garantirlo.»
«Che cosa significa "scoppiare il cuore"?»
«Mi scusi, è sempre difficile spiegare i termini medici ai profani. Le sue arterie coronarie sono rivestite da modeste quantità di placca. Succede a tutti, e deriva dall'alimentazione. Ha le arterie più ostruite delle nostre a causa dell'età; per lo stesso motivo, le arterie sono meno elastiche di quelle di una persona più giovane. Se il ritmo cardiaco aumenta, i depositi di placca si sposteranno provocando il blocco. È questo il cosiddetto "attacco cardiaco", colonnello: il blocco di una coronaria. Ciò provoca la necrosi di una parte del muscolo, il cuore si ferma completamente o diventa aritmico; in entrambi i casi smette di pompare sangue, e il paziente muore. E chiaro? L'uso della vasca gli causerà quasi sicuramente un attacco cardiaco, che con quasi altrettanta certezza gli sarà fatale. Se non un attacco, potrà avere — ma è meno probabile — un forte colpo apoplettico, o forse il colpo e l'attacco insieme. No, compagno colonnello, non possiamo usare la vasca con questo soggetto. Non credo che lei voglia ucciderlo prima di avergli strappato le informazioni.»
«Quali altre misure di costrizione fisica si potrebbero usare?» domandò a bassa voce Vatutin. Mio Dio, e se non riesco a...?
«Se è sicuro che sia colpevole, può fucilarlo subito e farla finita» rispose il medico. «Ma l'avverto che qualunque severo maltrattamento fisico può uccidere il paziente.»
E tutto a causa di una stramaledetta serratura, si disse Vatutin.
Era un razzo molto brutto, come se fosse stato disegnato da un bambino o fatto da una fabbrica di fuochi artificiali. Tanto il bambino quanto la fabbrica, 263
però, avrebbero avuto abbastanza buon senso per metterlo non sopra l'aereo, bensì al posto giusto, sotto, Comunque, era sopra l'apparecchio, che correva sulla pista le cui luci perimetrali brillavano nell'oscurità.
L'aereo era il famoso SR-71 Blackbird, il ricognitore Mach-3 della Lockheed.
Era partito due giorni prima dalla base aerea di Kadena sulla costa occidentale del Pacifico. Aveva rullato sulla pista della base aerea Nellis nel Nevada, spinto dalle fiamme gemelle dei due motori con i postbruciatori. Il carburante fuoruscito dai serbatoi dell'SR-71 — il Blackbird perdeva parecchio — era stato incendiato dal calore, con grande divertimento del personale della torre. Il pilota tirò la cloche al momento giusto, e il muso del Blackbird puntò in alto. La tenne poi tirata più a lungo del solito, impegnando il velivolo in una ripida cabrata a quarantacinque gradi, lasciando a quelli della torre niente più di un tonante ricordo. L'ultima immagine che il personale di terra ebbe dell'aereo furono i due rabbiosi puntini dei motori, che presto sparirono oltre le nubi vaganti a tremila metri d'altezza.
Il Blackbird continuò a salire. I controllori del traffico aereo a Las Vegas notarono il blip sui loro schermi e videro che si spostava di poco lateralmente, benché le cifre della quota mutassero con la rapidità dei simboli di una slot machine. Si scambiarono un'occhiata — un altro acrobata dell'Aviazione — poi ripresero il lavoro.
Il Blackbird stava superando i diciottomila metri, e si assestò a quell'altezza dirigendo a sud-est verso il campo prova missili di White Sands. Il pilota verificò il carburante — ce n'era ancora molto — e si rilassò dopo l'eccitante ascesa in quota. I tecnici avevano ragione. Il missile "seduto" sul dorso dell'aereo non aveva inciso minimamente. Quando lui era passato a pilotare i Blackbird, la funzione del missile montato sopra l'aereo era già stata superata dagli eventi. Il progetto originario dei Blackbird prevedeva che portassero sopra la fusoliera un drone — aereo monomotore da ricognizione radiocomandato —
ma in un secondo tempo gli attacchi per fissare il drone erano stati tolti da tutti gli SR-71, meno questo. Il motivo non era stato chiarito e non figurava sul manuale di manutenzione dell'aereo. Il drone era stato progettato per andare dove non poteva recarsi il Blackbird, ma era diventato superfluo quando si era scoperto che non esistevano posti dove il Blackbird non poteva volare in sicurezza. I piloti che decollavano dall'aeroporto di Kadena lo dimostravano continuamente. Per quell'aereo non c'erano limiti all'infuori dell'autonomia, che oggi non costituiva problema.
«Juliet Whisky, qui controllo. Mi sentite? Passo» disse il sergente dalla torre.
«Controllo, qui Juliet Whisky. Tutti i sistemi in funzione. Siamo ai valori nominali del profilo.»
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«Roger. Iniziate la sequenza di lancio al mio "mark". Cinque, quattro, tre, due, uno: mark! »
A centocinquanta chilometri di distanza, il pilota inserì di nuovo i postbruciatori e tirò a sé la cloche. Il Blackbird fu brillante come sempre, salendo verticalmente grazie a una spinta valutabile in migliaia di chili. Gli occhi del pilota erano fissi sugli strumenti, con l'altimetro che girava come un orologio impazzito. La velocità adesso era di 2100 chilometri orari e continuava ad aumentare. L'SR-71 stava dando un'eloquente dimostrazione della propria indifferenza alla gravita.
«Distacco fra venti secondi» annunciò l'operatore dei sistemi dal sedile posteriore. Il Blackbird stava oltrepassando la quota di trentamila metri. Il bersaglio era a quarantamila. I comandi erano sgradevolmente "molli": a quella quota l'aria rarefatta, offrendo poca resistenza aerodinamica, rendeva difficile il controllo dell'aereo, e il pilota usava ancora più attenzione del solito. Vide che la velocità stava per raggiungere con alcuni secondi d'anticipo i tremila chilometri orari.
«Pronti alla separazione... distacco, distacco!» disse l'operatore. Il pilota puntò il muso dell'aereo verso terra e iniziò un'ampia virata a sinistra che gli avrebbe fatto sorvolare il Nuovo Messico prima di ritornare a Nellis. Era molto più facile che volare lungo il confine sovietico — e qualche volta superarlo... Il pilota si domandava se, dopo l'atterraggio, avrebbe avuto il tempo di prendere la macchina e andare a vedere un film a Las Vegas.
Il bersaglio continuò a salire per qualche secondo ma, cosa sorprendente, il motore a razzo non si accese. Adesso non era altro che un oggetto balistico che viaggiava secondo le leggi della fisica. Le grandi pinne gli davano sufficiente resistenza aerodinamica per tenerlo puntato nella giusta direzione, ma la forza di gravita cominciava a reclamarlo. A quarantamila metri il bersaglio si capovolse, dirigendo con riluttanza verso il suolo.
A quel punto il motore si accese. Il carburante solido bruciò solo per quattro secondi, ma bastarono per portare il muso conico a una velocità che avrebbe terrorizzato il pilota del Blackbird.
«Okay» disse un ufficiale dell'Esercito. Il radar passò da standby ad attivo.
Vide immediatamente il bersaglio in discesa. Il razzo stava attraversando l'atmosfera a una velocità pressappoco uguale a quella di un missile balistico intercontinentale. Non ci fu bisogno di dare ordini, il sistema era completamente automatico. Duecento metri più in là un coperchio di plastica saltò via da un buco di cemento e ne eruppe un FLAGE diretto verso il cielo. Il Flexible Lightweight Agile Guided Experiment — missile sperimentale leggero telegui-dato — più che a un razzo rassomigliava a una lancia, ed era quasi altrettanto 265
semplice. Il radar a onda millimetrica rilevò l'oggetto in arrivo, e i dati furono elaborati dal microcomputer di bordo. Il fatto notevole era che il FLAGE era un mosaico di parti che, a loro volta, erano componenti standard di altre armi ad alta tecnologia.
Sul campo, gli uomini osservavano protetti da un rialzo di terra. Videro una striscia ascendente di luce gialla e udirono il rombo del motore a carburante solido, poi più nulla per alcuni secondi.
Il FLAGE si diresse sul bersaglio, manovrando per qualche frazione di secondo grazie ai piccoli razzi di controllo dell'assetto. Lo scudo di prua volò via, e ciò che si vide fu come lo scheletro di un ombrello che si apriva su un diametro di circa dieci metri...
Rassomigliava proprio a un fuoco d'artificio per la festa del 4 luglio, ma senza il rumore. Qualcuno applaudì. Sebbene il bersaglio e la testata del FLAGE
fossero totalmente inerti, l'energia della collisione trasformò il metallo e la ceramica in vapore incandescente.
«Quattro su quattro» disse Gregory sforzandosi di non sbadigliare. Aveva già visto dei fuochi artificiali.
«Non può pensare di colpirli tutti, maggiore» lo redarguì il generale Parks.
«Abbiamo ancora bisogno dei sistemi di fase intermedia e di quelli per la difesa terminale.»
«Sì, signore, ma non ha bisogno della mia presenza qui. Funziona.»
Per le prime tre prove il razzo bersaglio era stato lanciato da un caccia Phantom, ma qualcuno a Washington aveva obiettato che la serie di collaudi aveva sottovalutato la difficoltà di intercettare le testate in arrivo. L'idea di usare il Blackbird come piattaforma di lancio era stata di Parks. Lanciando il razzo radiocomandato da una quota più elevata e con una velocità iniziale superiore si era ottenuto un bersaglio con rientro molto più rapido. Questa prova aveva reso le cose un po' più difficili del previsto, ma il FLAGE non si era minimamente scomposto. Parks non era tanto tranquillo a proposito del software per la guida del missile, che invece aveva funzionato a dovere.
«Al,» disse Parks «comincio a pensare che questo programma andrà bene.»
«Certo. Perché non dovrebbe?» Se quegli sfaticati della CIA ci procurano i disegni del laser russo...
CARDINALE sedeva da solo in una cella spoglia, larga un metro e mezzo e lunga meno dì tre. C'era una lampadina nuda in alto, una branda di legno con sotto un secchio, ma nessuna finestra, a parte lo spioncino nella porta di ferro arrugginito. Le pareti erano di cemento, e non si udiva nessun suono: non i passi della guardia nel corridoio, nemmeno il rombo del traffico nella strada. Gli avevano tolto la giacca dell'uniforme, la cintura e gli stivali, sostituendo questi 266
ultimi con un paio di misere pantofole. La cella era nel seminterrato. Lo capiva dall'umidità e dal freddo.
Il suo cuore era ancora più freddo. L'enormità del reato commesso lo colpì come non aveva mai fatto prima. Il colonnello Mikhail Semyonovich Filitov, tre volte Eroe dell'Unione Sovietica, era solo con il suo tradimento. Pensò al magnifico, immenso Paese in cui viveva, le cui distese sconfinate tra l'uno e l'altro orizzonte erano popolate da russi come lui. Li aveva serviti per tutta la vita con onore e con orgoglio e anche con il sangue: lo confermavano le cicatrici che aveva sul corpo. Ricordò gli uomini che avevano combattuto con lui, sotto il suo comando. Molti di loro erano caduti. E come erano morti! Maledicendo spavaldamente il nemico, mentre bruciavano vivi nei T-34 colpiti, ritirandosi solo quando erano costretti a farlo, ma sempre pronti ad attaccare anche quando sapevano di essere condannati. Ricordava le infinite volte che aveva guidato le sue truppe al combattimento, la frenetica esaltazione che accompagnava il ruggito dei motori diesel, le nuvole di fumo acre, la risolutezza anche di fronte alla morte tante volte sfidata ed elusa.
Li aveva traditi tutti.
Che cosa direbbero di me i miei uomini, adesso? Guardò la parete vuota di fronte alla branda.
Che cosa avrebbe detto Romanov?
Credo che abbiamo bisogno tutti e due di bere qualcosa, capitano, disse la voce. A queste cose si pensa meglio con l'aiuto della vodka o del samogan.
Tu sai perché? domandò Misha.
Non ce l'ha mai detto, capitano, rispose Romanov. E così Misha spiegò i motivi. Bastò un brevissimo istante.
Sua moglie e tutti e due i ragazzi. Mi dica, compagno capitano, per che cosa siamo morti?
Misha non lo sapeva. Non lo aveva saputo nemmeno durante i combattimenti.
Era un soldato, e quando la sua Patria è invasa, il soldato combatte per scacciare il nemico. Facile, e ancora di più quando il nemico era brutale come i tedeschi...
Abbiamo combattuto per l'Unione Sovietica, caporale.
Davvero? A me sembra di ricordare che ho combattuto per la Madre Russia, ma soprattutto per lei, compagno capitano.
Ma...
Un soldato combatte per i suoi camerati, capitano. Ho combattuto per la mia famiglia. Credo che lei lo abbia fatto per sua moglie e per i ragazzi. Gliel'ho sempre invidiata, la famiglia, ed ero orgoglioso che lei me ne facesse partecipe.
Per me, la famiglia era lei: lei e il reparto.
Ma io ti ho ucciso. Non avrei dovuto...
Abbiamo tutti un destino, compagno capitano. Il mio era di morire giovane a 267
Vyasma senza avere avuto né moglie né figli, ma anche così non sono morto senza famiglia.
Ti ho vendicato, Romanov. Ho distrutto il Mark-IV che ti aveva ucciso.
Lo so. Ha vendicato tutti i morti della sua famiglia. Perché crede che noi le volessimo bene? Perché morivamo per lei?
Tu mi capisci, dunque? domandò Misha sorpreso.
Forse non la capirebbero i contadini e gli operai, ma i suoi uomini sì. Adesso comprendiamo il destino, meglio di quanto possa capirlo lei.
Cosa devo fare?
I capitani non lo chiedono ai caporali, rispose Romanov ridendo. Era lei che aveva tutte le risposte alle nostre domande.
La testa di Filitov scattò quando sentì muovere il chiavistello della porta.
Vatutin si aspettava di trovare un uomo distrutto. L'isolamento della cella, la privazione dell'identità, la solitudine, le paure, il senso di colpa, facevano sempre quell'effetto. Invece, guardando il prigioniero — vecchio, stanco e malato com'era — vide cambiare l'espressione degli occhi e della bocca.
Grazie, Romanov.
«Buongiorno, Sir Basil» disse Ryan prendendo la valigia del visitatore.
«Salute, Jack! Non sapevo che fosse anche addetto a ricevere le persone.»
«Dipende da chi si deve ricevere. La macchina è da questa parte.» L'auto era parcheggiata a una cinquantina di metri.
«Tanti saluti da Constance. Come stanno i suoi?»
«Bene, grazie. Com'è Londra?»
«Credo che lei non abbia dimenticato i nostri inverni.»
«No di certo» rispose Jack ridendo. «Ricordo anche la birra.» Un attimo dopo entrambe le portiere erano chiuse e bloccate. «È tanto brutta la situazione?»
«Sono venuto qui proprio per sapere quanto. Sta accadendo qualcosa di molto strano. Ai vostri è andata male un'operazione, vero?»
«Posso rispondere di sì alla domanda, ma il resto dovrà dirglielo il giudice.
Mi scusi, ma sono stato ammesso solo a parte di questa pratica.»
«Di recente, scommetto.»
«Già.» Ryan cambiò marcia per affrontare la curva.
«Allora vediamo se sa ancora sommare due più due, Sir John.»
Jack sorrise mentre cambiava corsia per superare un camion. «Stavo facendo la valutazione sul negoziato per le armi, quando mi sono imbattuto in questa storia. Adesso mi tocca riferire sulla vulnerabilità politica di Narmonov. Non credo di sbagliare se dico che questo è il motivo per cui lei viene qui.»
«E io non credo di sbagliare se dico che la vostra operazione ha fatto scattare qualcosa di molto importante.»
268
«Vaneyev?»
«Esatto.»
«Gesù.» Ryan si voltò brevemente verso il passeggero. «Spero che lei abbia qualche idea perché, glielo assicuro, noi non ne abbiamo.» Accelerò fino ai centoventi. Un quarto d'ora dopo erano a Langley. Parcheggiata l'auto nel garage sotterraneo, presero l'ascensore riservato ai VIP per salire al settimo piano.
«Salve, Arthur. È raro avere un baronetto come autista, anche a Londra.» Il capo del SIS prese una sedia, mentre Ryan convocava i capiservizio.
«Salve, Bas'» disse Greer entrando. Ritter si limitò a salutare con la mano. Era la sua operazione che aveva fatto scoppiare la crisi. Ryan si sistemò sull'ultima sedia comoda disponibile.
«Vorrei sapere con precisione che cosa non ha funzionato» disse Charleston, senza nemmeno aspettare che venisse offerto il caffè.
«E stato arrestato un nostro agente. Uno piazzato molto in alto.»
«E per questo motivo che oggi rientrano i Foley?» Charleston sorrise. «Non sapevo chi fossero, ma quando due persone vengono espulse da quel delizioso Paese, si presume...»
«Non sappiamo ancora che cosa è andato storto» disse Ritter. «Dovrebbero atterrare a Francoforte proprio in questo momento, poi ci vorrà qualche ora prima che siano qui per il rapporto. Lavoravano con un agente che...»
«... era l'aiutante di Yazov, il colonnello M. S. Filitov. Questo abbiamo potuto dedurlo. Da quanto tempo collaborava con voi?»
«E stato uno dei vostri a reclutarcelo» rispose Moore. «Anche lui era colonnello.»
