PROLOGO

Minacce antiche, nuove e senza tempo

Lo chiamavano l'Arciere. Era un titolo onorevole, anche se i suoi connazionali avevano messo da parte archi e frecce da più di un secolo, cioè da quando avevano scoperto l'esistenza delle armi da fuoco. In un certo senso, il nome rifletteva la natura perenne della lotta. Il primo degli invasori occidentali

— così li consideravano — era stato Alessandro Magno; altri ne erano seguiti.

Alla fine, tutti avevano fallito. I membri delle tribù afghane vedevano nella fede islamica la ragione della propria resistenza, però l'ostinato coraggio di quegli uomini faceva parte, non meno dei neri occhi spietati, del loro patrimonio genetico.

L'Arciere era un uomo giovane e al tempo stesso vecchio. Nei giorni in cui aveva la voglia o l'occasione di bagnarsi in un torrente di montagna, sul suo corpo di trentenne si vedevano guizzare i muscoli. Erano muscoli agili di una persona per la quale scalare una parete di roccia alta trecento metri era cosa trascurabile quanto fare due passi fino alla buca delle lettere.

Gli occhi non erano quelli di un giovane. Gli afghani sono bella gente dalla pelle chiara e dai lineamenti schietti. Però, sferzati dal vento, dal sole e dalla polvere, i visi troppo spesso sembrano più vecchi di quanto in realtà non siano.

Ma non era stato il vento a segnare innanzi tempo il viso dell'Arciere. Laureato, in un Paese in cui molti reputavano cultura sufficiente saper leggere il sacro libro del Corano, aveva insegnato matematica fino a tre anni addietro. Si era sposato giovane, secondo l'uso locale, ed era padre di due bambini. Sua moglie e sua figlia erano state uccise dai missili lanciati da un caccia d'attacco Sukhoi-24.

Il figlio era stato rapito. Dopo che il villaggio della moglie dell'Arciere era stato raso al suolo da un attacco aereo sovietico, erano arrivate le forze terrestri. I 4

soldati avevano ucciso gli uomini superstiti e si erano portati via tutti gli orfani per mandarli nell'Unione Sovietica, dove sarebbero stati educati e addestrati modernamente. Tutto questo era accaduto perché la moglie dell'Arciere aveva voluto far vedere i bambini alla vecchia madre, prima che morisse; in quel frattempo, una pattuglia sovietica era stata attaccata a pochi chilometri dal villaggio. Quando, sette giorni dopo, aveva ricevuto la notizia, il professore di algebra e geometria aveva disposto i libri in bell'ordine sulla cattedra ed era uscito dalla piccola città di Ghazni, dirigendosi verso le montagne. Una settimana più tardi era tornato in città, con altri tre uomini, al calar delle tenebre e si era dimostrato degno dell'antico retaggio uccidendo tre soldati sovietici e prendendo loro le armi. Conservava ancora il primo Kalashnikov catturato in quell'occasione.

Non era questo, però, il motivo per cui lo chiamavano l'Arciere. Il capo della piccola banda di mujaheddin ("Combattenti per la Libertà") era un uomo perspicace. Non aveva disdegnato la nuova recluta proveniente dalle aule scolastiche e dallo studio degli usi forestieri. Non si era neppure indignato per la sua iniziale mancanza di fede. Quando era venuto al gruppo, il professore non aveva nulla più di una conoscenza superficiale dell'Islam. Il capo ricordava le lacrime amare che cadevano come pioggia dagli occhi del giovane, quando l' imam lo aveva consigliato secondo il volere di Allah. Un mese dopo era divenuto il più spietato ed efficiente uomo della banda, e questa era senza alcun dubbio una conferma del progetto divino. Il capo aveva scelto proprio lui per mandarlo nel Pakistan, dove avrebbe potuto mettere a profitto le nozioni di scienza e di matematica per imparare a usare i missili terra-aria. Il primo SAM

di cui l'uomo serio e taciturno venuto dall' Amerikastan aveva dotato i mujaheddin era stato proprio il sovietico SA-7, che i russi chiamavano strela

freccia. Era il primo SAM manuale, non molto efficace se non adoperato con grandissima abilità. Solo pochi erano capaci di usarlo, e il professore di matematica era il migliore di quei pochi. Vedendo i successi che otteneva con le

"frecce" sovietiche, gli uomini del gruppo avevano cominciato a chiamarlo l'Arciere.

In quel momento era appostato con un nuovo missile americano chiamato Stinger, però in tutta la zona i missili terra-aria di ogni tipo venivano ormai denominati "frecce": proiettili per l'Arciere. Disteso sullo spigolo tagliente di una roccia, un centinaio di metri sotto la cima del colle, poteva sorvegliare per tutta la lunghezza la valle d'origine glaciale. Vicino a lui c'era Abdul, il suo osservatore. Il nome Abdul, che significa "servo", era quanto mai appropriato: il ragazzo portava due missili supplementari per il lanciatore e, cosa ancora più importante, aveva la vista di un falco. Anche i suoi occhi bruciavano: era rimasto orfano di recente.

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L'Arciere scrutava il terreno montuoso, soprattutto le linee delle creste, con un'espressione che rispecchiava i mille anni di guerre e di guerriglie combattute dalla sua razza. Era un uomo serio. Benché fosse d'indole abbastanza cordiale, sorrideva molto di rado; non sembrava minimamente interessato a risposarsi, non fosse che per unire il suo dolore solitario con quello di una donna resa da poco vedova. Nella vita dell'Arciere c'era posto per un'unica passione.

«Laggiù» disse Abdul sottovoce, tendendo una mano.

«Vedo.»

La battaglia nel fondovalle — uno dei numerosi scontri di quel giorno — era in corso da mezz'ora, proprio il tempo giusto per l'arrivo degli elicotteri d'appoggio dalla base situata venti chilometri oltre la seconda linea di montagne.

Il sole scintillò brevemente sul muso di vetro del Mi-24, quanto bastava per farlo individuare mentre sorvolava la cresta a una quindicina di chilometri di distanza. Molto più in alto circuitava un unico aereo bimotore Antonov-26 da trasporto, pieno zeppo di apparecchiature d'osservazione e di radiotrasmittenti che servivano a coordinare i movimenti al suolo. Gli occhi dell'Arciere, però, seguivano soltanto il Mi-24, l'elicottero d'attacco Hind carico di missili e di proiettili, che in quel momento stava ricevendo istruzioni dall'aereo coordinatore.

Lo Stinger era stato una sgradita sorpresa per i russi, che si erano visti costretti a cambiare tattica aerea giorno dopo giorno, nel tentativo di far fronte alla nuova minaccia. La valle era profonda, ma molto stretta. Se voleva colpire i guerriglieri compagni dell'Arciere, il pilota doveva volare diritto in mezzo a quel viale dalle pareti rocciose. Si sarebbe tenuto in alto, almeno mille metri sopra il fondovalle, nel caso che, in mezzo ai fucilieri, ci fosse una squadra equipaggiata di missili Stinger. L'Arciere osservò l'elicottero che zigzagava, con il pilota intento a studiare il terreno per scegliere il percorso. Come previsto, si avvicinò sottovento affinché il frastuono dei rotori giungesse al nemico con quei pochi secondi di ritardo che potevano essere determinanti. Intanto la radio sull'aereo da trasporto che volava più in alto sarebbe stata sintonizzata sulle frequenze che si sapevano usate dai mujaheddin. I sovietici speravano, in quel modo, di poter captare un eventuale allarme per l'avvicinamento dell'elicottero, e anche di scoprire l'ubicazione dei lanciatori di missili. In effetti, Abdul aveva un apparecchio radio, che teneva spento e infilato in una tasca della tunica.

L'Arciere alzò lentamente il lanciamissili e puntò il doppio mirino sull'elicottero. Spinse il pollice lateralmente e in basso, sull'interruttore, appoggiando lo zigomo sulla barra di conduttanza. Fu subito confortato dal trillo intermittente del dispositivo di ricerca.

Il pilota aveva fatto le proprie valutazioni e stabilito il percorso. Per il primo mitragliamento, avanzò dall'estremità opposta della valle, appena fuori della 6

portata del missile. Il muso dello Hind era puntato in giù e il cannoniere, seduto più in basso e più avanti del pilota, stava aggiustando la mira sull'area dov'erano i mujaheddin. Dal fondovalle si alzò il fumo. I sovietici usavano proiettili di mortaio per segnalare l'ubicazione dei guerriglieri. Il pilota rettificò lievemente la rotta. Era tempo. Dall'elicottero guizzarono fiamme, e la prima salva di proiettili a razzo saettò verso il suolo.

A quel punto, si vide un'altra scia di fumo, ma diretta verso l'alto. L'elicottero scartò a sinistra, mentre la scia saliva nel cielo, abbastanza lontano dallo Hind, ma pur sempre un chiaro segnale di pericolo imminente — almeno, così pensava il pilota. Le mani dell'Arciere si strinsero sul lanciamissili. L'elicottero adesso stava scivolando lateralmente verso di lui, allargandosi intorno all'anello interno del mirino. Era a portata dell'arma. L'Arciere premette il pulsante anteriore con il pollice sinistro. Così facendo, liberò il missile e offrì all'apparato di guida a raggi infrarossi dello Stinger la prima opportunità di captare il calore irradiato dai motori a turbo-albero del Mi-24. Il suono che gli giungeva all'orecchio attraverso lo zigomo cambiò. Ora il missile stava inseguendo il bersaglio. Il pilota sovietico decise di colpire la zona da cui il presunto missile era stato lanciato, portando il velivolo ancora più a sinistra. Virò continuando a scrutare l'area da cui era salito il razzo. Così facendo, voltò incautamente lo scappamento dei motori verso l'Arciere.

Il sibilo del missile sollecitava l'Arciere, che invece continuò ad aspettare con pazienza. Si immedesimò con il bersaglio e stimò che il pilota si sarebbe avvicinato ancora di più prima di sparare sugli odiati afghani. Fu così. Quando lo Hind fu a un solo chilometro di distanza, l'Arciere inspirò profondamente, elevò l'alzo al massimo e mormorò una breve frase di preghiera e di vendetta. Il grilletto si mosse quasi di sua iniziativa.

L'affusto sobbalzò, mentre lo Stinger si alzava descrivendo un cerchio, prima di scendere per dirigersi sul bersaglio. Gli acuti occhi dell'Arciere riuscirono a seguire il quasi invisibile filo di fumo che segnava la traiettoria del proiettile. Il missile spiegò le alette direzionali, che si mossero di una frazione di millimetro per obbedire agli ordini del cervello computerizzato — un microchip delle dimensioni di un francobollo. Dall'alto dell'Antonov 26, un osservatore scorse una piccolissima nuvoletta di polvere e allungò la mano verso il microfono per avvisare il pilota. Aveva appena toccato lo strumento, quando il missile andò a segno.

Entrò direttamente in uno dei motori ed esplose. L'elicottero fu stroncato all'istante. La trasmissione al rotore di coda fu recisa, e lo Hind cominciò a girare Con violenza a sinistra. Il pilota tentò di portare il velivolo a terra in autorotazione. Cercò freneticamente uno spazio piano, mentre il cannoniere lanciava attraverso la radio una richiesta di soccorso. Il pilota mise il motore al 7

minimo, regolò in conseguenza il passo delle pale del rotore, fissò lo sguardo su una superficie piatta delle dimensioni di un campo da tennis, disinserì i comandi e attivò il sistema antincendio. Come la maggior parte degli aviatori, temeva il fuoco più di qualsiasi cosa, ma avrebbe presto scoperto che c'erano rischi peggiori.

L'Arciere seguì con lo sguardo il Mi-24 che cadeva a muso in giù su una cengia, cinquecento metri sotto il suo punto di osservazione. L'elicottero andò in pezzi ma, stranamente, non s'incendiò; si capovolse e precipitò rovinosamente, con la coda che sbatteva contro il muso, finché si fermò su un fianco. L'Arciere discese di corsa il pendìo seguito da Abdul. Gli bastarono cinque minuti.

Il pilota, appeso a testa in giù, tentò di liberarsi dalle cinghie. Sentiva dolore, ma sapeva che succede solo ai vivi. Il nuovo modello di elicottero aveva dei moderni sistemi di sicurezza incorporati. Grazie a questi, e alla propria abilità, il pilota era sopravvissuto alla caduta. Il cannoniere non aveva avuto altrettanta fortuna: giaceva immobile, con il collo spezzato e le mani che pendevano inerti.

Il pilota non aveva tempo di occuparsene. Il suo sedile era piegato, il tettuccio aveva ceduto e le lamiere contorte erano diventate una prigione. Il dispositivo per l'apertura di emergenza era bloccato, e le cariche per l'espulsione del seggiolino non volevano esplodere. Estrasse la pistola dalla fondina e cominciò a sparare contro la struttura metallica del tettuccio. Avrebbe voluto sapere se l'An-26 aveva ricevuto la chiamata, e se l'elicottero di soccorso era già in volo.

Aveva la radio in una tasca dei pantaloni; l'avrebbe attivata appena fosse riuscito a liberarsi dai rottami del velivolo. Si lacerò le mani nel tirare e spingere le lamiere, ma alla fine riuscì ad aprirsi un varco. Sganciò le cinture, si arrampicò fuori dall'elicottero e scese sul terreno roccioso, ringraziando ancora una volta la sorte per non avergli fatto concludere l'esistenza in una colonna di fumo oleoso.

La gamba sinistra era fratturata. L'estremità bianca e aguzza di un osso sporgeva dalla tuta di volo; il pilota, sotto shock, non sentiva nemmeno il dolore, ma provò raccapriccio quando vide la ferita. Rimise la pistola nella fondina e afferrò una striscia di metallo staccata dal relitto, per usarla come stampella. Doveva allontanarsi. Arrancò fino al limite della roccia e vide un sentiero. Le forze sovietiche più vicine erano a tre chilometri. Stava per avviarsi lungo la pista quando udì dei rumori e si voltò. In un attimo la speranza si trasformò in terrore. Il pilota si rese conto che morire tra le fiamme sarebbe stato una benedizione.

L'Arciere rese grazie al nome di Allah e sguainò il coltello.

Non poteva esserne rimasto molto, pensò Ryan. Lo scafo era in massima parte intatto, almeno in superficie, ma le tracce dell'operazione chirurgica compiuta 8

dai saldatori erano visibili come le cicatrici sul mostro di Frankenstein.

Paragone abbastanza calzante, riflette. L'uomo faceva delle cose che a loro volta potevano distruggere il proprio artefice nel giro di un'ora.

«Dio mio, fa impressione vedere come sembrano grandi visti di fuori...»

«E piccoli visti dall'interno?» domandò Marko. La sua voce esprimeva tristezza e nostalgia. Non molto tempo addietro, il comandante Marko Ramius della Voyenno Morskoi Flot sovietica aveva condotto il suo sottomarino proprio in quel bacino di carenaggio. Non era rimasto ad assistere mentre i tecnici della Marina militare degli Stati Uniti sezionavano la sua nave come i patologi fanno con i cadaveri, rimuovendo i missili, il reattore nucleare, i sonar, i computer, i sistemi di comunicazione, i periscopi, addirittura i fornelli della cambusa, per farli analizzare nelle varie basi sparse un po' dappertutto negli Stati Uniti. Aveva chiesto e ottenuto di non presenziare. L'odio di Marko Ramius per il sistema sovietico non si estendeva alle navi costruite dal regime. Aveva comandato bene l' Ottobre Rosso, e il sottomarino gli aveva salvato la vita.

Anche quella di Ryan. Jack fece scorrere le dita lungo la sottile cicatrice sulla fronte, e si domandò se avevano tolto le tracce del suo sangue dalla consolle del timoniere. «Mi stupisce che tu non abbia voluto portarlo fuori di persona» disse a Ramius.

«No.» Marko scosse la testa. «Volevo solo dirgli addio. È stato un buon sommergibile.»

«Davvero» convenne Jack. Guardò il foro parzialmente riparato che il siluro dell'Alfa aveva prodotto nella murata di babordo e scosse il capo in silenzio. È

già buono che mi sia salvato le chiappe quando il siluro ha fatto centro. I due uomini osservarono senza parlare, in disparte dai Marines e dagli equipaggi che avevano in custodia la zona dal dicembre precedente.

Adesso stavano allagando il bacino di carenaggio, e l'acqua sporca del fiume Elizabeth irrompeva nella vasca di cemento. Il sottomarino sarebbe stato portato fuori quella notte. Sei veloci sub d'attacco americani stavano ancora

"sanitizzando" l'oceano a est della base di Norfolk, ufficialmente nell'ambito di un'esercitazione alla quale partecipavano anche alcune navi di superficie. Erano le nove di una sera senza luna. Sarebbe occorsa un'ora per allagare il bacino.

Trenta uomini d'equipaggio erano già a bordo. Avrebbero messo in moto i motori diesel e portato il sottomarino a compiere il suo secondo e ultimo viaggio sino alla profonda fossa oceanica a nord di Porto Rico, dove l'avrebbero fatto inabissare in più di settemila metri d'acqua.

Ryan e Ramius stettero a guardare mentre l'acqua lambiva i blocchi di legno su cui appoggiava lo scafo, bagnando la chiglia del sommergibile per la prima volta da quasi un anno. L'acqua adesso entrava più velocemente, coprendo le

"marche di bordo libero" pitturate a poppa e a prua. Sul ponte, alcuni marinai, 9

che indossavano giubbotti di salvataggio arancione, si piazzarono per tenersi pronti a mollare i quattordici massicci cavi d'ormeggio che tenevano fermo il sottomarino.

L' Ottobre Rosso restava silenzioso e non sembrava particolarmente felice di ritrovare l'acqua. Forse sapeva quale fato l'attendeva, pensò Ryan. Era un'idea sciocca, ma da millenni i marinai attribuivano una personalità alle navi su cui prestavano servizio.

Alla fine il sottomarino si mosse. L'acqua sollevò lo scafo dai cunei di legno.

Vi fu una serie di rumori sordi, più intuiti che uditi, mentre il sommergibile si alzava lentamente oscillando ogni volta di pochi centimetri da poppa a prua.

Qualche minuto dopo il motore diesel si animò con un rombo; i marinai a bordo e quelli in banchina cominciarono a filare i cavi. Contemporaneamente fu ammainato il telone sul lato del bacino verso il mare, e tutti poterono vedere la nebbia sospesa sull'acqua. Le condizioni erano perfette, e dovevano esserlo, per quella operazione. La Marina aveva aspettato sei settimane per avere una notte senza luna e con la nebbia, che in quella stagione gravava sulla Baia di Chesapeake. Quando fu mollata l'ultima cima, un ufficiale dall'alto della torretta del sommergibile alzò una sirena manuale ad aria e lanciò un unico suono.

«Alla via!» annunciò, e gli uomini a prua ammainarono la bandiera di bompresso e tolsero l'asta. Per la prima volta Ryan notò che era la bandiera sovietica. Sorrise. Era un gesto simpatico. All'estremità poppiera della torretta, un altro marinaio issò la bandiera navale sovietica con lo stemma della Flotta Settentrionale Bandiera Rossa. La Marina americana, sempre attenta alle tradizioni, stava salutando l'uomo al fianco di Ryan.

Jack e Ramius guardarono il sottomarino che cominciava ad avanzare spinto dal proprio motore, con le doppie eliche di bronzo che giravano lentamente in retromarcia mentre entrava di poppa nel fiume. Un rimorchiatore lo aiutò a volgere la prua verso nord. Un minuto dopo il sub non era più visibile, e solo il rombo del motore diesel giungeva attraverso l'acqua oleosa del bacino di carenaggio.

Marko si soffiò il naso e sbatté le palpebre un po' di volte. Quando distolse lo sguardo dall'acqua, parlò con voce ferma.

«E così, Ryan, hanno fatto te tornare da Inghilterra per questo?»

«No, sono rientrato già da qualche settimana. Un nuovo incarico.»

«Puoi dirmi che lavoro è?» chiese Marko.

«Controllo degli armamenti. Vogliono che io coordini le informazioni per il gruppo che parteciperà ai negoziati. Dovremo andare laggiù in gennaio.»

«Mosca?»

«Sì. Una riunione preliminare. Preparare l'ordine del giorno e sbrigare qualche questione tecnica, roba del genere. E tu?»

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«Lavoro in AUTEC, Bahamas. Tanto sole e tanta sabbia. Vedi mio colore?»

Ramius rise. «Vengo a Washington ogni due-tre mesi. Riparto fra cinque ore.

Lavoriamo su nuovo progetto.» Un altro sorriso. «È segreto.»

«Magnifico! La prossima volta voglio che tu venga a casa mia. Ti devo sempre un invito a pranzo.» Jack porse all'amico il biglietto da visita. «Qui c'è il mio numero. Chiamami qualche giorno prima di partire, e io sistemerò la cosa con la CIA.» Ramius e i suoi ufficiali erano sotto stretta sorveglianza da parte dei servizi di sicurezza. La cosa straordinaria, pensò Jack, era che la vicenda non fosse trapelata. Nessuno dei media aveva avuto la notizia, e se la segretezza era protetta con tanto rigore, probabilmente neppure i russi conoscevano la sorte del loro sottomarino missilistico Krazny Oktyabr. Adesso avrebbe virato a nord, si disse Jack, per passare oltre il tunnel verso la rada di Hampton. Un'ora più tardi si sarebbe immerso e avrebbe puntato a sud-est. Jack scosse il capo.

