Martedì, 12 febbraio.
Capitolo 1.
Lasciò l'appartamento intorno alle dieci e mezzo per andare all'Elephant. Il riposo del giorno prima le era stato utile a distendere i nervi e trasformarla da un relitto tremante in un essere umano ragionevolmente normale. La sera le era riuscito addirittura di fare una breve passeggiata per il paese. Per quanto fosse spaventata dai potenziali pericoli in agguato fuori, si sentiva troppo depressa, dopo tre giorni passati rinchiusa nei locali angusti e squallidi in cui abitava. Non si poteva leggere o guardare la TV ventiquattro ore al giorno, non quando si era giovani, attivi e affamati di esperienze. A volte si chiedeva per quanto tempo ancora sarebbe riuscita a sopportare quella vita che vita non era. Spesso le veniva da pensare che tutto quel gioco a nascondino fosse del tutto inutile, perché ormai nessuno la stava cercando. Era un'idea allettante, che insieme aumentava la sua depressione, in quanto poneva la fobia che governava ogni suo gesto e ogni sua decisione in una luce ancora più assurda.
E le faceva capire chiaramente che, qualunque decisione avesse preso - che continuasse così o uscisse dalla clandestinità -, non avrebbe mai saputo se fosse o no un errore fatale. E che quindi non sarebbe mai riuscita a superare la depressione né le paure. La sera prima, quando era uscita a passeggiare e aveva respirato l'aria che per la prima volta recava con sé un vago accenno di primavera, di colpo aveva dovuto ricacciare in gola le lacrime. La malinconia, che di solito lei riusciva a tenere saldamente sotto controllo, era sfuggita dalla sua gabbia, sommergendola letteralmente di tristezza e disperazione.
Amore, calore, vita. Un marito, dei figli, degli amici.
Pace e tranquillità. Si chiedeva che cosa si provasse a guardare la primavera con gioia e trepidazione, invece di temerla, perché con la sua allegria e i suoi colori rendeva ancora più marcata la solitudine della sua esistenza.
Si era rifugiata dentro casa, prima di incontrare qualcuno che potesse restare sorpreso alla vista di una donna in lacrime. Il principio di non farsi notare le era ormai così connaturato che lo rispettava automaticamente, anche quando i suoi pensieri andavano in tutt'altra direzione.
Quel giorno, se non altro, poteva tornare ad aggrapparsi alla quotidianità. l'Elephant apriva a mezzogiorno, doveva arrivare puntuale e, sebbene si sentisse particolarmente esposta al nervosismo anche, e soprattutto, lì, il pub le appariva come un porto sicuro nel mare del suo dolore.
Mentre apriva la porta d'ingresso, rischiò di scontrarsi con Mr. Cadwick che si trovava lì davanti, in silenzio, e probabilmente era intento a origliare.
Si lasciò sfuggire un grido spaventato, ma anche Mr. Cadwick fece un passo indietro, impaurito. «Oh,» disse lui.
Allora è vero che sale fin qui più spesso di quanto pensi, si disse lei.
In genere lui usava come segnale di avvertimento il rumore del cassettone che veniva spostato dalla porta, ma quella mattina era dovuta uscire in tutta fretta a comperare del pane e del burro, perché non aveva più niente di commestibile in casa e al ritorno non aveva pensato a barricarsi di nuovo. Un minuscolo passo in direzione della normalità.
«Mr. Cadwick», disse, accorgendosi che il cuore tornava a batterle più rapido, «che cosa ci fa qui?»
«Questa è casa mia», rispose lui, «e io sto dove mi pare.»
Il fatto di essere stato scoperto lo rendeva aggressivo. Sapeva di avere un'aria ridicola, a farsi trovare lì sul pianerottolo buio. Lei gli guardò i piedi. Portava un paio di calzini di lana grigia, alquanto sporchi. Proprio come se l'era sempre immaginato. Si toglieva le scarpe e si aggirava furtivo per la casa.
Lei non disse altro. Che tipo disgustoso, pensò.
«Stanotte non riuscivo a dormire e ho pensato molto. A lei.»
Lei continuò a restare in silenzio. Avanti, sporcaccione, dillo chiaramente, pensò.
«Devo dire che la trovo alquanto originale», proseguì Mr. Cadwick. Pian piano aveva riacquistato la propria sicurezza, e ora passava al contrattacco. «Fin dal principio! Il suo modo di vivere, il suo comportamento... voglio dire, è una ragazza giovane e carina! Come mai vive in modo così strambo?»
Lei avrebbe tanto voluto spingerlo da parte e uscire senza dire una parola, ma sapeva che così l'argomento non si sarebbe esaurito. Lui doveva scaricarsi di qualcosa. E l'indomani mattina se lo sarebbe ritrovato nello stesso punto esatto.
«Che cosa intende per strambo?» domandò.
«Ma sì... lei mi fa pensare a una talpa. Sempre al buio. Sempre dentro casa. Nessuna amicizia. Nessun... uomo. Non c'è nessun uomo nella sua vita? Non è salutare!» «E a lei che cosa interessa?» «Abita in casa mia!»
«Le pago regolarmente l'affitto, non rompo niente, non la importuno e rispetto il regolamento. Non deve interessarle altro di me.»
Lui cambiò tono. «Non se la prenda subito così. L'ho detto con buone intenzioni. Mi preoccupo per lei. Non ha l'aria felice, sa!» Lei uscì del tutto dall'appartamento e richiuse la porta, girando la chiave ostentatamente due volte - sebbene sapesse che era del tutto inutile, nel caso Mr. Cadwick avesse deciso di entrare in sua assenza.
«Contrariamente a quel che pensa, non sto chiusa dentro casa, ho un lavoro», disse, «e non vorrei arrivare tardi. Purtroppo sarà costretto a continuare da solo le sue riflessioni su di me.» «Lei è molto sgarbata», replicò lui contrariato, lanciandole un'occhiata piena di desiderio, ma si fece da parte e la lasciò passare. Quando era quasi arrivata in fondo alle scale, lui si sporse dalla ringhiera.
«Sa che cosa credo?» le gridò. Lei rimase ferma suo malgrado.
Non può sapere niente, si disse, non può immaginarsi niente. «Si nasconde da qualcuno! Già, mi fa proprio questa impressione. Qualcosa o qualcuno l'ha terrorizzata a morte. È in fuga e ha scelto proprio casa mia per nascondersi! Poi dice che la cosa non dovrebbe riguardarmi?»
Il cuore le salì in gola. Raggiunse il portone a passo svelto. «Ma io la voglio aiutare!» le gridò lui.
Uscì nel vicolo, si chiuse il portone alle spalle e ci si appoggiò contro, ansimando. Sapeva di avere numerose chiazze rosse sul viso e la fronte imperlata di sudore.
Non devo farmi prendere dal panico, pensò, devo riflettere con calma.
Era quasi sicura che Cadwick non sapesse niente. Aveva semplicemente manifestato un proprio sospetto e per caso aveva azzeccato la strada giusta. Non bisognava certo essere una cima per riuscirci. Lei aveva un comportamento impaurito, nevrotico, si isolava dal mondo esterno, non aveva una vita privata. Niente amici, niente famiglia. Per uno come Mr. Cadwick lei doveva sembrare una donna sbucata dal nulla, che viveva nel nulla e sarebbe finita nel nulla. E che intanto era afflitta da attacchi di panico. Non stupiva che gli sembrasse strano e colpisse la sua fantasia. La domanda era: poteva diventare pericoloso?