«Non vorrai dirmi... Oleg Penkovskiy...? Accidenti!» Per una volta, Charleston era veramente stupito, notò Ryan. Non succedeva tanto spesso. «Da tutti questi anni?»
«Proprio così» confermò Ritter. «Ma alla fine la legge delle probabilità ci ha fregati.»
«E la Vaneyeva che vi abbiamo prestato come corriere faceva parte di quella...»
«Esatto. Non è mai stata vicina al principio e alla fine della catena. Sappiamo che con ogni probabilità l'hanno presa, però è già tornata in ufficio. Non abbiamo ancora fatto le verifiche, ma...»
«Le abbiamo fatte noi, Bob. Il nostro uomo ci riferisce che la ragazza è... un po' cambiata. Dice che il cambiamento è difficile da descrivere, ma non si può fare a meno di notarlo. Fa pensare a quelle agghiaccianti storie di lavaggio del cervello, Orwell e gli altri. Ha notato che è libera — o ciò che passa per "libera"
in quel Paese — e pensa che lo si debba al padre. Poi abbiamo saputo qualcosa di veramente grosso all'interno del Ministero della Difesa — che un aiutante di 269
Yazov era stato arrestato.» Charleston si fermò a rimescolare il caffè. «Abbiamo una fonte all'interno del Cremlino che proteggiamo molto rigorosamente. Ci ha fatto sapere che la scorsa settimana Gerasimov ha passato parecchie ore con Alexandrov in condizioni molto insolite. Lo stesso informatore ci ha avvertiti che Alexandrov ha un fortissimo desiderio di far deragliare la perestroika. «È
chiaro, no?» chiese Charleston, anche se non ce n'era bisogno. Era perfettamente chiaro a tutti. «Gerasimov ha subornato un membro del Politburo considerato fedele a Narmonov. A dir poco, ha compromesso l'appoggio del ministro della Difesa, e inoltre ha speso parecchio tempo con l'uomo che vuole silurare Narmonov. Temo proprio che la vostra operazione abbia messo in moto delle cose con conseguenze estremamente spiacevoli.»
«Non è tutto» disse il giudice Moore. «Il nostro agente ci stava procurando del materiale sulle ricerche dei sovietici riguardanti lo scudo spaziale. I russi hanno realizzato un importante progresso.»
«Meraviglioso» commentò Charleston. «Un ritorno al cattivo tempo antico, ma questa volta la nuova versione del "missile gap" è reale, a quanto mi sembra di capire. Sono di gran lunga troppo vecchio per cambiare politica. Grosso guaio. Saprete senza dubbio che c'è una fuga di dati sul vostro programma.»
«Davvero?» domandò Moore con viso impassibile.
«Lo ha detto Gerasimov ad Alexandrov. Purtroppo nessun particolare, se non il commento che il KGB lo considera della massima importanza.»
«Siamo stati messi sull'avviso. Ce ne stiamo occupando» dichiarò Moore.
«Bene, le questioni tecniche possono risolversi da sole. Di solito lo fanno.
L'aspetto politico, invece, ha creato qualche complicazione al Primo Ministro.
Ci sono già abbastanza guai quando si fa cadere un Governo che si vuole far cadere, ma vederlo andare a rotoli per puro caso...»
«Le conseguenze dispiacciono a noi quanto a te, Basil» intervenne Greer.
«Però non possiamo farci molto, di qui.»
«Potete accettare le loro condizioni per il trattato» suggerì Charleston. «A quel punto l'amico Narmonov avrà la propria posizione abbastanza consolidata per dire ad Alexandrov di togliersi dai piedi. In ogni caso, questo è il punto di vista del Governo di Sua Maestà.»
Ed è anche il vero scopo della sua visita, Sir Basil, pensò Ryan. Era il momento di dire qualcosa:
«Ciò equivale a imporre restrizioni intollerabili alla nostra ricerca sullo scudo spaziale e ridurre il numero delle nostre testate, sapendo che i russi continuano a spingere il loro programma. Non credo che sia un buon affare».
«Lo sarebbe un Governo sovietico presieduto da Gerasimov?»
«E se finiamo per averlo comunque?» chiese Ryan. «La mia valutazione è già stata scritta. Io sconsiglio ulteriori concessioni.»
270
«Si può sempre modificare un documento scritto» fece presente Charleston.
«Signore, io ho una regola. Se deve circolare un documento con la mia firma, deve dire ciò che penso, non quello che qualcun altro mi dice di pensare»
replicò Ryan.
«Signori, non dimenticate che sono un amico. Ciò che rischia di accadere al Governo sovietico sarebbe molto più dannoso per la causa dell'Occidente, che non una restrizione temporanea ai vostri programmi di difesa.»
«Il Presidente non salterà di gioia a questa idea» disse Greer.
«Potrebbe doverlo fare» rispose Moore.
«Dev'esserci un altro modo» osservò Ryan.
«No, a meno che si riesca ad abbattere Gerasimov.» Questa volta era Ritter.
«Non possiamo offrire alcun aiuto diretto a Narmonov. Anche ammettendo che sia disposto ad accettare un nostro avvertimento, cosa che ritengo improbabile, correremmo un rischio ancora più grave immischiandoci nella loro politica interna. Se gli altri del Politburo ne avessero sentore... Credo che potrebbe essere l'inizio di una piccola guerra.»
«E se invece noi possiamo?» domandò Ryan.
«Se possiamo cosa? » sbuffò Ritter.
17
Cospirazione
"Ann" tornò alle Eve's Leaves prima del previsto, come la proprietaria non mancò di notare. Con il solito sorriso, scelse un vestito dall'appendiabiti e se lo portò nella cabina. Un minuto dopo era già fuori, davanti allo specchio, ad accettare più distrattamente del consueto gli abituali complimenti su come le stava bene. Pagò per contanti, come le altre volte, e se ne andò con un sorriso ammaliatore.
Appena fu al parcheggio cambiò atteggiamento. Il capitano Bisyarina entrò in funzione, aprendo la capsula e leggendo il contenuto. Il messaggio — scritto su un unico foglio di blocco per appunti — provocò una breve ma violenta imprecazione. Bisyarina accese una sigaretta, poi bruciò il foglietto nel portacenere della vettura.
Tutto quel lavoro sprecato! Ed era già a Mosca, lo stavano analizzando. Si sentì stupida. La seccava ancora di più dover ammettere che la sua agente era stata di un'onestà ineccepibile: aveva inviato quello che lei considerava materiale segreto e, appena scoperto che non era più valido, lo aveva prontamente comunicato. Non avrebbe nemmeno avuto la soddisfazione di infliggerle una parte della reprimenda che era sicura di ricevere per avere fatto 271
perdere tempo al Centro di Mosca. Ebbene, mi avevano avvertita di questa possibilità. E la prima volta che mi succede, ma non sarà l'ultima. Tornò a casa e trasmise d'urgenza il proprio messaggio.
I Ryan non erano famosi come frequentatori del giro dei cocktail-parties di Washington, ma non potevano evitarli proprio tutti. Quel ricevimento aveva lo scopo di raccogliere fondi per l'ospedale infantile del Distretto di Columbia, e la moglie di Jack era amica del primario del reparto chirurgia. L'evento artistico della serata costituiva un grande richiamo. Un celebre jazzista aveva un debito di riconoscenza verso l'ospedale che gli aveva salvato la figlia, e lo stava pagando con un'importante esibizione al Kennedy Center. La riunione voleva dare all'élite del DC l'occasione di conoscerlo personalmente e di ascoltare il suo saxofono nella privacy di una cerchia ristretta. Lo scopo vero, però, era —
come nella maggior parte dei gruppi di potere — di dar modo ai membri di quell'élite di vedersi e di confermarsi l'un l'altro che erano davvero importanti.
Come accadeva un po' dappertutto nel mondo, l'élite sentiva il bisogno di pagare per quel privilegio. Jack capiva il fenomeno ma non gli sembrava che avesse molto senso. Alle undici di sera quegli eletti avevano dimostrato di essere in grado, non meno bene di chiunque altro, di fare discorsi inutili e di sbronzarsi.
Cathy si era limitata a un bicchiere di vino bianco; quella sera Jack aveva vinto il sorteggio: a lui toccava bere, e a Cathy il compito di guidare al ritorno. Si era lasciato un po' andare, a dispetto di qualche sguardo ammonitore della moglie, e se ne stava felicemente immerso in un dolce tepore filosofico che gli faceva capire di avere recitato la parte con un po' troppo impegno — anche se non c'era una parte da recitare. Sperava con tutto il cuore che quella sera tutto andasse secondo il programma.
La parte divertente era il modo in cui Ryan veniva trattato. Il suo ruolo alla CIA era sempre stato tenuto un po' nebuloso. L'approccio consueto da parte dei curiosi era "Come vanno le cose a Langley?" o domanda analoga, di solito espressa affettando un tono cospiratorio. Jack rispondeva invariabilmente — con grande sorpresa di quasi tutti gli interlocutori — che la CIA era come qualsiasi altro ente governativo, un grande palazzo che conteneva tonnellate di carte in movimento da un ufficio all'altro. Dall'esterno si tendeva a credere che la CIA avesse migliaia di agenti fantasma sparsi un po' dappertutto. La cifra esatta era segreta, ma comunque molto inferiore a quanto si pensava.
«Facciamo il normale orario d'ufficio» stava spiegando Jack a un'elegante signora che lo guardava con occhi leggermente dilatati. «Domani ho addirittura una giornata libera.»
«Davvero?»
«Certo. Martedì ho ucciso un agente cinese. Ci danno sempre un giorno di 272
vacanza per questi exploit» disse con aria seria, poi si mise a ridere.
«Mi prende in giro?»
«Proprio così, la sto prendendo in giro. La prego di dimenticare ciò che ho detto.» Chi è questa pupa stagionata? si chiese.
«Che cosa mi dice della notizia secondo la quale lei sarebbe sotto inchiesta?»
domandò un'altra voce.
Jack si voltò sorpreso. «E chi sarebbe lei, piuttosto?»
«Scott Browning della Chicago Tribune. » Non accennò a stringergli la mano.
Il gioco era appena cominciato. Il giornalista non sapeva di essere uno dei giocatori, ma Ryan sì.
«Le dispiacerebbe ripetere la domanda?» disse cortesemente Jack.
«Le mie fonti dicono che c'è un'indagine in corso su di lei per operazioni di Borsa illegali.»
«Mi giunge nuova» rispose Jack.
«So che lei si è incontrato con degli investigatori della SEC» annunciò il giornalista.
«Se è al corrente di questo, saprà anche che ho fornito le informazioni che mi chiedevano, dopo di che se ne sono andati tranquilli e contenti.»
«Ne è sicuro?»
«Certo che lo sono. Non ho fatto niente di male e ho la documentazione per dimostrarlo» insisté Ryan, forse con un po' troppa energia, pensò il giornalista.
Gli piaceva che la gente bevesse un po' più del giusto. In vino veritas.
«Non corrisponde alle mie Informazioni» continuò a incalzarlo Browning.
«Ebbene, non posso farci niente!» esclamò Ryan. Aveva alzato un poco la voce, e diverse teste si voltarono.
«Forse, se non ci fossero dentro delle persone come lei, potremmo avere un servizio informazioni funzionante» osservò un nuovo arrivato.
«E chi cazzo è lei?» sbottò Ryan prima di voltarsi, Atto I, Scena 2.
«Trent, membro del Congresso» disse il giornalista. Trent faceva parte dello House Select Committee.
«Credo che lei mi debba delle scuse» affermò Trent. Sembrava alticcio.
«Per cosa?» domandò Ryan.
«Diciamo per tutte le stronzate commesse su quella riva del fiume.»
«In confronto a quelle che si fanno su quest'altra sponda?» insinuò Jack. La gente cominciava ad affluire. Mai perdere uno spettacolo.
«So che cosa avete cercato di combinare, ma avete battuto il culo per terra.
Non ci avete informati, fregandovene della legge. Avete tirato avanti lo stesso, e io vi dico che pagherete, oh sì, pagherete caro!»
«Se dobbiamo pagare il suo conto al bar, è garantito che pagheremo caro.»
Ryan si voltò ignorandolo.
273
«Il grand'uomo» disse ancora Trent dietro le sue spalle. «Anche lei sta per cadere nel precipizio, glielo dico io.»
C'erano una ventina di persone ad assistere alla scena. Videro Jack prendere un bicchiere di vino da un vassoio. Videro anche uno sguardo che poteva uccidere, e alcuni ricordarono che Jack Ryan era un uomo che aveva ucciso.
Quel fatto e quella reputazione gli davano un alone di mistero. Bevve un piccolo sorso di chablis prima di voltarsi di nuovo.
«Che genere di caduta potrebbe essere, signor Trent?»
«La stupirebbe.»
«Niente di ciò che lei fa può stupirmi, egregio.»
«Forse, ma lei ha stupito noi, dottor Ryan. Non pensavamo che fosse un imbroglione, e nemmeno che fosse tanto stupido da farsi coinvolgere in quel disastro. Mi rendo conto che avevamo torto.»
«Lei ha torto in un sacco di cose» sibilò Jack.
«Vuoi saperne una, Ryan? Per quanto mi sforzi, non riesco a capire che razza di uomo è lei.»
«Questa non è una sorpresa.»
«E allora, che razza di uomo è, Ryan?» domandò Trent.
«Lo sa, membro del Congresso, che questa è un'esperienza nuova per me?»
disse Jack in tono allegro.
«E come mai?»
Le maniere di Ryan cambiarono bruscamente. La sua voce tuonò nella sala.
«Perché è la prima volta che mi sento chiedere che tipo d'uomo sono da un finocchio!» Scusami, amico...
La sala fu d'un tratto silenziosa. Trent non faceva mistero delle proprie tendenze, che erano diventate di pubblica ragione sei anni addietro. Ciò non gli impedì di impallidire. La mano che teneva il bicchiere tremò versando una parte del contenuto sul pavimento di marmo, ma il membro del Congresso riprese il controllo di sé e parlò in tono quasi gentile.
«La spezzerò per questo.»
«Cerca di mirare giusto, carino.» Ryan si voltò e uscì dalla sala, sentendosi sulla schiena il peso degli sguardi. Continuò a camminare finché non fu alla finestra che si" affacciava sulla Massachusetts Avenue. Sapeva di avere bevuto troppo, ma l'aria fresca cominciò a schiarirgli le idee.
«Jack?» La voce di sua moglie.
«Sì, piccola?»
«Che cosa è successo?»
«Non posso dirlo.»
«Credo che sia ora di tornare a casa.»
«Hai ragione. Vado a prendere i cappotti.» Ryan andò al guardaroba e 274
presentò lo scontrino. Notò che tutti smettevano di parlare appena lo vedevano.
Si sentiva gli sguardi addosso. S'infilò il soprabito e prese sul braccio la pelliccia della moglie, prima di voltarsi a guardare gli occhi che lo fissavano.
Soltanto due occhi gli interessavano, ed erano nella sala.
Misha non era uomo facile da stupire, ma il KGB ce la fece. Lui si era preparato coraggiosamente alla tortura, ai peggiori maltrattamenti, e fu...
deluso? si domandò. Non era la parola giusta.
Lo tenevano sempre nella stessa cella che, a quanto gli era sembrato di capire, era l'unica in quell'ala del carcere. Forse non era così, ma non aveva alcuna prova della presenza di qualcuno vicino a lui, nessun suono, nemmeno qualche colpetto su una parete. Forse i muri erano troppo spessi. L'unica "compagnia"
che aveva era l'occasionale stridore dello spioncino sulla porta. Forse credevano che la solitudine avrebbe avuto qualche effetto su di lui. Il pensiero lo fece sorridere. Credono che io sia solo. Non sanno dei miei camerati.
C'era solo una risposta possibile: quel Vatutin aveva paura che lui fosse innocente — ma questo era impossibile, si disse Misha. Quel bastardo di cekista gli aveva tolto la pellicola di mano.
Stava ancora cercando di venirne a capo, guardando la parete vuota. Niente, in tutta quella storia, aveva un senso.
Però, se si aspettavano che lui avesse paura, dovevano prepararsi alla delusione. Filitov aveva ingannato troppe volte la morte. Una parte di lui l'aveva addirittura invocata. Forse si sarebbe riunito ai compagni caduti. Parlava con loro, no? Era possibile che fossero ancora... be', non vivi, ma almeno non proprio "andati via"? Che cos'era la morte? Era arrivato a un punto della vita in cui la domanda diventa quasi accademica. Non avrebbe tardato molto a saperlo.
La risposta a quella domanda lo aveva sfiorato molte volte, ma la sua presa non era mai stata abbastanza salda...
La chiave girò rumorosamente nella serratura, e le cerniere cigolarono.
«Dovresti oliarla un poco. I congegni meccanici durano di più se li si lubrifica quando ce n'è bisogno» disse alzandosi.
La guardia carceraria non rispose, e si limitò a fargli segno di uscire. Insieme al guardiano c'erano due giovani agenti in divisa, ragazzi imberbi sui vent'anni, la testa alta, l'arroganza tipica del KGB. Con quarantanni di meno, pensò Filitov, avrebbe potuto tentare qualcosa. Non erano armati, e lui era un soldato combattente per il quale togliere la vita ad altre persone era naturale come respirare. Questi non erano dei veri soldati. Uno sguardo glielo confermò. Va bene essere fieri, ma i soldati devono anche essere prudenti...
Era questo? si domandò. Vatutin lo trattava con prudenza anche se sapeva...
Ma perché?
275
«Che cosa vuoi dire?» domandò Mancuso.