La sua tristezza per il destino del sottomarino si attenuava sensibilmente se pensava allo scopo per il quale era stato costruito. Ricordò la propria reazione, nella camera di lancio dei missili, quando si era trovato per la prima volta a contatto diretto con quegli oggetti terrificanti. Jack accettava l'idea che le armi nucleari mantenevano la pace — sempre che si volesse chiamare pace la condizione attuale del mondo — ma, come la maggior parte delle persone che si occupavano del problema, avrebbe voluto che esistesse una soluzione migliore.

Bene, adesso l'armamento nucleare mondiale sarebbe diminuito di un sottomarino, ventisei missili e ottantadue testate. Dal punto di vista statistico non era granché, pensò Ryan. Ma era pur sempre qualcosa.

A sedicimila chilometri di distanza e duemilaquattrocento metri sopra il livello del mare, il problema era rappresentato dalle insolite condizioni atmosferiche. La località si trovava nella Repubblica Socialista Sovietica del Tagikistan. Il vento veniva dal sud, portando l'umidità dell'Oceano Indiano che ricadeva in una pioggerellina fredda e triste. Presto sarebbe iniziato l'inverno, che in quel posto arrivava sempre in anticipo, di solito seguendo da presso un'estate incandescente e afosa. Dal cielo non sarebbe più caduto altro che la neve gelida e bianca.

Il personale era formato perlopiù da giovani, impegnati membri del Komsomol. Erano stati trasferiti lassù per collaborare al completamento di un progetto iniziato nel 1983. Uno dei dipendenti, candidato alla laurea presso l'Istituto di fisica dell'Università Statale di Mosca, si asciugò gli occhi dalla pioggia e raddrizzò la schiena tormentata da un crampo. Non era quello il modo di utilizzare un promettente giovane ingegnere, pensò Morozov. Invece di gingillarsi con uno strumento da agrimensore, avrebbe potuto costruire dei laser nel suo laboratorio — però voleva la piena ammissione al Partito Comunista 11

dell'Unione Sovietica e, ancora di più, l'esenzione dal servizio militare. La proroga per motivi scolastici unita al lavoro con il Komsomol avevano giovato non poco a favore di un possibile esonero.

«Allora?» Morozov si volse e vide uno dei tecnici locali. Era un ingegnere civile che si descriveva come uno che conosce il cemento armato.

«Alla lettura della giusta posizione, compagno ingegnere.»

Il tecnico si chinò a guardare attraverso il mirino. «D'accordo» disse. «E

questa è l'ultima, siano ringraziati gli dèi.» Entrambi gli uomini sobbalzarono al suono di una lontana esplosione. I genieri dell'Armata Rossa facevano saltare un altro sperone roccioso all'esterno del perimetro protetto. Non occorreva essere soldati per capire che cosa stava succedendo, pensò Morozov.

«Se la cava bene con gli strumenti ottici. Vuole diventare ingegnere civile anche lei? Costruire cose utili per lo Stato?»

«No, compagno. Io studio fisica delle particelle, soprattutto i laser.» Anche queste sono cose utili.

«Allora forse ritornerà qui, che Dio l'aiuti» borbottò il tecnico scuotendo la testa.

«Perché questo sarebbe...»

«Io non ho detto niente» dichiarò il tecnico, con un'ombra di asprezza nella voce.

«Capisco» rispose Morozov a bassa voce. «Lo sospettavo.»

«Non sarebbe cosa avveduta parlare in giro di quel sospetto» osservò l'altro in tono discorsivo, fingendo di guardare qualcosa dalla parte opposta.

«Dev'essere un bel posto per osservare le stelle» commentò Morozov, sperando di ricevere la risposta giusta.

«Non saprei dirlo» rispose il tecnico con un sorriso da iniziato. «Non ho mai conosciuto un astronomo.»

Morozov sorrise fra sé. Aveva avuto la giusta intuizione. I due uomini avevano appena finito di rilevare i sei punti in cui sarebbero stati piazzati gli specchi. Erano equidistanti dal punto centrale situato in un edificio custodito da guardie armate. Una simile precisione, lo sapeva bene, poteva essere applicata solo a due settori di ricerca. Uno era l'astronomia, che raccoglieva la luce discendente. L'altra applicazione riguardava invece la luce che saliva. Il giovane laureando si disse che era proprio lì che desiderava venire. Quel posto avrebbe cambiato la faccia del mondo.

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Il ricevimento al Partito

Si stavano trattando affari. Ogni genere d'affari. Tutti i presenti lo sapevano, e tutti erano coinvolti. In effetti, tutti i presenti ne avevano bisogno. Eppure ognuno di loro era impegnato, per un motivo o per l'altro, a bloccare le trattative. Per tutte le persone che si trovavano nella sala San Giorgio del Grande Palazzo del Cremlino, il dualismo era una parte normale della vita.

I partecipanti erano in maggioranza russi e americani, divisi in quattro gruppi.

Il primo era quello dei diplomatici e dei politici. Erano facili da individuare: vestiti con particolare eleganza, un po' rigidi nel portamento, pronti a elargire sorrisi robotici, precisi nella dizione che restava impeccabile anche dopo parecchi brindisi. Erano i padroni, lo sapevano, e il loro atteggiamento lo proclamava.

I militari formavano il secondo gruppo. Non si possono condurre negoziati sugli armamenti senza gli uomini che controllano, tengono in efficienza, collaudano e vezzeggiano le armi, continuando a dirsi che i politici che hanno il potere sugli uomini non daranno mai l'ordine di lancio. I militari in uniforme stavano in piccoli gruppi omogenei per nazionalità e specializzazione. Ognuno aveva in mano un bicchiere e un tovagliolo, e scrutava l'intera sala con occhi privi di emozione, come se cercasse un pericolo, una minaccia su un terreno poco familiare. La vedevano proprio così, la sala in cui erano: la sede di uno scontro incruento che avrebbe definito gli effettivi campi di battaglia se i padroni politici avessero perso il controllo, la calma, la prospettiva, o qualsiasi altro elemento insito nell'uomo che tenta di evitare lo spreco di giovani vite.

Tutti i soldati, indistintamente, si fidavano solo dei colleghi; non di rado accordavano maggior fiducia ai nemici in uniforme che ai propri padroni in abiti borghesi. Con un militare sai sempre dove stai, ma non con i politici, nemmeno con quelli del tuo Paese. Gli ufficiali nella sala San Giorgio parlavano a bassa voce fra di loro, badando bene a chi li ascoltava e bevendo ogni tanto un rapido sorso dal bicchiere, accompagnato da un'occhiata circolare alla sala. Erano le vittime, ma anche i predatori — o forse i cani, tenuti al guinzaglio da coloro che si consideravano i signori degli eventi — convinzione su cui i militari erano, a dir poco, scettici.

Nel terzo gruppo c'erano i giornalisti. Anche loro erano facilmente riconoscibili per gli abiti sempre stropicciati a forza di essere continuamente messi in valigie non abbastanza grandi per tutto ciò che dovevano contenere.

Mancavano loro l'eleganza e il fisso sorriso del politico, sostituito dallo sguardo curioso del bambino unito al cinismo del dissoluto. Perlopiù tenevano il 13

bicchiere nella mano sinistra, spesso con un piccolo blocco per appunti al posto del tovagliolo, e una matita seminascosta nella destra. Si aggiravano come uccelli da preda. Se qualcuno trovava la persona disposta a parlare, gli altri se ne accorgevano e si precipitavano a tendere l'orecchio. L'osservatore casuale poteva valutare l'importanza delle informazioni dalla velocità con cui i giornalisti si spostavano per andare ad abbeverarsi a un'altra potenziale fonte di notizie. Sotto quell'aspetto, gli inviati americani e quelli dell'Europa occidentale differivano dai colleghi sovietici, che in genere si stringevano intorno ai propri padroni come cortigiani d'altri tempi, per dimostrare la propria fedeltà al Partito, ma anche per fare da diaframma tra il centro del gruppo e i colleghi stranieri. I giornalisti dei due blocchi formavano comunque il pubblico di quel teatro circolare.

Veniva infine il quarto gruppo, quello invisibile, costituito da gente che nessuno poteva identificare con facilità. Erano le spie, e gli agenti del controspionaggio che davano loro la caccia. Si distinguevano dalle guardie di sicurezza che osservavano tutti con sospetto, dal perimetro del salone, anonime come i camerieri che circolavano portando pesanti vassoi d'argento con spumante e vodka in bicchieri di cristallo del tempo dei Romanov.

Naturalmente, parecchi camerieri erano agenti segreti. Si aggiravano nella sala con le orecchie dritte per captare un frammento di conversazione, magari una voce un po' troppo bassa o una parola dissonante nell'atmosfera di quella serata.

Non era un compito facile. Un quartetto d'archi in un angolo suonava musica da camera che nessuno sembrava ascoltare, però il quartetto è un elemento fisso dei ricevimenti diplomatici e, se non ci fosse stato, la gente si sarebbe stupita.

C'erano poi i rumori prodotti dagli esseri umani. Nella sala erano raccolte più di cento persone, tutte impegnate in qualche conversazione, e quindi intente a parlare o ad ascoltare. Ciò equivaleva grosso modo al volume sonoro di cinquanta persone che parlavano a tempo pieno. Chi era più vicino ai musicisti doveva alzare la voce per farsi sentire. Tutto l'impatto acustico che ne derivava era contenuto in un salone lungo sessanta metri e largo venti, con pavimento di legno e pareti stuccate che riflettevano e amplificavano i suoni fino a un livello che avrebbe causato sofferenza fisica alle orecchie di un bambino. Le spie sfruttavano la propria virtuale invisibilità e il frastuono per muoversi come fantasmi nell'animazione della festa.

Però le spie c'erano, e tutti lo sapevano. Chiunque, a Mosca, era in grado di parlarne. Chi incontrava ogni tanto un occidentale con una parvenza, anche minima, di regolarità, riteneva prudente andare a riferirlo. Anche nell'evenienza che l'incontro fosse unico o casuale, se per caso fosse passato di lì un poliziotto della Milizia Moscovita o un ufficiale dell'Esercito, la cosa sarebbe stata oggetto di un'annotazione, forse frettolosa e forse no. Non erano più i tempi di Stalin, 14

ma la Russia era sempre la Russia: la diffidenza per i forestieri e per le loro idee era più antica di qualsiasi ideologia.

La maggior parte delle persone presenti nella sala pensava a queste cose senza rendersene conto — a eccezione di coloro che erano coinvolti in quello specifico gioco. I diplomatici e i politici erano esperti nell'arte di sorvegliare le proprie parole, per cui il ricevimento non era per loro motivo di vera preoccupazione. Per i giornalisti l'esistenza delle spie era un fatto divertente, una partita favolosa che non li riguardava in modo diretto — anche se tutti i reporter occidentali sapevano di essere ipso facto considerati agenti segreti da parte del Governo sovietico. I più preoccupati erano i militari, che conoscevano l'importanza delle informazioni, le volevano, le valutavano — e disprezzavano le persone incaricate di raccoglierle. Le consideravano esseri sfuggenti, quali in effetti erano.

Chi erano le spie?

Ovviamente c'era nella sala un certo numero di uomini e di donne che non rientravano in nessuna categoria di facile individuazione — oppure rientravano in più d'una di esse.

«Allora, come ha trovato Mosca, dottor Ryan?» domandò un russo. Jack, che stava osservando il bell'orologio di San Giorgio, si voltò.

«Buia e fredda, temo» rispose dopo aver bevuto un sorso di spumante. «Non è che ci abbiano dato modo di vedere la città.» E non lo avrebbero fatto. Il gruppo americano era in Unione Sovietica da quattro giorni e sarebbe ripartito l'indomani, dopo avere concluso la riunione tecnica che precedeva quella plenaria.

«Gran peccato » commentò Sergey Golovko.

«Sì» ammise Jack. «Se tutta la vostra architettura è pregevole come questo palazzo, mi piacerebbe avere qualche giorno a disposizione per ammirarla.

Chiunque sia stato a costruire questo edificio, aveva certamente dello stile. »

Guardò con approvazione le luminose pareti bianche, il soffitto a cupola e le dorature. Le trovava eccessive, ma sapeva che una caratteristica nazionale dei russi è proprio quella di strafare in ogni campo. Raramente avevano avuto abbastanza di una cosa qualsiasi. Il loro concetto di "avere abbastanza"

significava avere più di un altro — preferibilmente più di chiunque altro. Ryan vedeva quell'atteggiamento come la prova di un complesso d'inferiorità nazionale, ed è noto che le persone che si sentono inferiori hanno il desiderio patologico di smentire tale sensazione. Quel fattore specifico dominava tutti gli aspetti del negoziato per il controllo degli armamenti, sostituendosi alla logica come base per raggiungere un'intesa.

«I decadenti Romanov» osservò Golovko. «Tutto questo viene dal sudore dei contadini.» Ryan scoppiò a ridere.

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«Be', quanto meno una parte dei soldi che pagavano al fisco è stata usata per fare qualcosa di bello, innocuo e immortale. Se vuole la mia opinione, è meglio che investire soldi nell'acquisto di brutte armi che diventano obsolete nel giro di dieci anni. È un'idea, Sergey Nikolay'ch. Orienteremo la nostra competizione politico-militare verso la bellezza anziché verso le armi nucleari.»

«Quindi lei è contento di come procedono le cose?»

Lavoro. Ryan alzò le spalle e riprese a osservare il salone. «Penso che abbiamo raggiunto un accordo per l'ordine del giorno. Adesso tocca a quei tipi laggiù, intorno al camino, mettere a punto i particolari.» Si soffermò a guardare uno degli enormi candelabri di cristallo. Chissà quanti anni di lavoro erano occorsi per farli, e come doveva essere stato divertente appendere al soffitto degli oggetti che pesavano ciascuno quanto un'utilitaria.

«E per lei va bene ciò che è stato stabilito riguardo alla verificabilità?»

E questa è la conferma, pensò Ryan con un impercettibile sorriso. Golovko fa parte del GRU — "Mezzi Tecnici Nazionali". Il termine designava i satelliti spia e gli altri metodi per tenere d'occhio i Paesi stranieri. In America se ne occupava soprattutto la CIA, ma nell'Unione Sovietica quell'attività rientrava nella giurisdizione del GRU, il servizio informazioni delle Forze Armate. Benché fosse stato raggiunto un accordo di massima sui controlli in loco, la verifica dell'adempimento dell'impegno sarebbe toccata in massima parte ai satelliti spia, pertanto alla scuderia di Golovko.

Il fatto che Jack lavorasse per la CIA non era veramente un mistero. Non c'era bisogno che lo fosse: Ryan non era uno 007. Il fatto che lo avessero assegnato all' équipe dei negoziatori era perfettamente logico. Il suo incarico attuale aveva a che fare con la verifica di certe armi strategiche nell'Unione Sovietica. Per la firma di qualsiasi trattato relativo agli armamenti, è indispensabile prima di tutto rassicurare le due parti sul paranoico timore istituzionale che la controparte possa giocare dei brutti tiri. Jack faceva da consulente al capo negoziatore su questi punti — beninteso, quando il capo si prendeva la pena di ascoltarlo.

«La verificabilità» rispose dopo una pausa «è una questione tecnica estremamente difficile. Temo di non avere molta competenza in proposito. Che cosa pensano i suoi della nostra proposta di limitare gli impianti con base a terra?»

«I missili con base a terra sono più importanti per noi che per voi» disse Golovko. La sua voce si fece più controllata, ora che si discuteva il punto centrale della posizione sovietica.

«Non capisco perché riserviate meno attenzione di noi ai sommergibili.»

«Affidabilità, e lei lo sa benissimo.»

«Sciocchezze. I sottomarini sono affidabili» lo stuzzicò Jack tornando a occuparsi dell'orologio. Era un magnifico oggetto. Un tale che sembrava un 16

contadino porgeva una spada a un altro individuo e, con un gesto, lo incitava a combattere. Non è proprio un'idea nuova, pensò. Un vecchio marpione che ordina a un giovane di andare a farsi uccidere.

«Mi duole dirlo, ma abbiamo avuto qualche incidente.»

«Già, quel sommergibile della classe Yankee che è sparito al largo delle Bermude. »

«E quell'altro...»

«Ehm?» Ryan si voltò verso l'interlocutore. Dovette fare un notevole sforzo per non sorridere.

«La prego, dottor Ryan, non insulti la mia intelligenza. Lei conosce bene quanto me la storia del Krazny Oktyabr. »

«Qual era? Ah, sì, quel Typhoon che avete perso al largo delle Caroline. A quell'epoca ero a Londra. Non ho mai visto la relazione.»

«Secondo me, i due incidenti illustrano il problema di noi sovietici. Non possiamo fidarci dei nostri sottomarini missilistici quanto voi vi fidate dei vostri.»

«Ehm...» Per non parlare dei comandanti, pensò Ryan, avendo cura di presentare all'interlocutore un viso completamente inespressivo.

Golovko non si arrese. «Posso farle una domanda importante?»

«Certo, purché non si aspetti una risposta importante» replicò Jack ridendo.

«La vostra comunità dell'Intelligence, la banda addetta alle informazioni, avrà qualcosa a ridire sulla bozza di trattato?»

«Andiamo, come faccio a saperlo?» Jack fece una pausa. «E i suoi, piuttosto?»

«I nostri organi di sicurezza fanno quello che viene loro ordinato» sentenziò Golovko.

Vero, si disse Jack. «Nel nostro Paese, se il Presidente decide che gli piace un certo trattato sugli armamenti, e pensa di poterlo fare approvare dal Senato, le opinioni del Pentagono e della CIA non contano più...»

«Ma il vostro apparato industriale-militare...» interruppe Golovko.

«Dio santo, vi piace proprio battere su questo chiodo, eh? Sergey Nikolayevich, lei dovrebbe saperla più lunga di così.»

Ma forse no, perché Golovko era funzionario alle informazioni militari, rammentò tardivamente Ryan. Il grado di incomprensione reciproca fra Russia e Stati Uniti era al tempo stesso divertente e pericoloso. Jack avrebbe voluto sapere se la comunità sovietica dell' Intelligence cercava veramente di scoprire la verità, come faceva attualmente la CIA, oppure se raccontava ai suoi padroni le cose che questi desideravano sentire, come la CIA aveva fatto troppe volte in passato. Forse era giusta la seconda ipotesi. I servizi d'informazione sovietici erano indubbiamente politicizzati, proprio come lo era stata la CIA. Faceva 17

onore al giudice Moore l'essersi impegnato a fondo per porre fine a tale situazione. Il giudice, però, non aveva alcun desiderio di diventare Presidente degli Stati Uniti; in questo differiva dal suo equivalente sovietico. Un direttore del KGB era già riuscito a scalare il vertice, e almeno un altro aveva tentato di farlo. Ciò faceva del KGB un'entità politica, e questo ne pregiudicava l'obiettività. Jack sospirò nel bicchiere. I problemi esistenti fra i due Paesi non sarebbero finiti se tutte le false percezioni fossero state accantonate, ma almeno le cose sarebbero state più semplici da gestire.

Forse. Fra sé e sé, Ryan ammise che poteva essere una panacea vana come tutte le altre; dopotutto non si era mai fatto il tentativo.

«Posso avanzare una proposta?»

«Certamente.»

«Lasciamo perdere i discorsi di lavoro, e mi parli di questa sala mentre io gusto lo spumante.» Risparmieremo tutti e due un sacco di tempo domattina, quando dovremo scrivere i rapporti del contatto.

«Vuole che vada a prenderle della vodka?»

«No, grazie, questo vino frizzante è ottimo. Locale?»

«Sì, viene dalla Georgia» affermò Golovko con orgoglio. «Per me è migliore dello champagne francese.»

«Me ne porterei volentieri a casa qualche bottiglia» convenne Jack.

Golovko rise, un breve grugnito di compiacimento. «Ci penserò io. Dunque, il palazzo fu terminato nel 1849. Era costato undici milioni di rubli, una bella somma per quell'epoca. È l'ultimo grande palazzo costruito da loro e, credo, il migliore...»

Ryan non era il solo a fare il giro della sala. La maggior parte dei membri della delegazione americana non c'era mai stata prima. I russi annoiati dal ricevimento facevano loro da guida. Diverse persone dell'Ambasciata camminavano alle spalle dei gruppi, tenendoli d'occhio senza parere.

«E così, Misha, che cosa pensa delle donne americane?» chiese il ministro della Difesa, Yazov, al suo aiutante.

«Quelle che vedo arrivare non sono sgradevoli, compagno ministro» rispose il colonnello.

«Ma sono tanto magre... ah, sì, dimenticavo, anche la sua affascinante Elena era magra. Era una donna notevole, Misha.»

«Grazie per il ricordo, Dmitri Timofeyevich.»

«Salve, colonnello!» esclamò in russo una delle signore americane.

«Buongiorno, signora...»

«Foley. Ci siamo conosciuti nel novembre scorso alla partita di hockey.»

«Conosce questa signora?» domandò il ministro all'aiutante di campo.

«Mio nipote... anzi, pronipote Mikhail — è nipote della sorella di Elena —

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gioca a hockey nel campionato juniores. Sono stato invitato a una partita, e ho scoperto che tengono in squadra un imperialista» spiegò alzando un sopracciglio.

«Gioca bene il suo ragazzo? chiese il maresciallo Yazov all'americana.

«E il terzo cannoniere della squadra» rispose Mrs. Foley.