Scese per il vicolo, come sempre a testa bassa, la sciarpa alzata a coprirle metà del volto. La temperatura non era più rigida come nelle settimane precedenti, comunque tirava ancora un vento freddo che rendeva il suo aspetto da mummia non del tutto fuori luogo. Per il momento. Con l'avanzare della primavera, avrebbe dovuto rinunciare via via sempre di più alla copertura che le offriva l'abbigliamento invernale. Per questo ogni anno l'arrivo della primavera per lei era problematico. Quando poi iniziava l'estate, ormai si era grossomodo abituata alla più marcata vulnerabilità, ma il percorso fin lì era faticoso.
In. realtà Cadwick non poteva diventare pericoloso. Era quasi escluso che fosse a conoscenza di particolari del suo passato o che conoscesse qualcuno legato a quel periodo. Altrimenti ne avrebbe sicuramente accennato. Restava solo il rischio che andasse alla polizia. Ma con quale pretesto? Voleva forse raccontare agli agenti che la sua inquilina era strana, non frequentava uomini e gli dava l'impressione di essere molto paurosa? Più di questo non avrebbe potuto affermare. E non erano ragioni sufficienti per giustificare un intervento delle forze dell'ordine.
Alzò il capo, e si accorse che una parte del peso che le gravava sulle spalle a causa di Mr. Cadwick si era alleggerito.
In ogni caso sentiva che il suo tempo a Langbury volgeva al termine.
Mr. Cadwick le era stato profondamente antipatico fin dal principio, ma se non altro l'aveva lasciata in pace. Ora non poteva più contare neppure su questo. Quell'uomo non era uno stupido.
Di sicuro si era accorto di averla messa alle strette quel mattino e ci avrebbe riprovato. Forse doveva cercarsi un altro alloggio. Ma Langbury era piccola. Alla fine un trasloco non sarebbe bastato a dissuadere Mr. Cadwick dal perseguitarla. E poi si era imposta per principio di non restare troppo a lungo in uno stesso posto. Era meglio sloggiare prima che tutti cominciassero a fare troppe domande e a notare lo strano comportamento della forestiera.
L'idea di non dover soggiornare ancora a lungo nella topaia buia di Mr. Cadwick la rianimò; accelerò il passo e tenne la testa più alta del solito.
Capitolo 2.
Il rifiuto di Mare Reeve di collaborare con lei aveva profondamente turbato Rosanna, che però si sforzò di essere ragionevole, dicendosi che questo non doveva ostacolare il suo lavoro. Nick le aveva fornito materiale d'archivio sufficiente a ricostruire gli avvenimenti di cinque anni prima. Ma per ciò che riguardava l'attuale vita di Reeve avrebbe dovuto basarsi soltanto su supposizioni. Quel che sapeva era che non era riuscito a entrare nel grande studio legale e che si era messo in proprio. Non doveva essere stato facile per lui. Come gli andavano le cose oggi? Aveva rimesso ordine nella sua vita professionale e personale, aveva sgomberato il campo dalle accuse che erano state formulate contro di lui? Ma se la situazione era tornata normale perché tutto quel risentimento? Le era sembrato sfinito e frustrato quando lei aveva fatto il nome di Elaine.
Doveva ancora combattere con le conseguenze di quel mistero?
Attenzione alle speculazioni, si ammonì. Resta aderente ai fatti.
Quella mattina in albergo aveva visionato anche il materiale degli altri casi sui quali avrebbe dovuto scrivere. Un vecchio che otto anni prima era uscito di casa e di cui da allora si erano perdute le tracce. Il suo cadavere non era mai stato rinvenuto. Un giovane, che la sera aveva salutato i familiari ed era uscito per fare un salto a comperare delle birre e da allora non aveva più fatto ritorno. Una ragazza, che aveva appuntamento con il fidanzato alla fermata dell'autobus. Era uscita di casa ma alla fermata non era mai arrivata.
Il tragitto era di qualche metro soltanto, il ragazzo, che si trovava già alla fermata, avrebbe dovuto vederla arrivare. E altri due casi.
Sei in tutto.
Aveva molto da fare. Doveva contattare un sacco di persone, incontrarle, annotarsi le loro dichiarazioni. E poi scrivere i suoi articoli.
Non aveva tempo di soffermarsi troppo sulla storia di Elaine e di farsi bloccare per giorni dal rifiuto di Reeve. Nick l'aveva ammonita di evitare di dare troppo peso al caso di Elaine sulla base del suo coinvolgimento personale.
Si sentì bussare alla porta e Cedric entrò, fresco di doccia, con la sua solita giacca di pelle e i jeans lisi. «giorno», disse.
A lei venne da ridere. «Sono le undici passate. Ti sei svegliato adesso?»
Lui sbadigliò. «Sì. E tu? Sei già al lavoro?»
«Ho esaminato tutti i casi. C'è un bel po'"da fare.»
«Un motivo in più per lasciar perdere Mare Reeve e cominciare sul serio», disse Cedric. La sera prima al ristorante lei gli aveva raccontato depressa della telefonata avuta con l'avvocato e Cedric l'aveva spronata a non farsi scoraggiare da questo intoppo. Lei aveva cercato di spiegargli quello che provava: che tramite Reeve voleva avvicinarsi di più a Elaine, non per il giornale, ma per se stessa. «Non posso dire di sentirmi direttamente in colpa per l'accaduto», aveva spiegato, «ma non posso negare che fosse il mio matrimonio quello a cui voleva partecipare. Aveva lasciato Kingston St. Mary ed era andata a Londra per via del mio invito. Per la Elaine che conoscevamo era un'impresa enorme. È arrivata fino a Heathrow e poi è scomparsa.» «Non è colpa tua.»
«Lo so. A ogni modo sono stata io la causa iniziale. E in qualche modo... sono una parte della storia. Senza di me - senza il mio matrimonio - forse sarebbe andato tutto diversamente.»
«Ma non puoi continuare a tormentarti per questo. Non serve a nessuno. Tutti siamo parte di qualche storia e non per questo siamo responsabili ogni volta dell'esito che prende. Ti sei sposata e hai compiuto un gesto carino invitando la tua vecchia amica Elaine. Qualcosa è andato storto, ma non puoi dire con sicurezza nemmeno se abbia a che fare con il suo viaggio. Forse Elaine voleva sfruttare il tuo invito come pretesto. Per esempio per scappare con un amante sposato. E lo avrebbe fatto lo stesso la settimana dopo direttamente da Kingston St. Mary!»
«Cedric, per favore! Elaine e un amante sposato. È già difficile immaginare Elaine con un amante e basta!» Avevano riso insieme, ma non era stata una risata allegra e spensierata. Il tragico destino della famiglia Dawson incombeva troppo cupo sull'intera faccenda, una tragedia che, come pensava a volte Rosanna, era troppo grande da portare per una famiglia sola. Due figli, il fratello paralizzato, la sorella scomparsa nel nulla. I genitori entrambi morti da tempo, e questo condannava l'unico superstite a vivere in un istituto. «È strano», disse ora Rosanna, «come in tutti questi anni io non abbia mai pensato a Elaine e al suo destino e adesso di colpo mi risulta tanto difficile mantenere un atteggiamento distaccato. Sono troppo coinvolta, Cedric. Ma rinunciare a tutto per questo...» «Sarebbe come darla vinta a Dennis», la interruppe Cedric. «A proposito: hai già sentito il tuo consorte oggi?»