«Non riesco a spiegarmelo» rispose Clark. «Forse qualche scaldasedie di Washington non è capace di prendere una decisione. È sempre così.»
I due segnali erano arrivati a distanza di dodici ore l'uno dall'altro. Il primo aveva annullato la missione e ordinato al sottomarino di ritornare in acque aperte, ma il secondo stabiliva che il Dallas doveva restare nel Baltico occidentale ad aspettare nuovi ordini.
«Non mi piace essere tenuto in sospeso.»
«A nessuno piace, comandante.»
«In che modo la disturba?» volle sapere Mancuso.
Clark si strinse eloquentemente nelle spalle. «In gran parte è mentale. Come quando ci si allena per una partita di baseball. Non si agiti, comandante. Insegno questo genere di cose, quando non sono occupato a farle.»
«E quante ne ha fatte?»
«Non saprei dire, ma quasi tutte sono andate piuttosto bene.»
«Quasi tutte... non tutte? E quando non...»
«Allora diventa emozionante per tutti.» Clark sorrise. «Specialmente per me.
Avrei delle storie fantastiche da raccontare, ma non posso farlo. Anche lei, d'altronde.»
«Ne ho qualcuna. Fanno scoprire il lato divertente della vita, no?»
I due uomini si scambiarono un'occhiata da intenditori.
Ryan era andato a fare spese da solo. Si avvicinava il compleanno di sua moglie — sarebbe caduto proprio nel periodo del prossimo viaggio a Mosca — e doveva sbrigarsi a trovarle un regalo. Le gioiellerie erano un buon punto di partenza. Cathy portava ancora il collier d'oro che le aveva offerto qualche anno prima; adesso lui cercava degli orecchini che stessero bene con la collana. Il problema era che non ricordava con precisione com'era la maglia... I postumi dell'alcol non lo aiutavano, e nemmeno il nervosismo. E se il pesce non abboccava?
«Buongiorno, dottor Ryan» disse una voce familiare. Jack si voltò un po'
sorpreso.
«Non sapevo che vi lasciassero avventurare così lontano.» Atto II, Scena 1.
Jack non lasciò trasparire il sollievo. In questo caso il dopo-sbronza gli era d'aiuto.
«Il confine passa esattamente davanti al negozio di Garfinckel, se lei guarda bene la carta» precisò Platonov. «Acquisti per sua moglie?»
«Sono certo che il mio dossier le ha già fornito tutte le indicazioni.»
«Giusto, il compleanno.» Guardò la vetrina. «Peccato che non possa 276
permettermi anch'io dei regali così per mia moglie...»
«Se lei avanzasse le proposte adatte, la CIA forse potrebbe fare qualcosa, Sergey Nikolay'ch.»
«Ma forse la Rodina non lo capirebbe» rispose Platonov. «Un problema che sta cominciando a conoscere, vero?»
«Vedo che è bene informato» mormorò Jack.
«È la mia funzione. Ho anche appetito. Chissà se potrebbe usare un po' delle sue ricchezze per offrirmi un sandwich?»
Ryan guardò avanti e indietro nella via con occhio professionale.
«Non oggi» disse Platonov con una risatina. «Un certo numero dei miei... dei miei compagni è molto attivo questo pomeriggio, più attivo del solito, e temo che il vostro FBI sia a corto di uomini per sorvegliarli tutti.»
«Il KGB non ha questo problema» osservò Jack mentre si allontanavano dal negozio.
«Se sapesse la verità si stupirebbe. Perché mai gli americani pensano che i nostri servizi segreti siano tanto diversi dai loro?»
«Se con questo vuoi dire che gli americani sono in apprensione, dovrebbe essere un fatto confortante per voi. Che ne direbbe di un hot dog? »
«Purché sia kosher» puntualizzò Platonov. «Come sa, non sono ebreo, però ho gli stessi loro gusti.»
«Lei è qui da troppo tempo» disse Jack ridendo.
Entrarono in un fastfood specializzato in ciambelle farcite e in cornea beef, ma che serviva anche altro. Il servizio era rapido, e i due uomini sedettero a un tavolino di plastica bianca isolato in mezzo al passaggio. Buona idea, pensò Jack. La gente poteva andare e venire, senza afferrare più di qualche parola.
Sapeva che Platonov era un professionista.
«Mi è giunto all'orecchio che lei sta avendo spiacevoli complicazioni d'ordine legale.» Platonov accompagnava con un sorriso ogni parola. Lo scopo era di far credere agli osservatori che si trattava di una normale, allegra conversazione fra amici, pensò Jack. Per di più, il collega russo si stava divertendo per davvero.
«Ha sentito quella testa di cavolo l'altra sera? Sa, una cosa che veramente ammiro nei russi è il modo in cui trattano i...»
«Comportamenti antisociali? Sì, cinque anni di campo di rieducazione a regime duro. Le nostre nuove aperture non arrivano ad ammettere la perversione sessuale. Il suo amico Trent ha fatto una conoscenza durante il suo ultimo viaggio in Unione Sovietica. Il giovane... uomo? in questione adesso è in uno di quei campi.» Platonov non disse che il giovane si era meritato la condanna soprattutto per avere rifiutato di collaborare con il KGB. Perché mescolare gli argomenti?
«Potete tenervelo con le mie benedizioni. Ne abbiamo a sufficienza qui»
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borbottò Ryan. Si sentiva proprio male. Gli occhi pulsavano come se volessero uscire dalla testa, per colpa del vino e del poco riposo.
«L'ho notato. E la questione della SEC?» domandò Platonov.
«Per la verità non ho fatto niente di male. Assolutamente nulla! Ho avuto un consiglio da un amico, e l'ho seguito. Non l'avevo cercato, è venuto da sé. Così ho guadagnato un po' di dollari — e allora? Io scrivo relazioni per il Presidente, sono bravo in questo — e loro se la prendono con me! Dopo tutto quello che...»
Ryan tacque e rivolse uno sguardo afflitto a Platonov. «E a lei che diavolo importa?»
«Francamente, da quando ci siamo conosciuti qualche anno fa a Georgetown, ho sempre avuto molta ammirazione per lei. Quella faccenda dei terroristi. Io non condivido le sue idee politiche, come chiaramente lei non condivide le mie.
Però, da uomo a uomo, devo ammettere che lei ha tolto degli insetti velenosi dalla circolazione. Può credermi o no, ma io mi sono pronunciato contro l'appoggio dello Stato a quegli animali. I veri marxisti che vogliono liberare il loro popolo, questi sì, dobbiamo aiutarli in ogni modo — ma i banditi sono degli assassini, rifiuti della società che ci considerano unicamente una fonte di armi, nient'altro. Il mio Paese non guadagna niente da loro. Politica a parte, lei è un uomo d'onore, un coraggioso. Io rispetto queste qualità. Peccato che il suo Paese non faccia altrettanto. L'America mette i suoi uomini migliori su un piedestallo solo perché la gente da poco possa usarli come bersagli.»
Allo sguardo circospetto di Ryan subentrò brevemente un'espressione divertita. «Dice bene.»
«Allora, amico, che cosa le faranno?»
Jack emise un lungo sospiro guardando verso il fondo del corridoio. «Questa settimana dovrò consultare un avvocato. Saprà lui che cosa fare. Avevo sperato di evitarlo. Credevo di riuscire a spiegarmi, ma... quest'altro bastardo della Commissione, quel pederasta di Trent...» Altro sospiro. «Trent ha usato la sua influenza per ottenere l'incarico. Quanto vuole scommettere che fra tutti e due...
Sì, sono d'accordo con lei. Se si devono avere dei nemici, almeno che siano persone che possiamo rispettare.»
«Non può aiutarla, la CIA?»
«Non ho tanti amici là dentro... ma lo sa già. Carriera troppo rapida, il ragazzo più ricco dell'isolato, il pupillo di Greer, le amicizie in Inghilterra. Ci si fanno dei nemici, in questo modo. Mi piacerebbe sapere se uno di loro potrebbe... Non sono in grado di dimostrarlo, ma a Langley abbiamo una rete di computer incredibile, e tutte le mie operazioni di Borsa sono memorizzate in sistemi di computer e... Vuoi sapere una cosa? Un operatore competente può modificare i dati in un computer... ma provi a dimostrarlo, amico.» Jack prese due aspirine da un tubetto e le inghiottì.
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«Ritter non mi può soffrire, non gli sono mai piaciuto» riprese. «Gli ho fatto fare una figura poco brillante qualche anno fa, e lui non è tipo da dimenticarsene. Potrebbe essere stato uno dei suoi... ha delle persone in gamba nel servizio. L'ammiraglio vorrebbe aiutarmi, ma è vecchio. Il giudice sta per andare in pensione, si pensava che uscisse qualche anno fa, ma riesce a tirare avanti... non potrebbe darmi una mano nemmeno se volesse.»
«Al Presidente piace il suo lavoro. Lo sappiamo.»
«Il Presidente è avvocato ed è stato Pubblico Ministero. Che abbia solo un vago sentore che ho violato la legge e... è sorprendente come ci si può ritrovare soli di colpo. Anche al Dipartimento di Stato c'è un gruppo che ce l'ha con me, perché non vedo le cose a modo loro. È difficile vivere in questa città restando onesti.»
Allora è vero, pensò Platonov. Erano stati informati prima da Peter Henderson, nome in codice Cassius, che da dieci anni forniva notizie al KGB, inizialmente come assistente speciale del senatore Donaldson, ora in pensione, della commissione informazioni del Senato e adesso come analista al General Accounting Office. Il KGB sapeva che Ryan era la stella nascente della Direzione Informazioni della CIA. Il rapporto su di lui alla Centrale di Mosca in un primo tempo lo aveva definito un ricco dilettante. Da qualche anno quel giudizio era cambiato. Aveva fatto qualcosa che aveva riscosso l'attenzione del Presidente, e ora scriveva quasi la metà dei rapporti speciali che la CIA mandava alla Casa Bianca. Si sapeva da Henderson che la sua esauriente documentazione sulla situazione delle armi strategiche aveva fatto drizzare le penne a Washington. Platonov si era formato da tempo un'opinione. Buon giudice di uomini, fin dal primo incontro alla Galleria di Georgetown aveva visto in Ryan un avversario brillante e coraggioso — ma anche un uomo troppo abituato ai privilegi e troppo facilmente offeso da un attacco personale.
Sofisticato, ma stranamente ingenuo. L'incontro al ristorante glielo confermava.
Alla base di tutto, Ryan era troppo americano. Vedeva le cose in bianco e nero, in bene e in male. Il fatto importante, in quel momento, era che Ryan si era creduto invincibile, e stava scoprendo di non esserlo. Ciò faceva di lui un uomo furibondo.
«Tutto quel lavoro sprecato» disse Jack dopo qualche secondo.
«Trascureranno sicuramente le mie raccomandazioni.»
«Che cosa vuoi dire?»
«Voglio dire che il fottuto Ernest Allen ha convinto il Presidente a mettere sul tavolo lo scudo spaziale.» Ci volle tutta la professionalità di Platonov per non reagire in modo visibile. Ryan proseguì: «È stato tutto inutile. Hanno screditato la mia analisi a causa di questa idiozia delle operazioni di Borsa. L'Agenzia non mi sta appoggiando come dovrebbe. Mi sta gettando ai maledetti cani.
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Comunque, non posso farci un accidente». Jack finì il suo hot dog.
«Si può sempre prendere qualche iniziativa.»
«Vendicarmi? Ci ho pensato. Potrei rivolgermi ai giornali, ma il Posi sta per uscire con un servizio su questa storia della SEC. Qualcuno dal Palazzo sta orchestrando la faccenda. Dev'essere Trent. Scommetto che è stato lui a metter su quel giornalista contro di me, l'altra sera, il gran bastardo. Se anche cerco di far sapere la verità, chi vuole che mi creda? Cristo, sto rischiando le chiappe anche in questo momento, a stare qui con lei.»
«Perché dice questo?»
«Non lo indovina?» Ryan si lasciò andare a un sorriso che si spense bruscamente. «Non andrò in prigione. Preferisco morire, piuttosto di finire così in basso. Dio santo, ho rischiato la vita, mi sono giocato tutto. Cose che lei sa, più una che non conosce. Sì, ho rischiato la pelle per questo Paese, e loro vogliono mandarmi in galera!»
«Forse possiamo aiutarla noi.» Finalmente l'offerta era arrivata.
«Defezionare? Lei scherza. Non penserà sul serio che io voglia vivere nel vostro paradiso dei lavoratori?»
«No, ma per un giusto incentivo forse potremmo cambiare la sua situazione.
Ci saranno testimoni d'accusa contro di lei. Potrebbero avere un incidente...»
«Non mi esca con queste boiate!» Jack si chinò verso il russo. «Voi non fate lavori del genere nel nostro Paese come noi non li facciamo nel vostro.»
«Ogni cosa ha un prezzo. Lei lo capisce meglio di me.» Platonov sorrise. «Ad esempio, il disastro di cui parlava Mr. Trent ieri sera. Che cosa può essere?»
«E io, come faccio a sapere per chi lavora veramente lei?» domandò Jack.
«Come?» Attraverso le pulsazioni dell'emicrania Ryan vide che la domanda aveva scosso il sovietico.
«Lei cerca un incentivo? Sergey, sto per mettere in palio la mia vita. Non pensi che sia facile solo perché l'ho già fatto altre volte. Abbiamo qualcuno infiltrato nella Centrale di Mosca. Un pezzo grosso. Mi dica che cosa otterrei in cambio di quel nome.»
«La libertà» rispose prontamente Platonov. «Se è grosso come dice, saremmo disposti a fare molto.» Ryan non aggiunse una parola per più di un minuto. I due uomini si scrutavano come due giocatori da sopra le carte, come se stessero entrambi rischiando tutto ciò che possedevano — e come se Ryan avesse saputo di avere le carte meno buone. Platonov affrontò la forza dello sguardo di Ryan, e fu contento di prevalere.
«Vado a Mosca a fine settimana, se la bomba non scoppia prima, nel qual caso sono fottuto. La cosa che le ho detto, amico, non deve passare attraverso un qualche canale. L'unica persona che sicuramente non è la nostra spia, è Gerasimov. Lei deve comunicare per direttissima con il Presidente e con nessun 280
altro, senza intermediari, se no rischia di fare insabbiare il nome dell'informatore.»
«E perché dovrei credere che lei lo conosce, questo nome?» Il russo cercava di sfruttare il vantaggio, ma con prudenza.
Toccava a Jack sorridere, adesso. La carta della disperazione si era rivelata la migliore. «Non so il nome, ma conosco i dati. Con le quattro cose che sono arrivate da CONDUCTOR — questo è il nome in codice — i suoi soci possono scoprire il resto, Sergey. Se la sua lettera passa attraverso i soliti canali, probabilmente non salirò sull'aereo. Questo per dirle quanto lui — o lei — sta in alto sulla scala; penso comunque che si tratti di un lui. Come faccio a sapere che lei manterrà la parola?»
«Nei servizi segreti si deve sempre mantenere la parola» sentenziò Platonov.
«Allora dica al suo Presidente che voglio vederlo, che cerchi di organizzare la cosa. Da uomo a uomo, e nessuno scherzo.»
«Il Presidente? Il Presidente non...»
«Allora andrò dall'avvocato e correrò i miei rischi. Non finirò nemmeno in carcere per tradimento, se posso evitarlo. Queste sono le condizioni, compagno Platonov » concluse Jack. «Buon rientro a casa.»
Jack si alzò e uscì. Platonov non gli corse dietro. Si guardò intorno e cercò la sua guardia di sicurezza, che confermò con un segnale che non erano stati osservati.
Aveva preso la decisione. Era sincero Ryan? Cassius sosteneva di sì.
Cassius era alle sue dipendenze da tre anni. I dati di Peter Henderson avevano sempre avuto conferma. Lo avevano usato per seguire e arrestare un colonnello delle Forze Missilistiche Strategiche che lavorava per la CIA. Aveva fornito preziosissime informazioni strategiche e politiche, e anche l'analisi americana del caso dell' Ottobre Rosso dell'anno precedente — no, si corresse, di due anni prima. Adesso che lavorava al GAO, si trovava nella miglior situazione possibile: accesso diretto ai dati segreti della Difesa e a tutti i contatti politici ad alto livello. Cassius aveva riferito poco tempo prima che Ryan era sotto indagine. A quell'epoca era stata una notizia piccante che però nessuno aveva preso sul serio. Gli americani erano sempre intenti a investigarsi l'un l'altro. Era il loro sport nazionale. Poi aveva sentito la storia per la seconda volta, e adesso la scena con Trent. Era mai possibile che...?
Una fuga di notizie nel KGB, ad alto livello, pensò Platonov. C'era, ovviamente, un protocollo per far pervenire dei dati al Presidente senza intermediari. Il KGB prevedeva tutte le possibilità. Il messaggio, una volta trasmesso, doveva essere seguito. Già solo l'accenno che la CIA aveva un agente negli scaglioni alti del KGB...
Ma quella non era l'unica considerazione.
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Una volta che avremo piazzato l'esca, saremo padroni del dottor Ryan. Forse lui è tanto sciocco da credere possibile uno scambio una tantum d'informazioni contro i servizi e che non dovrà mai più... Più probabilmente è tanto disperato che in questo momento non se ne preoccupa. Che genere d'informazioni potremmo ottenere da lui?