«Formidabile! Allora lei deve restare nel nostro Paese, e suo figlio quando sarà più grande potrà giocare nella squadra dell'Armata Rossa.» Yazov sorrise.

Era quattro volte nonno. «Che cosa fa qui?»

«Mio marito lavora all'Ambasciata. Eccolo, è laggiù a guidare i giornalisti —

ma la cosa importante è che ha potuto portarmi qui stasera. Non ho mai visto nulla di simile in tutta la mia vita!» esclamò con entusiasmo forse eccessivo. Gli occhi risplendenti erano frutto di vari bicchieri di qualcosa, forse di spumante, pensò il ministro. Era il tipo da spumante, ma anche una bella donna, e si era preso il disturbo di imparare bene la lingua, cosa insolita per gli americani.

«Questi pavimenti sono così belli che sembra un delitto calpestarli. Al nostro Paese non abbiamo niente che possa reggere il confronto!»

«Non avete mai avuto gli zar, per vostra fortuna» rispose Yazov da buon marxista. «Come russo, però, devo ammettere che sono fiero del loro senso artistico.»

«Non l'ho più vista alle altre partite, colonnello» disse Mrs. Foley rivolgendosi di nuovo a Misha.

«Non ho avuto tempo.»

«Peccato, lei porta fortuna alla squadra! Quella sera abbiamo vinto; Eddie ha segnato una rete e ha fatto un assist. »

Il colonnello sorrise. «Il nostro piccolo Misha invece è stato penalizzato due volte per fallo di bastone.»

«Misha come lei?»

«Sì.»

«Queste non le aveva l'altra volta che ci siamo visti.» Mrs. Foley indicò le tre stelle d'oro sul petto del colonnello.

«Forse non mi sono tolto il pastrano.»

«Le porta sempre» intervenne il maresciallo. « Non si può non portare le medaglie di Eroe dell'Unione Sovietica.»

«Sarebbe come la nostra Medaglia d'Onore?»

«Le due decorazioni sono grosso modo equivalenti» rispose il maresciallo al posto dell'aiutante. Misha era inesplicabilmente restìo a parlarne. «Il colonnello Filitov è l'unico uomo vivente che ha guadagnato questa medaglia per ben tre volte in combattimento.»

«Davvero? E come si fa a meritarla tre volte?»

«Combattendo i tedeschi» replicò asciutto il colonnello.

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«Ammazzando i tedeschi» ribadì in tono ancora più secco Yazov. Quando Filitov era già una delle stelle più luminose dell'Armata Rossa, Yazov era solo tenente. «Misha è uno dei migliori ufficiali carristi mai esistiti.»

L'affermazione fece arrossire il colonnello Filitov. «Ho fatto il mio dovere, come tanti altri soldati durante la guerra.»

«Anche mio padre è stato decorato al valor militare. Ha guidato due missioni per liberare dei prigionieri dai campi di concentramento nelle Filippine. Non ne parlava molto, ma so che gli hanno dato un bel po' di medaglie. Lei parla ai suoi figli delle stelle d'oro che ha guadagnato?»

Filitov s'irrigidì per un attimo. Yazov rispose per lui.

«I figli del colonnello Filitov sono morti qualche anno fa.»

«Oh! Colonnello, mi dispiace tanto» si scusò Mrs. Foley, sinceramente addolorata.

«È passato molto tempo.» Filitov sorrise. «Ricordo bene la partita e suo figlio, un gran bel ragazzo. Voglia bene ai suoi figli, cara signora, perché non li avrà per sempre. La prego di scusarmi.» Misha si allontanò in direzione delle toilettes. Mrs. Foley guardò il ministro, con un'espressione d'angoscia sul bel viso.

«Signore, non volevo...»

«Non poteva saperlo, signora. Misha ha perso i due figli a qualche anno di distanza l'uno dall'altro, e poi la moglie. L'ho conosciuta quando ero un giovanotto — bellissima donna, ballerina del Kirov. Triste, ma noi russi siamo abituati alle grandi tristezze. Parliamo d'altro. In quale squadra gioca suo figlio?» Il viso grazioso dell'interlocutrice aumentava l'interesse del maresciallo Yazov per l'hockey.

Misha trovò le toilettes dopo un minuto. Naturalmente gli americani e i russi dovevano usare servizi separati. Il colonnello Filitov si trovò da solo in quello che doveva essere stato il gabinetto di un principe, o forse di un'amante dello zar. Si lavò le mani e si guardò nello specchio dalla cornice dorata. Un solo pensiero gli ronzava in testa. Di nuovo. Un'altra missione. Sospirò e si rimise in ordine. Un minuto dopo rientrò nell'arena.

«Chiedo scusa» disse Ryan. Nel voltarsi, aveva urtato un anziano signore in uniforme. Golovko disse qualcosa in russo che Ryan non afferrò. L'ufficiale rispose con una frase che a Jack sembrò di cortesia, e si allontanò per raggiungere il ministro della Difesa.

«Chi è?» domandò al suo accompagnatore.

«L'aiutante di campo personale del ministro» rispose Golovko.

«Un po' anziano per essere solo colonnello, no?»

«È un eroe di guerra. Non obblighiamo simili uomini ad andare in pensione.»

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«Mi sembra corretto» commentò Jack, e tornò a voltarsi per sentire la spiegazione su quella parte della sala. Quando ebbero esaurito la sala San Giorgio, Golovko condusse Jack nell'adiacente sala San Vladimiro. Espresse la speranza che lui e Jack potessero ritrovarsi lì, la volta successiva. San Vladimiro era la sala riservata alla firma dei trattati, spiegò. I due addetti alle informazioni brindarono a quell'augurio.

Il ricevimento finì a mezzanotte passata. Ryan salì sulla settima limousine.

Nessuno parlò durante il ritorno all'Ambasciata. Tutti sentivano gli effetti dell'alcol, e comunque era buona norma non parlare in automobile, a Mosca. Era troppo facile piazzare dei microfoni. Due dei passeggeri si addormentarono, e per poco non lo fece anche Ryan. Lo tenne sveglio il sapere che di lì a cinque ore sarebbe stato in volo, e tanto valeva accumulare stanchezza in modo da dormire in aereo, capacità che aveva acquisito solo di recente. Giunto all'Ambasciata si cambiò e scese alla mensa per una tazza di caffè. Sarebbe bastata a sostenerlo per qualche ora mentre redigeva il rapporto.

Le cose si erano svolte sorprendentemente bene negli ultimi quattro giorni.

Anche troppo. Jack si disse che le medie sono fatte di giornate riuscite bene e di giornate storte. Era già stata messa sul tavolo una bozza di trattato. Come sempre negli ultimi tempi, i sovietici la consideravano uno strumento di negoziazione più che un atto conclusivo. I particolari erano stati dati alla stampa, e diversi membri del Congresso andavano già dicendo in giro quanto era buono, e si domandavano perché non ci si sbrigava a firmarlo.

Perché no, in effetti? si chiese Jack con un sorriso ironico. La verificabilità.

Questo era un motivo. L'altro... ma ce n'era un altro? Buona domanda. Perché avevano tanto cambiato il loro atteggiamento? Era noto che il Segretario Generale Narmonov voleva ridurre le spese militari. Tuttavia, con buona pace del diverso parere dell'opinione pubblica, non si comincia una simile operazione. dal settore nucleare. Le armi di quella categoria costano abbastanza poco, in proporzione a ciò che possono fare. Sono un modo molto economico di ammazzare la gente. O meglio, la testata nucleare e il suo vettore, benché costosi, lo sono molto meno della quantità di carriarmati e di artiglieria che occorre mettere insieme per ottenere una equivalente forza distruttiva.

Narmonov voleva sinceramente ridurre le minacce di una guerra atomica? Ma la minaccia non veniva dalle armi; come sempre, veniva dai politici e dai loro errori. Era soltanto un simbolo? Jack si disse che per Narmonov era molto più facile produrre simboli che sostanza. Se era un simbolo, a chi era diretto?

Narmonov aveva carisma e potere — il tipo viscerale di prestigio che gli derivava dalla posizione, ma soprattutto dalla personalità. Che uomo era veramente? Che cosa voleva? Ryan sbuffò. Non rientrava nel suo campo.

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Un'altra équipe della CIA stava esaminando la vulnerabilità politica di Narmonov, proprio lì a Mosca. Il compito, molto più semplice, di Ryan, consisteva nella valutazione dell'aspetto tecnico. Forse era semplice, ma per il momento Ryan non conosceva le risposte alle sue stesse domande.

Golovko era già ritornato in ufficio e stava pazientemente mettendo su carta gli appunti. Scrisse che Ryan avrebbe appoggiato, pur con qualche inquietudine, la proposta di accordo. Poiché l'opinione di Ryan era tenuta in gran conto dal direttore della CIA, era probabile che il suo orientamento venisse adottato. Il funzionario depose la penna e si strofinò gli occhi. Era già abbastanza brutto svegliarsi con l'emicrania da sbronza; dover lavorare di notte fino ad accogliere il mal di testa insieme alle prime luci dell'alba era cosa che andava oltre i doveri di un funzionario sovietico. Golovko si domandava perché il suo Governo aveva fatto quell'offerta, in primo luogo, e perché gli americani sembravano così impazienti. Persino Ryan, che avrebbe dovuto saperla un po' più lunga degli altri. Che cosa avevano in mente gli americani? Chi era il manipolatore, e chi il manipolato?

Non male come domanda.

Ripensò a Ryan, la cui tutela era stata il suo compito della sera precedente.

Molto ben piazzato per la sua età, con un grado che nel KGB o nel GRU sarebbe stato equivalente a colonnello, e a soli trentacinque anni. Che cosa aveva fatto per salire così in fretta? Golovko alzò le spalle. Probabilmente aveva degli appoggi, fatto importante a Washington non meno che a Mosca. Era coraggioso

— lo dimostrava l'episodio del terrorismo di cinque anni addietro. Aveva il senso della famiglia, fattore che i russi rispettavano più di quanto non pensassero i loro colleghi americani, in quanto indice di stabilità, che a sua volta implicava la prevedibilità. Ma soprattutto per Golovko, Ryan era un pensatore. Perché, allora, non si opponeva a un patto che dava più benefici all'Unione Sovietica che agli Stati Uniti? Forse la nostra valutazione è sbagliata? annotò nel rapporto.

Gli americani sanno qualcosa che noi non conosciamo? Anche questa era una domanda, che forse poteva essere meglio formulata in: Ryan conosce qualche cosa che Golovko ignora? Il colonnello aggrottò la fronte, poi ripassò mentalmente le cose note a lui e non a Ryan. Il cipiglio si trasformò in un mezzo sorriso. Tutto ciò rientrava nella grande partita, la più grande mai giocata.

«Devi aver camminato tutta la notte.»

L'Arciere annuì gravemente e posò il sacco che gli aveva incurvato la schiena per cinque giorni. Era quasi pesante quanto quello che Abdul si era caricato in spalla. Il ragazzo era vicino al collasso, notò l'uomo della CIA. Ambedue i guerriglieri trovarono dei cuscini su cui sedersi.

«Bevete qualcosa.» Il funzionario si chiamava Emilio Ortiz. Grazie 22

all'ascendenza piuttosto confusa, poteva passare per indigeno di qualsiasi nazione caucasica. Anche lui sulla trentina, era di statura e costituzione media. I muscoli da nuotatore gli avevano fatto ottenere una borsa di studio all'Università della Carolina del Sud, dove si era laureato in lingue. Ortiz aveva un dono particolare: dopo due giorni di esposizione a una lingua, un dialetto o un accento di qualsiasi parte del mondo, lo si poteva prendere per un nativo del luogo. Era anche dotato di compassione umana, e rispettava gli usi delle persone che lavoravano con lui. Di conseguenza, la bevanda che offrì ai due ospiti non era, e non poteva essere, alcolica. Ortiz guardò l'Arciere che beveva il succo di mele con la delicatezza dell'esperto di vini che assaggia un nuovo Bordeaux.

«Che Allah benedica questa casa» disse l'afghano quando ebbe finito il primo bicchiere. Il fatto che, per dirlo, avesse aspettato di bere il succo di mele era, nelle sue intenzioni, la cosa più vicina a una battuta scherzosa. Ortiz gli vide la fatica impressa sul viso, anche se non la dimostrava in altri modi. A differenza del giovane portatore, l'Arciere sembrava inaccessibile alle normali preoccupazioni umane. Non era vero, ma Ortiz capiva come la forza che muoveva quell'uomo potesse sopprimere l'umanità in lui.

I due afghani erano vestiti quasi nello stesso modo. Ortiz osservò l'abbigliamento dell'Arciere e sorrise dell'ironica somiglianza con quello degli Apaches degli Stati Uniti e del Messico. Un antenato di Ortiz aveva servito come ufficiale agli ordini di Terrazas quando l'Esercito messicano aveva infine schiacciato il capo Victorio ai monti Tres Castillos. Anche gli afghani portavano rozzi pantaloni sotto la tunica. Anch'essi erano tendenzialmente dei guerrieri piccoli e agili — e usavano i prigionieri come svago urlante per i propri coltelli.

Guardò il pugnale dell'Arciere e si domandò come era stato usato, ma decise che preferiva non saperlo.

«Vuoi qualche cosa da mangiare?» gli chiese.

«Più tardi» rispose l'Arciere, allungando la mano verso il sacco. Lui e Abdul avevano portato due cammelli carichi, ma per le questioni importanti bastava il contenuto dello zaino. «Ho lanciato otto missili e colpito sei apparecchi, ma uno aveva due motori ed è riuscito a fuggire. Dei cinque che ho abbattuto, due erano elicotteri e tre caccia-bombardieri. Il primo elicottero che abbiamo distrutto era il 24 ultimo tipo di cui ci avevi parlato. Avevi ragione, portava a bordo delle apparecchiature nuove. Qui ce n'è qualcuna.»

Era paradossale, pensò Ortiz, che gli apparecchi più delicati di un velivolo militare sopravvivessero agli impatti che uccidevano l'equipaggio. Sotto il suo sguardo attento, l'Arciere tirò fuori sei circuiti stampati verdi per il designatore laser, che adesso veniva montato su tutti i Mi-24. Il capitano dell'Esercito USA, che si era tenuto silenzioso nell'ombra, si fece avanti per esaminare il materiale.

Le sue mani ebbero un leggero tremito mentre prendevano i circuiti.

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«Hai anche il laser?» domandò nel suo incerto pashto.

«E molto danneggiato, ma lo abbiamo.» L'Arciere si voltò verso Abdul, e vide che dormiva. Si ricordò che aveva un figlio, e quasi sorrise a quel pensiero.

Da parte sua, Ortiz era triste. Era un fatto abbastanza raro quello di avere come collaboratore un partigiano con la cultura dell'Arciere. Doveva essere stato un buon professore, ma non avrebbe insegnato mai più. Non poteva tornare a essere quello di prima. La guerra aveva cambiato la vita dell'Arciere in modo definitivo e totale, come la morte. Che deplorevole spreco!

«I nuovi missili?» chiese il guerrigliero.

«Posso dartene dieci. Un modello un po' migliorato, con cinquecento metri di portata in più. Anche qualche altro razzo fumogeno.»

L'Arciere assentì gravemente, e gli angoli della sua bocca si mossero in quello che, in altri tempi, sarebbe stato il principio di un sorriso.

«Forse potrò dare la caccia ai loro trasporti. I razzi fumogeni funzionano molto bene, amico mio. Ogni volta spingono l'invasore verso di me. Non hanno ancora capito questa tattica.»

Non ha detto trucco, pensò Ortiz. L'ha chiamata tattica. Adesso vuole attaccare i trasporti, vuole ammazzare cento russi per volta. Gesù, che cosa abbiamo fatto dì questo giovane? Il funzionario della CIA scosse la testa. Non era un problema suo.

«Sei stanco, amico. Riposati. Potremo mangiare più tardi. Ti prego di onorare la mia casa fermandoti qui a dormire.»

«E vero, sono stanco» ammise l'Arciere. Due minuti dopo era piombato nel sonno.

Ortiz e il capitano selezionarono le apparecchiature appena portate dai due guerriglieri. C'erano anche il manuale di uso e manutenzione del laser montato sul Mi-24, dei fogli con i codici radio, più altre cose che conoscevano già. A mezzogiorno avevano catalogato tutto il materiale e stavano organizzando il modo di farlo pervenire all'Ambasciata, che a sua volta lo avrebbe spedito per via aerea in California per un esame più approfondito.

Il VC-137 dell'Aviazione USA decollò all'ora giusta. Era una versione personalizzata del vetusto Boeing 707. Il prefisso "V" significava che era riservato al trasporto di passeggeri VIP, cosa evidente all'interno dell'aereo. Jack si sprofondò nella poltrona, lasciandosi andare alla stanchezza che si sentiva addosso. Dieci minuti dopo una mano gli si posò sulla spalla e lo scosse.

«Il capo la vuole» disse un altro membro dell' équipe.

«Ma non dorme mai?» borbottò Jack.

Ernest Allen era nello scomparto più VIP di tutto l'aereo, una cabina situata esattamente sul longherone, arredata con sei morbide poltrone girevoli. Sul 24

tavolo c'era un bricco di caffè. Se non ne avesse bevuto subito un po', Jack avrebbe presto avuto le idee confuse. Se ne beveva, non sarebbe più riuscito ad addormentarsi. Pazienza, il Governo non lo pagava per dormire. Se ne versò una tazza.

«Signore?»

«Possiamo verificarlo?» domandò Allen, tralasciando i preliminari.

«Non lo so ancora, signore» rispose Jack. «Non è solo una questione di Mezzi Tecnici Nazionali. Verificare l'eliminazione di un numero così alto di rampe...»

«Ci concedono un controllo in loco piuttosto limitato» fece notare un funzionario subalterno.

«Me ne rendo conto» ammise Jack. «La domanda è: significa veramente qualcosa?» L'altra domanda è: perché hanno subito aderito a fare una cosa su cui insistiamo da trent'anni?

«Come?» chiese il giovane funzionario.

«I sovietici hanno investito un sacco di lavoro nelle nuove rampe mobili. E se ne avessero altre di cui non sappiamo niente? Crede che riusciremmo a trovare qualche centinaio di lanciamissili mobili?»

«Ma sui nuovi satelliti abbiamo i radar per l'esplorazione della superficie, e...»

«E loro lo sanno, e possono eluderli se vogliono — mi lasci finire. Sappiamo che le nostre portaerei possono eludere, e difatti eludono, i satelliti russi da ricognizione oceanica. Se lo si può fare con una nave, figuriamoci con un treno!» esclamò Jack. Allen alzò gli occhi senza fare commenti, lasciando che il tirapiedi facesse le obiezioni al posto suo. Era una vecchia volpe, Ernie Allen.

«Quindi la CIA esprimerà parere sfavorevole... accidenti, è la più generosa concessione che ci abbiano mai fatta!»

«Giusto, è una concessione generosa. Lo sanno tutti. Prima di accettarla, però, dovremmo forse assicurarci che non abbiano concesso una cosa che hanno prima reso irrilevante. Ci sono anche altri elementi.»

«Quindi lei si opporrà a...»

«Io non mi oppongo a niente. Dico soltanto che dobbiamo prenderci del tempo e usare la testa invece di lasciarci trasportare dall'euforia.»

«Ma la loro bozza di trattato è... è quasi troppo buona per essere vera.» Con queste parole il giovane avvalorava l'obiezione di Ryan, anche se non se ne rendeva conto.

«Dottor Ryan» disse Allen. «Ammesso che l'elaborazione dei dettagli tecnici dia un esito che lei possa giudicare soddisfacente, come vedrebbe il trattato?»

«Signore, parlando dal punto di vista strettamente tecnico, una riduzione del cinquanta per cento delle testate mobili non avrebbe alcuna incidenza sull'equilibrio strategico. È...»

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«Ma questa è follìa!» esclamò il tirapiedi.

Jack tese il braccio verso il giovane, puntando l'indice come la canna di una pistola. «Diciamo che in questo momento ho una pistola puntata sul suo petto.

Facciamo conto che sia una Browning calibro nove. Il caricatore contiene tredici proiettili. Io accetto di toglierne sette, però ho sempre una pistola carica con sei colpi, puntata sul suo petto... si sente più tranquillo?» Ryan sorrise, abbassando la presunta arma.

«Io, personalmente, non mi sentirei affatto tranquillo. È questo il punto in discussione. Se entrambe le parti riducono le armi nucleari a metà, restano comunque cinquemila testate che possono colpire il nostro Paese. Sono tante, provi a pensarci. Tutto ciò che offre questo accordo è una riduzione del potenziale distruttivo eccedente. La differenza fra cinquemila e diecimila ha una portata marginale. Se cominciamo a parlare di una riduzione a mille testate ciascuno, allora forse penserò che stiamo facendo qualcosa di concreto.»

«Crede che il limite di mille testate sia ottenibile?»

«No, signore. A volte vorrei che lo fosse, anche se mi è stato detto che il limite di mille testate avrebbe l'effetto di rendere vincibile la guerra nucleare —

qualunque sia il significato della parola vincibile. » Jack si strinse nelle spalle e concluse: «Signore, se l'accordo in discussione va a buon fine, sarà migliore nell'apparenza che nella sostanza. Forse il significato simbolico dell'intesa ha un valore di per sé — è un elemento che si può considerare, ma non rientra nella mia sfera d'azione. I risparmi finanziari per le due parti saranno reali, ma poco rilevanti in termini di costi militari lordi. Entrambe le parti conservano la metà degli arsenali nucleari esistenti — il che significa che terranno la parte più nuova ed efficace. Il concetto di fondo rimane lo stesso: nel caso di un conflitto nucleare, le due parti sarebbero ugualmente distrutte. Non vedo come questa bozza riduca "la minaccia della guerra". Per ridurla davvero dobbiamo eliminare interamente le maledette testate, o inventare il modo per impedire loro di agire.