Lei scrollò il capo. «No. E non l'ho chiamato neppure io. Ieri ha troncato la comunicazione dichiarando che era stato detto tutto. Trovo che spetti a lui fare il primo passo.»
«Se riesci a restare coerente con questo proposito, hai tutta la mia ammirazione», disse Cedric alquanto scettico. Guardò l'ora. «Devo andare. Ho appuntamento a Cambridge con una vecchia compagna di università. Mi presti l'auto?»
Avevano noleggiato insieme un'auto da Kingston St. Mary a Londra. Rosanna annuì. «Non mi serve. Cedric...» Esitò. «Sì?»
«No, niente.» Non era il momento di tenergli una lezione su come sprecava il proprio tempo. Su come vivesse alla giornata, invece di costruire qualcosa.
Non aveva voglia di litigare con lui. «Niente, davvero», ripetè.
Lui apparve sollevato. Evidentemente intuiva quali pensieri le fossero passati per la testa.
«Devo andare», disse. «Stammi bene! Ci vediamo stasera.»
Aprì la porta, ma si fermò. «Mi era venuta in mente una cosa», disse. «Siccome Reeve non vuole parlare con te, ieri sera mi hai accennato a un vicino di casa che vide lui ed Elaine quella sera e che lo riferì alla polizia. Forse è ancora vivo. Potresti provare a contattarlo.
Non è la stessa cosa, ma ha visto Elaine almeno una volta. E potrebbe raccontarti che genere di persona sia Reeve.»
Lei guardò il fratello. «A volte sei semplicemente geniale, Cedric!»
Lui sorrise. «Mi sta a cuore il tuo benessere spirituale. Buona giornata.» E scomparve.
Lei prese subito il fascicolo etichettato Dawson.
Come poteva trovare informazioni sull'uomo che all'epoca dei fatti segnalò Reeve alla polizia?
Capitolo 3.
Due ore più tardi era seduta di fronte all'ex vicino di casa di Mare Reeve e stentava a credere alla fortuna avuta nel rintracciare l'uomo e trovarlo pure in casa. Inoltre, si era rivelato più che disposto a parlare con lei. Ma la cosa non doveva sorprenderla: fin dai primi minuti si era resa conto di avere a che fare con un fanfarone millantatore. La storia di Reeve ed Elaine all'epoca e la parte da lui avuta sulla stampa erano stati probabilmente i momenti salienti della sua vita. Con tutta probabilità non gli pareva vero di potersi esprimere ancora una volta in proposito dopo tanti anni.
Non era stato difficile rintracciarlo. In uno degli articoli del 2003, Rosanna aveva trovato un indizio sull'indirizzo di Reeve: Belgravia, naturalmente. Il nome della via non veniva citato, ma si diceva che era una «via secondaria di King's Road, molto vicina a Sloane Square». Questo delimitava parecchio il raggio delle ricerche.
Un altro giornale aveva pubblicato una foto della casa. Faceva parte di una serie di cinque edifici a schiera, vecchi edifici di mattoni con ampi bovindi e tetti a capanna. Minuscoli giardini anteriori ben curati, vialetti lastricati. Qualche albero spoglio che, il giorno della foto, era carico di neve. Tutto il quartiere sembrava uscito da una fiaba. Sereno. Esclusivo. Molto costoso.
Il vicino non veniva mai citato con il suo nome per intero, la stampa lo identificava semplicemente come Richard H. (45). Se abitava ancora al solito indirizzo, lei l'avrebbe trovato. Si chiamava Richard Hall, adesso aveva cinquant'anni e occupava la villetta a destra dell'ex domicilio di Reeve. Aveva moglie e due figli e lavorava in una finanziaria. Tornava sempre a casa per pranzo, così Rosanna potè andare a trovarlo a metà giornata. Ovviamente lei si offrì di tornare in un orario diverso, per non disturbarlo durante il pasto, ma la prospettiva di poter raccontare ancora una volta tutta la storia e di finire nuovamente sui giornali fece passare la fame a Hall che chiese alla moglie, una biondina anonima con lo sguardo timido, di togliere il cibo dalla tavola.
«Me lo riscaldi per cena», disse e Mrs. Hall, senza fare commenti, provvide a sparecchiare la tavola in soggiorno.
Siccome il camino nella stanza era stato appena acceso, Hall propose di continuare l'incontro lì, avvicinò due sedie al fuoco e si accomodò davanti all'ospite. Rosanna lo osservò attentamente, ma senza farsi notare. Era alto, abbastanza slanciato, e portava un completo di taglio raffinato, ma il suo aspetto soffriva per il volto tondo e incolore, dagli occhi piccoli e troppo ravvicinati. Dava l'impressione di un individuo per niente attraente, che tentava di sfruttare al meglio le proprie caratteristiche fisiche, senza tuttavia riuscire appieno nell'impresa. A Rosanna parve di intuire che soffrisse di complessi di inferiorità, ma cercò di non dare interpretazioni psicologiche fuori luogo. Il suo aspetto la interessava soltanto nella misura in cui poteva fornirle una valutazione migliore della veridicità delle sue affermazioni. Intuiva che tendeva a esagerare e presentare come dati di fatto sue illazioni, ma probabilmente non era un bugiardo. «Sì», disse, «ho visto entrambi quella sera. Reeve e Miss Dawson. Arrivarono con l'auto di Reeve ed entrarono insieme in casa sua. Lui le portava la valigia. Di suo aveva solo una borsa da viaggio.» «Come faceva a sapere che si trattava proprio della valigia di Miss Dawson?»
«Era rossa, almeno a quanto mi parve di capire alla luce dei lampioni», rispose Hall, che pareva ricordare ancora ogni minimo dettaglio, «e aveva l'aria... da poco. Di plastica. Non era lo stile di Reeve.»
«Capisco. A che ora arrivarono?»
«Verso le sette. Ero alla finestra del salotto e aspettavo il ritorno di nostro figlio. Era stato a casa di un amico e doveva tornare per le sette. All'epoca aveva nove anni.»
«Che impressione le fece Elaine Dawson? Sempre che potesse farsene una, vista la distanza e la scarsa illuminazione.» «I lampioni qui sono molto potenti», disse Hall. «Riuscii a vederla molto bene. E la guardai anche con attenzione, perché ero... un po'"irritato.» «Irritato?»
«Miss Dawson non corrispondeva alla preda usuale di Reeve.» «Intende dire che di solito preferiva un altro genere di donna?» chiese Rosanna.
«Ecco», dichiarò Hall voluttuosamente, e Rosanna notò che per essere un uomo aveva una spiccata predilezione per i pettegolezzi, «all'incirca... diciamo un nove mesi prima di quella sera di gennaio, Mrs. Reeve se n'era andata di casa. Si era portata dietro anche il figlio.
Da allora Mare Reeve viveva da solo e a quanto ero riuscito a capire... c'erano un paio di conoscenze femminili nella sua vita.
Donne diverse. Che in genere si fermavano a dormire.»
L'hai spiato proprio per benino, pensò Rosanna, provando un moto di compassione per Reeve. Un incubo per un uomo in procinto di compiere il grande salto professionale se un vicino come quello avesse rivelato pubblicamente certi dettagli intimi.
«Ed Elaine Dawson non rientrava in questa categoria?»