Assistente speciale del vicedirettore alle Informazioni! Ryan deve sapere quasi tutto! Reclutare un agente così importante — non era mai più accaduto dopo Philby, cinquant'anni addietro. Ma è abbastanza importante da giustificare la violazione delle regole? si chiese Platonov finendo di bere. A memoria sua il KGB non aveva mai commesso un atto di violenza negli Stati Uniti — esisteva un gentlemen's agreement a quel proposito. Ma che cos'erano le regole di fronte a un simile vantaggio? Forse uno o due americani potevano avere un incidente d'auto o un improvviso attacco di cuore. Anche questo comportava il nulla osta del Presidente. Platonov avrebbe fatto le proprie raccomandazioni. Sarebbero state seguite, ne era sicuro.
Il diplomatico era un uomo molto scrupoloso. Si asciugò il viso con un tovagliolo di carta, mise tutti gli avanzi nel bicchiere di carta che depositò nel contenitore più vicino. Non lasciò nulla da cui si potesse arguire che era stato in quel locale.
L'Arciere era sicuro di vincere. Quando aveva annunciato la missione ai subordinati, la reazione non avrebbe potuto essere migliore. Sorrisi divertiti e taglienti, sguardi in tralice, cenni del capo. Il più entusiasta era stato il nuovo adepto, l'ex maggiore dell'Esercito afghano. Nella tenda, venti chilometri dentro l'Afghanistan, avevano elaborato il piano in cinque intense ore.
L'Arciere riesaminò la fase uno, già completa. Avevano in mano sei autocarri e tre BTR-60 per trasporto truppe. Alcuni dei veicoli erano danneggiati, ma non era una sorpresa. I soldati morti dell'Esercito fantoccio furono spogliati delle uniformi. Gli undici superstiti furono interrogati. Non avrebbero partecipato alla missione, naturalmente, ma se si fossero dimostrati degni di fiducia, avrebbero avuto il permesso di unirsi alle bande di guerriglieri alleate. Quanto agli altri...
L'ex ufficiale dell'Esercito ricuperò le carte e i codici radio. Conosceva tutte le procedure che i russi avevano assiduamente insegnato ai "fratelli" afghani.
C'era il campo base di un battaglione a dieci chilometri di lì, a nord lungo la strada di Shekabad. L'ex maggiore comunicò via radio con il comando dicendo che "Girasole" aveva respinto l'imboscata con perdite modeste e stava per rientrare. Ricevette l'approvazione del comandante.
Caricarono sui veicoli alcuni cadaveri ancora vestiti delle divise insanguinate.
I militari ben addestrati, disertori dell'Esercito afghano, furono messi alle mitragliatrici pesanti dei BTR. La colonna si mosse, disponendosi in formazione 282
tattica sulla strada inghiaiata. Il campo base era dall'altra parte del fiume. Venti minuti dopo lo videro. Il ponte era stato abbattuto già da un pezzo, ma i genieri russi avevano gettato grandi quantità di ghiaia nel letto del fiume, fino a costituire un guado. La colonna si fermò al posto di guardia sulla riva est.
Quella era la parte inquietante. Il maggiore fece il segnale giusto, e la sentinella diede via libera con un gesto della mano. A uno a uno i veicoli si mossero per attraversare il fiume. La superficie era ghiacciata, e i guidatori dovevano seguire un sentiero contrassegnato da paletti per non cadere nell'acqua profonda che scorreva sotto il ghiaccio scricchiolante. Ancora cinquecento metri.
Il campo base sorgeva su una piccola altura. Era circondato da bassi bunker costruiti con tronchi e sacchetti di sabbia. Nessuno era completamente presidiato. Il campo era disposto molto bene, con estesi campi di tiro in ogni direzione, però gli uomini venivano messi ai bunker delle armi pesanti soltanto di notte. Sul posto c'era un'unica compagnia, mentre gli altri effettivi erano fuori a perlustrare la zona. La colonna stava arrivando proprio all'ora del pasto. Il parcheggio del battaglione era già in vista.
L'Arciere era sul primo autocarro. In cuor suo si chiedeva perché aveva concesso completa fiducia al maggiore transfuga, ma decise che quello non era il momento più propizio all'analisi del problema.
Il comandante di battaglione uscì dal bunker mentre ancora stava masticando un boccone e guardò i soldati che saltavano giù dai camion. Stava aspettando il comandante del reparto, e non nascose la propria irritazione quando la portiera laterale del mezzo cingolato si aprì lentamente e uscì un uomo in divisa da ufficiale.
«Chi diavolo sei?»
« Allahu Akhbar! » gridò il maggiore, abbattendolo con una raffica. Le mitragliatrici pesanti dei veicoli trasporto truppe dilaniarono la massa degli uomini raccolti a mangiare, mentre i gregari dell'Arciere correvano a occupare i bunker difesi da pochi uomini. Dieci minuti dopo, ogni resistenza era cessata, ma i difensori non avevano avuto la minima possibilità contro l'irruzione di cento uomini armati. Furono presi venti prigionieri. I soli russi distaccati alla base — due tenenti e un sergente addetto alle comunicazioni — furono prontamente uccisi. I prigionieri furono messi sotto sorveglianza, mentre gli uomini del maggiore correvano al parco veicoli del battaglione.
Presero altri due BTR e quattro camion. Sarebbero bastati. Bruciarono tutti gli altri, e ogni cosa che non potevano portare via. Prelevarono quattro mortai, mezza dozzina di mitragliatrici e tutte le uniformi. Ciò che restava del campo fu completamente distrutto, specialmente le radio, che furono prima messe fuori uso a colpi di calcio del fucile, poi incendiate. Fu lasciata una squadra di 283
guardia ai prigionieri — ai quali sarebbe stata data la scelta fra unirsi ai mujaheddin, oppure morire per punizione dell'aiuto prestato all'infedele.
Mancavano cinquanta chilometri a Kabul. La nuova colonna motorizzata si diresse a nord. Ad essa si aggiunsero altri uomini dell'Arciere, che saltarono a bordo degli automezzi. Adesso la banda contava duecento effettivi, vestiti ed equipaggiati come soldati regolari dell'Esercito afghano, diretti a nord su veicoli militari di fabbricazione russa.
Il loro nemico più temibile era il tempo. Giunsero alla periferia di Kabul novanta minuti dopo, e trovarono il primo dei numerosi posti di controllo.
All'Arciere venne la pelle d'oca nel vedere un così gran numero di soldati sovietici. Quando scendeva il buio, i russi ritornavano ai propri campi protetti e ai bunker, lasciando le strade agli afghani, ma anche all'ora del tramonto l'Arciere non si sentiva sicuro. I controlli furono più sbrigativi del previsto, e il maggiore seppe comportarsi in modo tale da avere sempre via libera esibendo documenti e parole d'ordine del campo base appena distrutto. Per fortuna il loro percorso di viaggio li teneva fuori dalla parte più difesa della città. Meno di due ore dopo si erano lasciata alle spalle Kabul, e procedevano nelle tenebre amiche.
Andarono avanti finché non rimasero senza carburante. A quel punto i veicoli furono parcheggiati fuori dalla strada. Un occidentale si sarebbe meravigliato nel vedere che i mujaheddin erano felici di abbandonare gli automezzi, anche se ciò significava che dovevano portare in spalla armi e munizioni. Ben riposati, i guerriglieri si misero in marcia fra le alture, dirigendosi a nord.
Quella giornata non aveva portato altro che cattive notizie, pensò Gerasimov mentre fissava il colonnello Vatutin.
«Come sarebbe a dire, non potete piegarlo?»
«Compagno Presidente, i consulenti medici mi informano che tanto la privazione sensoria quanto le altre forme di maltrattamento fisico» — la parola
"tortura" non veniva più usata al comando del KGB — «potrebbero essere fatali al soggetto. Poiché lei insiste per la confessione, dobbiamo usare... metodi primitivi di interrogatorio. È un soggetto difficile, più duro — dal punto di vista mentale — di quanto si potesse prevedere» disse Vatutin nel tono più tranquillo che riuscì a usare. In quel momento avrebbe commesso un omicidio pur di poter bere un po' di vodka.
«Tutto perché lei ha sballato l'arresto!» osservò freddamente Gerasimov.
«Speravo molto in lei, colonnello, credevo che fosse un uomo destinato a un grande avvenire, già maturo per il grado di generale. Mi sono sbagliato, compagno colonnello?» domandò.
«La mia ambizione in questo caso si limita a smascherare un traditore della Patria.» Vatutin ebbe bisogno di tutta la disciplina per non tirarsi indietro.
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«Credo che questo obiettivo sia stato raggiunto. Sappiamo che è colpevole di tradimento. Abbiamo la prova...»
«Yazov non l'accetterà.»
«Il controspionaggio è compito del KGB, non del Ministero della Difesa.»
«Forse lei avrà la compiacenza di spiegare questo punto al Segretario Generale del Partito» disse Gerasimov lasciandosi trasportare un po' troppo dalla collera repressa. «Colonnello Vatutin, io devo avere questa confessione.»
Gerasimov aveva sperato di fare un altro colpo, ma il rapporto FLASH
dall'America lo aveva annullato. Il peggio era che Gerasimov aveva comunicato l'informazione un giorno prima di sapere che era superata. L'agente Livia si scusava molto, diceva il rapporto, ma i dati sul software trasmessi di recente tramite il capitano Bisyarina erano, purtroppo, obsoleti. Una cosa che avrebbe potuto calmare le acque fra il KGB e il nuovo progetto, gioiello del Ministero della Difesa, se n'era andata in fumo.
Aveva bisogno di una confessione, che però non doveva essere estorta con la tortura. Notoriamente la tortura può far dire tutto ciò che vuole l'inquisitore, e molti soggetti accettavano di dire qualunque cosa pur di fare cessare la sofferenza. Lui aveva bisogno di una deposizione sufficientemente valida da poter essere presentata ai membri del Politburo, la cui paura del KGB non era più tanto grande da far loro accettare al valore nominale la parola di Gerasimov.
«Vatutin, ne ho bisogno, e subito. Quando me la può fornire?»
«Usando i metodi che ci concedono le attuali limitazioni, non più di due settimane. Possiamo privarlo dei sonno. Richiede tempo, a maggior ragione perché le persone anziane necessitano di meno sonno che non i giovani. Poco alla volta sarà disorientato e crollerà. In base a quanto sappiamo di quest'uomo, possiamo prevedere che combatterà con grande coraggio. È un valoroso, però è soltanto un uomo. Due settimane» ripeté Vatutin, sapendo che dieci giorni sarebbero stati più che sufficienti. Meglio consegnare prima di quanto promesso.
«Molto bene.» Gerasimov fece una pausa. Era tempo di passare all'incoraggiamento. «Compagno colonnello, parlando obiettivamente devo dire che lei ha condotto bene l'indagine, malgrado la deludente fase finale. Non è ragionevole aspettarsi la perfezione in ogni cosa, e gli intoppi politici non sono opera sua. Se lei potrà darmi ciò che le chiedo, la sua ricompensa sarà adeguata.
Proceda.»
«Grazie, compagno Presidente.» Gerasimov aspettò che fosse uscito, poi chiamò il garage.
Il Presidente del KGB non viaggiava da solo. La sua Zil — una limousine personalizzata che rassomigliava alle grosse automobili americane di trent'anni prima — era seguita da una Volga ancora più brutta, piena di guardie del corpo 285
scelte per la capacità combattiva e per la dedizione al Presidente. Gerasimov era solo sul sedile posteriore, e osservava le case di Mosca scorrere all'indietro mentre la vettura percorreva la corsia centrale degli ampi viali. Fu presto fuori città, diretto alle foreste in cui i tedeschi erano stati fermati nel 1941.
Le dacie erano state costruite dai prigionieri sopravvissuti al tifo e all'alimentazione insufficiente. Benché i russi detestassero tuttora i tedeschi, la nomenklatura — la classe dirigente di quella società senza classi — ammirava molto i prodotti tedeschi. Gli apparecchi elettronici Siemens, gli stereo e i televisori Blaupunkt erano parte integrante delle loro case, non meno della Pravda e del notiziario non censurato "TASS Bianca". Le case di legno nei boschi di pini a ovest di Mosca erano costruite bene quanto gli immobili edificati al tempo degli zar. Gerasimov a volte si domandava che cosa ne era dei soldati della Wehrmacht che avevano lavorato a fare le dacie. Non che gliene importasse.
La dacia ufficiale dell'accademico Mikhail Petrovich Alexandrov non era diversa dalle altre: due piani, il rivestimento di legno verniciato color crema, il tetto a sesto acuto che non sarebbe stato fuori posto nella Foresta Nera. Il viale era una pista inghiaiata che serpeggiava tra gli alberi. C'era un'unica auto parcheggiata vicino alla casa. Alexandrov era vedovo, e aveva superato l'età in cui si desidera la compagnia di donne giovani. Gerasimov si aprì da solo la portiera, dando poi un'occhiata per accertarsi che l'apparato di sorveglianza si disperdesse nel folto degli alberi come di consueto. Gli uomini si fermarono soltanto a prelevare dal bagagliaio della Volga giacche a vento e stivali imbottiti. Poi, ben protetti contro il freddo e la neve, andarono alle postazioni loro assegnate.
«Nikolay Borissovich!» Alexandrov era venuto ad accoglierlo sulla soglia.
Alla dacia c'era una coppia addetta a cucinare e a fare le pulizie, ma tanto l'uomo quanto la donna sapevano quando era ora di scomparire. Questa era una di quelle circostanze. L'accademico prese il cappotto di Gerasimov e lo appese a un piolo vicino alla porta.
«Grazie, Mikhail Petrovich.»
«Del tè?» Alexandrov accennò al tavolino nel salotto. «Fa freddo là fuori»
ammise Gerasimov.
I due uomini sedettero l'uno di fronte all'altro nelle vecchie poltrone esageratamente imbottite. Ad Alexandrov piaceva fare l'anfitrione — almeno per coloro che facevano parte del suo gruppo. Versò il tè, poi mise in tavola delle ciliegie sciroppate. Bevvero il tè alla maniera tradizionale, mettendosi prima in bocca le ciliegie in modo che il tè ne prendesse il gusto e la dolcezza. Rendeva un po'
scomoda la conversazione, ma era molto russo. Per di più, Alexandrov amava le cose all'antica. Pur avendo sposato gli ideali del marxismo, il primo ideologo del 286
Politburo era rimasto, nelle piccole cose, affezionato agli usi della sua giovinezza.
«Che notizie ci sono?»
Gerasimov rispose con un gesto irritato. «Quel vecchio spione di Filitov è un osso duro. Ci vorrà almeno una settimana per cavargli la confessione.»
«Dovresti mandare al muro quel tuo colonnello che...»
Il Presidente del KGB scosse la testa. «No, no. Dobbiamo essere obiettivi. Il colonnello Vatutin ha operato molto bene. Avrebbe dovuto lasciare a un ufficiale più giovane il compito di arrestare la spia. Però io gli avevo detto che il caso era suo, e lui ha sicuramente preso troppo alla lettera le mie istruzioni. Il modo in cui ha sbrigato tutto il resto è quasi perfetto.»
«Diventi generoso troppo presto, Kolya» osservò Alexandrov. «È poi tanto difficile sorprendere un uomo di settant'anni?»
«Nel caso suo, sì. Era una valida spia per gli americani. I buoni ufficiali combattenti hanno riflessi rapidi. Se non fossero così abili, il socialismo mondiale sarebbe già stato realizzato» aggiunse un po' bruscamente. Alexandrov viveva nel suo mondo accademico e aveva poca comprensione per il modo in cui andavano le cose in quello reale. Era difficile rispettare un uomo così, ma non altrettanto difficile averne paura.
Alexandrov rispose con un grugnito. «Credo che possiamo aspettare una o due settimane. Mi disturba farlo mentre la delegazione americana è qui...»
«Lo faremo quando saranno partiti. Se si raggiunge l'accordo, non perdiamo niente.»
«È una follìa ridurre le nostre armi!» insisté il vecchio. Mikhail Petrovich continuava a pensare che le armi atomiche fossero come i cannoni e i carriarmati: quante più ce n'erano, tanto meglio. Come la maggior parte dei teorici, non si prendeva la pena di informarsi dei fatti.
«Conserveremo i nostri missili migliori e più moderni» spiegò pazientemente Gerasimov. «È più importante sapere che il nostro progetto Stella Lucente procede bene. Con ciò che i nostri scienziati hanno già fatto, e con quello che stiamo imparando dal programma americano, in meno di dieci anni saremo in grado di difendere la Rodina contro qualunque attacco straniero.»
«Hai buone fonti all'interno del programma americano?»
«Troppo buone» rispose Gerasimov posando la tazza. «Sembra che alcuni dati ci siano stati trasmessi troppo presto. Una parte delle istruzioni contenute nel software americano ci sono state messe a disposizione prima che fossero convalidate, e hanno subito delle modifiche. Seccante, ma tanto vale esserlo per troppa efficienza che per troppo poca.»
Alexandrov accantonò l'argomento con un gesto. «Ieri sera ho parlato con Vaneyev.»
287
«Allora?»
«È dei nostri. Non può sopportare l'idea che quella dolce puttanella della figlia sia messa in un campo di lavoro ― o peggio. Gli ho spiegato che cosa vogliamo da lui. È stato molto facile. Una volta ottenuta la confessione da quel bastardo di Filitov, faremo tutte le cose in una volta. Meglio concluderle subito.» L'accademico annuì ripetutamente per dare maggior forza alle parole.
Era un esperto di manovre politiche.
«Mi preoccupano le possibili reazioni dell'Occidente...» accennò Gerasimov con cautela.