Se vuole la mia opinione, dobbiamo fare la seconda cosa prima di tentare la prima. Soltanto allora il mondo diventerà un posto più sicuro — forse».

«È l'inizio di una nuova corsa agli armamenti.»

«Signore, la corsa agli armamenti è iniziata tanto tempo fa. Non è proprio una trovata nuova.»

2

Tea Clipper

«Altre foto di Dushanbe in arrivo» fu il messaggio telefonico per Ryan.

«Okay, sarò lì fra pochi minuti.» Jack si alzò e attraversò il salone fino 26

all'ufficio dell'ammiraglio Greer. Il vicedirettore voltava le spalle al candido manto che ricopriva le colline davanti alla sede della CIA. Stavano ancora sgomberando la neve dall'area di parcheggio; ce n'erano venticinque centimetri persino sulla passerella all'esterno del settimo piano.

«Che cosa c'è, Jack?»

«Dushanbe. C'è stata un'improvvisa schiarita. Lei mi aveva detto di tenerla al corrente.»

Greer guardò il teleschermo nell'angolo dell'ufficio. Era vicino al terminale che lui rifiutava di usare — quanto meno se c'era qualcuno che potesse vedere i suoi tentativi di battere i tasti solo con gli indici; nelle giornate buone aggiungeva un pollice. Avrebbe potuto farsi trasmettere direttamente in ufficio le foto da satellite in tempo reale, ma ultimamente aveva preferito evitarlo. Jack non riusciva a capire perché. «Okay, andiamo.»

Ryan tenne la porta aperta per il vicedirettore alle Informazioni. Svoltarono a sinistra e percorsero in tutta la sua lunghezza il corridoio dei dirigenti, all'ultimo piano dell'edificio. Lì c'era l'ascensore riservato. Uno dei vantaggi era che non lo si doveva mai aspettare per troppo tempo.

«Come va lo sfasamento da fuso orario?» domandò Greer. Non era ancora passato un giorno da quando Ryan era rientrato da Mosca.

«Recuperato, signore. Viaggiare da est a ovest mi disturba di meno. Invece, andare verso est mi uccide.» Dio mio, è bello essere di nuovo a terra.

La porta si aprì e i due uomini uscirono dal palazzo diretti alla nuova costruzione che ospitava l'Ufficio Analisi delle Immagini. Era un servizio privato della Direzione Informazioni, separato dalle Informazioni Fotografiche, l'NIPC (National Photographic Intelligence Center), il quale era invece un'iniziativa congiunta CIA-DIA che lavorava per l'intera comunità dell' Intelligence. La sala di proiezione sarebbe stata l'orgoglio di Hollywood.

Nel mini-cinema c'erano una trentina di poltrone e uno schermo a parete di sei metri per sei. Art Graham, capo del servizio, li stava aspettando. «Arrivate proprio al momento giusto. Avremo le foto fra qualche minuto.» Alzò il ricevitore e parlò brevemente con la cabina di proiezione. Lo schermo si accese.

Adesso lo chiamavano immagini dall'alto, ricordò Jack.

«Un bel colpo di fortuna. Il fronte di alta pressione siberiano ha girato improvvisamente a sud e ha bloccato, come se fosse un muro, il fronte caldo in arrivo. Condizioni di visibilità perfette. La temperatura al suolo è vicina allo zero, e l'umidità relativa non dev'essere molto superiore!» disse Graham compiaciuto. «Abbiamo manovrato il satellite espressamente per approfittare delle circostanze favorevoli. È proprio sopra la località, con una deviazione di soli tre gradi dalla perpendicolare, e non credo che i russi abbiano avuto il tempo di prevedere questo passaggio.»

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«Ecco Dushanbe» mormorò Jack quando sullo schermo comparve una parte del Tagikistan. La prima ripresa era fatta con il grandangolare. Il satellite ricognitore KH-14 aveva complessivamente undici telecamere. Apparteneva alla nuova generazione di satelliti spia, ed era in orbita solo da tre settimane.

Dushanbe, meglio nota come Stalinabad alcuni decenni addietro — chissà com'era stata felice la gente del posto per il nuovo nome! pensò Ryan — doveva essere una delle antiche città carovaniere. Distava circa centocinquanta chilometri dall'Afghanistan. La leggendaria Samarcanda di Tamerlano sorgeva poco più su, a nord-ovest... forse Sheherazade aveva viaggiato dall'una all'altra città un migliaio d'anni prima. Chissà come mai la storia andava in quel modo, si chiese Ryan. Gli ste si luoghi e gli stessi nomi sembravano riaffiorare attraverso i secoli.

In ogni caso, l'interesse della CIA per Dushanbe non aveva nulla a che vedere con la via della seta.

L'immagine cambiò per l'intervento di una delle telecamere ad alta definizione. Prima scrutò dentro una valle profonda, dove un fiume era trattenuto dalla massa di cemento e di pietra di una diga idroelettrica. Era a soli cinquanta chilometri a sud-est di Dushanbe, ma le sue linee elettriche non alimentavano quella città di 500.000 abitanti. I cavi correvano, invece, verso un gruppo di vette montane, probabilmente visibili dalla centrale.

«Sembrano le fondazioni per un'altra serie di torri» osservò Ryan.

«Parallele alla prima serie» convenne Graham. «Stanno installando dei nuovi generatori alla centrale. Sapevamo fin dal principio che prelevano dalla diga sì e no la metà dell'energia utilizzabile.»

«Quanto tempo occorre per mettere in linea l'altra metà?»

«Dovrò consultare uno specialista. Basteranno poche settimane per far correre i cavi, e la metà superiore della centrale è già costruita. Immagino che le fondazioni per i nuovi generatori siano già state posate. Tutto ciò che devono fare è mettere a punto e collegare le nuove apparecchiature. Sei mesi, forse otto se il tempo peggiora.»

«Così presto?» Jack era stupito.

«Hanno preso gente da altri due impianti idroelettrici e l'hanno dirottata laggiù. Erano entrambi dei "progetti eroici". Di questo, invece, non si è mai sentito parlare, però sappiamo che, per avviarlo, hanno prelevato squadre di muratori da due cantieri importanti. I russi sanno concentrare gli sforzi, quando vogliono. Una previsione da sei a otto mesi è pessimistica, dottor Ryan. Possono fare più in fretta» disse Graham.

«Di quale potenziale disporranno quando sarà finito?»

«Non è un impianto enorme. La potenza massima complessiva con i nuovi generatori in funzione? Direi millecento megawatt.»

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«È parecchio. Tutta diretta a quei cocuzzoli sulla montagna, poi...» disse Ryan quasi parlando a se stesso mentre la telecamera si spostava di nuovo.

Il monte che la CIA chiamava Mozart era imponente, però quella zona era la propaggine più occidentale dell'Himalaya, al cui confronto la cima in questione diventava modesta. Avevano aperto con le mine una strada fino in cima — in Russia non c'era una società ecologica come il Sierra Club americano — e una spianata per gli elicotteri che avrebbero portato lassù i VIP dai due aeroporti di Dushanbe. C'erano sedici edifici. Uno, finito sei mesi prima, era quello degli alloggi e doveva godere di una vista meravigliosa — anche se corrispondeva al prototipo russo della casa d'abitazione, con lo stile e l'eleganza di un altoforno.

Ci abitavano numerosi tecnici con le famiglie. Sembrava strano vedere una costruzione del genere in quel luogo, ma il messaggio che se ne deduceva era: coloro che abitano qui sono dei privilegiati. Erano specialisti e accademici, persone di capacità tanto essenziali che lo Stato provvedeva a tutte le loro necessità. Un'altra costruzione era il teatro. Un terzo immobile era l'ospedale. I programmi televisivi giungevano via satellite a una stazione prossima a un edificio con qualche negozio. Tutta quella sollecitudine non era cosa comune in Unione Sovietica. Veniva riservata agli alti funzionari del Partito e alle persone che lavoravano a progetti fondamentali per la difesa. Chiaramente quel luogo non era un centro di sport invernali.

Ciò era reso ancora più ovvio dalla recinzione e dalle torri di guardia, recenti l'una e le altre. Uno degli elementi facilmente identificabili dei complessi militari russi erano le torri di guardia: una vera fissazione nazionale. Le tre recinzioni erano distanziate di due metri l'una dall'altra. Lo spazio esterno di solito era minato, e i corridoi fra i recinti venivano sorvegliati dai cani. Le torri sorgevano lungo il perimetro interno, distanziate di duecento metri. Il contingente di guardia era alloggiato in una nuova caserma in muratura, migliore della media di tali costruzioni.

«Può isolare una delle guardie?» domandò Jack.

Graham diede un ordine per telefono, e l'immagine cambiò. Un tecnico stava già eseguendo l'ordine, un po' per controllare la taratura della telecamera e le condizioni locali dell'aria, un po' per il motivo che Jack aveva in mente.

Come la camera zumò sul soggetto, un puntino in movimento divenne una forma umana con indosso un grande cappotto e, verosimilmente, un colbacco di pelo. Aveva al fianco un grosso cane di razza non identificabile e portava in spalla un Kalashnikov. Dall'uomo e dal cane si alzavano le nuvolette del fiato.

Ryan, senza pensarci, si chinò in avanti come se, così facendo, potesse vedere meglio.

«Le sembra che le spalline siano verdi?» chiese a Graham. Lo specialista emise un grugnito. «Già. È del KGB, non c'è dubbio.»

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«Così vicino all'Afghanistan?» mormorò l'ammiraglio. «Ovvio. Sanno che abbiamo gente che opera laggiù. Ci può scommettere che prendono sul serio le norme di sicurezza.»

«Devono tenere veramente a quei cocuzzoli» osservò Ryan. «A un centinaio di chilometri di lì ci sono alcuni milioni di persone convinti che uccidere i russi sia un'opera buona secondo il volere di Allah. È un posto più importante di quanto avessimo pensato. Non si tratta solo di un nuovo impianto, non avrebbe quel livello di protezione. Se fosse così, non ci sarebbe stato bisogno di collocarlo proprio lì; con assoluta certezza non avrebbero scelto un luogo che li obbligava a costruire una nuova centrale elettrica e a trovarsi pericolosamente esposti a popolazioni ostili. Dev'essere un complesso classificato Ricerca e Sviluppo, per ora, ma sicuramente destinato a un progetto di grande importanza.»

«Per esempio?»

«Magari dare la caccia ai miei satelliti.» Graham li considerava suoi.

«Ne hanno punzecchiato qualcuno, ultimamente?» domandò Jack.

«No, da quando abbiamo fatto il solletico ai loro in aprile. Cosa rara, il buon senso ha avuto la meglio.»

Era una vecchia storia. Diverse volte in passato i satelliti americani di ricognizione e di allarme avanzato erano stati disturbati da una concentrazione di raggi laser o di energia a microonde, quanto bastava per abbagliare i ricevitori, ma non per causare gravi danni. Perché lo avevano fatto, i russi? Era solo una prova per accertare come avrebbero reagito gli americani? Per vedere se provocava agitazione al Comando della Difesa Aerea del Nord America —

abbreviato in NORAD — a Cheyenne Mountain nel Colo-rado? Oppure un tentativo di verificare direttamente quanto erano delicati i satelliti? Era anche possibile che fosse semplicemente l'atteggiamento che gli amici britannici di Jack chiamavano del seccatore stupido. Era difficile capire che cosa avevano in mente i sovietici...

In ognuna di tali occasioni i russi, naturalmente, protestavano a gran voce la propria innocenza. Una volta, quando un satellite americano era stato temporaneamente accecato sopra Sary Shagan, avevano dato notizia dell'incendio di una conduttura di metano. Il fatto che la locale tubazione Chimkent-Pavlodar portasse quasi esclusivamente petrolio era sfuggito all'attenzione della stampa occidentale.

Il passaggio del satellite era terminato. In una sala attigua i tecnici avrebbero riavvolto i videotape per poi analizzare con comodo tutta la ripresa.

«Diamo un'altra occhiata a Mozart, e anche a Bach, per favore» ordinò Greer.

«Diavolo di viaggio per i pendolari» commentò Jack. Il complesso residenziale e industriale su Mozart era ad appena un chilometro 30

dall'installazione su Bach, la vetta successiva, ma la strada era spaventosa.

L'operatore fece un fermo-immagine su Bach. Si ripeteva lo schema delle recinzioni e delle torri di guardia, ma questa volta la distanza fra la cerchia più esterna e quella successiva era di almeno duecento metri. Il suolo sembrava di nuda roccia. Jack si chiese come riuscivano a interrare delle mine — o forse non lo facevano, su quel fondo. Avevano palesemente livellato la superficie con esplosivi e bulldozer fino a renderla liscia come un tavolo da biliardo. Vista dalle torri, doveva presentarsi come il pavimento di un poligono di tiro.

«Non scherzano, vero?» osservò Graham sottovoce.

«Ecco a che cosa fanno la guardia...» disse Ryan.

All'interno del recinto sorgevano tredici costruzioni. Su una superficie equivalente a quella di due campi da football — anch'essa spianata a dovere — si vedevano dieci buche divise in due gruppi. Uno comprendeva sei buche del diametro di circa dieci metri ciascuna, disposte in forma di esagono. Il secondo gruppo di quattro buche era a forma di rombo, e il diametro era un po' più piccolo, sui sette metri. In ogni buca c'era un pilastro di cemento armato del diametro di circa cinque metri, piantato nella roccia, e ogni buca doveva essere profonda una dozzina di metri, ma era difficile stabilirlo dall'immagine sullo schermo. In cima a ogni pilastro c'era una cupola metallica, che sembrava fatta di segmenti a mezzaluna.

«Sono di quelle che si aprono. Chissà che cosa hanno dentro?» chiese Graham, ma era una domanda retorica. A Langley, sede della CIA, c'erano duecento persone che sapevano di Dushanbe, e ognuna di loro avrebbe voluto sapere che cosa si nascondeva sotto quelle cupole metalliche. Erano state montate soltanto da pochi mesi.

Ryan si appoggiò allo schienale della poltrona. «Ammiraglio, se a Dushanbe stanno facendo la stessa cosa che noi facciamo a Tea Clipper, dovremmo essere in grado di capirlo. Accidenti, come possiamo sapere che cosa cercare se nessuno ci spiega com'è fatto uno di questi impianti?»

«È da un po' di tempo che lo sostengo anch'io» rispose l'ammiraglio con una risatina. «Lo SDIO non sarà proprio felice. Il giudice dovrà rivolgersi al Presidente per avere il permesso.»

«Allora vada dal Presidente. E se la cosa fosse collegata alla proposta sugli armamenti che ci hanno appena fatto?»

«Crede che lo sia?»

«Chi può dirlo?» replicò Jack. «È una coincidenza. Mi fa sentire a disagio.»

Due ore dopo Ryan uscì diretto a casa. Guidò la Jaguar XJS verso la George Washington Parkway. La macchina sportiva era uno dei bei ricordi della visita in Inghilterra. Gli piaceva la serica scorrevolezza del motore a dodici cilindri, tanto che aveva messo quasi completamente a riposo la venerabile Volkswagen 31

Golf. Come sempre, Ryan cercò di accantonare le questioni di lavoro. Lanciò l'auto passando attraverso le cinque marce e si concentrò sulla guida.

«Ebbene, James?» domandò il direttore della CIA.

«Ryan crede che la nuova attività a Bach e a Mozart possa avere a che fare con la situazione degli armamenti. Può anche darsi che non abbia torto. Vuole l'accesso all'operazione Tea Clipper, gli ho detto che dovrai consultare il Presidente.» L'ammiraglio Greer sorrise.

«Okay, gli manderò una richiesta scritta. In ogni modo, metterà di buon umore il generale Parks. Hanno in programma un test completo per fine settimana. Farò in modo che Jack possa assistervi.» Il giudice Moore rivolse a Greer un sorriso assonnato. «Che cosa ne pensi, tu?»

«Penso che forse Ryan vede giusto. Dushanbe e Tea Clipper sono fondamentalmente lo stesso progetto. A prima vista, hanno molti punti simili, troppi per essere pure coincidenze. Dovremo alzare il livello della nostra valutazione.»

«Okay.» Moore si voltò a guardare fuori dalla finestra. Il mondo sta per cambiare un'altra volta. Ci vorranno dieci anni, come minimo, ma sta per cambiare. Fra dieci anni il problema non sarà più mio, si disse il giudice, ma non c'è dubbio che sarà il problema di Ryan. «Lo manderò laggiù domani in aereo. Magari avremo fortuna a proposito di Dushanbe. Foley ha passato parola al CARDINALE, gli ha fatto sapere che Dushanbe ci interessa molto.»

«Al CARDINALE? Bene.»

«Però, se succede qualcosa...»

Greer annuì. «Cristo, speriamo che sia prudente!» disse.

Da quando è morto Dmitri Fedorovich, le cose non sono più state come prima, scrisse con la mano sinistra nel proprio diario il colonnello Mikhail Semyonovich Filitov. Abituato ad alzarsi presto, era già seduto di buon mattino alla scrivania di noce, vecchia di un secolo, che sua moglie aveva comperato per lui poco prima di morire. Quanti anni fa? Trenta, si disse. Trent'anni il prossimo febbraio. Chiuse gli occhi per un attimo. Trent'anni.

Non passava giorno che non pensasse alla sua Elena. La fotografia era sul tavolo, una stampa in seppia sbiadita dagli anni, con la cornice d'argento annerita. Non trovava mai il tempo di lucidarla, e non voleva una domestica per casa. La foto mostrava una giovane donna dalle lunghe gambe affusolate, le braccia alte sopra la testa inclinata a destra. Il tondo viso slavo era illuminato da un largo, invitante sorriso che esprimeva alla perfezione la gioia che Elena provava nel danzare con il balletto Kirov.

Anche Misha sorrise nel ricordare la prima impressione del giovane ufficiale 32

carrista che aveva ricevuto il biglietto come premio perché i suoi carriarmati erano i meglio tenuti di tutto il reggimento. Lo stupore che aveva avuto nel vederla muoversi sulle punte delle scarpette, simili a piccoli trampoli aguzzi, si riassumeva nella domanda: ma come fa? Da ragazzo aveva giocato a camminare con i trampoli, ma era tutt'altra cosa. Quale grazia! Poi, la ragazza aveva sorriso all'aitante giovane ufficiale seduto in prima fila. Per un momento brevissimo. I loro occhi si erano incontrati per la durata di un battito di palpebre, ricordava. Il sorriso di lei era mutato quasi impercettibilmente. Non era più per il pubblico: in quell'attimo fugace, il sorriso era stato solo per lui. Una pallottola nel cuore non avrebbe prodotto un effetto più devastante. Misha non ricordava il resto dello spettacolo — ancora oggi non riusciva a farsi venire in mente il titolo del balletto. Era rimasto sulle spine, sprofondato nella poltrona con la testa che fumava nello sforzo di stabilire che cosa avrebbe fatto alla fine dello spettacolo.

A quel tempo Filitov era già considerato un uomo in ascesa, un brillante ufficiale carrista al quale le brutali purghe staliniane avevano aperto la strada delle celeri promozioni. Scriveva articoli sulla tattica bellica per i mezzi corazzati, provava sul campo nuovi metodi di addestramento, polemizzava a gran voce contro le false lezioni del conflitto spagnolo con la sicurezza dell'uomo nato per quel mestiere.

Che cosa faccio adesso? si era chiesto. L'Armata Rossa non gli aveva insegnato come abbordare un'artista del palcoscenico. Questa non era una delle tante contadine annoiate dai lavori del kolkhoz al punto di offrirsi a qualunque uomo — a maggior ragione se era un giovane ufficiale che avrebbe potuto portarla via e darle una vita diversa. Misha ricordava con vergogna il tempo della giovinezza — non che se ne fosse vergognato allora — quando aveva usato le spalline da ufficiale per portarsi a letto ogni ragazza che gli colpiva la fantasia.

Ma non so neppure come si chiama, si era detto. Che cosa faccio?

Ovviamente, aveva affrontato la cosa come un'operazione militare. Appena finito lo spettacolo, si era aperto a gomitate la via verso le toilettes, dove si era lavato le mani e il viso. Con l'ausilio del temperino aveva raschiato quel poco grasso di macchina che era rimasto sotto le unghie. Si era bagnato i capelli per farli stare in ordine e aveva sottoposto la propria uniforme a un'ispezione più severa di quella di qualunque generale, eliminando ogni pelo e ogni traccia di polvere. Infine si era allontanato dallo specchio per controllare che gli stivali brillassero di militaresco fulgore. Non si era accorto di alcuni uomini che si trovavano nella toilette e lo osservavano soffocando a fatica un sorriso.

Avevano capito il motivo di tutta la manovra e gli auguravano buona fortuna, pur con un pizzico d'invidia. Soddisfatto del proprio aspetto, Misha era uscito dal teatro dopo aver domandato al portiere dov'era l'ingresso degli artisti.