«Assolutamente no. Le... accompagnatrici di Reeve erano donne di una bellezza superiore alla media. Con abiti eleganti e costosi. In genere avvocatesse, a quanto posso giudicare, o comunque donne che avevano a che fare con la sua professione. Donne con stile e di classe... a prescindere dal fatto che non trovassero niente di disdicevole in un'avventura di una notte. Ma, a tale proposito, i tempi sono cambiati.»
E tu eri terribilmente invidioso, tanto da spiare sera dopo sera dalla finestra di casa tua, pensò Rosanna. Te la sei proprio goduta a coglierlo in fallo. Te la godi ancora oggi!
«Invece, questa Miss Dawson faceva un'impressione del tutto diversa», proseguì Hall. «Tanto per cominciare, era molto giovane - e Reeve finora non si era mai portato a casa donne propriamente giovani. E poi era così... poco appariscente. Sì, era anonima, ecco la definizione giusta. Non era brutta, ma del tutto scialba. Portava un cappotto proprio orribile, di tessuto dozzinale e di pessimo taglio. E poi quella valigia di plastica. E i capelli - impossibili! Sembrava una campagnola che non ha nessuna idea di come rendersi più attraente ed esaltare la propria femminilità.»
Un'ottima descrizione della Elaine che aveva conosciuto anche Rosanna.
«Come le sembrò? Spaventata? Allegra?»
«Si capiva che aveva pianto. E molto. Non aveva certo l'aria contenta. Ma neppure spaventata. Piuttosto... ecco, un po'"apatica. Sfinita.»
«Ed entrarono entrambi dentro casa?»
«Sì, ma dopo un paio di minuti tornarono fuori.»
«Sì?»
«Io ero sempre alla finestra. Ero in ansia. Nostro figlio in genere era sempre puntuale. Mary - mia moglie - stava telefonando ai genitori del suo amico...»
«E cosa fecero Reeve ed Elaine?» «Si incamminarono verso King's Road.» «Le diedero l'impressione di...?»
«Di essere due fidanzati? Assolutamente no. Non si tenevano abbracciati, né per mano né altre cose del genere. Camminavano affiancati. Come due semplici conoscenti, senza un rapporto più intimo.»
«Sa dove fossero diretti?»
«Reeve dichiarò alla polizia che andarono a un ristorante italiano. La cosa dev'essere stata confermata anche dal proprietario. Potrebbe ricordarsi di loro. Ma ciò che accadde dopo...» Hall alzò le spalle.
«Lei non li vide più tornare indietro?»
«No. Mio figlio arrivò, poi cenammo, io controllai i compiti dei bambini, poi mi misi a guardare la televisione con mia moglie. Non mi affacciai più alla finestra.»
«E non vide neanche Reeve e Miss Dawson uscire per andare alla stazione del metrò il mattino successivo?»
«No. Non passo mica la vita a guardare fuori dalla finestra!» dichiarò Hall quasi risentito. «Di solito non mi interessa quello che fanno i miei vicini.»
«Capisco», disse Rosanna. Era convinta che invece sapesse benissimo che cosa facevano i suoi vicini. Sebbene provasse un vago senso di colpa nei confronti di Mare Reeve e si sentisse un po' sfrontata, formulò ugualmente la domanda successiva: «Lei sa perché Mrs. Reeve se n'era andata di casa?»
Hall si voltò verso la moglie, che nel frattempo stava ripiegando con cura la tovaglia. Si muoveva in modo così silenzioso, che Rosanna si era dimenticata della sua presenza. «Mary, eri tu che parlavi più spesso con la Reeve.»
«Non ci parlavo spesso», obiettò Mrs. Hall, «e lei non raccontava molto di sé. So che sua madre era malata e viveva in una casa di riposo nei pressi di Cambridge. Lei andava spesso a trovarla. Quando tornava era sempre... turbata. La sofferenza della madre l'angosciava molto. Mrs. Reeve era una donna molto sensibile. Le piaceva dipingere. Realizzava acquerelli molto belli. Ho sentito che era molto nota nei circoli artistici.»
«Mi hai raccontato di averla incontrata un paio di volte che usciva di casa in lacrime», le ricordò il marito spazientito.
«È vero. Ma non le ho mai rivolto la parola. Anzi, facevo finta di non vederla. Pensavo... ecco, che forse non aveva piacere a farsi vedere così. Per questo non so che cosa l'avesse... sconvolta tanto.»
«Certo, a volte era impossibile non sentire i litigi che scoppiavano qui accanto», disse Mr. Hall, e dalla sua espressione era evidente quanto gli avesse fatto piacere la cosa. «Se vuole sapere la mia opinione...» Fece una pausa eloquente.
In realtà la cosa non mi interessa affatto, pensò Rosanna a disagio, né ha a che fare con la mia storia.
Ricordò tuttavia che all'epoca dei fatti la situazione coniugale di Mare Reeve aveva avuto una certa risonanza sui media. Le tornarono in mente i diversi articoli, apparsi soprattutto nell'ambito delle riviste di gossip. Nessuno aveva tralasciato di segnalare come Mrs.
Reeve se ne fosse andata portandosi via il figlio e tra le righe erano state formulate le ipotesi più disparate sui motivi di tale decisione: dalle continue infedeltà di Mr. Reeve, a una morbosa inclinazione per le ragazzine, fino a ripetute violenze da lui perpetrate sui familiari.
Per quanto era possibile fare senza il rischio di essere denunciati per diffamazione, tutti avevano cercato di dipingere Reeve come un maniaco compulsivo, in modo da poter poi porre ai lettori l'inquietante interrogativo: È stato Mare Reeve a uccidere Elaine Dawson?
Rosanna era rimasta muta, ma Mr. Hall non poté esimersi dall'esprimere il proprio punto di vista. «Se vuole sapere la mia opinione», ripeté, «si era stufata delle sue scappatelle. E non mi sorprenderei se...» «Sì?»
«Credo che fosse in grado di dare fuori di matto, quando le cose non andavano come voleva lui. E può darsi che la povera Mrs. Reeve ne avesse patito le conseguenze a volte.»
Rosanna annuì lentamente. «Però non ha prove concrete a suffragare questa sua ipotesi?»
«Intende del fatto che lui la maltrattasse? Che la tradisse continuamente? Ovvio che no. Era un uomo molto ambizioso e molto furbo. Tipi come lui sanno camuffare alla perfezione. Ma... era come... era nell'aria, mi capisce? Certe persone si intuisce che dietro la loro facciata rispettabile nascondono qualcosa di spiacevole. È come un cattivo odore, si sente, ma non si sa spiegare. Reeve mi è stato antipatico e sospetto fin dal principio. Sono ben contento che dopo il divorzio se ne sia andato da qui.»
Rosanna aveva preso qualche appunto. Ora richiuse il taccuino nero e lo infilò nella borsa, poi si alzò.
«Non voglio abusare ulteriormente del suo tempo, Mr. Hall», disse. «La ringrazio infinitamente della sua disponibilità.»
Anche Hall si alzò. «È stato un piacere. Ecco», aggiunse, porgendole un biglietto da visita, «qui trova tutte le indicazioni se ha bisogno di contattarmi. Telefono di casa e dell'ufficio, indirizzo e- mail, fax... resto a sua completa disposizione.»
Sembrava non aspettare altro.