La vecchia volpe sorrise nella tazza. «Narmonov avrà un attacco cardiaco. Ha l'età giusta. Non un malore fatale, ma abbastanza grave per costringerlo a ritirarsi. Assicureremo agli occidentali che la sua politica continua ― posso anche sopportare l'accordo sugli armamenti, se insisti.» Alexandrov fece una pausa. «Capisco l'inopportunità di allarmarli prima del tempo. Tutto ciò che conta per me è la supremazia del Partito.»
«Naturalmente.» Gerasimov sapeva già che cosa sarebbe venuto poi, e si abbandonò comodamente nella poltrona per ascoltarlo un'altra volta.
«Se non fermiamo Narmonov, il Partito è condannato! Quello stupido butta via tutto ciò che abbiamo laboriosamente costruito. Senza l'autorità assoluta del Partito, oggi in questa casa abiterebbe un tedesco! Dove saremmo se non ci fosse stato Stalin a mettere l'acciaio nella spina dorsale della gente? E con tutto questo, Narmonov condanna il nostro massimo eroe ― dopo Lenin» si affrettò ad aggiungere. «Questo Paese ha bisogno di una mano solida, un'unica mano forte, non di mille mani deboli! Il nostro popolo lo capisce. Il nostro popolo lo vuole. »
Gerasimov manifestò la propria approvazione con un cenno del capo, chiedendosi perché quel vecchio pazzo vacillante dovesse sempre ripetere la stessa cosa. Malgrado l'opinione di Alexandrov, il Partito non voleva un'unica mano forte. Il Partito era formato da mille mani piccole, avide, tenaci. C'erano i membri del Comitato Centrale, gli apparatchiki locali che avevano pagato le quote associative, gridavano i propri slogan, partecipavano alle riunioni settimanali fino ad avere la nausea di tutto ciò che diceva il Partito, ma continuavano a restare perché quella era la via delle promozioni, e le promozioni portavano i privilegi. La promozione significava l'automobile, i viaggi a Sochi... gli apparecchi Blaupunkt.
Gerasimov sapeva che ogni uomo ha un punto ipersensibile. Quello di Alexandrov era che troppo poca gente credeva ancora nel Partito. Gerasimov non ci credeva affatto. Tuttavia il Partito era la forza che comandava il Paese. Il Partito alimentava le ambizioni. Il potere si giustifica da sé, e per lui il Partito rappresentava la via del potere. Aveva passato tutta la vita a difendere il Partito 288
da coloro che volevano cambiare l'equazione del potere. Adesso, come Presidente dell'ente che fungeva da spada e scudo per il Partito, si sentiva nella posizione ideale per prenderne il comando. Alexandrov si sarebbe stupito, addirittura scandalizzato, se avesse saputo che il suo giovane discepolo vedeva il potere come unico obiettivo e non aveva alcun programma all'infuori dello status quo ante. L'Unione Sovietica avrebbe tirato avanti come prima, sicura nei propri confini, continuando ad adoperarsi per diffondere la propria forma di Governo in tutti i Paesi che gliene offrivano l'occasione. Ci sarebbe stato un progresso, in parte a seguito dei cambiamenti interni, in parte grazie a ciò che si sarebbe potuto ottenere dall'Occidente ― però non in misura tale da fare sperare troppo o troppo in fretta, come minacciava di fare Narmonov. Il meglio di tutto, però, era che Gerasimov avrebbe tenuto le redini. Con il potere del KGB dietro di sé, non avrebbe avuto bisogno di preoccuparsi per la sicurezza, no di certo, dopo avere abbattuto il ministro della Difesa. Così ascoltò i vaneggiamenti di Alexandrov sulla teoria del Partito facendo cenni di assenso quando era il caso.
A un osservatore esterno la scena sarebbe sembrata una delle migliaia di vecchie fotografie ― quasi tutte false ― di Stalin intento ad ascoltare con rapita attenzione le parole di Lenin. Come Stalin, anche lui avrebbe usato le parole a proprio vantaggio. Gerasimov credeva in Gerasimov.
18
Vantaggi
«Ma se ho appena finito di mangiare!» protestò Misha.
«Sciocchezze» rispose il carceriere. Gli mise sotto gli occhi l'orologio.
«Guarda l'ora, vecchio stupido. Mangia, fra poco sarà l'ora dell'interrogatorio.»
L'uomo si chinò verso il prigioniero. «Perché non gli dici ciò che vogliono sentire, compagno?»
«Non sono un traditore! Non lo sono!»
«Come vuoi. Buon appetito.» La porta della cella sbatté con rumore metallico.
«Ci stiamo arrivando» disse Vatutin.
La cosa che stava succedendo a Filitov era un po' diversa, come effetto, da ciò che il medico otteneva con l'uso della vasca di privazione sensoria. Il prigioniero perdeva il contatto con la realtà, ma molto più lentamente della Vaneyeva. La sua cella era all'interno del palazzo, e negava al prigioniero l'alternanza del giorno con la notte. La nuda lampadina non si spegneva mai. Dopo qualche giorno Filitov non seppe più che ora poteva essere. Poi le funzioni corporali cominciarono a denunciare qualche irregolarità. Successivamente furono 289
modificati gli intervalli fra i pasti. Il corpo sapeva che qualcosa non andava, ma le cose che non andavano erano tante, ed era così difficile convivere con lo sfasamento, che nel prigioniero stava subentrando una situazione molto simile a una malattia mentale. Era una tecnica classica. Rari erano gli individui che riuscivano a sopportarla per più di due settimane; quando succedeva, di solito si scopriva che avevano usato elementi acustici ignoti agli inquisitori, come il brusìo del traffico o i rumori di riparazioni agli impianti idraulici, aventi un minimo di regolarità. Poco alla volta la "Due" era riuscita a rendere totale la segregazione dei detenuti. Il nuovo blocco di celle speciali era isolato acusticamente dal resto del mondo. La cucina era situata al piano superiore per eliminare gli odori. Quel settore di Lefortovo compendiava anni di esperienza clinica nell'arte di spezzare lo spirito umano.
Secondo Vatutin era meglio della tortura, che finiva invariabilmente per coinvolgere gli inquisitori. Era quello il problema. Quando un uomo o, più raramente, una donna, diventava troppo abile nel torturare, la sua mente cambiava. Il torturatore impazziva gradualmente, con la conseguenza che i risultati dell'interrogatorio perdevano credibilità. Inoltre, il funzionario del KGB
diventava inservibile e doveva essere sostituito o, in qualche caso, ricoverato in ospedale. Negli anni Trenta quei funzionari venivano fucilati non appena i padroni politici capivano che razza di mostri avevano creato. Al loro posto subentravano altri elementi, ma con l'andar del tempo gli uomini preposti agli interrogatori cominciarono a cercare metodi nuovi, più creativi e intelligenti.
Era meglio per tutti, pensava Vatutin. Le nuove tecniche, anche quelle più dure, non lasciavano menomazioni fisiche permanenti. Adesso sembrava che ci si preoccupasse persino di curare gli squilibri mentali prodotti dall'interrogatorio. I medici che lo facevano per conto del KGB avevano constatato che il tradimento ai danni della Patria era di per sé un sintomo di grave disordine interiore, e doveva essere curato seriamente. Ciò faceva sentire meglio tutti quanti, alla fine del lavoro. Dove prima si poteva provare un senso di colpa per avere inflitto dolore fisico a un nemico coraggioso, ora ci si poteva sentire contenti di avere contribuito al ricupero di una mente malata.
Quest'uomo è più malato di molti altri, pensava Vatutin infastidito. Era un pizzico troppo cinico per credere alle tiritere che la nuova generazione della
"Due" si doveva sorbire ai corsi di istruzione e orientamento. Ricordava i racconti nostalgici degli uomini che erano stati i suoi maestri trent'anni prima ―
i bei tempi di quando comandava Beria... Gli veniva la pelle d'oca ad ascoltare i discorsi di quegli invasati, ma almeno erano coerenti in ciò che facevano. Si rallegrava, comunque, di non essere diventato come loro. Quanto a Filitov, non si illudeva che fosse infermo di mente. Era un uomo coraggioso che aveva scelto di propria volontà la via del tradimento. Un uomo nocivo, beninteso, perché 290
aveva infranto le regole della società alla quale apparteneva, e tuttavia un degno avversario. Vatutin guardò nel tubo a fibre ottiche collegato al soffitto della cella e ascoltò i suoni trasmessi dal microfono, osservando attentamente il prigioniero.
Da quanti anni lavori con gli americani? Da quando hai perso la tua famiglia? Così a lungo? Quasi trent'anni... è possibile? si domandava. Era un tempo spropositatamente lungo. Kim Philby non era durato altrettanto. La carriera di Richard Sorge era stata brillante, ma breve.
C'era una logica. Si doveva, fra l'altro, rendere omaggio a Oleg Penkovskiy, il fedifrago colonnello del GRU la cui cattura era stata uno dei casi importanti della "Due". Però quell'omaggio, adesso, era inquinato dal pensiero che Penkovskiy aveva usato la propria morte per varare una spia ancora più capace...
probabilmente reclutata proprio da lui. Quello era vero coraggio, pensò Vatutin.
Come può una virtù così nobile essere investita nel tradimento? si chiese con rabbia. Perché non possono amare la Patria come la amo io? Scosse la testa. Il marxismo esigeva l'obiettività dai suoi adepti, ma questa era eccessiva. C'era sempre il rischio di identificarsi troppo intimamente con il soggetto. Vatutin aveva avuto ben pochi problemi del genere, però non si era mai trovato alle prese con un caso come questo. Tre volte Eroe dell'Unione Sovietica!
Un'autentica icona nazionale, il cui viso era stato sulla copertina di libri e riviste. Potremo mai permetterci di rendere pubblico ciò che ha fatto? Come reagirebbe il popolo sovietico alla notizia che il Vecchio Misha, l'Eroe di Stalingrado, uno dei più nobili guerrieri dell'Armata Rossa, era diventato un traditore della Rodina? Si doveva tener conto dell'effetto sul morale della nazione.
Non è un problema mio, si disse. Osservò il vecchio militare attraverso lo spioncino ad alta tecnologia. Filitov stava cercando di mangiare il pasto che gli avevano portato, senza proprio credere che fosse ora di farlo, ma senza la possibilità di sapere che la prima colazione ― ovviamente tutti i pasti erano uguali ― gli era stata servita solo un'ora e mezza prima.
Vatutin si alzò e si stirò per lenire il mal di schiena. Un effetto collaterale della nuova tecnica era di scombinare il ritmo di vita degli inquisitori. Era passata da poco la mezzanotte e, nelle ultime trentasei ore, lui ne aveva dormito a malapena sette. A differenza di Filitov, conosceva almeno il giorno, l'ora e la stagione. Si chinò a guardare il soggetto che finiva la ciotola di kasha.
«Portatelo qui» ordinò il colonnello Klementi Vladimirovich Vatutin. Andò al bagno a spruzzarsi un po' d'acqua fredda sul viso. Si guardò allo specchio e stabilì che non aveva bisogno di radersi, poi si assicurò di avere l'uniforme perfettamente in ordine. L'unico fattore costante nel mondo distorto del prigioniero doveva essere l'immagine di chi lo interrogava. Vatutin provò anche 291
l'espressione davanti allo specchio: fiero, arrogante, ma anche compassionevole.
Non si vergognava dell'immagine che vedeva: è il viso di un professionista, si disse. Non di un barbaro o di un degenerato, ma di un uomo capace che sta eseguendo un lavoro difficile e necessario.
Quando il prigioniero entrò nella stanza dell'interrogatorio, Vatutin era, come sempre, seduto al tavolo. Ogni volta sembrava sempre occupato a fare qualcosa, quando si apriva la porta; ogni volta alzava la testa con espressione vagamente sorpresa come a dire: Oh, sei di nuovo qui? Chiuse la cartellina che aveva sulla scrivania e la mise nella borsa, mentre Filitov prendeva posto sulla sedia di fronte. Non c'era bisogno di dirgli che cosa doveva fare. La sua mente si fissava sull'unica realtà che aveva: Vatutin.
«Spero che abbia dormito bene» disse Vatutin.
«Abbastanza.» Filitov aveva gli occhi annebbiati. L'azzurro non aveva più la luminosità che Vatutin aveva ammirato durante la prima seduta.
«Le danno da mangiare a sufficienza?»
«Ho già mangiato meglio di così.» Un sorriso stanco che esprimeva ancora orgoglio e sfida, però meno di quanto credeva. «Ma ho anche mangiato peggio.»
Vatutin misurò spassionatamente la forza del prigioniero: era diminuita. Lo sai, pensava il colonnello, lo sai che devi perdere. Sai che è solo questione di tempo. Io lo vedo, disse con gli occhi, cercando e scoprendo la debolezza dietro lo sguardo di lui. Filitov lottava per non abbassare gli occhi, ma la determinazione cominciava a logorarsi, e qualche cos'altro stava venendo fuori.
Sai che stai perdendo, Filitov.
A che pro, Misha? si domandava una parte di Filitov. Lui ha tempo, lui comanda al tempo. Userà tutto ciò che gli serve per piegarti. Sta vincendo e tu lo sai, gli disse la disperazione.
Mi dica, compagno capitano, perché si fa delle domande così stupide? Ha proprio bisogno di spiegare a se stesso che è un uomo? domandò una voce familiare. Per tutta la strada da Brest-Litovsk a Vyasma sapevamo che stavamo perdendo, ma non ho mai mollato, e non lo ha fatto nemmeno lei. Se ha potuto sfidare l'Esercito tedesco, saprà certamente sfidare questo rammollito di cekista!
Grazie, Romanov.
Ma come ha fatto a tirare avanti senza di me, capitano? sogghignò la voce.
Con tutta la sua intelligenza, a volte lei può essere molto sciocco.
Vatutin vide che c'era stato un cambiamento. Il prigioniero sbatté più volte le palpebre: gli occhi furono di nuovo chiari, e la vecchia schiena affaticata si raddrizzò.
292
Che cosa ti sostiene? L'odio? Detesti lo Stato così intensamente per ciò che è successo atta tua famiglia... o si tratta di tutt'altra cosa?
«Mi dica» lo pregò Vatutin. «Mi dica perché odia la Madre Russia.»
«Non la odio» rispose Filitov. «Per la Madre Russia ho ucciso, ho versato il sangue, ho avuto il corpo in fiamme. Ma non ho fatto tutte queste cose per gente come lei.» Malgrado la debolezza, negli occhi chiari brillò una luce di sfida.
Vatutin non si scompose.
C'ero quasi arrivato, ma qualche cosa è cambiato. Se riesco a scoprire che cos'è, Filitov, ti avrò in pugno! Una voce gli diceva che aveva già ciò che gli occorreva. Restava solo il problema di identificarlo.
L'interrogatorio continuò. Anche se Filitov riusciva a resistere questa volta, e ci riusciva la prossima, magari anche quella dopo, Vatutin stava esaurendo nel prigioniero le riserve di energia fisica ed emotiva. Lo sapevano entrambi.
Sbagliavano solo su un punto: credevano che Vatutin comandasse al tempo, mentre proprio il tempo è il padrone ultimo dell'uomo.
Gerasimov fu stupito dal nuovo dispaccio FLASH dall'America, questa volta di Platonov. Era arrivato per telegramma, preavvisandogli una comunicazione già in viaggio per valigia diplomatica "riservata al Presidente". Più di qualunque altro servizio segreto, il KGB si affidava ai sistemi di cifra a impiego unico che erano impenetrabili, anche in senso teorico, se non si conosceva la sequenza del codice. Era un metodo lento, ma sicuro, e il KGB voleva la sicurezza. Oltre quel livello di trasmissione, però, c'era un altro protocollo. Ogni stazione importante disponeva di un codice speciale. Non aveva neppure un nome, ma andava per direttissima dal rezident al Presidente. Platonov era più importante di quanto la stessa CIA potesse sospettare. Era il rezident di Washington, la massima autorità della stazione.
Il messaggio, appena ricevuto, fu portato direttamente all'ufficio di Gerasimov. Il suo specialista personale in materia di codici, un capitano dalle credenziali impeccabili, non fu nemmeno convocato. Il Presidente decifrò da solo la prima frase, da cui capì che il messaggio annunciava la presenza di una talpa. Il KGB non aveva un termine corrente per designare un traditore all'interno di un'organizzazione, ma i gradi più alti conoscevano il significato della parola occidentale.
Il messaggio era lungo, e Gerasimov impiegò un'ora buona per decodificarlo, imprecando per tutto il tempo contro la propria inettitudine, mentre decifrava la trasposizione casuale nell'alfabeto russo di trentatré lettere.
Un agente infiltrato nel KGB? si chiese. A quale livello? Chiamò il segretario personale e ordinò i dossier sull'agente Cassius e su Ryan, funzionario della CIA. L'ordine fu eseguito con la consueta sollecitudine. Gerasimov mise Cassius 293
da parte, per il momento, e aprì l'incartamento su Ryan.
Trovò una sintesi biografica di trentasei pagine aggiornata sei mesi prima.
Trovò pure ritagli originali di quotidiani e riviste con le rispettive traduzioni. Di queste non aveva bisogno. Parlava un inglese più che accettabile, anche se con accento straniero. Età trentacinque anni, lesse, con credenziali nel mondo degli affari, nei circoli accademici e nella comunità dei servizi segreti. Aveva fatto strada alla CIA con notevole celerità. Incaricato di missione speciale a Londra.