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L'informazione gli era costata un rublo. Ricco della nuova conoscenza, aveva fatto il giro dell'isolato per raggiungere la porta da cui si accedeva al palcoscenico. Qui aveva trovato un altro custode, un vecchio con la barba bianca, che portava sul cappotto i nastrini delle medaglie per servizi resi alla causa della rivoluzione. Misha aveva previsto un certo grado di solidarietà, da soldato a soldato, ma scoprì che il vecchio considerava tutte le artiste come figlie sue — certo non come sgualdrinelle da dare in pasto ai militari! Aveva pensato di offrirgli del denaro, ma ebbe il buon senso di non trattare il vecchio come un ruffiano. Aveva scelto, invece, di parlargli in modo calmo e ragionevole, dicendogli sinceramente che era rimasto affascinato da una ballerina della quale ignorava il nome, e desiderava semplicemente conoscerla.

«Perché?» domandò freddamente il vecchio portiere. «Nonno, lei mi ha sorriso» rispose Misha con la voce intimidita di un ragazzino.

«E tu te ne sei innamorato.» La risposta era secca, ma subito dopo il viso del vecchio si fece pensieroso. «E non sai chi è.»

«Era nella... nella fila, non una delle ballerine importanti, voglio dire. Non so come si chiamano. So... so che ricorderò il suo viso fino all'ultimo giorno della mia vita.» Era certo che sarebbe stato così.

Il portiere lo squadrò da capo a piedi, notò che la divisa era in ordine, e la schiena dritta. Quello non era un maiale puttaniere dell'NKVD, uno di quei tipi arroganti dal fiato che puzzava di vodka. Era un soldato, e anche un bel ragazzo.

«Compagno tenente, sei un uomo fortunato. Sai perché? Perché sono stato giovane anch'io e, vecchio come mi vedi adesso, me ne ricordo ancora.

Cominceranno a uscire fra una decina di minuti. Resta lì dove sei e non dire una parola.»

I dieci minuti erano diventati mezz'ora. Infine gli artisti uscirono in gruppetti di due o di tre. Misha aveva visto gli uomini della compagnia e aveva pensato di loro... quello che ogni soldato pensa di un uomo che fa parte di una compagnia di balletti. La sua virilità era stata offesa dal fatto che tenessero per mano quelle bellissime ragazze, ma aveva allontanato il pensiero. Quando la porta si aprì, fu abbagliato dal lampo di luce gialla scaturito improvvisamente nel buio del viale; aveva stentato a riconoscerla, tanto era diversa senza il trucco.

Scorse il viso, e cercò di stabilire se era proprio lei, avvicinandosi all'obiettivo con più cautela di quanta ne avrebbe usata sotto il fuoco dei cannoni tedeschi.

«Lei era nella poltrona numero dodici» disse la ragazza, prima ancora che lui trovasse il coraggio di parlare. Che voce!

«Sì, compagna artista» riuscì a balbettare.

«Le è piaciuto lo spettacolo, compagno tenente?» Un sorriso timido ma anche, in un certo modo, invitante.

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«È stato magnifico!» Naturalmente.

«Non ci succede spesso di vedere in prima fila dei bei giovani ufficiali»

osservò lei.

«Mi hanno dato il biglietto come premio per il comportamento del mio reparto» spiegò con orgoglio. Mi ha chiamato bello!

«Ha un nome, il compagno tenente carrista?»

«Sono il tenente Mikhail Semyionovich Filitov.»

«E io sono Elena Ivanova Makarova.»

«Fa troppo freddo stasera per una ragazza sottile come lei, compagna artista.

C'è un ristorante qui vicino? »

«Un ristorante?» Per poco non gli rise in faccia. «Da quanto tempo non viene a Mosca? »

«La mia divisione è di stanza a trenta chilometri di qui, ma non vengo spesso in città» ammise.

«Compagno tenente, a Mosca ci sono ben pochi ristoranti. Può venire al mio appartamento?»

«Io... sì, certo» fu la risposta zoppicante, mentre la porta degli artisti si apriva di nuovo.

«Marta» disse lei alla ragazza che stava uscendo. «Abbiamo una scorta militare fino a casa.»

«Tania e Resa arrivano subito.»

Misha aveva provato sollievo nel sentirlo. C'era voluta mezz'ora per arrivare all'appartamento ma la metropolitana di Mosca non era ancora stata ultimata, ed era meglio andare a piedi, piuttosto che aspettare un tram a quell'ora di notte.

Lei era molto più bella senza trucco, ricordava Misha. L'aria fredda bastava a dare alle sue guance tutto il colore di cui potevano avere bisogno. L'andatura era aggraziata quanto potevano averla resa dieci anni di intenso allenamento.

Sembrava scivolare leggera lungo la strada, come un'apparizione, mentre lui marciava un po' goffo al suo fianco, facendo rimbombare il terreno con i pesanti stivali. Si sentiva come un carroarmato che proceda sferragliando accanto a un cavallo purosangue, e stava attento a non avvicinarsi troppo a lei per non calpestarla. Non conosceva ancora la forza che si celava sotto la grazia di Elena.

La notte non gli era mai sembrata così bella, ma poi c'erano state notti simili per... per quanto tempo? Sì, per vent'anni, ma più nessuna nei trenta successivi.

Dio mio, pensò, il prossimo 14 luglio sarebbe stato il cinquantesimo anniversario del nostro matrimonio. Dio mio. Senza rendersene conto, si passò il fazzoletto sugli occhi.

Il numero che occupava la sua mente, però, era il trenta: trent'anni.

Il pensiero gli ribolliva dentro, e le dita che stringevano la penna erano bianche. Lo stupiva ancora il fatto che amore e odio fossero emozioni così ben 35

accoppiate. Misha ritornò al diario.

Un'ora dopo si alzò e si diresse all'armadio in camera da letto. Indossò l'uniforme di colonnello delle truppe corazzate. Tecnicamente era nella lista di pensionamento; lo era già quando parecchi ufficiali dell'attuale elenco dei colonnelli non erano ancora nati. Tuttavia il lavoro al Ministero della Difesa comportava qualche vantaggio, e Misha faceva parte dello staff personale del ministro. Questo era uno dei motivi. Gli altri tre erano bene in vista sulla giubba della sua uniforme: tre stelle d'oro con nastrino di colore rosso violaceo. Filitov era l'unico soldato nella storia dell'Esercito sovietico che aveva guadagnato tre volte sul campo la decorazione di Eroe dell'Unione Sovietica per il valore dimostrato di fronte al nemico. Anche altri avevano quella decorazione, ma spesso si trattava di ricompense di natura politica, il colonnello lo sapeva bene.

La cosa lo offendeva sul piano estetico. Non era il tipo di medaglia da assegnare per compiti di Stato Maggiore; meno ancora gli piaceva vederla conferire a membri del Partito, nulla più di uno sgargiante ornamento da portare all'occhiello. Il titolo di Eroe dell'Unione Sovietica era un riconoscimento da riservare a uomini come lui, gente che aveva rischiato la vita, che aveva versato il sangue o, troppo spesso, era morta per la Rodina, per la Patria. Questi pensieri gli passavano per la mente ogni volta che indossava la divisa. Sotto la maglia c'erano ancora le cicatrici che gli avevano fruttato l'ultima stella d'oro, quando un proiettile tedesco da 88 mm aveva perforato la corazza del suo carro e incendiato la rastrelliera delle munizioni. Lui aveva ruotato il cannoncino da 76

mm e, con gli abiti in fiamme, aveva sparato l'ultimo colpo eliminando gli artiglieri nemici. Le ustioni gli avevano reso il braccio destro invalido al cinquanta per cento, ma questo non gli aveva impedito di guidare per altri due giorni ciò che restava del reggimento sulle alture di Kursk. Se se la fosse svignata con i superstiti del suo equipaggio — o si fosse lasciato evacuare dalla zona di operazione come aveva raccomandato l'ufficiale medico — forse sarebbe guarito completamente. Lui, però, sapeva che non avrebbe potuto non sparare quell'ultimo colpo, né abbandonare i suoi uomini nel pieno della battaglia. Così aveva fatto fuoco ed era stato ferito. Se non fosse stato per l'invalidità, forse Misha sarebbe diventato generale, magari addirittura maresciallo. Sarebbe stato diverso? Filitov era troppo concreto, troppo realista per soffermarsi a lungo su quel pensiero. Se avesse affrontato altre campagne, probabilmente sarebbe stato ucciso. Per come erano andate le cose, aveva avuto più tempo da passare con Elena. Lei era venuta quasi ogni giorno al reparto ustionati dell'ospedale di Mosca; dapprima terrorizzata dall'estensione delle ferite, poi ne era stata orgogliosa quanto Misha. Nessuno poteva mettere in dubbio che il suo uomo avesse fatto il proprio dovere verso la Rodina.

Adesso era Misha che aveva un dovere da compiere nei confronti di Elena.

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Uscì dall'appartamento e si diresse all'ascensore portando la cartella di cuoio con la mano destra. Era più o meno tutto ciò che quel lato del corpo era ancora in grado di fare. La babushka addetta all'ascensore lo salutò come di consueto.

Avevano la stessa età. L'anziana donna era vedova di un sergente del reggimento di Misha. Era stato lo stesso Filitov ad appuntarle sul petto la stella d'oro.

«Come sta l'ultimo nipotino, nonna?» le domandò.

«Un angioletto.»

Filitov le rispose con un sorriso, in parte di assenso — forse che esistevano bambini brutti? — e in parte per la constatazione che parole come "angioletto"

erano sopravvissute a settant'anni di "socialismo scientifico".

La vettura lo stava aspettando. L'autista era un militare di leva appena uscito dal corso allievi sottufficiali e dalla scuola di guida. Salutò solennemente il colonnello, tenendo aperta la portiera con l'altra mano.

«Buongiorno, compagno colonnello.»

«E così sia, sergente Zhdanov.» La maggior parte degli ufficiali si sarebbe limitata a rispondere con un grugnito, ma Filitov era un soldato combattente, il cui successo sul campo di battaglia era stato in gran parte il frutto della costante sollecitudine per il benessere dei suoi uomini. Pochi ufficiali avevano imparalo quella lezione, pensò. Peccato.

L'interno della berlina era gradevolmente tiepido, perché il riscaldamento era stato acceso alla temperatura massima un quarto d'ora prima. Filitov stava diventando sempre più sensibile al freddo, chiaro sintomo dell'età avanzata. Era stato ricoverato poco tempo prima per polmonite, il terzo attacco in cinque anni.

La prossima volta sarebbe stata l'ultima. Misha accantonò anche quel pensiero.

Aveva sfiorato la morte troppe volte per averne paura. La vita andava e veniva con ritmo costante, un breve secondo alla volta. Quando fosse venuto l'ultimo secondo, si chiese, lo avrebbe capito? Se ne sarebbe preoccupato?

Non aveva ancora trovato la risposta a quelle domande, quando l'autista fermò la vettura davanti al Ministero della Difesa.

Ryan era convinto di essere stato troppo a lungo al servizio del Governo. Era riuscito, se non a farsi piacere il volo, almeno ad apprezzarne la praticità. Era a sole quattro ore da Washington. Un Learjet C-21 militare pilotato da una donna, capitano dell'Aviazione, che aveva piuttosto l'aspetto di una liceale, lo aveva portato nel Nuovo Messico.

Stai invecchiando, Jack, si disse. Un elicottero lo aveva poi depositato in cima alla montagna, impresa non facile a quell'altitudine. Ryan non era mai stato nel Nuovo Messico prima di allora. Gli alti pendii erano nudi di alberi, e l'aria tanto rarefatta da farlo respirare con difficoltà. Il cielo era così limpido che per un momento immaginò di essere un astronauta intento a guardare le stelle 37

che, in quella gelida notte senza nuvole, non ammiccavano nel modo consueto, anzi, non ammiccavano affatto.

«Caffè, signore?» domandò un sergente, porgendo a Ryan una tazza di plastica. Dal liquido bollente si alzava il vapore nella notte appena illuminata da uno spicchio di luna.

«Grazie.» Ryan sorseggiò la bevanda calda, guardandosi intorno. C'era forse una zona residenziale oltre la catena più vicina; poteva vedere l'alone luminoso di Santa Fe, ma non aveva idea di quanto fosse distante. Sapeva che le rocce su cui si trovavano erano a tremilatrecento metri sopra il livello del mare (la costa più vicina si trovava a centinaia di chilometri) e di notte era difficile valutare le distanze. Era comunque un bello spettacolo, a parte il freddo. Le dita che stringevano la tazza erano intirizzite. Aveva fatto la sciocchezza di lasciare a casa i guanti.

«Diciassette minuti» annunciò una voce. «Tutti i sistemi ai valori nominali.

Dispositivi di ricerca in automatico. AOS fra otto minuti.»

«AOS?» domandò Ryan. Si rese conto di avere parlato con voce un po' strana.

Aveva le guance paralizzate dal freddo.

« Acquisition of Signal, acquisizione di segnale» spiegò il maggiore.

«Lei vive da queste parti?»

«A sessanta chilometri in quella direzione» rispose con un gesto vago.

«Praticamente a due passi, secondo i criteri locali.» L'accento di Brooklyn spiegava il commento.

È il tipo che si è laureato alla State University di New York, ricordò Ryan. A soli ventinove anni, il maggiore non aveva affatto l'aspetto di un soldato, meno che mai di un ufficiale superiore. In Svizzera lo avrebbero chiamato uno gnomo, piccolo com'era — poco più di un metro e settanta — magro come uno scheletro e con le pustole dell'acne sul viso. In quel momento i suoi occhi infossati erano fissi sul settore dell'orizzonte dove sarebbe comparsa la navetta spaziale Discovery. Ryan ripensò ai documenti letti durante il volo; con ogni probabilità quel maggiore non avrebbe saputo dire di che colore erano le pareti del salotto di casa. Viveva al Laboratorio Nazionale di Los Alamos, che i locali chiamavano la Collina. Primo della classe a West Point, dopo due soli anni aveva conseguito il dottorato in fisica delle particelle. La sua tesi di laurea era Top Secret. Jack l'aveva letta e non aveva capito perché si fossero preso il disturbo di classificarla in quel modo. Anche lui era laureato, ma, per quello che ne aveva capito, il documento avrebbe potuto benissimo essere stato scritto in lingua curda. Il nome di Alan Gregory veniva già menzionato con lo stesso tono in cui si citavano Stephen Hawking di Cambridge o Freeman Dyson di Princeton, solo che l'esistenza di Alan Gregory, per il momento, era nota a pochi. Jack si chiese se nessuno aveva mai pensato a classificare Top Secret 38

anche il nome.

«È tutto pronto, maggiore Gregory?» chiese un generale di squadra aerea.

Jack notò il tono deferente. Gregory non era un maggiore qualunque.

Un sorriso nervoso. «Sì, signore.» Il giovane si asciugò le mani — sudate nonostante la temperatura di sette gradi sotto zero — sui pantaloni della divisa.

Era bene scoprire che aveva delle emozioni..

«È sposato?» s'informò Ryan.

«Fidanzato, signore. Con una dottoressa in ottica laser, alla Collina. Ci sposeremo il 3 giugno.» La voce del maggiore era diventata fragile come il vetro.

«Congratulazioni. Così tutto resta in famiglia, eh?» disse Ryan ridendo.

«Sì, signore.» Il maggiore Gregory continuava a scrutare l'orizzonte a sud-ovest.

«AOS!» gridò qualcuno dietro di loro. «Abbiamo il segnale.»

«Occhiali!» L'ordine giunse dagli altoparlanti. «Tutti si mettano gli occhiali protettivi.»

Jack si soffiò sulle mani prima di estrarre gli occhiali di plastica. Gli avevano raccomandato di tenerli in tasca per conservarli caldi, ma al contatto con il viso li sentì ancora freddi. Una volta infilati, resero Ryan completamente cieco. La luna e le stelle non erano più visibili.

«Puntamento! Lo abbiamo agganciato. Il Discovery ha stabilito la comunicazione con il suolo. Tutti i sistemi sono ai valori nominali.»

«Acquisizione bersaglio!» annunciò un'altra voce. «Iniziare la sequenza d'interrogazione... il primo bersaglio è agganciato... circuiti di autoaccensione abilitati.»

Non si udì alcun suono che indicasse che cosa era accaduto. Ryan non vedeva nulla — oppure sì? Aveva avuto la fugace impressione di... che cosa? L'ho forse immaginato? Sentì il fiato del maggiore che usciva lentamente.

«Esercitazione conclusa» si udì dall'altoparlante.

Tutto lì? Ciò che aveva appena visto? Ciò che avevano appena fatto? Era così poco aggiornato che, anche dopo avere ricevuto delle spiegazioni, non capiva le cose che succedevano davanti ai suoi occhi?

«E quasi impossibile vedere la luce del laser» spiegò il maggiore Gregory. «A questa altezza non vi sono abbastanza polvere o umidità nell'aria che la riflettano.»

«Ma allora, perché gli occhiali protettivi?» Il giovane ufficiale sorrise nel toglierseli. «Se un satellite fosse in volo al momento sbagliato, l'impatto potrebbe essere... diciamo spettacolare. In quel caso gli occhi potrebbero soffrirne parecchio.» Trecentosessanta chilometri sopra la loro testa, il Discovery proseguiva verso l'orizzonte. La navetta sarebbe rimasta in orbita 39

ancora per tre giorni, a eseguire la programmata "missione scientifica di routine". Alla stampa era stata descritta come uno studio oceanografico per la Marina, coperto da segreto militare. Aveva qualcosa a che fare con la ricerca dall'alto di sottomarini missilistici. Per mantenere un segreto non c'era mezzo migliore che inventarne un altro. Se qualcuno chiedeva informazioni sulla missione, un addetto stampa della Marina rispondeva con un "no comment".

«Ha funzionato?» domandò Jack. Guardò in alto ma non riuscì a scorgere il puntino luminoso che corrispondeva all'aereo spaziale da un miliardo di dollari.

«Dobbiamo vedere.» Il maggiore si alzò e si diresse all'autocarro dalla verniciatura mimetica parcheggiato a qualche metro di distanza. Lo seguì un generale con tre stelle, al quale si accodò Ryan.

All'interno del furgone la temperatura era un po' più mite, vale a dire non sotto zero. Un maresciallo stava riavvolgendo un nastro magnetico.

«Dov'erano i bersagli?» chiese Jack. «Non era scritto nella documentazione.»

«Circa quarantacinque gradi sud e trenta ovest» rispose il generale. Il maggiore Gregory era appollaiato davanti al teleschermo.

«È dalle parti delle Falkland, vero? Perché laggiù?»

«Per la precisione, più vicino all'altra isola, la Georgia del Sud» osservò il generale. «È un bel posticino, tranquillo e fuori mano, e la distanza è pressappoco quella giusta.»

Inoltre non risultava che i sovietici avessero impianti per la rilevazione di dati nel raggio di tremila miglia, pensò Ryan. La prova del Tea Clipper era stata fissata per l'istante preciso in cui tutti i satelliti spia sovietici si sarebbero trovati sotto l'orizzonte visibile. Infine la distanza di lancio era esattamente la stessa che li separava dai campi di missili balistici sovietici disposti lungo la principale linea ferroviaria che attraversava il Paese da est a ovest.

«Pronti!» disse un sottufficiale.

L'immagine sul video non era proprio una meraviglia. Era stata presa dal livello del mare, nella fattispecie dal ponte della Observation Island, nave speciale attrezzata per la rilevazione distanziometrica, di ritorno da un test dei missili Trident nell'Oceano Indiano. A fianco del primo teleschermo ce n'era un altro, che mostrava le immagini prese dal radar di rilevamento missili "Cobra Judy" della stessa nave. Su entrambi gli schermi si vedevano quattro oggetti, distanziati su una linea lievemente irregolare. Un orologio digitale in un angolo cambiava numerazione come se stesse cronometrando una gara di sci, con tre cifre a destra del punto dei decimali.

«Colpito!» Uno dei puntini luminosi scomparve in un lampo di luce verde.

«Mancato!» Un altro punto rimase sullo schermo.

«Mancato!» Jack corrugò la fronte. Si aspettava di vedere sciabolate di luce attraverso il cielo, ma erano cose che succedevano solo nei film. Nello spazio 40

non c'era abbastanza polvere per rifrangere il percorso dell'energia.

«Colpito!» Sparì un secondo puntino.

«Colpito!» Ne restava soltanto uno.

«Mancato.»

«Mancato.» L'ultimo non voleva morire, pensò Ryan.

«Colpito!» Invece era morto. «Tempo complessivo trascorso, secondi uno punto otto-zero-sei.»

«Cinquanta per cento» disse calmo il maggiore Gregory. «E si è corretto da solo.» Il giovane ufficiale annuì lentamente. Riuscì a frenare un sorriso, ma non l'eccitazione che gli brillava negli occhi. «Funziona.»

«Di che dimensione erano i bersagli?» s'informò Ryan.

«Tre metri. Palloni sferici, naturalmente.» Gregory non riusciva più a controllarsi. Sembrava un bambino colto di sorpresa dal Natale.

«Stesso diametro di un SS-18.»

«All'incirca» intervenne il generale.

«Dov'è l'altro specchio?»

«A diecimila metri di quota, adesso sopra l'Isola dell'Ascensione.

Ufficialmente è un satellite meteorologico che non è mai entrato nell'orbita giusta.» Il generale sorrise.

«Non sapevo che fosse possibile spedirlo così lontano.»

Il maggiore Gregory non poté astenersi dal ridacchiare. «Non lo sapevamo nemmeno noi.»