«Benissimo», replicò Rosanna. «Mi rivolgerò di nuovo a lei, nel caso mi occorrano altre informazioni.»
Mentre si avviavano alla porta, lei osservò in tono provocatorio: «Lei quindi pensa che Mare Reeve abbia a che fare con la scomparsa di Elaine Dawson?»
Lui si fermò. «Non ho detto niente del genere.» «Ma...»
«Mettiamola così: se venisse fuori che è implicato in qualche modo, la cosa non mi sorprenderebbe.» Le aprì la porta. Un'aria fredda e umida li investì. Aveva cominciato a piovere.
«No», ripeté con convinzione, «non mi sorprenderebbe affatto.»
Capitolo 4.
Georgina Ennis amava il suo cane Bluebird, un incrocio di labrador nero e non- so- cosa, che da cucciolo aveva il manto con riflessi bluastri da cui era derivato il suo nome. Adesso era di un colore più tendente al grigio, perché aveva raggiunto orgogliosamente i dodici anni di età. Georgina, che era sempre stata sfortunata con gli uomini e adesso, a cinquant'anni, aveva deciso di mettere una pietra sopra ogni aspirazione al grande amore e di accontentarsi della vita da single, considerava Bluebird il suo unico punto di riferimento e non desiderava altro se non che il cane vivesse ancora tanti anni insieme a lei. Ma nelle giornate come quella pensava con un po'"d'invidia, e quindi nel contempo con molti sensi di colpa, a chi non possedeva un cane. E che pertanto non era costretto a uscire di casa con un tempo simile.
Il mese di febbraio aveva portato nell'ultima settimana già un annuncio della primavera imminente, ma tra sabato e domenica aveva nevicato di nuovo e adesso era tutto ammantato di gelida pioggia e grigiore. Sembrava quasi di essere tornati a novembre.
Georgina, che lavorava in un salone di parrucchieri, avrebbe voluto tanto ordinare una pizza come la sua collega e passare tre quarti d'ora in santa pace nel piccolo retrobottega, ma come tutti i giorni, durante la pausa pranzo, doveva correre a casa per fare un giro con Bluebird. Il cane era felicissimo quando la vedeva e si metteva a saltare di gioia non appena lei afferrava il guinzaglio. La sua passione per le passeggiate non era diminuita con l'età.
Georgina abitava a Epping, un comune a nord di Londra, e il suo appartamento era a pochi passi dalla Epping Forest, il grande polmone verde che nel fine settimana accoglieva frotte di londinesi a caccia di relax. Si poteva passeggiare per ore, fare splendide gite in bicicletta, organizzare picnic, oppure mettersi seduti a sognare su una delle numerose panchine. Anche durante la settimana si incontravano molte persone, così che a Georgina capitava raramente di sentirsi sola nel vasto bosco. E in ogni caso non aveva paura.
Aveva con sé Bluebird. Aveva un aspetto imponente ed era tuttora in forma e lei dubitava che qualcuno la potesse aggredire finché il cane le stava accanto.
In quella fredda, umida, orribile giornata ovviamente non c'era nessuno in giro. Georgina partì con andatura spedita, un po'"nella speranza di riscaldarsi, un po'"perché la sua pausa pranzo era limitata e non poteva perdere troppo tempo, se voleva fare il solito giro. Da un ampio sentiero di sabbia che si inoltrava nel bosco, imboccava un sentiero più stretto, che nessuno avrebbe notato, se non lo conosceva già. Gli alberi in quel punto erano così fitti da nascondere quasi completamente la vista del cielo, e inoltre il terreno in quella stagione era un pantano. Georgina utilizzava quel tracciato soltanto perché dopo un po'"sbucava su un altro sentiero più largo che la riconduceva al punto di partenza. Quel giorno si pentiva di aver seguito l'abitudine e di non essere tornata semplicemente indietro.
I rami bassi e grondanti la sferzavano in viso e più di una volta era scivolata nel fango rischiando di cadere. Calzava alti stivali di gomma imbottiti, che poteva lavare sotto la doccia, ma per riportare Bluebird in condizioni accettabili ci sarebbe voluto un atto di forza.
Per motivi inspiegabili era assalito dal panico quando lei gli si avvicinava con un panno. Sarebbe arrivata in ritardo al lavoro e la sua capa, Mrs. Wentworth, avrebbe alzato le sopracciglia contrariata. Ma dove si era cacciato Bluebird?
Georgina si fermò. Procedendo a capo chino per proteggersi dalla pioggia e dai rami, non aveva più badato al suo cane. In genere lui la precedeva di un tratto, ma si girava regolarmente, per accertarsi che lei lo seguisse. Solo ora lei si rese conto che era da un po' che non lo faceva.
«Bluebird!» lo chiamò. «Qui, Bluebird!»
Un uccello si alzò in volo con un richiamo stridulo, ma per il resto tutto rimase silenzioso.
Lei fece qualche passo indietro. «Bluebird! Vieni qui! Subito! Bluebird!»
Lui non era un cacciatore. Non le era mai capitato di vederlo cacciare conigli o caprioli, per questo dubitava che l'avesse fatto ora.
Fu assalita da una sensazione che non aveva mai provato in tutti gli anni delle passeggiate nella Epping Forest: una vaga e indistinta paura che si annunciava con una lieve stretta allo stomaco e un prurito alle mani e cresceva impercettibilmente. Si rese conto di essere del tutto sola. Il bosco intorno a lei era impenetrabile e buio. Era lontanissima dalle altre persone.
Un uccello gracchiò da qualche parte. La pioggia scrosciava. Non devi farti suggestionare, si disse, il tuo cane si dev'essere semplicemente allontanato. Non è successo altro.
«Birdie!» lo chiamò, usando il suo diminutivo. «Birdie! Birdie, dove sei?»
Ascoltò l'eco della propria voce. Aveva l'impressione che non andasse molto lontana. La pioggia inghiottiva ogni suono. «Birdie!»
Di colpo le parve di captare un abbaiare lontano. Era così flebile che al primo momento pensò di essersi sbagliata. Tutti i muscoli del suo corpo erano tesi quando si rimise in ascolto. No, era proprio l'abbaiare di un cane. Molto distante, a quanto poteva giudicare. Poteva trattarsi di Bluebird.
Si affrettò lungo il sentiero, senza più badare ai pesanti rami che la colpivano in faccia. I suoi piedi facevano un rumore di risucchio nel fango. Sarebbe arrivata troppo tardi al negozio e probabilmente avrebbe avuto il viso tutto graffiato, come se fosse caduta vittima di una banda di delinquenti, ma non le importava. Si trattava di Bluebird.
II suo unico, autentico amico.
Alla fine del sentiero si fermò, col fiato corto. Aveva corso così tanto che le faceva male un fianco. In genere a quel punto avrebbe girato a destra sul sentiero più ampio, per tornare a casa, ma aveva avuto l'impressione che l'abbaiare non provenisse da quella parte. Chiamò di nuovo il cane. «Bluebird! Birdie!»
Di nuovo l'abbaiare. Questa volta un po'"più vicino. Proprio di fronte al punto in cui il sentierino da cui proveniva si immetteva in quello più battuto, le parve di scorgere un'apertura tra la vegetazione, quasi il proseguimento del viottolo fangoso appena percorso, ma ancora più stretto. E probabilmente più melmoso. Avanzò barcollando. Si ritrovò in un bosco così fitto da essere quasi impenetrabile. La pioggia le gocciolava nel colletto e lungo la schiena. Era gelida e orribile sulla pelle sudata. Quello che al principio somigliava a un minimo passaggio tra gli alberi, si chiudeva del tutto e lei fu costretta ad avanzare direttamente tra la fitta vegetazione.