La valutazione sommaria fatta a piazza Dzerzhinskiy era stata un po' colorita dalle opinioni personali dell'analista, che lo classificava come un dilettante ricco ma debole. Non era vero. La sua carriera era stata troppo veloce per un rammollito, a meno che non godesse di appoggi politici, che però non figuravano nella relazione. Probabilmente un uomo brillante, uno scrittore.
Gerasimov notò che a Mosca c'erano le copie dei suoi due libri. Certamente era un tipo orgoglioso, abituato al comfort e ai privilegi.
Così, hai violato la legge americana sulle operazioni finanziarie, vero? Quel pensiero venne spontaneo al Presidente del KGB. In ogni società, la corruzione era la via della ricchezza e del potere. Ryan aveva la sua pecca segreta, come ogni altro essere umano. Gerasimov sapeva che il proprio punto debole era la sete di potere, ma desiderare qualsiasi altra cosa era, ai suoi occhi, segno d'idiozia. Ritornò al dispaccio di Platonov.
«Valutazione» concludeva il messaggio. «Il soggetto non è motivato da considerazioni ideologiche né economiche, ma dalla collera e dall'ego. Ha un'autentica paura del carcere, ma più ancora del discredito personale. Credo che J.P. Ryan sia effettivamente in possesso delle informazioni che dichiara di avere. Se la CIA ha una talpa altolocata alla Centrale di Mosca, è probabile che Ryan abbia visto le informazioni fornite dal traditore, ma non il nome e la faccia del medesimo. I dati dovrebbero essere sufficienti per identificare la fonte delle notizie.
«Suggerimenti: l'offerta dovrebbe essere accettata per due motivi. Primo, identificare la spia americana. Secondo, utilizzare Ryan in futuro.
Quest'occasione unica ha due facce. Se noi eliminiamo i testimoni a carico del soggetto, lui sarà in debito verso di noi. Se tale azione viene scoperta, potrà essere imputata alla CIA, e le inchieste che ne deriveranno saranno causa di grave pregiudizio ai servizi segreti americani.»
«Mmm...» mormorò Gerasimov mettendo da parte il fascicolo.
Il dossier dell'agente Cassius era molto più spesso. Stava diventando una delle migliori fonti del KGB a Washington. Gerasimov aveva già letto più di una volta quell'incartamento; si limitò a sfogliarlo finché giunse alle ultime informazioni. Due mesi prima Ryan era stato sotto inchiesta, ma si ignoravano i particolari. Cassius lo aveva riferito come pettegolezzo non confermato. Era un 294
punto a suo favore. Staccava anche l'offerta di Ryan da tutto ciò che era successo di recente...
Filitov?
E se fosse stato lui l'agente ad alto livello che Ryan poteva identificare?
No, Ryan aveva un grado troppo elevato, alla CIA, per confondere un Ministero con un altro. La cattiva notizia era che in quel particolare momento Gerasimov aveva bisogno di tutto fuorché di una fuga di notizie ai vertici del KGB. Era già un guaio che ci fosse, ma se usciva dal palazzo... Poteva essere una catastrofe. Se facessimo una vera indagine, la voce correrebbe. Se non troviamo la spia in mezzo a noi... ed è altolocata come dice Ryan... Che cosa succederebbe se la CIA scoprisse che Alexandrov e io...? Che cosa farebbe? E
se...?
Gerasimov sorrise e guardò fuori dalla finestra. Avrebbe sentito la mancanza di quel posto, di quel gioco. Ogni fatto aveva almeno tre facce, e ogni pensiero ne aveva sei. No, se accettava quelle ipotesi, doveva anche credere che Cassius fosse sotto il controllo della CIA, e che tutta la manovra fosse stata progettata prima dell'arresto di Filitov. Assolutamente impossibile.
Il Presidente del Comitato per la Sicurezza dello Stato controllò l'agenda per vedere la data di arrivo degli americani. In quella circostanza vi sarebbero stati parecchi eventi sociali. Se gli americani avevano veramente deciso di mettere sul tavolo i loro sistemi per le Guerre Stellari, il Segretario Generale Narmonov avrebbe fatto una magnifica figura, ma quanti voti del Politburo sarebbero stati influenzati da questo? Se io posso far vedere che abbiamo reclutato un agente di così alto livello nella CIA... se posso predire che gli americani ci venderanno il loro programma di difesa, allora potrei avvantaggiarmi sull'iniziativa di pace di Narmonov...
La decisione fu subito presa.
Però Gerasimov non era un impulsivo. Trasmise un segnale a Platonov affinché facesse verificare tramite l'agente Cassius alcuni particolari. Era un segnale che poteva inviare via satellite.
Arrivò a Washington un'ora dopo, tramite il satellite per telecomunicazioni sovietico Raduga-19. Fu debitamente registrato tanto dall'Ambasciata sovietica quanto dall'American National Security Agency, che lo immise nel computer insieme a migliaia di altri segnali russi. All'Agenzia lavoravano ventiquattr'ore su ventiquattro per decifrarli.
Fu più facile per i sovietici. Il segnale venne portato in una sezione protetta dell'Ambasciata, dove un tenente del KGB tradusse le lettere scoordinate in un testo comprensibile, quindi lo rinchiuse in una cassaforte sotto sorveglianza dove Platonov l'avrebbe potuto ritirare venendo in ufficio.
Questo avvenne alle 6,30 del mattino. Sul tavolo c'erano i soliti quotidiani. La 295
stampa americana, pensava Platonov, era molto utile al KGB. Il concetto di libera stampa gli era così completamente estraneo, che non ne considerava mai le effettive funzioni. Ma prima c'erano altre cose da fare. L'ufficiale che era stato in servizio di guardia venne alle 6,45, lo mise al corrente di quanto era successo durante la notte, e gli consegnò i messaggi giunti da Mosca, dove in quel momento era già pomeriggio. In cima all'elenco dei messaggi c'era l'annotazione "riservato al rezident". Platonov sapeva di che cosa si poteva trattare e andò subito alla cassaforte. Il giovane ufficiale del KGB che montava la guardia in quella parte dell'Ambasciata verificò scrupolosamente i documenti d'identificazione di Platonov ― il suo predecessore aveva perso il posto per avere avuto la temeraria presunzione di conoscere Platonov di vista dopo soli sei mesi. Il messaggio, appropriatamente etichettato e chiuso in una busta, era nella sua casella. Platonov se lo infilò in tasca, poi chiuse a chiave la porta.
La stazione del KGB a Washington era più grande di quella della CIA a Mosca, anche se non abbastanza per i desideri di Platonov, perché il numero delle persone era stato ridotto all'equivalente numerico del personale dell'Ambasciata americana in Unione Sovietica. Di solito convocava i capisezione alle 7,30 per la conferenza del mattino, ma quel giorno chiamò subito uno dei funzionari.
«Buongiorno, compagno colonnello» disse compitamente il funzionario. Il KGB non è famoso per le frivolezze.
«Ho bisogno che lei si faccia dare da Cassius qualche informazione sulla faccenda Ryan. È indispensabile che noi confermiamo le sue difficoltà legali al più presto possibile ― in altre parole, oggi, se lei ce la fa.»
«Oggi?» chiese un po' preoccupato l'uomo, mentre ritirava le istruzioni scritte.
«C'è qualche rischio a fare le cose in fretta.»
«Il Presidente lo sa» replicò seccamente Platonov.
«Oggi» assentì il subordinato.
Il rezident sorrise fra sé mentre l'uomo usciva. Era la misura massima di emozione che manifestava da un mese a quella parte. Quel funzionario aveva un avvenire.
«C'è Butch» osservò un agente dell'FBI mentre il russo usciva dal complesso dell'Ambasciata. Naturalmente conoscevano il vero nome, ma il primo agente che lo aveva pedinato si era detto che rassomigliava a Butch, e il nomignolo era rimasto. Il compito ufficiale del funzionario era, apparentemente, di aprire alcuni uffici dell'Ambasciata, poi sbrigare le commissioni prima dell'arrivo dei diplomatici più alti in grado verso le 9. Doveva quindi, fra l'altro, lare colazione a un caffè della zona, comperare giornali e riviste... e spesso lasciare dei segni in uno dei diversi posti. Come sempre nel lavoro di controspionaggio, la parte 296
veramente difficile stava nel cogliere il primo indizio, dopo di che era un ordinario lavoro di polizia. Il primo indizio su Butch lo avevano afferrato diciotto mesi prima.
Il sovietico andò al caffè, a quattro isolati di distanza. Si era vestito in modo idoneo per proteggersi dal freddo ― ma tutti pensavano che trovasse abbastanza miti gli inverni di Washington. Entrò nel locale con puntualità assoluta. Come la maggior parte dei caffè, questo aveva dei clienti abituali. Tre di loro erano agenti dell'FBI. Uno era una donna; da come era vestita, e dal fatto che leggeva sempre il Wall Street Journal, sola a un tavolo d'angolo, faceva pensare a una donna d'affari. Gli altri due avevano la cintura porta-attrezzi dei falegnami, e li si poteva vedere che chiacchieravano rumorosamente al banco prima o dopo l'arrivo di Butch. Oggi lo stavano aspettando. Non erano sempre lì, naturalmente. La donna, l'agente speciale Hazel Loomis, aveva anche una vera attività professionale, per cui doveva stare attenta a non essere al caffè nei giorni festivi. Era un rischio, ma una sorveglianza stretta, per quanto accuratamente pianificata, non poteva essere assoluta. Per questo motivo a volte frequentavano il caffè in giorni nei quali sapevano che Butch era assente, senza apportare alla routine delle variazioni che potessero denunciare il loro interesse per il soggetto.
L'agente Loomis annotò in margine a un articolo l'ora di arrivo del sorvegliato
― aveva l'abitudine di scribacchiare sul giornale ― e i falegnami lo osservarono nello specchio dietro al banco mentre mangiavano la loro frittata di patate scambiandosi battute ad alta voce. Come gli altri giorni, Butch aveva acquistato quattro giornali diversi al chiosco vicino, più alcune riviste che uscivano ogni martedì. La cameriera gli versò il caffè senza aspettare l'ordine. Butch accese la sigaretta consueta ― una Marlboro, la marca preferita dei russi ― e bevve il caffè scorrendo la prima pagina del Washington Post, che era il suo giornale.
Il secondo e terzo caffè erano gratuiti in quel locale, e la sua tazza fu puntualmente riempita. Butch si fermò sei minuti scarsi, il che era conforme alle sue abitudini. Come ebbe finito, raccolse i giornali e lasciò qualche moneta sul banco. Quando si allontanò, gli agenti notarono che aveva appallottolato il tovagliolo di carta e lo aveva posato sul piattino a fianco della tazza vuota.
Cose di lavoro, annotò subito mentalmente la Loomis. Butch portò il conto alla cassa, lo pagò e uscì. Era in gamba, rilevò la Loomis. Sapeva dove e come lasciava le comunicazioni, ma raramente era riuscita a vederlo mentre lo faceva.
Entrò un altro cliente abituale. Era un tassista che di solito prendeva una tazza di caffè prima di iniziare la giornata. Si sedette da solo al fondo del banco, poi aprì il giornale alla pagina sportiva, guardandosi intorno come faceva solitamente. Vide il tovagliolo sul piattino. Non era bravo come Butch. Posato il giornale sulle ginocchia, si sporse a prelevare il messaggio dal vassoio e se lo 297
mise in tasca.
Dopo fu tutto facile. La Loomis pagò il conto, uscì, salì sulla Ford Escort e si diresse agli appartamenti Watergate. Aveva la chiave di quello di Henderson.
«Oggi riceverai un messaggio di Butch» disse all'agente Cassius.
«Okay.» Cassius alzò gli occhi dalla colazione. Non gli piaceva avere quella ragazza a "gestirlo" come agente a doppio servizio. Gli dava particolarmente fastidio che lei fosse stata assegnata al caso perché era una bella ragazza, dato che la copertura per i loro incontri era una presunta relazione, purtroppo solo immaginaria. Henderson sapeva anche troppo bene che, con tutta la cortesia, lo sciropposo accento meridionale ― e, accidenti, la sbalorditiva bellezza ― lei lo considerava appena un gradino al disopra di un microbo. «Ricordati soltanto»
gli aveva detto una volta «che c'è sempre una stanza che ti aspetta.» Si riferiva a una cella nel Penitenziario degli Stati Uniti ― non "istituto di rieducazione" ― di Marion, Illinois, che aveva sostituito Alcatraz come residenza dei peggiori criminali. Non era la giusta sede per un laureato di Harvard. A parte quel discorso, fatto una volta sola, lo trattava in modo educato, fino a prenderlo occasionalmente per il braccio in pubblico. Questo peggiorava ulteriormente le cose.
«Vuoi qualche buona notizia?» domandò la Loomis.
«Sicuro.»
«Se questa volta va nel modo che speriamo, potresti essere scagionato.
Completamente.» Non glielo aveva mai detto prima.
«Di che si tratta?» domandò l'agente Cassius con sincero interesse.
«C'è un funzionario della CIA che si chiama Ryan...»
«Già, ho sentito che la SEC sta indagando su di lui... o meglio, lo ha fatto qualche mese fa. Volete che lo racconti ai russi?»
«E sporco. Ha violato le norme, guadagnato mezzo milione di dollari approfittando di informazioni riservate, e c'è un gran giurì che si riunirà fra due settimane e gli brucerà il buco del culo come si deve.» Il dolce sorriso da bellezza del Sud faceva risaltare ancora di più la crudezza del vocabolario. «La CIA lo appenderà fuori ad asciugare, e nessuno lo aiuterà. Ritter non lo sopporta. Tu ignori il motivo, ma hai sentito la notizia dall'assistente del senatore Fredenburg. Hai avuto l'impressione che Ryan sia il capro espiatorio di qualche faccenda finita male, ma non sai quale. Una storia di qualche mese fa nell'Europa centrale, forse, ma è tutto ciò che sai. Una parte del discorso la fai subito, per il resto li tieni in attesa fino al pomeriggio. Ancora una cosa: hai afferrato una voce secondo cui si riparlerà dello scudo spaziale. Tu credi che sia un'informazione sballata, però hai sentito un senatore che ne parlava. Tutto chiaro?»
«Sì.»
298
«Okay.» La Loomis andò al bagno. Il bar prediletto di Butch era troppo sporco per i suoi gusti.
Henderson andò in camera da letto a scegliersi una cravatta. Scagionato? si chiese mentre la annodava, ma cambiò idea. Se era vero... e doveva ammettere che lei non gli aveva mai mentito. Mi ha trattato come un verme, ma non mi ha mai raccontato storie, pensò. Allora potrò uscirne...? E poi? si domandò. Ma aveva importanza?
Ne aveva, ma era ancora più importante uscire.
«Preferisco la rossa» disse la Loomis dalla porta. Gli sorrise con dolcezza.
«Una cravatta "forte" per oggi, direi.»
Henderson prese docilmente la cravatta rossa. Non aveva mai fatto obiezioni.
«Potresti dirmi...?»
«Non lo so... e lo capisci bene. Non mi permetterebbero di dirtelo, e se lo facessero penserebbero che tu mi hai dato qualcosa in cambio, Mr. Henderson.»
«Non puoi chiamarmi Peter, almeno una volta?»
«Mio padre è stato il ventinovesimo pilota abbattuto sul Nord Vietnam. Lo hanno preso vivo ― abbiamo delle foto ― ma non è mai ritornato.»
«Non lo sapevo.»
Lei parlava pianamente come se stesse parlando del tempo. «Ci sono un sacco di cose che non sai, Mr. Henderson. Non mi lasciano pilotare aerei come faceva papà ― ma al Bureau faccio del mio meglio per rendere difficile la vita ai bastardi. Questo me lo lasciano fare. Spero solo di fare loro tanto male quanto ne hanno fatto loro a me.» Sorrise di nuovo. «Non è molto professionale, vero?»
«Mi dispiace. Non trovo altre parole.»
«Sì, invece. Le troverai per dire al tuo contatto ciò che ti ho detto di dire.»
Gli lanciò un registratore in miniatura. Aveva un timer computerizzato speciale e un dispositivo contro le manipolazioni. Mentre viaggiava in taxi, Henderson sarebbe stato sotto sorveglianza intermittente. Se avesse tentato di avvisare in qualche modo il suo contatto, c'era il rischio ― non sapeva quanto probabile ― di essere scoperto. Non lo avevano in simpatia e non si fidavano di lui. Sapeva che non avrebbe mai conquistato l'affetto né la fiducia, ma era disposto a farne a meno pur di ritornare libero.
Uscì dall'appartamento pochi minuti dopo e scese in strada. Circolava il numero abituale di taxi. Lui non fece alcun gesto, ma attese che uno venisse da lui. Non cominciarono a parlare finché la vettura non si fu immessa nel traffico della Virginia Avenue.
Il taxi lo portò alla sede centrale del General Accounting Office, sulla G
Street nord-ovest. All'interno del palazzo diede il registratore a un altro agente dell'FBI Henderson sospettava che fosse anche un apparecchio radio, ma non era così. Il registratore fu portato allo Hoover Building. La Loomis lo aspettava.
299
Il nastro fu riavvolto e ascoltato.
«La CIA ha ragione, una volta tanto» osservò rivolta al superiore. Era presente un funzionario di grado ancora più alto. La cosa era più importante di quanto avesse pensato. Loomis se ne rese conto immediatamente.
«Quadra. Non capita spesso una fonte d'informazioni come Ryan. Henderson ha teso le reti piuttosto bene.»
«Gli ho detto che potrebbe essere il suo biglietto di viaggio per andarsene.»
La voce diceva più delle parole.