«E così avete mandato il raggio fino allo specchio dello shuttle, dal Discovery a quell'altro dietro l'equatore, e di là fino ai bersagli?»

«Esatto» confermò il generale.

«Quindi il vostro sistema di acquisizione del bersaglio è sull'altro satellite?»

«Sì» rispose Parks con meno entusiasmo.

Jack fece un rapido calcolo mentale. «Okay, ciò significa che potete discriminare un bersaglio di tre metri a... diecimila chilometri. Non sapevo che potessimo farlo. Come avviene?»

«Non occorre che lei lo sappia » ribatté piuttosto freddamente il generale.

«Avete fatto centro quattro volte e mancato quattro volte — otto colpi in meno di due secondi, e il maggiore ha aggiunto che il sistema di acquisizione si è corretto dopo i tiri mancati. Okay, se fossero stati degli SS-18 lanciati al largo della Georgia del Sud, li avreste abbattuti?»

«Probabilmente no» ammise Gregory. «Il dispositivo laser eroga soltanto cinque megajoules. Sa che cosa è un joule? »

«Ho ripassato i miei testi universitari di fisica prima di partire. Un joule è un newton-metro al secondo, ovvero zero punto sette piedi libbra-forza di energia, poco più o poco meno, giusto? Okay, un megajoule è un milione di joule, pari 41

a... settecentomila piedi libbra-forza. In termini comprensibili per me...»

«Un megajoule equivale, grosso modo, a una cartuccia di dinamite. Quindi noi abbiamo speso soltanto cinque cartucce. L'energia effettiva trasferita è pari a un chilogrammo di esplosivo, ma gli effetti fisici non sono esattamente comparabili.»

«Lei mi sta dicendo che il raggio laser non perfora il bersaglio per combustione — il cosiddetto burn-through —, ma produce piuttosto un effetto d'urto. » Ryan stava spremendo fino all'estremo le sue conoscenze tecniche.

«Noi lo chiamiamo un "abbattimento per impatto"» rispose il generale.

«Proprio così. Tutta l'energia arriva in pochi milionesimi di secondo, una velocità di gran lunga superiore a quella di qualsiasi proiettile.»

«Quindi tutti i discorsi che ho sentito su come lucidare il corpo del missile o farlo ruotare per impedire il burn-through... »

Il maggiore Gregory si permise un'altra risatina. «Sì, buona questa. È come mettere una ballerina a fare le piroette davanti a un fucile da caccia illudendosi di fermare i pallini. Il fatto è che l'energia deve andare in qualche posto, e quel posto può soltanto essere nel corpo del missile. Questo è pieno di propellenti conservabili — quasi tutti i loro missili usano carburanti liquidi, ricorda?

L'effetto idrostatico basta da solo a spaccare i serbatoi a pressione — boom!

Niente più missile.» Il maggiore sorrise come se stesse raccontando lo scherzo fatto a un professore del liceo.

«Okay, adesso voglio sapere come funziona tutto questo.»

«Senta, dottor Ryan...» cominciò a dire il generale. Jack lo interruppe.

«Generale, io ho l'accesso a Tea Clipper. Lei lo sa, quindi non perdiamo tempo.»

Il maggiore Gregory ricevette un cenno di assenso dal generale. «Signore, abbiamo cinque laser da un megajoule... »

« Dove ? »

«Uno è proprio sotto i suoi piedi, signore. Gli altri quattro sono interrati intorno alla cima di questa montagna. La potenza nominale è per ciascun impulso, s'intende. Ogni laser emette una catena d'impulsi di un milione di joule in pochi microsecondi — milionesimi di secondo.»

«E si ricarica in...»

«Zero punto zero quattro sei secondi. In altre parole, possiamo erogare venti colpi al secondo.»

«Ma non avete sparato a quella velocità.»

«Non avevamo bisogno di farlo, signore» rispose Gregory. «Per il momento siamo limitati dal software di acquisizione del bersaglio. Ci stiamo lavorando.

Lo scopo di questa prova era di valutare una parte del pacchetto software.

Sappiamo che i laser funzionano. Li abbiamo da tre anni. Facciamo convergere i 42

raggi laser su uno specchio a circa cinquanta metri da quella parte» indicò la direzione «e li convertiamo in un unico raggio.»

«Devono essere... voglio dire, occorre che tutti i raggi laser siano esattamente sintonizzati, non è vero?»

«Tecnicamente si chiama "Gruppo di laser in fase". Tutti i raggi devono essere perfettamente in fase» rispose Gregory.

«E come diavolo lo ottenete?» Ryan riprese fiato. «Lasci perdere, tanto non ci capirei niente. Okay, abbiamo il raggio che va a colpire lo specchio a cinquanta metri di qui...»

«L'elemento speciale è proprio lo specchio. È fatto di migliaia di segmenti, ognuno controllato da un chip piezoelettrico. Questo va sotto il nome di ottica adattiva. Noi mandiamo un raggio interrogatore allo specchio — quello sulla navetta — e riceviamo una lettura della distorsione atmosferica. Il modo in cui l'atmosfera flette il raggio viene analizzato dal computer. Quindi lo specchio corregge la distorsione, e noi spariamo il vero colpo. Anche lo specchio sulla navetta è dotato di ottica adattiva. Raccoglie e mette a fuoco il raggio, e lo invia allo specchio sul satellite Flying Cloud. Questo a sua volta riconcentra il raggio sui bersagli. Zac!»

«Così semplice?» Ryan scosse la testa. Era tanto semplice, che negli ultimi diciannove anni erano stati investiti quaranta miliardi di dollari nella ricerca di base, divisi fra venti campi separati, solo per eseguire la prova cui Ryan aveva assistito.

«Dovevamo sistemare qualche piccolo particolare» ammise Gregory. Quei

"piccoli particolari" avrebbero richiesto altri cinque anni o più e Dio sa quanti miliardi. Non era affar suo; per lui contava solo il fatto che si era già in vista del traguardo. Il Tea Clipper non era più un progetto nebuloso, non dopo questa esercitazione.

«E lei è la persona che ha sfondato il muro del sistema di acquisizione del bersaglio. Ha scoperto il modo di far sì che il raggio si procuri da sé i dati che gli servono per l'acquisizione.»

«All'incirca» intervenne il generale. «Dottor Ryan, questa parte del sistema è classificata a un livello tale di segretezza che non ne parleremo più di così senza un'autorizzazione scritta.»

«Generale, lo scopo della mia presenza qui è di valutare questo programma in relazione a un analogo tentativo sovietico. Se lei vuole sapere dal mio servizio quello che stanno facendo i russi, bisogna che io sappia dire ai colleghi che cosa devono cercare!»

Questa dichiarazione non provocò alcuna risposta. Jack alzò le spalle e frugò nella tasca del cappotto, poi diede una busta al generale. Il maggiore Gregory osservava perplesso la scena.

43

«Continua a non piacerle» disse, dopo che il generale ebbe piegato e messo via la lettera.

«No, signore, non mi piace.»

Ryan parlò con voce più fredda dell'aria notturna del Nuovo Messico.

«Generale, quando ero nel Corpo dei Marines, non mi è mai stato detto che gli ordini che ricevevo dovevano essere di mio gusto, ma solo che dovevo eseguirli.» Questo per poco non fece esplodere il generale, e Ryan si affrettò ad aggiungere: «Mi creda, signore, io sono veramente dalla sua parte».

«Può continuare, maggiore Gregory» disse il generale dopo un momento.

«Io chiamo l'algoritmo "Fan Dance"» iniziò il maggiore. Il generale quasi sorrise suo malgrado. Gregory non poteva sapere nulla di Sally Rand, la ballerina diventata famosa negli anni Trenta con la "fan dance", la danza del ventaglio.

«È tutto?» chiese ancora una volta Ryan quando il giovane ufficiale ebbe finito. Si rendeva conto che tutti gli esperti di computer del progetto Tea Clipper dovevano essersi rivolti la stessa domanda: come ho fatto a non pensarci ? Non era sorprendente che Gregory fosse considerato un genio. Aveva aperto la breccia cruciale nella tecnologia del laser quando era ancora all'università, e adesso un' altra nella progettazione del software. « È tanto semplice!»

«Sì, signore, ma ci sono voluti più di due anni per far funzionare l'idea, e un computer Cray 2 perché funzionasse alla velocità che ci serviva. Dovremo lavorarci ancora un po' ma, dopo che avremo analizzato la parte che è andata storta questa notte, dovrebbero bastare quattro o cinque mesi per metterlo definitivamente a punto.»

«Qual è il passo successivo?»

«Costruire un laser da cinque megajoule. Un'altra delle nostre squadre ci è quasi arrivata. Poi ne raggruppiamo una ventina, emettiamo un impulso da cento megajoule venti volte al secondo e colpiamo qualunque bersaglio. L'energia d'urto sarà dell'ordine di venti o trenta chili di esplosivo.»

«Sufficiente a far fuori qualunque missile di qualsiasi produzione e nazionalità...»

«Sì, signore.» Il maggiore Gregory sorrise.

«Insomma, lei mi dice che questa faccenda, il... Tea Clipper, funziona.»

«Abbiamo accertato la validità dell'architettura del sistema» corresse il generale. «È un bel passo avanti, da quando abbiamo cominciato a prenderlo in considerazione. Cinque anni fa avevamo undici ostacoli, ora ne rimangono tre di carattere tecnico. Fra cinque anni non ce ne sarà più nessuno. Allora potremo iniziare a costruirlo.»

«Le implicazioni strategiche...» disse Ryan, poi si fermò. «Gesù.»

«Cambierà la faccia del mondo» confermò il generale.

44

«Sapete anche voi che stanno giocando la stessa partita a Dushanbe.»

«Sì, signore» rispose Gregory. « E può darsi che loro sappiano delle cose che noi non conosciamo.»

Ryan annuì. Gregory era così in gamba da sapere che qualcun altro poteva essere più in gamba di lui. Un ragazzo a posto.

«Signori, sul mio elicottero c'è una valigetta. Potete mandare qualcuno a prenderla? Ho alcune fotografie da satellite che forse vi interesseranno.»

«A quando risalgono queste foto?» domandò il generale mentre le osservava, cinque minuti dopo.

«A due giorni fa» rispose Jack.

Il maggiore Gregory le studiò per qualche minuto. «Okay, qui vediamo due impianti leggermente diversi, una serie sparsa nel nostro linguaggio. Il gruppo esagonale — quello a sei pilastri — è un trasmettitore. La costruzione centrale sembra progettata per alloggiare sei laser. I pilastri sono supporti otticamente stabili per gli specchi. I raggi laser vengono dall'edificio, si riflettono negli specchi, e questi, controllati da computer, concentrano il fascio su un bersaglio.»

«Che cosa intende con "otticamente stabili"?»

«Gli specchi devono essere controllati con un alto grado di precisione, signore» disse Gregory a Ryan. «Isolandoli dal terreno circostante si elimina la vibrazione che potrebbe essere prodotta, ad esempio, da una persona che cammina lì vicino, o dal passaggio di un'automobile. Se gli specchi ricevono una scossa pari a un piccolo multiplo della frequenza della luce laser, si scombina l'effetto che si vuole ottenere. Qui noi usiamo dei supporti a prova d'urto per incrementare il fattore isolamento. È una tecnica elaborata originariamente per i sottomarini. È chiaro? L'altra serie disposta in forma di rombo è... ma sì, naturalmente, è il ricevitore.»

«Cosa?» Il cervello di Ryan era di fronte a un altro muro.

«Mettiamola così. Lei vuole fare una buona fotografia di un soggetto. Una foto veramente buona. In questo caso, lei usa il laser al posto di un normale flash.»

«Ma perché quattro specchi?»

«E più facile ed economico costruire quattro specchi piccoli anziché uno grande» spiegò Gregory. «Ehm, mi domando se stanno tentando di ottenere un'immagine olografica. Se possono veramente bloccare in fase i loro raggi illuminanti... teoricamente è possibile. C'è un paio di cose che potrebbero renderlo difficile, ma ai russi piace l'approccio deciso... Accidenti!» Gli brillavano gli occhi. «Diavolo d'idea, è molto interessante! Dovrò pensarci su.»

«Non mi dirà che costruiscono quell'impianto per fotografare i nostri 45

satelliti!» esclamò Ryan.

«No, signore. Possono usarlo per fotografare, ovvio. Fornisce una copertura perfetta. Però un sistema che può captare le immagini di un satellite in quota geostazionaria, potrebbe essere in grado di colpirne uno circuitante su una bassa orbita terrestre. Se lei pensa ai quattro specchi come a un telescopio, deve anche pensare che un telescopio può essere l'obiettivo di un apparecchio fotografico, ma anche la lente di un mirino. Potrebbe anche diventare un sistema di puntamento di enorme efficienza. Quanta corrente circola in questo laboratorio?»

Ryan mise sul tavolo una delle fotografie. «La corrente prodotta da questa diga si aggira sui cinquecento megawatt. Però...»

«Stanno posando nuovi conduttori» osservò Gregory. «Come mai?»

«La centrale ha due piani, non li si vede da questa angolazione. Si direbbe che stanno attivando la parte superiore. Porteranno la produzione massima a qualcosa come millecento megawatt.»

«Quanta ne viene mandata a questo impianto?»

«Questo? Noi lo chiamiamo "Bach". Forse un centinaio. Il resto va a

"Mozart", la città nata su quell'altra montagna. Evidentemente stanno raddoppiando la potenza disponibile.»

«Di più, signore» fece notare Gregory. «Se non raddoppiano le dimensioni della città, perché non dovremmo presumere che l'eccedenza di corrente vada ai laser?»

Jack fu vicino a strangolarsi. Perché non ci sei arrivato da solo? brontolò rivolto a se stesso.

«Voglio dire» riprese Gregory. «Voglio dire... che si tratta,di cinquecento megawatt di potenza in più. Dio santo, e se avessero fatto un'altra scoperta importante? È difficile sapere che cosa capita laggiù?»

«Dia un'occhiata alle foto e mi dica quanto è facile, secondo lei, infiltrarsi in quella base» suggerì Ryan.

«Oh!» Gregory guardò Ryan. «Sarebbe interessante accertare quanta potenza esce dalla parte frontale dei loro strumenti. Da quanto tempo esiste quel posto, signore?»

«Da circa quattro anni, e non è ancora finito. Mozart è nuovo. Fino a poco tempo fa, i dipendenti erano alloggiati in questa specie di caserma. Abbiamo visto costruire l'edificio contemporaneamente alla recinzione perimetrale.

Quando i russi cominciano a viziare la gente che lavora, è segno che il progetto ha un grado veramente alto di priorità. Se ha anche un recinto e delle torri di guardia, sappiamo che si tratta di un progetto militare.»

«Come lo avete scoperto?»

«Per caso. La CIA stava riordinando i dati meteorologici sull'Unione 46

Sovietica, e un tecnico decise di analizzare al computer i posti migliori di quella zona per l'osservazione astronomica. Questo è uno. Le condizioni atmosferiche sono state piuttosto sfavorevoli negli ultimi mesi, ma mediamente il cielo è stato limpido come lo è qui. Lo stesso vale per Sary Shagan, Semipalatinsk e il nuovo centro, a Storozhevaya.» Ryan posò sul tavolo qualche altra foto, che Gregory osservò con attenzione.

«Si dirette che si stanno dando un gran da fare.»

«Buongiorno, Misha» disse il maresciallo dell'Unione Sovietica Dmitri Timofeyevich Yazov.

«Buongiorno a lei, compagno ministro.»

Un sergente aiutò il ministro a togliersi il cappotto, mentre un altro entrava portando un vassoio con il tè. Entrambi uscirono quando Filitov aprì la cartella.

«Allora, Misha, come si presenta la mia giornata?» Yazov riempì due tazze.

Fuori era ancora buio. La cerchia interna delle mura del Cremlino era illuminata dalla cruda luce bianco-azzurra dei riflettori. Le sentinelle apparivano e scomparivano nei fasci luminosi.

«Una giornata piena, Dmitri Timofeyevich» rispose il colonnello. Il ministro Yazov non era uomo del calibro di Dmitri Ustinov, ma Filitov doveva riconoscere che sapeva affrontare una giornata di duro lavoro non meno bene di qualsiasi altro ufficiale. Come Filitov, il maresciallo Yazov proveniva dalle truppe corazzate.

Non si erano mai incontrati durante la guerra, ma ognuno dei due conosceva la reputazione dell'altro. Misha era superiore come ufficiale combattente — i puristi precisavano che, in cuor suo, Filitov era rimasto un ufficiale di cavalleria vecchio stile, anche se detestava cordialmente i cavalli. Invece Dmitri Yazov, abile nel lavoro organizzativo, si era fatta la fama di brillante ufficiale di Stato Maggiore. Naturalmente era anche uomo del Partito, anzi, lo era prima di ogni altra cosa, altrimenti non sarebbe mai arrivato al grado di maresciallo.

«Abbiamo la delegazione venuta dall'impianto sperimentale nella Repubblica Sovietica del Tagikistan.»

«Ah, sì, la Stella Lucente. La riunione è fissata per il pomeriggio, vero?»

«Degli accademici» sbuffò Misha. «Non distinguerebbero un'arma vera nemmeno se gliela infilassi nel sedere.»

«Il tempo delle lance e delle spade è finito da un pezzo, Mikhail Semyonovich» disse Yazov con un sorriso divertito. Se non aveva il vivace intelletto di Ustinov, non era neppure uno sciocco come il suo immediato predecessore Sergey Sokolov. La mancanza di esperienza tecnica era compensata in lui da una misteriosa capacità istintiva di capire la validità dei nuovi sistemi di armamento, e di valutare con raro intuito i personaggi principali 47

dell'Esercito sovietico. «Queste invenzioni sembrano straordinariamente promettenti.»

«D'accordo. Vorrei soltanto che a capo del progetto ci fosse un vero militare, anziché uno di quei professori dagli occhi trasognati.»

«Ma il generale Pokryshkin...»

«Era un pilota di caccia. Io per militare intendo un soldato, compagno ministro. I piloti sono favorevoli a qualunque cosa che abbia una quantità di bottoni e di quadranti. Inoltre, Pokryshkin negli ultimi anni ha passato più tempo nelle aule universitarie che sugli aeroplani. Adesso è il mezzano degli stregoni.» E si sta costruendo un piccolo impero personale laggiù, ma questo non è un argomento, meglio tenerlo da parte per un'altra volta.

«Desidera un altro incarico, Misha?» domandò con malizia Yazov.

«Non quello!» Filitov scoppiò a ridere, poi ridiventò serio. «Sto cercando di dirle, Dmitri Timofeyevich, che la valutazione dei progressi che riceviamo da Stella Lucente è — come dire — distorta dal fatto che non abbiamo un vero soldato sul posto. Qualcuno che conosca gli imponderabili del combattimento e sappia come dev'essere fatta un'arma.»

Il ministro della Difesa assentì pensieroso. «Sì, capisco il suo punto di vista.

Loro pensano in termini di strumenti anziché di armi, è vero. Mi preoccupa la complessità del progetto.»

«Quante parti mobili ha questo nuovo congegno?»

«Non ho idea — migliaia, credo.»

«Uno strumento non diventa arma finché non può essere maneggiato in modo affidabile da un soldato — be', almeno da un tenente. Qualcuno all'esterno del progetto ha già avuto modo di fare una valutazione dell'affidabilità?»

«No, per quanto posso ricordare.»

Filitov prese la tazza. «Questo è il punto, Dmitri Timofeyevich. Non crede che la cosa interessi al Politburo? Finora sono stati ben disposti a finanziare il progetto,» Filitov bevve un sorso di tè «però la commissione viene qui a chiedere che l'impianto sia promosso al livello operativo, e noi non abbiamo una valutazione obiettiva del progetto.»

«Come propone di ottenere una simile valutazione?»

«È chiaro che non posso farla io. Sono troppo vecchio e mi manca la cultura necessaria. Però abbiamo qualche giovane colonnello in gamba, qui al Ministero, specialmente nel settore delle comunicazioni. Non sono ufficiali combattenti nel senso stretto del termine, però sono soldati, e hanno la competenza che ci vuole per esaminare queste meraviglie dell'elettronica. Era solo un suggerimento.» Filitov non insisté. Aveva gettato il seme di un'idea.

Yazov era molto più facile da manovrare di quanto lo fosse mai stato Ustinov.

«E che cosa mi dice dei problemi alla fabbrica di carriarmati a Chelyabinsk?»

48

Ortiz stette a guardare l'Arciere che, a un chilometro di distanza, si arrampicava su per la montagna. Due uomini e due cammelli: era difficile che li scambiassero per una pattuglia di guerriglieri. Le bande di solito contavano almeno una ventina di persone. Non che avesse importanza, pensò Ortiz, ma i sovietici erano ormai arrivati al punto di attaccare praticamente tutto ciò che vedevano muovere. Vaya con Dios.

«Non mi dispiacerebbe una birra» disse il capitano.

Ortiz si voltò. «Capitano, la cosa che mi ha permesso di trattare utilmente con la gente di qui è il fatto che vivo come loro. Osservo le loro leggi e rispetto i loro costumi. Ciò significa niente alcol e niente maiale; significa anche che non corro dietro alle loro donne.»

«Stronzate» sbuffò l'ufficiale. «Questi selvaggi ignoranti...» Ortiz lo interruppe.