Nel giro di pochi minuti aveva perso del tutto l'orientamento, non sapeva più da che parte era venuta né dove stesse andando.
Il suo unico punto di riferimento era l'abbaiare del cane - Birdie? - che rispondeva puntuale tutte le volte che lei si fermava e lo chiamava. Le venne in mente che si sarebbe potuta perdere in quella vasta area boschiva. Aveva letto di persone a cui era accaduto, escursionisti che non erano più riusciti a ritrovare la strada. Allora erano state istituite pattuglie di ricerca che avevano battuto al millimetro tutta la zona.
Quando sarebbero venuti a cercare lei? Chi si sarebbe accorto della sua mancanza? La capa, le colleghe. Quanto tempo sarebbe passato prima che si preoccupassero sul serio? E quanto tempo sarebbe riuscita a sopravvivere nel bosco, al freddo e sotto la pioggia? Si fermò a riprendere fiato e a tranquillizzarsi. Non siamo ancora a questo punto. Una volta che sei con Bluebird, è tutto a posto. Un cane sa ritrovare la strada.
Lo chiamò per nome. Il cane le rispose decisamente più vicino. Un ultimo tratto particolarmente ostico, lunghi e antipatici rami di rovo che la graffiavano e le si impigliavano tra i capelli, e poi si accorse che la luce diventava un po'"più intensa. Sbucò in una radura dove si trovava un piccolo stagno. Plumbeo come il cielo, le sponde ricoperte di canneti ed erba. La superficie dell'acqua era increspata dalla pioggia.
Nella foresta c'erano diversi laghetti, alcuni dei quali adatti alla balneazione. Il corpo forestale teneva pulite le rive, i prati tutt'intorno venivano tosati regolarmente ed erano state sistemate pure alcune panchine. Lo specchio d'acqua dove ora si trovava Georgina evidentemente non faceva parte di quelli. Era molto piccolo, difficile da raggiungere e circondato di fitto bosco. Una coppia di pernici si alzò in volo dal canneto. Il luogo dava l'impressione di non essere mai stato raggiunto da nessun essere umano, il che non doveva essere vero. Era solo un'impressione, dovuta alla stagione inclemente.
Per un attimo Georgina trasse un sospiro di sollievo, tornando a vedere il cielo, e si rallegrò di non avere più niente che le graffiasse il viso. Poi scorse Bluebird, che le veniva incontro a grandi balzi. Sembrava molto eccitato, abbaiava forte e in maniera insistente, come faceva di solito soltanto quando voleva che lei gli lanciasse una palla.
Si inginocchiò ad abbracciarlo. Il cane era fradicio, infangato, ma non le importava.
«Birdie, sciocchino, che cosa ci fai qui? Non puoi scappare così. Mi hai messo una tale paura. Adesso arriverò troppo tardi al lavoro e passerò un sacco di guai.»
Bluebird, che si solito amava sopra ogni cosa farsi coccolare, si sottrasse al suo abbraccio, fece qualche salto indietro e abbaiò di nuovo. Lei si alzò.
«Si può sapere che cosa c'è? Vuoi farmi vedere qualcosa?» Lui partì di corsa. Lei lo seguì. La pioggia scrosciava. Le pernici erano ammutolite. Nonostante fosse accaldata, Georgina ricominciò a rabbrividire. Come le era accaduto prima, quando aveva avvertito tutto il peso della propria solitudine. Di nuovo quella stretta allo stomaco. Quel senso di disagio. Che cosa aveva trovato Bluebird?
Vide la donna tra le canne. La vegetazione in quel punto era così fitta che non l'avrebbe mai notata se non avesse seguito il cane. La donna stava in una posizione strana, il corpo contratto e rigirato. Il viso era immerso nell'acqua torbida. Sulla brodaglia melmosa intorno al viso galleggiava una chioma bionda. Bluebird, che doveva essere lì da parecchio, aveva smosso completamente il fango intorno al corpo.
«Oddio», bisbigliò Georgina. «Oddio.»
Avrebbe voluto girarsi e scappare via più in fretta possibile, ma non riusciva a muoversi. Per qualche secondo rimase perfettamente immobile, a contemplare la scena che le si presentava davanti. Soltanto l'abbaiare concitato di Bluebird la strappò da quella paralisi.
Ma invece di fare ciò che desiderava e che anche una vocina in testa le ripeteva - Vattene di qui! Vattene di qui! si avvicinò alla donna, intrappolata in un contraddittorio incantesimo di raccapriccio.
Era un corpo ancora acerbo, magro, liscio, sodo. Lunghe gambe slanciate con calze nere strappate attorcigliate alle caviglie. Non calzava scarpe ma a poca distanza da lì Georgina aveva notato una scarpa nera con tacco a spillo che galleggiava sulla riva melmosa.
Lo slip della ragazza era all'altezza delle ginocchia, un minuscolo pezzo di biancheria nero e fradicio; se fosse strappato come le calze, Georgina non era in grado di dirlo. Le lunghe strisce di sangue secco che solcavano le cosce fin sotto alla vita della gonna attorcigliata sui fianchi erano abbastanza eloquenti: la ragazza era stata violentata con estrema brutalità, da qualche parte in quei boschi solitari, e poi... in preda alla disperazione era caduta con la faccia nel fango...
Non combaciava.
Georgina notò le braccia della ragazza, legate dietro la schiena con un pezzo di corda e ragionò che nessuno lega se stesso prima di suicidarsi, e questo la conduceva all'agghiacciante conclusione che qualcun altro, probabilmente l'aggressore, aveva trascinato fin qui la vittima inerme, abbandonandola come un sacco della spazzatura. L'immagine davanti a lei testimoniava non solo un'efferata crudeltà, ma anche un profondo disprezzo, una degradazione che travalicava l'atto di violenza in se stesso e privava la vittima della propria dignità anche nella morte.
Il richiamo stridulo di una pernice squarciò il silenzio che si era posato sulla radura e di colpo Georgina si ritrovò a pensare che tutto ciò che vedeva non era il risultato di azioni compiute giorni o ore prima, ma appena successe. Bluebird aveva disturbato l'aggressore, facendolo allontanare, ma molto probabilmente si trovava ancora nei paraggi ed era assai poco plausibile che si facesse dissuadere da un vecchio cane e da una donna dal completare l'opera che aveva in mente.
«Birdie», chiamò lei sottovoce, «presto, vieni! Andiamo via!» Bluebird abbaiò.
E se la donna fosse stata ancora viva? E se fosse appena... quanto poteva sopravvivere una persona con la faccia nell'acqua? Georgina non ne aveva idea, ma era sicura che non sarebbe stata più viva una volta che lei avesse trovato la via di casa e avesse chiamato la polizia da casa sua. Si oppose con tutte le energie alla paura che minacciava di sopraffarla, e si inoltrò nell'acqua della riva fino ad avvicinarsi al corpo.
«Ehi?» bisbigliò, trovandosi lei stessa terribilmente stupida.