«Non approva?» domandò il vicedirettore. Era lui a capo delle operazioni di controspionaggio.
«Non ha pagato abbastanza per quello che ha fatto.»
«Signorina Loomis, quando tutto questo sarà finito, le spiegherò perché ha torto. Metta da parte il pensiero, vuole? Lei ha fatto un ottimo lavoro per questo caso. Non lo sprechi adesso.»
«Che cosa gli succederà?» domandò.
«Il solito: il programma di protezione dei testimoni. Può andare a gestire il Wendy's a Billings, nel Montana, per quanto ne so.» Il vicedirettore si strinse nelle spalle. «Lei è promossa e sarà trasferita all'ufficio di New York. Abbiamo un altro caso pronto per lei. C'è un diplomatico alle Nazioni Unite che ha bisogno di essere ben diretto.»
«Okay.» Questa volta il sorriso non era forzato.
«Abboccano. Abboccano alla grande» disse Ritter a Ryan. «Spero solo che lei sia all'altezza, figliolo.»
«Non ci sono pericoli.» Jack allargò le braccia. «Dovrebbe essere una cosa civile.»
Solo le parti che conosci... «Ryan, lei è sempre un dilettante in l'alto di operazioni, non lo dimentichi.»
«Sono qui per fare il lavoro» replicò Jack.
«Gli dèi rendono prima orgogliosi coloro che vogliono distruggere» disse il vicedirettore alle Operazioni.
«Non è così che ha detto Sofocle» obiettò Jack ridendo.
«La mia versione è migliore. Alla Fattoria ho messo un cartello che cita il mio nome.»
L'idea di Ryan era semplice ― troppo semplice, ma gli uomini di Ritter l'avevano raffinata per dieci ore facendone una vera operazione. Semplice nel concetto, comportava delle difficoltà in più. Ogni missione ne aveva, ma a Ritter dava fastidio lo stesso.
Bart Mancuso si era assuefatto da tempo all'idea che il dormire non rientrava 300
nell'elenco delle cose concesse ai comandanti di sommergibili. Più di tutto, detestava sentir bussare alla porta quindici minuti dopo che era riuscito a coricarsi.
«Entri!» E crepi! pensò.
«Comunicazione FLASH, riservata al comandante» disse il tenente in tono di scusa.
«Farà bene a essere importante!» ringhiò Mancuso, sbattendo via le coperte.
Andò in canottiera alla sala comunicazioni, a babordo e a poppavia rispetto al centro d'attacco. Dieci minuti dopo ne uscì porgendo un foglietto all'ufficiale di rotta. «Voglio essere qui fra dieci ore.»
«Stia tranquillo, comandante.»
«La prima persona che mi disturba un'altra volta farà bene a portarmi un caso di emergenza nazionale!» Tornò in cabina camminando a piedi nudi sul ponte.
«Messaggio recapitato» disse Henderson a Loomis durante il pranzo.
«C'è altro?» A lume di candela e tutto il resto, pensò lei.
«Volevano solo confermare. Non cercavano nuove informazioni, solo il supporto a ciò che avevano già ricevuto da varie fonti. Almeno, io l'ho intesa così. Ho un'altra consegna per loro.»
«Quale?»
«La nuova relazione sulla difesa aerea sul campo di battaglia. Non ho mai capito perché se ne preoccupano. Possono leggerla su Aviation Week prima di fine mese.»
«Non trascuriamo la routine proprio adesso, Mr. Henderson.»
Questa volta il messaggio poteva essere trattato come informazione di routine. Sarebbe stato sottoposto all'attenzione del Presidente perché si trattava di dati "personali" su un agente segreto nemico di alto livello. Gerasimov era noto ai vertici del KGB come uomo interessato ai pettegolezzi occidentali, oltre che a quelli russi.
La comunicazione lo aspettava quando giunse in ufficio il mattino dopo. Il Presidente del KGB detestava la differenza di sei ore fra Mosca e Washington ―
rendeva tutto così maledettamente scomodo! Se la Centrale di Mosca ordinava
"azione immediata", c'era automaticamente il pericolo che gli agenti dessero qualche indicazione della propria identità agli americani. Di conseguenza, venivano trasmessi pochi segnali effettivi di "azione immediata", e al Presidente del KGB dava un fastidio enorme pensare che il suo potere personale potesse essere intralciato da ostacoli banali come le linee dei meridiani.
«Il soggetto "P"» diceva il messaggio ― nell'alfabeto cirillico il suono "R"
corrispondeva alla lettera "P" ― «è oggetto di un'investigazione criminale 301
segreta nell'ambito di una questione estranea ai Servizi Segreti. Si sospetta che l'interessamento per "P" abbia una base politica, forse un tentativo da parte di elementi progressisti del Congresso di screditare la CIA a causa di un fiasco operativo sconosciuto ― che forse riguarda l'Europa centrale, ma questo non è, ripetiamo, NON è confermato. La caduta di "P" nuocerà ad alcuni funzionari superiori della CIA. Questa stazione classifica l'affidabilità di queste informazioni a livello A. Tre fonti indipendenti confermano il contenuto della mia 88(B)531-C/EOC. Seguono particolari per valigia diplomatica. La stazione raccomanda di dare seguito. Rezident Washington. Fine dispaccio.»
Gerasimov mise il messaggio in un cassetto della scrivania.
«Bene» mormorò fra sé. Guardò l'orologio. Entro due ore doveva essere alla riunione che il Politburo teneva regolarmente ogni martedì mattina. Come sarebbe andata? Di una cosa era certo: sarebbe stata una riunione interessante.
Aveva in mente di introdurre nel proprio gioco una nuova variante: il Gioco del Potere.
Il suo rapporto operativo era sempre più lungo il martedì. Non fa mai male avere a disposizione qualche notizia gustosa durante le riunioni. I colleghi del Politburo erano tutti uomini ai quali cospirare riusciva spontaneo come respirare. Non c'era stato nemmeno un Governo, negli ultimi cento anni, i cui membri non avessero provato interesse per le storie di operazioni segrete.
Gerasimov prese qualche appunto, avendo cura di scegliere episodi di cui poter parlare senza compromettere casi importanti. La sua vettura fu pronta all'ora stabilita, insieme a un'auto di scorta che l'avrebbe preceduta. Partirono per il Cremlino.
Gerasimov non era mai l'ultimo né il primo ad arrivare. Questa volta entrò preceduto di pochi passi dal ministro della Difesa.
«Buongiorno, Dmitri Timofeyevich» disse Gerasimov senza sorridere, ma in tono abbastanza cordiale.
«Buongiorno a te, compagno Presidente» rispose Yazov circospetto.
Andarono a occupare i rispettivi posti. Yazov aveva più di un motivo per comportarsi con cautela. C'era il caso Filitov sospeso sulla sua testa come la mitica spada. Inoltre, lui non era membro con diritto di voto del Consiglio Supremo Sovietico. Gerasimov lo era. Ciò dava al KGB un potere politico superiore a quello della Difesa. I ministri della Difesa che avevano votato in quella sala erano sempre stati uomini del Partito, come Ustinov. Invece Yazov era prima di tutto un soldato ― fedele al Partito, certo, però l'uniforme non era stata per lui un travestimento come per Ustinov. Per questo Yazov non avrebbe mai avuto diritto di voto in quel consesso,
Andrey Il'ych Narmonov entrò con l'abituale vigore. Di tutti i membri del Politburo, solo il Presidente del KGB era più giovane di lui. Narmonov sentiva 302
il bisogno di fare mostra della propria esuberante energia davanti agli uomini anziani che sedevano intorno al "suo" tavolo delle conferenze. La fatica e lo stress del suo ruolo erano visibili su di lui. Il nero ciuffo di capelli stava gradualmente diventando grigio, e sembrava pure che la linea di confine tra fronte e capelli si stesse spostando sempre più in alto. Tutto ciò non era insolito fra gli uomini sulla cinquantina. Con un gesto invitò tutti a sedere.
«Buongiorno, compagni» disse Narmonov in tono cordialmente sbrigativo.
«La discussione iniziale riguarderà l'arrivo del gruppo americano per il negoziato sulle armi.»
«Ho buone notizie in proposito» disse subito Gerasimov.
«Veramente?» domandò Alexandrov prima che potesse farlo il Segretario Generale per sottolineare la propria posizione.
«Abbiamo notizia che gli americani sarebbero disposti, in linea di massima, a mettere sul tavolo dei negoziati il loro programma di difesa strategica» annunciò il Presidente del KGB. «Non sappiamo quali concessioni chiederanno in cambio, né fino a che punto sono disposti a farne, ma ci troviamo comunque di fronte a un mutato atteggiamento da parte degli americani.»
«Stento a crederlo» intervenne Yazov. «Il loro programma è ben avviato, l'hai detto tu stesso la settimana scorsa, Nikolay Borissovich.»
«Ci sono dei dissidenti politici nel Governo americano, e forse una lotta di potere in corso nella stessa CIA, a quanto abbiamo saputo. In ogni caso, queste sono le informazioni che abbiamo, e le consideriamo abbastanza attendibili.»
«È una sorpresa.» Le teste si voltarono verso il ministro degli Esteri.
Sembrava scettico. «Gli americani sono stati inflessibili su questo punto. Tu dici
"abbastanza attendibili", non "completamente".»
«La fonte è a livello molto alto, però le informazioni non sono ancora state adeguatamente confermate. Ne sapremo di più a fine settimana.»
Intorno al tavolo le teste fecero cenni di assenso. La delegazione americana sarebbe arrivata sabato a mezzogiorno, ma le discussioni non sarebbero iniziate sino al lunedì. Gli ospiti avrebbero avuto trentasei ore a disposizione per smaltire la differenza di fuso orario. In quell'intervallo era previsto un pranzo di benvenuto all'albergo Accademia delle Scienze, ma poco altro.
«Queste informazioni sono motivo di grande interesse per il mio gruppo di negoziatori, ma le trovo molto sorprendenti, soprattutto in base ai rapporti che sono stati presentati in questa sede sul nostro programma Stella Lucente e sulla loro contromossa specifica.»
«Abbiamo motivo di credere che gli americani sono informati su Stella Lucente» rispose quietamente Gerasimov. «Forse le notizie sui nostri progressi li hanno fatti rinsavire.»
«Avrebbero penetrato Stella Lucente?» domandò un altro membro. «E
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come?»
«Non ne siamo ancora sicuri. Ce ne stiamo occupando» rispose Gerasimov avendo cura di non guardare nella direzione di Yazov. A te la mossa, compagno ministro della Difesa.
«Quindi gli americani avrebbero più interesse a bloccare il nostro programma che a ridurre il loro» osservò Alexandrov.
«E credono che noi ci siamo adoperati nella direzione opposta» grugnì il ministro della Difesa. «Mi piacerebbe poter dire ai miei com'è veramente la situazione.»
«Maresciallo Yazov?» disse Narmonov. Non sapeva che stava mandando in campo un suo uomo.
Fino a quel momento Gerasimov non era stato sicuro su Yazov. Non sapeva se il maresciallo si sarebbe sentito più tranquillo a informare Narmonov della propria vulnerabilità politica a seguito dell'affare Filitov. Questo gli avrebbe dato la risposta. Yazov aveva paura della possibilità — della CERTEZZA, si corresse, a quel punto Yazov doveva saperlo — che possiamo rovinarlo. Teme pure che Narmonov non arrischierà la propria posizione per salvare lui. Quindi avrei cooptato tanto Yazov quanto Vaneyev? Se è così, mi chiedo se non sarebbe il caso di tenermi anche Yazov quando sarò Segretario Generale... La decisione è tua, Yazov.
«Abbiamo risolto il problema della potenza del laser in uscita. Ci resta quello del comando mediante computer. In questo campo siamo molto arretrati rispetto alle tecniche americane a causa della superiorità della loro industria specializzata. Appena una settimana fa il compagno Gerasimov ci ha fornito una parte del programma americano, ma stavamo cominciando a esaminarlo quando ci è giunto l'avviso che era già stato superato dagli eventi. «Con questo non intendo criticare il KGB...»
Sì! In quel momento Gerasimov ne fu sicuro. « Mi sta facendo un'apertura. Il bello è che nessun altro in questa sala, neppure Alexandrov, capisce che cosa è successo.
«...in effetti, illustra con sufficiente chiarezza il problema. Si tratta puramente di un problema tecnico, compagni. Anche questo sarà superato. La mia opinione è che siamo avanti rispetto agli americani. Se lo sanno, ne avranno paura. Il nostro atteggiamento nei negoziati finora è stato di opporci soltanto al programma con base spaziale, mai a quello con base terrestre, da quando abbiamo saputo che i nostri sistemi basati a terra sono più promettenti di quelli americani. La mutata disposizione degli americani può forse essere ricondotta a questo. Se è così, raccomanderei di non rinunciare a Stella Lucente per nessun motivo.»
«È un'opinione che si può sostenere» commentò Gerasimov. «Dmitri 304
Timofeyevich ha sollevato un punto molto valido.» Intorno al tavolo le teste assentirono di nuovo — con cognizione di causa, pensavano, e invece stavano sbagliando oltre l'immaginabile — mentre il Presidente del Comitato per la Sicurezza dello Stato e il ministro della Difesa concludevano il loro accordo con uno sguardo e un sopracciglio alzato.
Gerasimov si voltò verso il capotavola mentre intorno a lui continuava la discussione. Il Segretario Generale Narmonov osservò con interesse il dibattito prendendo qualche appunto, senza notare lo sguardo del Presidente del KGB.
Chissà se quella poltrona è più comoda della mia?
19
Viaggiatori
Perfino l'89° Gruppo Militare Aereo era preoccupato della sicurezza, e Ryan ne fu lieto. Le sentinelle all'ingresso dell'Ala Presidenziale, alla base aerea di Andrews, avevano i fucili carichi ed esibivano volti severi per impressionare i
"Distinti Visitatori" — l'Aviazione non amava il termine Very Important Persons. Lo spiegamento di truppe armate e la solita trafila aeroportuale garantivano che nessuno avrebbe dirottato l'aereo per farlo atterrare... a Mosca.
Ci avrebbe pensato l'equipaggio.
Ryan aveva sempre lo stesso pensiero prima di volare. Mentre stava in coda davanti al magnetometro simile al telaio di una porta, immaginava che qualcuno avesse inciso sull'architrave: LASCIATE OGNI SPERANZA, O VOI CHE ENTRATE.
Aveva quasi superato il terrore del volo; adesso l'ansia era di tutt'altra natura, si disse, ma non funzionò. Mentre usciva dall'aerostazione, dovette ammettere che le paure si sommano, non sono parallele.
Avrebbero preso lo stesso aereo della volta precedente. Il numero sulla coda era 86971. Era un 707 prodotto dalle officine Boeing di Seattle nel 1958, poi trasformato sullo schema di un VC-137. Era più confortevole del VC-135, aveva anche i finestrini. Ryan detestava viaggiare sugli aerei senza oblò.
Non c'erano corridoi sopraelevati da cui accedere all'apparecchio. Salirono tutti a bordo arrampicandosi su un'antiquata scaletta a ruote. All'interno l'apparecchio era una curiosa mistura di ordinario e di speciale. Il bagno a proravia era nel posto consueto, proprio di fronte alla porta anteriore. Subito dietro, però, c'era la consolle delle telecomunicazioni che assicurava all'aereo il collegamento immediato e sicuro via satellite con qualunque località. Veniva poi l'abbastanza comoda cabina di volo, quindi la cambusa. La cucina a bordo era decisamente buona. Il posto di Ryan era "quasi" nella zona dei DV, su uno dei divani ai due lati della fusoliera, davanti alle sei poltrone riservate agli 305
effettivi Distinti Visitatori. Dietro erano sistemati i giornalisti, gli agenti del servizio segreto e le altre persone considerate meno "distinte" da chi prendeva le decisioni del caso. Lo scompartimento era quasi vuoto, e ogni tanto ci veniva qualche funzionario subalterno a distendersi un po' le membra.
L'unico inconveniente del VC-137 era la scarsa autonomia. Non potendo volare senza scalo fino a Mosca, di solito faceva tappa a Shannon per rifornirsi di carburante prima dell'ultimo balzo. Gli aerei del Presidente — in effetti erano due, entrambi apparecchi militari — erano stati costruiti sullo schema del 707-320, che aveva un'autonomia molto superiore, ma sarebbero presto stati sostituiti dagli ultramoderni 747. L'Aviazione aspirava ad avere un aereo presidenziale più giovane del suo equipaggio. La pensava così anche Ryan.
Quello su cui viaggiava era uscito dalla fabbrica quando lui faceva ancora la seconda elementare, e ciò gli suonava molto strano. Ma che cosa avrebbe preteso, in fondo ? Che il babbo lo avesse portato a Seattle e gli avesse indicato l'aereo dicendo: Un giorno volerai a Mosca su questo...
Come fai a predire il futuro? Vorrei proprio saperlo... Il pensiero, nato per gioco, lo raggelò.
Il tuo mestiere è di predire il futuro, ma con che diritto credi di saperlo fare?
Non hai già sbagliato qualche previsione, Jack?
Maledizione! pensò infuriato. Ogni volta che salgo su un fottuto aereo... Si allacciò la cintura di sicurezza, fissando sul lato opposto dell'aereo un consulente tecnico del Dipartimento di Stato al quale piaceva volare.