«Capitano, la prima volta che la sento fare altri apprezzamenti del genere, sarà il suo ultimo giorno qui. Questa gente lavora per noi. Ci porta del materiale che non potremmo procurarci in nessun altro modo. Lei deve, ripeto, deve trattarli con il rispetto che meritano. E chiaro? »

«Sì, signore.» Cristo, Ortiz è diventato anche lui un fottuto arabo.

3

La stanca volpe rossa

«È impressionante — se riesci a capire che cosa stanno facendo.» Jack sbadigliò. Aveva volato sullo stesso aereo militare da Los Alamos ad Andrews, ed era di nuovo in arretrato con il sonno. Benché avesse lunga dimestichezza con quella situazione, non era ancora riuscito a stabilire un modus vivendi. «Il giovane Gregory è maledettamente in gamba. Ha impiegato due secondi a identificare l'impianto Bach, e ha ripetuto quasi parola per parola la valutazione dell'NPIC.» La differenza era che, per gli specialisti del National Photographic Intelligence Center, c'erano voluti quattro mesi e tre rapporti scritti per produrre l'analisi giusta.

«Lei crede che andrebbe assegnato alla squadra addetta alle valutazioni?»

«Signore, è come chiedere se vogliamo avere dei chirurghi in sala operatoria.

A proposito, lui vorrebbe che facessimo infiltrare qualcuno nel settore Bach.»

Ryan alzò gli occhi al cielo.

L'ammiraglio Greer per poco non lasciò cadere la tazza. «Quel ragazzo vede troppi film sui ninja. »

«È bello constatare che qualcuno ha fede in noi» disse Jack ridendo. «In sostanza, Gregory ha bisogno di sapere se hanno fatto qualche progresso 49

importante nella potenza di uscita del laser — mi sembra che non lo chiamino più "output", ma "throughput"'. Sospetta che la maggior parte della corrente prodotta dalla nuova centrale sarà destinata a Bach.»

Gli occhi di Greer si strinsero. «È un cattivo pensiero. Crede che abbia ragione?»

«I russi hanno un sacco di elementi validi che lavorano in quel campo, signore. Nikolay Bosov, ricorda? Quello che ha vinto il premio Nobel, e da allora si è sempre occupato di armi laser. Con lui c'è Yevgeniy Velikhov, noto attivista per la pace. Il capo dell'Istituto Laser è il figlio di Dmitri Ustinov, che Dio ci aiuti. La località Bach è certamente un'installazione di laser a serie sparsa. Non possiamo sapere di quale tipo: potrebbero essere laser gasdinamici, a elettroni liberi, oppure laser pompati chimicamente. Gregory pensa che sia del tipo a elettroni liberi, ma è solo una congettura. Mi ha anche dato le cifre dalle quali emerge il vantaggio di piazzare gli impianti su quella montagna, dove stanno al disopra di una buona metà dell'atmosfera. Inoltre sappiamo quanta energia occorre per alcune delle cose che i sovietici vogliono realizzare. Ha detto che farà qualche calcolo a ritroso per valutare la potenza totale del sistema. Le cifre saranno approssimate per difetto. Fra ciò che ha detto Gregory e la costruzione del quartiere residenziale a Mozart, dobbiamo dedurre che quella base sia destinata a eseguire le prove e le stime ufficiali nel prossimo futuro, e forse a diventare operativa entro due o tre anni. Se è così, i sovietici avranno presto un laser capace di fare fuori uno dei nostri satelliti.

Probabilmente sarà un'eliminazione incruenta, dice il maggiore — qualcosa come affumicare i sensori delle telecamere e le cellule fotovoltaiche. Il passo successivo, però...»

«Già, siamo in gara, è evidente.»

«Che possibilità ci sono che Ritter e la gente delle Operazioni riescano a scoprire qualcosa in uno di quegli edifici a Bach?»

«Credo che possiamo considerare questa ipotesi» disse Greer in tono poco convinto, poi cambiò argomento. «Lei mi sembra un po' tirato.»

Ryan captò il messaggio: lui non doveva sapere che cosa aveva in programma il servizio Operazioni. «Tutti questi viaggi sono stati piuttosto logoranti. Se non le dispiace, signore, vorrei riposarmi fino a domattina.»

«Mi sembra giusto. A domani. Prima però... Jack, ho avuto una telefonata dalla SEC a proposito di cose che la riguardano.»

«Oh!» Jack abbassò la testa. «Non ci pensavo nemmeno più. Hanno telefonato a me prima che partissi per Mosca.» La Security and Exchange Commission era il comitato di vigilanza sulle operazioni di Borsa.

«Di che si tratta?»

«Possiedo un certo numero di azioni di una società, i cui dirigenti sono 50

attualmente sotto indagine per fuga di informazioni riservate. Ho acquistato una parte dei titoli quando l'hanno fatto loro, e la Commissione vuole sapere come mai ho deciso di comperarli proprio allora.»

«Per cui?» domandò Greer. La CIA aveva già avuto troppi scandali, e l'ammiraglio non ne voleva uno proprio nel suo ufficio.

«Avevo avuto notizia che quella ditta poteva essere interessante. Quando mi informai meglio, seppi che stava ricomperando le proprie azioni. Mi decisi ad acquistare perché vidi che la società lo faceva. È legale, capo. A casa ho tutta la documentazione. Per queste operazioni mi servo del computer — tengo a precisare che non ne ho più fatte da quando lavoro qui — e ho tutte le copie su dischetto. Non ho trasgredito alle regole, signore, e sono in grado di dimostrarlo.»

«Vediamo di mettere in chiaro la cosa nei prossimi giorni» suggerì Greer.

«Sì, signore.»

Cinque minuti dopo Jack era sulla Jaguar. Il viaggio fino a casa, al Peregrine Cliff, fu più scorrevole del solito: bastarono cinquanta minuti invece dei soliti settantacinque. Cathy era al lavoro, come di consueto, e i ragazzi erano a scuola

— Sally a St. Mary e Jack al kindergarten. Ryan andò in cucina e si versò un bicchiere di latte, poi salì al piano superiore, si sfilò le scarpe e si lasciò cadere sul letto senza nemmeno togliersi i pantaloni.

Il colonnello del Genio Radiotelegrafisti e Segnalatori Gennady Iosifovich Bondarenko sedeva di fronte a Misha, impettito e fiero come deve essere un ufficiale superiore così giovane. Non dimostrava di sentirsi intimidito dal colonnello Filitov, abbastanza vecchio per essere suo padre, con un curriculum che costituiva quasi una leggenda al Ministero della Difesa. E così, questo è il famoso veterano che ha combattuto praticamente tutte le battaglie fra mezzi corazzati nei primi due anni della Grande Guerra Patriottica. Vide intorno agli occhi del colonnello una fermezza che né gli anni né la fatica avevano potuto cancellare, e notò la menomazione al braccio. Gli venne in mente ciò che sapeva a proposito del superiore. Si diceva che il vecchio Misha andasse ancora, accompagnato da alcuni uomini del suo vecchio reggimento, a ispezionare le fabbriche di carriarmati per verificare se il controllo della qualità era conforme agli standard prescritti, e per accertare se i suoi penetranti occhi azzurri potevano ancora mettere a fuoco un bersaglio dal posto del cannoniere.

Bondarenko era un po' in soggezione davanti a quell'eroe nazionale, ma era soprattutto orgoglioso di indossare la sua stessa uniforme.

«Quali ordini ha per me il compagno colonnello?» domandò a Misha.

«La sua cartella personale dice che lei è abbastanza competente in fatto di congegni elettronici, Gennady Iosifovich.» Filitov indicò con la mano il dossier 51

che aveva sulla scrivania.

«Fa parte del mio lavoro, compagno colonnello.» Bondarenko era poco più che "abbastanza competente", e lo sapevano entrambi.

Aveva collaborato alla progettazione dei mirini a laser per impiego bellico, e di recente si era occupato di un progetto che prevedeva l'uso del laser in luogo della radio per le comunicazioni in zona di combattimento.

«Gli argomenti che discuteremo sono classificati "Massima segretezza".» Il giovane colonnello assentì gravemente, e Filitov riprese. «Da un po' di anni a questa parte il Ministero ha finanziato uno specialissimo progetto laser denominato Stella Lucente — anche il nome è segreto, s'intende. Il compito primario del progetto è di fare delle fotografie ad alta definizione dei satelliti occidentali ma, quando sarà completato, potrà essere in grado di accecarli, se e quando la situazione politica renderà necessaria una simile azione. Il programma è diretto da alcuni accademici e da un ex pilota di caccia: purtroppo questo tipo di impianto cade sotto la giurisdizione dell'Aeronautica militare. Personalmente avrei molto preferito che fosse diretto da un vero soldato, ma...» Misha si fermò e fece un gesto verso il soffitto. Bondarenko sorrise per dimostrare che capiva ed era d'accordo. La politica, fu il tacito messaggio che si scambiarono i due ufficiali. Non c'è da stupirsi se non concludiamo mai niente.

«Il ministro vuole che lei prenda l'aereo e vada a valutare in loco il potenziale di quelle armi, soprattutto dal punto di vista dell'affidabilità. Se dobbiamo rendere operativa la base, sarà bene sapere se quella folle diavoleria potrà funzionare, quando ne avremo bisogno.»

Il giovane colonnello annuì pensieroso, mentre la sua mente galoppava. Era un incarico di fiducia, anzi, molto di più. Avrebbe dovuto riferire al ministro per il tramite del suo uomo di fiducia. Se se la cavava bene, avrebbe avuto l'encomio personale del ministro nelle proprie note caratteristiche. Questo gli avrebbe assicurato le stelle di generale, un appartamento più grande per la sua famiglia, scuole migliori per i figli: buona parte delle cose per cui aveva lavorato tutti quegli anni.

«Compagno colonnello, devo presumere che gli interessati siano a conoscenza del mio arrivo?»

Misha rise ironicamente. «Usa così, adesso, nell'Armata Rossa? Noi dovremmo annunciare che stanno per essere sottoposti a un controllo? No, Gennady Iosifovich, se dobbiamo verificare l'affidabilità, dobbiamo farlo di sorpresa. Ho qui una lettera per lei firmata dal ministro Yazov in persona. Le basterà per passare i controlli di sicurezza — che laggiù, fra l'altro, sono affidati ai nostri colleghi del KGB» disse Misha con freddezza. «La lettera le permetterà di accedere a tutte le parti del complesso. Se incontra una difficoltà qualsiasi, mi telefoni immediatamente. Può sempre raggiungermi chiamando questo numero.

52

Anche se sono al bagno turco, il mio autista verrà a cercarmi.»

«Quanto deve essere particolareggiato il rapporto, compagno colonnello?»

«Quanto basta perché un vecchio carrista stanco come me possa afferrare il senso e gli scopi di tutta quella stregoneria» disse Misha in tono cupo. «Lei pensa di poter capire tutto?»

«Se non sarà così, la informerò subito, compagno colonnello.» Era un'ottima risposta, ammise Misha in cuor suo. Bondarenko avrebbe fatto strada.

«Ottimo, Gennady Iosifovich. Preferisco decisamente un ufficiale che mi dica quello che non sa, a uno che cerchi di impressionarmi con una carrettata di sofisticherie.» Bondarenko non ebbe difficoltà a captare il messaggio. Si diceva che il tappeto di quell'ufficio fosse rosso del sangue degli ufficiali che avevano tentato di darla a intendere a Misha. «Fra quanto tempo può partire?»

«E grande il complesso?»

«Sì. Ospita quattrocento fra accademici e tecnici, e forse altri seicento elementi subalterni. Può prendersi tutta una settimana per fare le sue valutazioni. In questo caso vale di più essere esaurienti che essere veloci.»

«Allora dovrò mettere in valigia una seconda uniforme. Posso essere in viaggio fra due ore.»

«Benissimo. In libertà.» Misha aprì un altro dossier.

Come faceva di solito, Misha si trattenne in ufficio qualche minuto più del ministro. Chiuse a chiave i documenti personali nell'archivio di sicurezza, e affidò gli altri a un commesso che, con il carrello, li depositò all'archivio centrale pochi metri più avanti, nello stesso corridoio su cui si affacciava l'ufficio del colonnello. Il medesimo commesso gli consegnò una nota in cui era scritto che il colonnello Bondarenko aveva preso il volo Aeroflot delle 17,30 per Dushanbe, e che il trasporto dall'aeroporto civile a Stella Lucente era stato predisposto. Filitov prese nota di complimentare Bondarenko per l'efficienza. In quanto membro dell'ispettorato generale interno del Ministero, Bondarenko avrebbe potuto precettare un apparecchio dell'Aviazione e farsi portare all'aeroporto militare di Dushanbe, ma Stella Lucente aveva certamente degli uomini sul posto che avrebbero potuto riferire l'arrivo del volo speciale. Per contro, viaggiando su un aereo di linea, un colonnello proveniente da Mosca avrebbe potuto essere preso per quello che solitamente erano i colonnelli moscoviti: dei fattorini. Quel fatto offendeva Filitov. Un uomo che aveva lavorato sodo per raggiungere il grado di comandante di reggimento —

sicuramente il più nobile incarico in qualunque Esercito — non avrebbe dovuto essere usato come uno schiavetto dello Stato Maggiore, con il compito di portare da bere ai superiori. Succedeva in ogni quartier generale. Perlomeno Bondarenko avrebbe avuto l'occasione di farsi i denti morsicando quei 53

fannulloni, laggiù nel Tagikistan.

Filitov si alzò e si infilò il cappotto. Un momento dopo chiudeva, cartella in mano, l'ufficio. Il suo segretario, che aveva il grado di sergente, telefonò al garage di tenere pronta la vettura. Quando Misha uscì dal portone, la berlina lo aspettava già.

Quaranta minuti dopo Misha era in tenuta casalinga. La televisione trasmetteva un programma tanto sciocco che doveva essere stato importato dall'Occidente. Misha sedette al tavolo della cucina. Vicino al suo pasto serale c'era una bottiglia di vodka da mezzo litro aperta. Il pasto comprendeva pane nero, salame e sottaceti, una dieta non molto diversa da ciò che, due generazioni addietro, mangiava con i suoi uomini sul campo di battaglia. Aveva riscontrato che il suo stomaco digeriva molto più facilmente quei rozzi cibi che non la cucina raffinata, e ciò aveva provocato non poco imbarazzo al personale della clinica dove era stato ricoverato durante l'ultimo attacco di polmonite. Dopo ogni boccone beveva un piccolo sorso di vodka, guardando fuori dalla finestra attraverso le persiane socchiuse. Le luci di Mosca scintillavano, insieme agli innumerevoli rettangoli gialli delle finestre illuminate.

Ricordava bene gli odori: la fragranza vegetale della buona terra russa; l'effluvio verde e sottile dell'erba dei prati; il puzzo del gasolio e, più forte di tutti, l'acre sentore del propellente dei cannoni del carroarmato che impregnava il tessuto della tuta e che nemmeno i ripetuti lavaggi potevano mandar via. Per un carrista, quello era l'odore del combattimento, insieme alle sinistre esalazioni dei veicoli e dei corpi umani che bruciavano. Senza guardare, alzò il salame e ne tagliò un pezzo, portandoselo alla bocca con il coltello. Gli occhi erano fissi sulla finestra, ma vedevano, come in uno schermo televisivo, il sole che tramontava in fondo all'immenso orizzonte e le colonne di fumo che si alzavano dallo sfondo di verde e azzurro, arancio e marrone. Poi si tagliò un pezzo del gustoso, compatto pane nero e, come ogni sera in cui commetteva tradimento, i fantasmi vennero a trovarlo.

Gliel'abbiamo fatta vedere, non è vero, compagno capitano? domandò una voce stanca.

Ma abbiamo ancora dovuto ritirarci, caporale, si udì rispondere. Però è vero, abbiamo fatto vedere a quei bastardi che non si scherza con i nostri T-34.

È buono il pane che hai rubato.

Rubato? Ma, compagno capitano, difendere i contadini è un duro lavoro, no?

E mette anche sete, aggiunse il capitano.

Davvero, compagno, confermò ridendo il caporale. Tese all'ufficiale la bottiglia che nascondeva dietro la schiena. Non era la vodka ufficiale prodotta dallo Stato, era samogan, quella distillata clandestinamente. Misha la conosceva bene. Ogni vero russo affermava che gli piaceva il gusto di quel liquore, anche 54

se poi nessuno lo toccava, per poco che ci fosse della vera vodka a portata di mano. In quel momento, però, il samogan era il liquore che desiderava con tutte le sue forze, laggiù sul suolo russo, con i resti del suo gruppo corazzato in posizione fra una fattoria di Stato e le avanguardie dei panzer di Guderian.

Ritorneranno domani mattina, si disse il guidatore.

E noi faremo fuori qualche altro carroarmato grigio, replicò il servente del pezzo.

Dopo di che, pensò Misha, ci ritireremo di altri dieci chilometri. Solo dieci, se abbiamo di nuovo fortuna, e se il quartier generale del reggimento riesce a coordinare le cose meglio di come ha fatto questo pomeriggio. Comunque vada, la fattoria sarà dietro le linee tedesche prima che sorga il sole. Altro terreno perduto.

Ma non era il caso di soffermarsi su quei pensieri. Misha si asciugò accuratamente le mani prima di sbottonare la tasca della tunica. Era tempo di dare ristoro allo spirito.

Un tipo delicato, commentò il caporale guardando di sopra la spalla del capitano, per la centesima volta e sempre con invidia, la fotografia. Delicata come il cristallo. E che bel figlio ha, compagno capitano. Buon per lei che abbia ereditato i lineamenti della madre. È così minuta, sua moglie, come ha fatto a partorire un ragazzone come quello senza farsi male?

Lo sa Iddio, fu l'inconscia risposta. Che strano, dopo qualche giorno di guerra anche l'ateo più incallito invocava il nome di Dio... Lo faceva anche qualche commissario politico, provocando il tacito divertimento della truppa.

Tornerò a casa, ritornerò da te, promise alla fotografia. Giuro che ritornerò.

Anche se dovessi passare attraverso tutto l'Esercito tedesco e i mille fuochi dell'inferno, ritornerò da te, Elena.

Proprio allora, avvenimento raro, giunse la posta. Soltanto una lettera per il capitano Filitov, ma la qualità della carta e la fine calligrafia gliene annunciarono l'importanza. Aprì la busta con il coltello da combattimento ed estrasse la lettera con tutta la delicatezza che gli consentiva la premura, per non sporcare di grasso di macchina le parole d'amore. Un attimo dopo balzò in piedi e lanciò un grido verso le stelle nel cielo del crepuscolo.

Sarò di nuovo padre a primavera! Dev'essere stata la sera dell'ultimo giorno di licenza, tre settimane prima che avesse inizio questa bestiale pazzia...

Non mi sorprende, commentò scherzosamente il caporale, dopo la legnata che abbiamo dato oggi ai tedeschi. Il nostro capitano è un vero uomo. Forse bisognerebbe lasciarlo nelle retrovie come stallone.

Tu sei nekulturny, caporale Romanov, un ignorante. Io sono sposato.

Allora posso forse dare il cambio al compagno capitano? chiese speranzoso, offrendo di nuovo la bottiglia. Brindiamo a un altro bel figliolo, compagno 55

capitano, e alla sua bellissima moglie. C'erano lacrime di gioia negli occhi del giovane, gioia mista al dolore di sapere che solo una straordinaria fortuna gli avrebbe dato modo di essere padre anche lui. Ma non sarebbe successo.

Romanov era un buon soldato e un bravo compagno, già idoneo ad avere il comando del suo carroarmato.

E Romanov lo ebbe, ricordò Misha guardando il profilo di Mosca contro il cielo. A Vyasma, aveva spavaldamente messo il proprio carro fra quello fuori uso del capitano e il Mark-IV tedesco, salvando la vita di Misha e sacrificando la propria in una fiammata rosso-arancione. Aleksey Il'ych Romanov, caporale dell'Esercito sovietico, quel giorno si guadagnò l'Ordine della Bandiera Rossa.

Misha si domandava se era stato un compenso adeguato per la madre che aveva perduto il suo ragazzo dagli occhi celesti nel viso lentigginoso.

Adesso la bottiglia di vodka era vuota per tre quarti; come tante altre volte, Misha stava singhiozzando.

Tutti quei morti... Quegli imbecilli dell'Alto Comando! Romanov ucciso a Vyasma. Ivanenko disperso fuori Mosca, il tenente Abashin a KharkovMirka, il giovane poeta, bello e gentile, un ufficiale che aveva cuore e palle da leone, si era fatto ammazzare mentre guidava il quinto contrattacco, e così aveva dato modo a Misha di districare ciò che restava del reggimento e attraversare il Donetz prima che si abbattesse il colpo del maglio tedesco. E l'ultima vittima, la sua Elena... Tutti quanti uccisi, non da un nemico esterno, ma dalla brutale indifferenza della loro amata Patria...

Misha tracannò un lungo, ultimo sorso dalla bottiglia. No, non dalla Patria.

Non dalla Rodina, questo mai! La colpa era di quei bastardi disumani che...

Si alzò e si trascinò fino alla camera da letto, lasciando accese le luci nel soggiorno. L'orologio sul comodino segnava le dieci meno un quarto, e un angolo remoto del cervello di Misha provò conforto al pensiero delle nove ore di sonno con cui avrebbe potuto rimediare all'insulto inflitto a quello che era stato un corpo giovane e snello, capace di sopportare quasi con gioia la tremenda tensione del combattimento. Ma la tensione cui era sottoposto adesso faceva sembrare allegra quella del campo di battaglia. Il subcosciente di Misha si sentiva sollevato dalla consapevolezza che presto il tormento sarebbe finito, che sarebbe giunto il riposo.