Ovviamente non ottenne alcuna reazione. Era proprio accanto al povero corpo martoriato e dovette trattenere un violento conato di vomito. Non c'era puzzo, niente del genere, ma l'immagine era agghiacciante e per qualche motivo l'esserne parte in quella spaventosa solitudine, l'acqua torbida intorno agli stivali infangati, la pioggia implacabile ebbero la meglio sulla razionalità e l'autocontrollo di Georgina. Si abbandonò alla nausea, poi si chinò con i movimenti lenti di una vecchia, afferrò con entrambe le mani la testa della ragazza e la sollevò, girandola verso di sé.
Una schiuma biancastra fuoriusciva dal naso e dalle labbra socchiuse. Un viso tumefatto e incrostato di sangue. Occhi vitrei.
La ragazza era morta.
Georgina la lasciò ricadere nell'acqua, si voltò e vomitò di nuovo nel canneto, più volte, fino a tirare fuori solo bile, poi si allontanò barcollando dalla riva e chiamò con voce roca il cane. Vedendo che Bluebird non rispondeva, si ricordò del guinzaglio che teneva intorno al collo, lo prese, si avvicinò al labrador, glielo fissò al collare e diede un violento strattone. Bluebird, che non era abituato a un trattamento così brutale, la seguì docile e confuso. «Dobbiamo andare via», bisbigliò, «dobbiamo andarcene il più in fretta possibile!»
Si affrettarono verso il bosco. Con sollievo di Georgina, Bluebird la precedette, sicuro, senza apparenti esitazioni sulla direzione da prendere.
La pioggia si infittì, mescolandosi alle lacrime che inondavano il viso di Georgina senza che lei se ne rendesse conto.
Capitolo 5.
Mentre camminava verso la stazione del metrò di Sloane Square, poco distante dalla casa di Mr. Hall, Rosanna tirò fuori il cellulare e constatò di aver ricevuto una chiamata. Il numero indicato sul display le era vagamente familiare, e il sospetto su chi potesse averle telefonato venne confermato quando consultò l'agenda.
Imprecò. Mare Reeve. Proprio la sua chiamata aveva perso, quasi sicuramente mentre ascoltava le pompose declamazioni a voce alta di Mr. Hall. Era fuori dal giro da troppo tempo, altrimenti le sarebbe venuto in mente di togliere il cellulare dalla borsa e di tenerlo sul tavolo davanti a sé.
Visto come pioveva, valutò brevemente se non fosse il caso di ripararsi nella stazione del metrò prima di ritelefonare a Reeve, ma poi ci rinunciò. Certo, sarebbe stata all'asciutto, ma anche circondata da tantissime orecchie pronte ad ascoltare la sua telefonata. Qui, in fondo alla stradina secondaria, era sì sotto la pioggia, ma se non altro non c'era anima viva in giro. Ormai era già fradicia, quindi non faceva differenza.
Anche stavolta Reeve rispose al secondo squillo.
«Mrs. Hamilton», disse. Evidentemente aveva registrato il suo numero nella rubrica del telefono.
«Mi aveva chiamato, Mr. Reeve? Ero in giro in città e non ho sentito il telefono.» Non gli rivelò di essere davanti al suo ex domicilio e di aver appena appreso dal suo ex vicino particolari intimi sulla sua vita privata. Certe informazioni non sarebbero servite di sicuro a creare un clima di fiducia tra di loro.
«Eravamo d'accordo che l'avrei richiamata dopo il nostro colloquio di ieri», disse Reeve, «e mi rincresce informarla che purtroppo non ho cambiato posizione da allora. Non ho alcun interesse a essere collegato ancora una volta a tutta la storia. Forse riesce a capirlo.» Il problema era proprio che lo capiva fin troppo bene, ma che il suo interesse invece non era di lasciarlo in pace. Con una decisione fulminea optò per una strategia diversa, ovvero quella dell'assoluta sincerità.
«Mr. Reeve, posso capirla benissimo», disse, giocando a carte scoperte, «davvero, e la prego di credermi se le dico che il ruolo di giornalista d'assalto che tanto la infastidisce non mi si addice affatto. Deve sapere... ecco, ieri non le ho rivelato fino in fondo le... le mie motivazioni.» «Le sue motivazioni?»
«Sì... è vero che mi sto occupando di una serie... ma c'è un motivo preciso per cui sono stata scelta proprio io per realizzarla, sebbene non mi occupi più di giornalismo da cinque anni...» Fece un profondo respiro. «Io sono... ero amica di Elaine Dawson.» «Ah», replicò lui sorpreso.
Lei si affrettò a correggere il tiro. L'istinto le diceva che, se voleva ottenere qualcosa da Reeve, doveva essere del tutto sincera. «Ecco, non eravamo proprio amiche, ma ci conoscevamo fin da bambine. Siamo cresciute nello stesso paese. Elaine aveva sette anni meno di me. Ma eravamo spesso insieme.»
«Capisco», disse Reeve. «Quindi, oltre all'incarico professionale, lei nutre anche un interesse personale per la vicenda?» Lei annuì, anche se lui non poteva vederla. «Esatto, proprio così. Non so se all'epoca Elaine le avesse raccontato quale fosse lo scopo del suo viaggio a Gibilterra...»
Lui rimase qualche istante in silenzio a riflettere. «Se non ricordo male, era stata invitata a un matrimonio.»
«Sì, il mio matrimonio, Mr. Reeve. Mi sono sposata l'11 gennaio 2003 a Gibilterra. Avevo invitato Elaine alla cerimonia, ma non è mai arrivata. Non posso dire di sentirmi in colpa per la sua sparizione.
Ma di sicuro... coinvolta.»
«Capisco», ripeté Mare Reeve.
Rosanna ebbe l'impressione che capisse davvero. «Lei è l'ultima persona ad averla vista e ad aver parlato con Elaine», proseguì, «quanto meno l'ultima di cui io sia a conoscenza. Mi piacerebbe sapere com'era, che cosa le raccontò, che impressione le fece. Per cinque anni mi sono disinteressata di lei e del suo destino, ma adesso mi rendo conto di avere un profondo bisogno di riavvicinarmi a lei. In questo modo mi pare di non dimenticarla del tutto. Di darle la considerazione che si meritava, come persona.» «Mrs. Hamilton...»
«Potrebbe acconsentire a incontrarmi in privato? Le garantisco che non inserirò niente della nostra conversazione nel mio articolo.
Non prendo appunti, non registro niente.»
«Il suo capo redattore non ne resterà entusiasta.»
«Il mio capo redattore non lo verrà a sapere.»
Lui esitava ancora. Del resto non poteva fare a meno di considerare il suo ruolo come rappresentante della stampa e quindi diffidare di lei - soprattutto vista la sua storia pregressa.
«La prego», insistette lei. «Non voglio niente da lei, davvero.
Mi interessa soltanto sapere di Elaine. Dirò a Nick - il mio capo - che lei non ha acconsentito a parlare con me.»
«Le faccio una proposta», rispose Reeve. «Ci incontriamo, così potremo conoscerci di persona. E poi deciderò quanto aprirmi con lei.»
Lei era sollevata. «La ringrazio infinitamente. Vuole che venga nel suo studio?»
«Oggi in giornata non è possibile», replicò lui. «Che ne direbbe di stasera? Possiamo andare a mangiare da qualche parte?» «Volentieri. In che zona di Londra abita?» «Dove alloggia lei?»