I motori furono avviati un minuto dopo, e l'aereo cominciò a rullare. Gli annunci che giungevano attraverso l'impianto di comunicazione interna differivano poco da quelli che si sentono su un aereo di linea — solo di quel tanto che serviva a ricordare ai passeggeri che l'apparecchio non apparteneva a una società privata, ma questo lo sapevano già. La hostess aveva un accenno di baffi sul labbro superiore. Quel dettaglio lo fece ridacchiare tra sé mentre l'aereo rullava fino all'inizio della pista.
Il VC-137 decollò contro il vento settentrionale, e virò a destra un minuto dopo. Jack si voltò a guardare la Strada Statale 50, quella che portava alla sua casa di Annapolis. Ma la perse di vista quando l'aereo entrò fra le nubi. Il bianco velo impersonale gli era sembrato a volte una bella cortina, ma adesso...
significava soltanto che non poteva vedere la strada di casa. Ryan era l'unico occupante del divano e decise di approfittarne. Calciò via le scarpe e si coricò per fare un pisolino. Avrebbe avuto bisogno di riposo, ne era sicuro.
Il Dallas era emerso all'ora e nel punto stabilito, e subito dopo era stato avvisato di un intoppo nel programma. Adesso affiorava di nuovo. Mancuso fu il primo a salire la scala per andare alla stazione di controllo sull'alto della 306
torretta, seguito da un ufficiale subalterno e da un paio di vedette. Il periscopio era già alzato per scrutare il movimento in superficie. La notte era calma e limpida, il tipo di cielo che si vede solo al largo, sfolgorante di stelle simili a diamanti su un velluto scuro.
«Plancia, qui navigazione.»
Mancuso premette il pulsante. «Plancia, aye.»
«L'ESM annuncia una trasmittente radar aerotrasportata a rilevamento uno-quattro-zero. Il rilevamento sembra costante.»
«Molto bene.» Il comandante si voltò. «Potete accendere le luci di navigazione.»
«Tutto libero a babordo» disse una vedetta.
«Tutto libero a tribordo» fece eco l'altra.
«L'ESM riferisce che il contatto è sempre costante a uno-quattro-zero. La forza del segnale è in aumento.»
«Possibile aereo a babordo!» gridò una vedetta.
Mancuso prese il binocolo e cominciò a scrutare le tenebre. Se c'era già, non aveva le luci accese... ma poi vide un grappolo di stelle scomparire nascoste da qualche cosa...
«Individuato. Buon occhio, Everly! Oh, ecco le luci di volo.»
«Plancia, qui comando. Messaggio radio in arrivo.»
«Inserisca l'altoparlante» rispose prontamente Mancuso.
«Fatto, signore.»
«Eco-Golf-Nove, qui Alfa-Whisky-Cinque, passo.»
«Alfa-Whisky-Cinque, qui Eco-Golf-Nove. Vi sento forte e chiaro. Confermate, passo.»
«Bravo-Delta-Hotel, passo.»
«Roger, grazie. Restiamo in attesa. Vento calmo e mare liscio.» Mancuso allungò la mano e accese le luci degli strumenti nella stazione di controllo. Non ce n'era bisogno al momento — la centrale operativa aveva ancora il comando della navigazione — ma avrebbero fornito un riferimento all'elicottero che si stava avvicinando.
Lo udirono un attimo dopo, il rumore pulsante del rotore, seguito dal sibilo dei motori a turboalbero. Poi sentirono il soffio della corrente d'aria discendente, mentre l'elicottero ruotava due volte per consentire al pilota di orientarsi. Mancuso era curioso di vedere se avrebbe acceso le luci di atterraggio, oppure optato per le acrobazie.
Optò per le acrobazie o, per la precisione, trattò l'incarico per quello che era: un trasferimento segreto di persona, e pertanto una missione di
"combattimento". Il pilota si posizionò sulle luci della torretta del sottomarino, e tenne il velivolo librato cinquanta metri a tribordo, poi si abbassò e scivolò 307
verso il Dallas. Da poppa videro aprirsi il portello del carico. Una mano si allungò ad afferrare l'uncino all'estremità del cavo del verricello.
«Tenetevi pronti, tutti quanti» ordinò Mancuso alla sua gente. «Lo abbiamo già fatto prima d'ora. Verificate le cime di sicurezza. Prudenza tutti!»
Quando l'elicottero si librò direttamente su di loro, per poco il turbine d'aria prodotto dal rotore non li fece precipitare tutti giù per la scaletta fino alla centrale operativa. Mancuso vide una forma umana uscire dal portello e scendere adagio. I dieci metri sembrarono interminabili mentre la persona scendeva ruotando leggermente per effetto della torsione del cavo. Uno dei marinai allungò le braccia e afferrò un piede, tirando giù l'uomo. Il comandante diede una mano, e fra tutti e due misero a bordo il nuovo venuto.
«Okay, ti teniamo» disse Mancuso. L'uomo si liberò dall'imbragatura e si voltò, mentre il cavo del verricello risaliva.
«Mancuso!»
«Figlio di puttana!» esclamò il comandante.
«Tu così ricevi camerata?»
«Accidenti!» Ma prima c'erano le questioni immediate da sbrigare. Mancuso guardò in alto. L'elicottero si era già alzato a sessanta metri. Il comandante allungò la mano e fece lampeggiare tre volte le luci di navigazione: TRASFERIMENTO ESEGUITO. L'elicottero abbassò immediatamente il muso e si diresse verso la costa tedesca.
«Tutti giù» disse Bart ridendo. «Vedette giù. Sgomberare il ponte. Figlio di puttana» ripeté. Il comandante osservò gli uomini che scendevano, spense le luci della torretta e fece un ultimo controllo di sicurezza prima di scendere anche lui.
Un minuto dopo era alla centrale operativa.
«Devo chiedere autorizzazione a venire a bordo?» domandò Marko Ramius.
«Ufficiale di rotta?»
«Tutti i sistemi in linea e controllati per l'immersione. Pronti all'immersione»
riferì l'ufficiale. Mancuso si voltò automaticamente a osservare i quadri di controllo.
«Molto bene. Immersione. Scendiamo a profondità trenta metri, rotta zero-sette-uno, macchine a un terzo.» Guardò l'ospite. «Benvenuto a bordo, comandante.»
«Grazie, comandante.» Ramius strinse Mancuso in un feroce abbraccio da orso e lo baciò su una guancia, poi si sfilò lo zaino. «Possiamo parlare?»
«Vieni a prua.»
«Questa è prima volta che vengo a bordo di tuo sottomarino» osservò Ramius.
Un momento dopo una testa si sporse dalla sala sonar.
«Comandante Ramius! Mi era sembrato di riconoscere la sua voce!» Jones guardò Mancuso. «Chiedo scusa, signore. Abbiamo un contatto, rilevamento 308
zero-otto-uno. Sembra un mercantile. Un'elica sola, motori diesel a bassa velocità. Probabile che sia lontano. Riferito all'ufficiale di guardia, signore.»
«Grazie, Jonesy.» Mancuso portò Ramius nella propria cabina e chiuse la porta.
«Chi diavolo era?» chiese un giovane addetto sonar a Jones.
«Abbiamo ospiti.»
«Non aveva un accento un po' strano?»
«Si direbbe.» Jones additò lo schermo del sonar. «Quel contatto ha lo stesso accento. Vediamo quanto tempo impieghi a dirmi di che tipo è quel mercantile.»
Era pericoloso, ma tutta la vita lo è, pensò l'Arciere. Il confine fra l'Afghanistan e l'Unione Sovietica in quella zona era un fiume alimentato dai ghiacciai, serpeggiante attraverso le gole che aveva scavato tra le montagne. La frontiera era fortemente presidiata. Era utile il fatto che tutti gli uomini indossavano divise di foggia sovietica. Da sempre i russi vestono i loro soldati con buoni indumenti invernali. Quelli che i guerriglieri portavano in quel momento erano perlopiù bianchi per mimetizzarsi con la neve, con un minimo di righe colorate per rendere distinguibili i contorni. Adesso bisognava avere pazienza. L'Arciere era sdraiato sulla cresta ed esaminava il terreno con un binocolo russo, mentre gli uomini riposavano qualche metro indietro, più in basso di lui. Avrebbe potuto chiedere rinforzo a una banda di guerriglieri locali, ma si era spinto troppo avanti per correre quel rischio. Gli avevano detto che alcune tribù del nord si erano unite ai russi. Vero o falso che fosse, c'erano già abbastanza rischi da correre senza bisogno di cercare anche quello.
In cima alla montagna alla loro sinistra, a sei chilometri di distanza, c'era una postazione sovietica. Forse era numerosa, chissà, forse era presidiata da un intero plotone di militari del KGB responsabili di quel settore. Tutta la zona di frontiera era protetta da reticolati e cosparsa di mine. I russi amavano i campi minati... ma il terreno era indurito dal freddo. Le mine sovietiche spesso non funzionavano bene in quelle condizioni, e a volte scoppiavano da sole sotto la morsa del gelo.
Aveva scelto con cura il luogo. Qui la frontiera sembrava assolutamente invalicabile sulla carta, però i contrabbandieri ci passavano da tempo immemorabile. Una volta attraversato il fiume c'era un sentiero tortuoso scavato dallo sciogliersi delle nevi attraverso i secoli. Ripido e scivoloso, era pure un canyon in miniatura visibile solo dall'alto. Se i russi lo sorvegliavano, sarebbe stato una trappola mortale. Sia fatto il volere di Allah, disse, affidandosi al destino. Era ora di andare.
Vide per prima cosa i lampi. Dieci uomini con una mitragliatrice pesante e uno dei suoi preziosi mortai. Le strisce gialle dei proiettili traccianti 309
sorvolavano il confine e penetravano nel campo base sovietico. Mentre osservava, alcune pallottole rimbalzarono sulle rocce descrivendo traiettorie fantasiose nel cielo di velluto. Udì poi il rumore. Sperava che gli uomini riuscissero a cavarsela. Si voltò e fece segno al gruppo di avanzare.
Corsero giù per il pendìo incuranti del pericolo. Per fortuna il vento aveva spazzato la neve dalle rocce, per cui il fondo era abbastanza stabile. L'Arciere guidò i suoi verso il fiume. Notò con meraviglia che non era gelato: il letto era troppo ripido perché l'acqua stagnasse abbastanza a lungo per trasformarsi in ghiaccio, anche a temperatura sotto zero. Ecco il filo spinato!
Un giovane munito di cesoie aprì un varco, che l'Arciere attraversò per primo seguito dal gruppo. I suoi occhi si erano assuefatti all'oscurità, e adesso procedeva lentamente, scrutando il terreno alla ricerca di gobbe rivelataci della presenza di mine interrate. Non ebbe bisogno di dire a uomini di stare in fila indiana e di posare i piedi sui massi ogni volta che era possibile. A sinistra il cielo era illuminato dai bengala, ma la sparatoria si era sensibilmente attenuata.
Ci volle più di un'ora, ma riuscì a far passare tutti gli uomini oltre il fiume e poi sulla pista dei contrabbandieri. Due mujaheddin dovevano restare indietro, ognuno in cima a un'altura da cui si vedeva la rete metallica. Guardarono il guastatore improvvisato che la riparava per mascherare il loro passaggio, e poi scompariva anche lui nelle tenebre.
L'Arciere non si fermò fino all'alba. Erano in orario, per cui poté concedere agli uomini una pausa per dormire e rifocillarsi. Tutto era andato bene, gli dissero gli ufficiali, molto meglio del previsto.
Lo scalo a Shannon fu breve, il tempo necessario per il rifornimento e per prendere a bordo un pilota sovietico il quale, parlando con gli addetti, avrebbe fatto passare il VC-137 attraverso il sistema di controllo aereo del suo Paese.
Jack si svegliò al momento dell'atterraggio e pensò di andare a sgranchirsi le gambe, poi decise che avrebbe visitato i negozi duty-free nel viaggio di ritorno.
Il russo prese posto sullo strapuntino nella cabina di pilotaggio, e l'aereo 86971
rullò di nuovo sulla pista.
Era notte. Il pilota era di umore loquace, e annunciò il successivo avvistamento della terra a Wallasey. In tutta l'Europa, disse, il tempo era bello; faceva freddo, ma il cielo era sereno. Jack guardò le luci gialle delle città inglesi che sfilavano sotto di loro. Sull'aereo aumentò la tensione — o forse la parola giusta era "aspettativa", pensò, sentendo il timbro delle voci che si faceva più acuto, mentre il volume si abbassava. Non si poteva volare verso l'Unione Sovietica senza adottare un tono da cospiratori. Ben presto tutte le conversazioni si ridussero a sordi mormorii. Jack sorrise a se stesso nella plastica dell'oblò, e l'immagine gli domandò che cosa c'era di tanto divertente.
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Sotto di loro apparve di nuovo l'acqua, mentre volavano sul Mare del Nord verso la Danimarca.
Venne poi il Baltico. Si vedeva la linea in cui l'Oriente e l'Occidente s'incontravano. A sud, le città della Germania occidentale erano tutte allegramente illuminate, ognuna avvolta da una calda aureola luminosa. Non era così sul lato est della barriera di filo spinato e di mine. Tutti quanti, a bordo, notarono la differenza, e la conversazione si fece ancora più sommessa.
L'aereo seguiva la rotta G-24; il navigatore aveva la carta Jeppesen parzialmente spiegata sul tavolo. Un'altra differenza fra Est e Ovest era la penuria di rotte di volo nell'Europa orientale. Chiaro, si disse, qui non ci sono tanti Piper e Cessna — be', c'era stato quell' unico Cessna...
«Saliamo in virata. Passeremo a nuova rotta zero-sette-otto ed entreremo nella zona del controllo aereo sovietico.»
«Bene» rispose il pilota "comandante dell'aeromobile". Era stanco, dopo quella pesante giornata. Erano già al livello di volo 381 — a 38.100 piedi pari a 11.600 metri, come preferivano dire i sovietici. Al pilota non piacevano i metri, benché avesse gli strumenti graduati con entrambi i sistemi di misura. Finita la virata volarono per un altro centinaio di chilometri prima di attraversare il confine sovietico a Ventspils.
«Ci siamo» disse qualcuno vicino a Ryan. Visto dall'alto, di notte, il territorio sovietico faceva sembrare la Germania orientale un posto allegro come New Orleans il martedì grasso. Jack ricordò le foto da satellite. Era così facile individuare i campi del GULAG. Erano i soli riquadri illuminati in tutto il Paese... che nazione triste, quella in cui sono ben illuminate soltanto le prigioni...
Il pilota annotò l'ingresso nello spazio aereo sovietico. Ancora ottantacinque minuti, se il vento non cambiava. La rete di controllo del traffico aereo su quella rotta — che adesso si chiamava G-3 — era l'unica in tutta la Russia che usava la lingua inglese. Non c'era veramente bisogno dell'ufficiale sovietico per giungere a destinazione — chiaramente si trattava di un funzionario dei servizi segreti dell'Aeronautica — però era meglio averlo a bordo per il caso che qualche cosa fosse andata storta. Ai russi piaceva il concetto del comando preciso. Gli ordini che il pilota ricevette per la rotta e la quota furono molto più esatti di quelli usati nello spazio aereo americano. Un po' come se lui non sapesse che cosa doveva fare se non glielo diceva da terra un qualche buono a nulla. C'era anche un elemento umoristico in tutto ciò. Il pilota era il colonnello Paul von Eich. La sua famiglia era venuta in America dalla Prussia un centinaio d'anni prima, ma nessuno di loro aveva saputo separarsi dal "von" che era stato un elemento così importante dello status familiare. Alcuni dei suoi antenati avevano combattuto laggiù, sulle sterminate distese di neve della Russia. Lo avevano sicuramente 311
fatto dei parenti in epoca meno remota, forse qualcuno di loro era sepolto in quella terra mentre lui la sorvolava a mille chilometri all'ora. Si domandò vagamente che cosa avrebbero pensato, loro, della sua professione, e intanto continuava a scrutare il cielo con gli occhi chiari per scoprire le luci di altri aerei.
Come la maggior parte dei passeggeri, Ryan valutava l'altezza dal suolo secondo ciò che vedeva, ma la buia campagna sovietica gli negava quella possibilità. Capì che stavano per arrivare quando l'aereo iniziò una lunga virata a sinistra. Udì il rumore dei flaps che si abbassavano, e notò che il sibilo dei motori si affievoliva. Presto poté distinguere i singoli alberi. Dagli altoparlanti la voce del pilota ordinò di spegnere le sigarette e agganciare le cinture. Cinque minuti dopo atterravano all'aeroporto di Sheremetyevo. Tutti gli aeroporti del mondo si rassomigliavano, ma Ryan era convinto che nessuno fosse uguale a questo per la gibbosità delle piste di rullaggio.
I dialoghi in cabina adesso erano più vivaci. L'agitazione cominciò quando l'equipaggio si mise in movimento. Ciò che venne dopo lasciò un ricordo sfuocato. Ernie Allen fu ricevuto da un comitato di livello idoneo e portato via su una limousine dell'Ambasciata. Tutti gli altri furono fatti salire su un pullman. Ryan si sedette da solo, continuando a osservare il paesaggio dai finestrini dell'automezzo di marca tedesca.
Abboccherà Gerasimov? Abboccherà veramente? E se non abbocca? E se abbocca? si chiese con un sorriso.
A Washington tutto sembrava lineare, ma qui, a ottomila chilometri di distanza... Prima avrebbe dormito, con l'ausilio di un'unica capsula rossa distribuita dal Governo. Poi avrebbe parlato con alcune persone dell'Ambasciata. Il resto della missione sarebbe dovuto andare avanti da sé.
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La chiave del destino