Circa un'ora più tardi, un'automobile passò nella via. La guidava una donna che stava riportando a casa il figlio da una partita di hockey. Guardò in su e notò che le luci di alcune finestre erano accese, e le imposte socchiuse.

L'aria era rarefatta. Bondarenko si alzò alle cinque, come faceva sempre, indossò la tuta ed entrò nell'ascensore che lo avrebbe portato a terra, dal decimo piano dove si trovava l'appartamento degli ospiti. Notò con sorpresa che gli 56

ascensori funzionavano. Voleva dire che alla base c'era gente in movimento ventiquattr'ore su ventiquattro. Bene, pensò il colonnello.

Uscì all'aperto, con un asciugamano avvolto intorno al collo, e guardò l'ora con espressione corrucciata. A Mosca aveva una routine quotidiana che prevedeva un percorso fisso intorno a certi isolati. Qui non poteva essere sicuro della distanza, non avendo punti di riferimento per sapere quanto mancava alla fine dei cinque chilometri abituali. Pazienza, si disse alzando le spalle, era prevedibile. Si diresse a est. Il panorama era eccezionale. Il sole si sarebbe alzato ben presto, prima che a Mosca, data la differenza di longitudine; le cime frastagliate dei monti si stagliavano sullo sfondo rosso — simili a denti di drago, pensò sorridendo. Il suo bambino più piccolo amava disegnare draghi.

Il volo d'arrivo si era concluso in modo spettacolare. La luna piena aveva illuminato dapprima i bassopiani desertici del Kara-Kum, poi le distese di sabbia erano finite di colpo contro quello che sembrava un muro costruito dagli dèi. Nello spazio di tre gradi di longitudine si era passati dalle pianure alte trecento metri sul livello del mare, alle cime che raggiungevano i cinquemila metri. Adesso, dall'alto della montagna, vedeva il riflesso delle luci di Dushanbe, circa settanta chilometri a nord-ovest. Due fiumi, il Kafirnigan e il Surkhandarya, scorrevano intorno alla città, che contava mezzo milione di abitanti. Al colonnello Bondarenko sembrava di avere fatto mezzo giro del mondo. Si domandò quale vicenda storica, quale causa aveva fatto sorgere Dushanbe proprio lì, in mezzo a quei due fiumi fra le montagne. Senza dubbio si presentava come un luogo inospitale, ma forse le lunghe carovane di cammelli provenienti dalla Persia avevano sostato lì, o forse era stata un crocevia importante, oppure... Bondarenko smise di fantasticare. Stava perdendo tempo, invece di iniziare l'esercizio mattutino. Si fissò la mascherina chirurgica davanti alla bocca e al naso come protezione contro l'aria gelida. Il colonnello cominciò con le flessioni per sciogliere le ginocchia, poi partì a buona andatura.

Si accorse subito di respirare più faticosamente del solito. Era l'altezza.

Avrebbe dovuto abbreviare la corsa. L'edificio residenziale era già alle sue spalle: Bondarenko guardò a destra passando oltre quelli che la sua mappa indicava come laboratori meccanici e ottici.

«Alt!» intimò una voce.

Bondarenko emise un borbottìo infastidito. Non gli piaceva essere interrotto mentre correva, specialmente da gente che portava le spalline verdi del KGB.

Spie, sicari che giocavano a fare i soldati. «Che cosa c'è, sergente?»

«I suoi documenti, per favore, compagno. Io non la conosco.»

Per fortuna la moglie di Bondarenko era riuscita a cucire diverse tasche sulla tuta atletica Nike che aveva potuto comperare al mercato "grigio", se non proprio nero, di Mosca, come regalo di compleanno. Il colonnello continuò a 57

correre segnando il passo mentre porgeva i documenti d'identità.

«Quando è arrivato, compagno colonnello?» chiese il sergente. «E che cosa fa in giro a quest'ora del mattino?»

«Dov'è il suo superiore?» replicò Bondarenko.

«Al posto di guardia principale, quattrocento metri da quella parte» rispose il sergente indicando la direzione.

«Allora venga con me, sergente, e parleremo con lui. Un colonnello dell'Esercito sovietico non da spiegazioni a un sottufficiale. Mi accompagni, anche lei ha bisogno di esercizio!» disse in tono di sfida, poi partì veloce.

Il sergente aveva poco più di vent'anni, ma portava indosso un pesante cappotto, il fucile e le giberne. Dopo duecento metri, Gennady lo sentì ansimare.

«Qui, compagno colonnello» sbuffò il giovane un minuto dopo.

«Non dovrebbe fumare tanto, sergente» osservò Bondarenko.

«Che diavolo succede?» chiese da dietro la scrivania un tenente del KGB.

«Il suo sergente mi ha fermato. Sono il colonnello G.I. Bondarenko e sto facendo la mia ginnastica mattutina.»

«In tenuta occidentale?»

«E che diavolo le importa di come mi vesto per allenarmi?» Idiota, non fate mai jogging, voi spioni?

«Colonnello, io sono l'ufficiale responsabile della sicurezza. Non la conosco, e i miei superiori non mi hanno annunciato il suo arrivo.»

Gennady pescò in un'altra tasca il lasciapassare speciale con i documenti d'identità e li porse al tenente. «Io sono un rappresentante straordinario del Ministero della Difesa. Lo scopo della mia visita non la riguarda. Sono qui con il mandato conferitomi personalmente dal maresciallo dell'Unione Sovietica D.T. Yazov. Se ha altre domande, può farle direttamente a lui, chiamando questo numero!»

Il tenente del KGB lesse con attenzione i documenti per accertarsi che corrispondessero a quanto aveva affermato il colonnello.

«La prego di scusarmi, compagno colonnello, ma abbiamo l'ordine di applicare con il massimo rigore le norme di sicurezza. Inoltre, è cosa fuori dall'ordinario vedere un uomo in abiti occidentali che corre alle prime luci dell'alba.»

«A me sembra che il fatto stesso di correre sia completamente fuori dall'ordinario per i suoi subordinati» commentò Bondarenko in tono acido.

«Su questa montagna manca lo spazio per un vero programma di esercizio fisico, compagno colonnello.»

«Davvero?» Bondarenko sorrise mentre estraeva da un'altra tasca un blocco e una matita. «Lei afferma di applicare con rigore le norme di sicurezza, però non applica affatto quelle relative all'efficienza fisica delle sue truppe. La ringrazio 58

di questa precisazione, compagno tenente. Discuterò la cosa con il suo comandante. Posso andare?»

«Da un punto di vista tecnico, ho l'ordine di fornire una scorta a tutti i visitatori ufficiali.»

«Magnifico. Mi piace correre in compagnia. Vuole essere tanto gentile da venire con me, compagno tenente?»

L'ufficiale del KGB era in trappola e lo sapeva. Cinque minuti dopo boccheggiava come un pesce fuor d'acqua.

«Qual è il rischio maggiore per la sicurezza?» s'informò Bondarenko con un po' di sadismo, perché non rallentò nel fare la domanda.

«La frontiera afghana è a centoundici chilometri da quella parte» rispose l'uomo del KGB respirando affannosamente. «Qualche volta hanno mandato alcuni dei loro banditi in territorio sovietico, come avrà forse saputo.»

«Hanno stabilito contatti con i cittadini locali?»

«No, per quanto ci risulta finora, però è una possibilità che ci preoccupa. La popolazione è in maggioranza musulmana.» Il tenente cominciò a tossire, e Gennady si fermò.

«Ho constatato che, con quest'aria fredda, la maschera è molto utile» spiegò.

«Riscalda un poco l'aria prima che entri nei polmoni. Raddrizzi la schiena e respiri profondamente, compagno. Se lei prende tanto sul serio le norme di sicurezza, ha bisogno di essere in buona forma fisica, lei come i suoi uomini. Le assicuro che gli afghani lo sono. Due anni fa, d'inverno, ho passato un po' di tempo con un gruppo Spetznaz che dava loro la caccia su per una mezza dozzina di squallide montagne. Non siamo mai riusciti a raggiungerli.» Ma loro hanno raggiunto noi, pensò Bondarenko senza dirlo. Non avrebbe mai dimenticato quell'imboscata...

«E gli elicotteri?»

«Non possono sempre volare d'inverno, mio giovane compagno. Nel nostro caso, stavamo tentando di dimostrare che anche noi siamo capaci di combattere in montagna.»

«È chiaro che mandiamo fuori pattuglie tutti i giorni.»

Fu il modo in cui lo disse a infastidire Bondarenko, il quale si annotò mentalmente di verificare anche quell'affermazione. «Che distanza abbiamo percorso?»

«Due chilometri.»

«L'altitudine rende più difficile correre. Venga, ritorneremo camminando.»

Il sorgere del sole era uno spettacolo. La sfera luminosa sbucò di sopra una montagna anonima a est, e la luce discese i pendii più vicini, respingendo l'ombra nelle profonde valli glaciali. La base non era certamente un obiettivo facile, anche per quei barbari mujaheddin. Le torri di guardia erano ben situate, 59

con campi di tiro che si stendevano senza ostacoli per diversi chilometri. Non usavano le fotoelettriche per riguardo ai civili che abitavano sul posto, ma i dispositivi per la visione notturna erano in ogni caso molto più efficaci, e Bondarenko era certo che gli uomini del KGB se ne servivano. Inoltre — si disse alzando le spalle — la sicurezza della base non era il motivo della sua visita, anche se gli offriva un ottimo pretesto per punzecchiare il distaccamento del KGB.

«Posso chiederle dove ha trovato quella tuta?» domandò il tenente quando ebbe ripreso fiato.

«È sposato, compagno tenente?»

«Sì, compagno colonnello.»

«Vede, io non interrogo mai mia moglie su dove compera i regali per il mio compleanno. È anche vero che io non sono un cekista. » Bondarenko fece ancora qualche flessione per dimostrare che, in ogni caso, era lui l'uomo più in forma.

«Colonnello, se è vero che i nostri incarichi sono diversi, resta il fatto che serviamo entrambi l'Unione Sovietica. Io sono un ufficiale giovane e inesperto, come lei non ha mancato di sottolineare. Una delle cose che mi disturbano è la rivalità non necessaria che esiste tra l'Esercito e il KGB.»

Bondarenko si voltò a guardare il tenente. «Molto ben detto, mio giovane camerata. Forse, quando avrà le stelle di generale, lei ricorderà questo lodevole sentimento.»

Lasciò il tenente del KGB al posto di guardia e camminò di buon passo verso il blocco residenziale, nella brezza del mattino che minacciava di congelargli il sudore sul collo. Entrò e salì con l'ascensore. A quell'ora antelucana non c'era acqua calda, ma la cosa non lo stupì. Sopportò la doccia fredda che allontanò le ultime tracce di sonno, si rase e si vestì, poi andò alla mensa per la colazione.

Non doveva essere al Ministero fino alle nove, e sul percorso c'era un bagno turco. Una delle cose che Filitov aveva imparato con il passar degli anni era che nulla poteva cacciare i postumi dell'alcol e schiarire la mente quanto il vapore.

Aveva abbastanza esperienza in proposito. Il sergente che guidava la vettura lo portò ai bagni Sandunovski sul ponte Kuznetskiy, a sei isolati dal Cremlino. Era comunque la sua tappa abituale del mercoledì mattina. Non era solo, nemmeno così presto. Un gruppo di altre persone, forse importanti, saliva faticosamente i larghi gradini di marmo fino al secondo piano dove c'erano i bagni di prima classe (ovviamente non più designati con quell'appellativo). In effetti, migliaia di moscoviti soffrivano dello stesso male del colonnello e ricorrevano alla medesima cura. Fra loro c'erano anche delle donne, e Misha si chiese se gli impianti riservati al gentil sesso erano diversi da quelli degli uomini. Che strano, lui frequentava quello stabilimento fin da quando era entrato al Ministero, nel 60

1943, e non aveva mai cacciato il naso nel reparto femminile. Pazienza, ormai sono troppo vecchio...

Aveva gli occhi iniettati di sangue e le palpebre pesanti. Si spogliò, prese un pesante asciugatoio da bagno dalla pila in fondo alla camera, e un fascio di rami di betulla. Filitov inspirò l'aria fresca e asciutta dello spogliatoio ancora una volta prima di aprire la porta che immetteva nelle sale del bagno turco. Il pavimento una volta era di marmo, ma era stato sostituito in gran parte con piastrelle arancione. Misha ricordava ancora il tempo in cui il pavimento originario era quasi intatto.

Due uomini sulla cinquantina stavano discutendo di qualcosa, probabilmente di politica. Poteva udire le voci aspre sopra il sibilo del vapore che saliva dalla caldaia al centro del locale. Misha contò altri cinque uomini che, a testa china, stavano sudando per eliminare i fumi dell'alcol in scontrosa solitudine. Scelse una sedia in prima fila.

«Buongiorno, compagno colonnello» lo salutò una voce cinque metri più in là.

«Buongiorno a lei, compagno accademico» rispose Misha all'altro assiduo frequentatore. Aveva le mani strette sul fascio di rami mentre aspettava che il sudore cominciasse a uscire. Non ci volle molto — la temperatura nella stanza superava i trentotto gradi. Respirò con calma, come facevano gli esperti. Le aspirine che aveva preso con il tè del mattino cominciavano a fare effetto, ma aveva ancora la testa pesante e le occhiaie gonfie. Si batté la schiena con i rami, come per esorcizzare i veleni ed espellerli dal corpo.

«Come si sente l'eroe di Stalingrado stamattina?» insisté l'accademico.

«All'incirca come si sente il genio del Ministero della Cultura.» La battuta produsse una sofferta risata. Misha non riusciva mai a ricordare il nome dell'accademico... Ilya Vladimirovich Vattelapesca. Quale categoria di imbecilli riusciva a ridere con i postumi di una sbornia? Quell'uomo beveva a causa della moglie — almeno, così diceva. Bevi per liberarti di lei, non è vero? Ti vanti delle volte che hai scopato la tua segretaria, e io invece darei l'anima al diavolo per vedere ancora una volta il viso di Elena. E quelli dei miei figli, aggiunse. I miei due bei ragazzi. Era bene ricordarsene, in mattine come questa.

«Ieri la Pravda parlava del negoziato sugli armamenti» interloquì nuovamente il professore. «C'è qualche speranza che vada in porto?»

«Non ne ho la minima idea» rispose Misha.

Entrò un inserviente — un tipo di bassa statura, sui venticinque anni. Contò le persone presenti nella stanza.

«Qualcuno desidera bere qualcosa?» domandò. Era rigorosamente-proibito bere alcolici nello stabilimento ma, come ogni russo avrebbe confermato, il divieto serviva solo a rendere più gustosa la vodka.

61

«No!» fu la risposta corale. Misha notò con meraviglia che quella mattina nessuno desiderava un goccio del veleno della sera prima. Be', era mercoledì.

Non sarebbe andata così se fosse stato un sabato mattina.

«Molto bene» disse l'inserviente dirigendosi alla porta. «Qui fuori ci sono degli asciugamani freschi, e l'impianto di riscaldamento della piscina è stato riparato. Anche il nuoto è un bell'esercizio, compagni. Se userete i muscoli che in questo momento state cuocendo, vi sentirete vispi per tutta la giornata.»

Misha alzò gli occhi. E così, questo è il nuovo contatto.

«Come fa a essere così maledettamente allegro?» borbottò un uomo nell'angolo della stanza.

«È allegro perché non è uno stupido vecchio beone!» rispose un altro, provocando qualche risata sommessa.

«Cinque anni fa la vodka non mi faceva questo effetto. Vi dico una cosa, il controllo della qualità non è più quello di una volta» riprese il primo.

«Non lo è nemmeno il tuo fegato, compagno!»

«È terribile invecchiare.» Misha si voltò per vedere chi l'aveva detto. Era un uomo sulla cinquantina, la cui pancia sporgente aveva il colore del pesce morto.

Stava fumando una sigaretta, il che costituiva un'altra violazione dei regolamenti.

«È ancora più terribile non farlo, ma voi giovani lo avete dimenticato!» disse automaticamente, senza sapere perché. Le teste si voltarono e videro) le cicatrici delle ustioni sulla schiena e sul petto. Anche coloro che non sapevano chi fosse Mikhail Semyonovich Filitov, capivano che non era il tipo d'uomo con cui si potesse scherzare con troppa disinvoltura. Rimase seduto in silenzio per altri dieci minuti, poi uscì.

Quando emerse dalla stanza piena di vapore, trovò l'inserviente ad aspettarlo dietro la porta. Gli consegnò i rami di betulla e l'asciugamano, poi andò alla doccia. L'acqua fredda fece di lui un uomo nuovo: il mal di testa e l'angoscia causati dalla vodka se n'erano andati, e anche la tensione. Si vestì rapidamente, uscì e scese la scalinata, fino alla vettura che lo attendeva. Il sergente notò quanto era cambiato il portamento del superiore, e si domandò quali mai potevano essere le virtù terapeutiche del farsi arrostire come pezzi di carne.

L'inserviente aveva un incarico da portare a termine. Quando, pochi minuti dopo, ripeté la domanda nella sala del bagno turco, due persone avevano cambiato idea. Il giovane uscì dalla porta posteriore dello stabilimento e fece una corsa fino a una piccola lavanderia, il cui gerente guadagnava di più vendendo alcolici "a sinistra" — sotto banco — che con il lavaggio a secco.

L'inserviente ritornò con una bottiglia da mezzo litro di una vodka non meglio identificata — le marche pregiate come la Stolychnaya erano riservate all'esportazione e all'élite. Le restrizioni imposte sugli alcolici avevano fatto 62

nascere un nuovo e remunerativo settore del mercato nero cittadino. Il giovane aveva anche passato a chi di dovere un caricatore fotografico che aveva ricevuto insieme ai rami di betulla. Eseguita la sua parte, si sentì sollevato. Quel cliente era il suo unico contatto. Non ne conosceva il nome, e aveva recitato la frase in codice con la paura, giustificata, che quel segmento della rete CIA a Mosca fosse già da tempo compromesso agli occhi del servizio controspionaggio, la temuta Seconda Direzione Centrale. La sua vita era appesa a un filo, e lui lo sapeva, però doveva fare qualche cosa. Lo aveva deciso dopo l'anno trascorso in Afghanistan, per tutto quello che aveva visto e per ciò che lo avevano costretto a fare. Per un istante si chiese chi poteva essere quell'uomo anziano sfregiato dalle cicatrici, ma si disse che l'identità e la professione del contatto non erano affar suo.

La lavanderia aveva una clientela composta perlopiù da stranieri —

giornalisti, uomini d'affari, qualche diplomatico — più qualche russo che non voleva farsi rovinare i preziosi capi di vestiario acquistati all'estero. Una donna appartenente a quest'ultima categoria ritirò un soprabito inglese, pagò tre rubli e uscì. Camminò per due isolati fino alla stazione più vicina della metropolitana e scese con la scala mobile per andare a prendere il treno della linea Zhdanovsko-Krasnopresnenskaya, quella segnata in viola sulle piante della città. Il treno era affollato, e nessuno la vide passare il caricatore. Lei stessa non vide il viso dell'uomo. Questi scese alla fermata successiva, la Pushkinskaya, e passò alla stazione Gor'kovskaya. Un ultimo trasferimento ebbe luogo dieci minuti dopo, e il caricatore passò nelle mani di un americano che stava andando all'Ambasciata un po' in ritardo avendo fatto le ore piccole a un ricevimento diplomatico.

Si chiamava Ed Foley ed era l'addetto stampa dell'Ambasciata, che aveva sede nella via Chaykovskogo. Lui e sua moglie Mary Pat, anche lei agente della CIA, erano a Mosca da quasi quattro anni, e non vedevano l'ora di andarsene e relegare la grigia, arcigna città nel mondo dei ricordi. Avevano due figli, ai quali era stata negata per troppo tempo la giusta dose di partite di baseball e di hot dogs.

Non che l'opera dei Foley fosse stata infruttuosa, al contrario. I russi sapevano che la CIA usava spesso delle coppie sposate all'estero, ma faticavano a concepire che le spie portassero i figli in terra straniera. Poi c'era la questione della copertura. Ed Foley aveva lavorato per il New York Times prima di entrare alla Central Intelligence Agency. Perché aveva cambiato? Perché — spiegava —

la retribuzione non era molto più interessante, ma lo erano le trasferte, mentre un cronista di "nera" difficilmente aveva occasione di uscire dalla cinta urbana.

Sua moglie stava perlopiù a casa con i figli — ogni tanto, quando la chiamavano, faceva la supplente alla scuola anglo-americana al numero 78 della Leninskiy Prospekt — e spesso li portava fuori nella neve. Il figlio maggiore giocava a 63

hockey in una squadra militante nel campionato juniores, e gli agenti del KGB

che pedinavano i Foley avevano annotato nel dossier che Edward Foley II era una discreta ala, per un ragazzine di sette anni. L'unico vero motivo di irritazione per il Governo sovietico nei confronti di quella famiglia era l'insaziabile curiosità di Foley padre per tutti i delitti che si commettevano nelle vie della capitale — anche se erano ben poca cosa in confronto ai fatti criminosi di cui scriveva quando era a New York. D'altro canto quell'atteggiamento dimostrava che era relativamente innocuo: troppo apertamente inquisitivo per appartenere alla categoria degli agenti segreti i quali, invece, facevano tutto il possibile per passare inosservati.