«All'Hilton su Park Lane.» Aveva capito che lui non voleva farla avvicinare al proprio territorio. Né allo studio né a casa sua. Era come un bambino scottato. Manteneva le distanze. Un incontro su un terreno neutrale il più possibile lontano da casa sua. «Allora verrò a prenderla lì per le sette», propose lui. «Arrivederci, Mrs. Hamilton.»
Lei lo salutò e infilò in tasca il cellulare grondante. La pioggia era diventata ancora più intensa. Si chiese che cosa ne avrebbe pensato Nick dell'accordo che aveva appena concluso e per istinto chinò la testa tra le spalle pensando alla reazione incollerita del suo capo redattore.
Con l'acqua che le sciaguattava nelle scarpe, percorse l'ultimo tratto di strada fino al metrò. Voleva tornare in albergo, farsi un bel bagno caldo, ordinare un sandwich e magari pure un bicchiere di vino.
Era convinta di esserseli meritati.
Capitolo 6.
Gli agenti Burns e Carley tornarono ancora una volta a bussare alla porta dei Biggs nel tardo pomeriggio. Venne ad aprire Gordon, che provava una strana sensazione tutte le volte che vedeva la polizia a casa sua. Stavolta però il presentimento era ancora più opprimente. Non gli piaceva affatto l'espressione dei due poliziotti. «Mr. Biggs», disse Carley, poi tacque e lanciò un'occhiata al collega. «Possiamo entrare?» chiese Burns.
«Certo», rispose Gordon, anche se gli sarebbe piaciuto tanto mandarli al diavolo. I piedipiatti non portavano mai niente di buono e quei due oggi gli sembravano particolarmente poco promettenti.
Li fece accomodare in cucina, come il giorno precedente. Sally e Angela erano sedute a tavola, mentre Patrick, uno dei figli, era appoggiato in un angolo con una lattina di birra in mano. Sally aveva bevuto come al suo solito, ma siccome in mattinata era stata a un appuntamento dal medico, e aveva quindi trascorso tre ore lontana da casa e dalla grappa, era parecchio indietro rispetto al consumo abituale. Anzi, per i suoi standard era praticamente sobria. Sfogliava una rivista, mentre la figlia sorseggiava un tè.
«Di nuovo la polizia», annunciò Gordon.
Per qualche motivo anche gli altri intuirono all'istante che c'era una minaccia nell'aria. Angela si alzò controvoglia. Patrick abbassò la lattina di birra che si era appena portato alle labbra. Sally alzò lo sguardo.
«Sì?» domandò allarmata.
Burns si schiarì la voce. «Devo premettere che non siamo affatto certi che si tratti di vostra figlia Linda...» esordì. «L'avete trovata?» chiese Angela.
«Ancora non lo sappiamo, appunto», rispose Burns. Esitò, poi si buttò. «Oggi verso mezzogiorno, una donna che passeggiava nella Epping Forest ha trovato... il cadavere di una giovane. In base alla descrizione potrebbe trattarsi di Linda.»
«Il cadavere?» domandò Gordon faticosamente.
Sally si premette una mano sulla bocca.
«Merda», commentò Patrick.
«Come abbiamo detto», intervenne Carley, «non possiamo dirlo con certezza. Per questo sarebbe opportuno che uno di voi ci accompagnasse per identificare la salma - o viceversa per escludere che si tratti di Linda.»
«Che cosa ci faceva nella Epping Forest?» domandò Gordon. «Non ci era mai andata.»
«Per il momento non siamo in grado di stabilire se il delitto sia stato commesso lì o altrove. Il medico legale deve ancora concludere il suo esame. Il fatto che il cadavere sia rimasto sotto la pioggia non facilita certo la ricostruzione delle circostanze della morte.» «Come... voglio dire... che cosa...» cominciò Angela, senza riuscire a formulare compiutamente la propria domanda.
Burns tuttavia comprese perfettamente che cosa volesse chiedere. «Ancora non abbiamo il referto definitivo. Pare che la morte sia avvenuta per annegamento.»
«Ma Linda sapeva nuotare», intervenne Patrick dal suo angolo. «E anche bene.»
«È vero», confermò Sally. «Da bambina aveva fatto parte persino di una squadra di nuoto. Aveva vinto anche due medaglie, vero Gordon?»
«Esatto.» Una ventata di speranza soffiò sui volti dei presenti, una speranza che l'agente Burns fu costretto a spazzare via subito. «Non è annegata... e basta», disse cauto. «A quanto pare era... era stata legata e deposta sulla riva di un laghetto. Doveva essere priva di sensi. Aveva la testa nell'acqua. È annegata per forza.» Silenzio. Siccome i Biggs non avevano un orologio in cucina, non si sentiva neppure il classico ticchettio delle lancette. Soltanto il frigorifero ronzava piano.
Dopo qualche secondo Carley disse: «Ma forse non si tratta di Linda, e vi angustiate inutilmente. Mr. Biggs, vuole accompagnarci lei?»
Gordon si passò una mano sul viso. La mano gli tremava leggermente. «È stata... violentata?» chiese piano.
«Prima di un'identificazione ufficiale non possiamo fornire altri dettagli», rispose Burns evasivo.
Sally si alzò. «Vengo anch'io», annunciò. «Gordon, vieni, andiamo insieme.»
«Mamma, credo che non sia il caso», obiettò Angela, cerea in volto.
«Ma io voglio andare», insistette Sally. «Forse quella che hanno trovato è proprio la mia Linda. Vieni, Gordon. Forse è la nostra bambina. Dobbiamo andare.»
«Devo mettermi le scarpe», disse Gordon. Portava un paio di pantofole di feltro che frusciarono tristi quando uscì dalla cucina. «Mamma», implorò Angela.
«Tu occupati dei tuoi fratelli», le ordinò Sally. «I piccoli torneranno da scuola a momenti. Non ditegli niente ancora. Preparagli la cena e mettili a letto, ok? Mi posso fidare di te?»
«Ok», rispose Angela scoppiando a piangere.
«Patrick, tu aiutala», disse Sally.
Di solito Patrick avrebbe obiettato con veemenza a simili disposizioni, ma stavolta annuì. «Certo, mamma.»
Seguita dai due poliziotti, anche Sally uscì dalla cucina. Angela li guardò allontanarsi. Per la prima volta in vita sua provava l'impulso irrefrenabile di inginocchiarsi a pregare a voce alta e non semplicemente dentro di sé. Però non lo fece. Non era abitudine nella sua famiglia e temeva che il fratello potesse ridere di lei.
Capitolo 7.
Mancavano pochi minuti alle sette e Rosanna aveva appena finito di prepararsi per l'appuntamento con Mare Reeve, quando il suo cellulare squillò. Per un attimo temette fosse Reeve che disdiceva l'incontro, perché ci aveva ripensato, ma poi riconobbe sul display il numero di casa sua a Gibilterra. Dennis. Finalmente. Il suo silenzio durava da più di ventiquattro ore e pian piano l'aveva fatta innervosire. Possibile che ce l'avesse fino a quel punto con lei? «Pronto?» rispose.
Dopo un momento di silenzio una voce esitante dall'altra parte chiese: «Rosanna?»
Robert. Era Robert, non Dennis. Era delusa, ma decise di non manifestarlo.
«Robert! Che bello sentirti. Come stai?» Aveva un tono di voce troppo entusiasta, se ne rendeva conto da sola. Chissà se lui sapeva che tra il padre e la matrigna c'erano degli attriti? «Bene», rispose lui con il tono distaccato richiesto dalla sua età. «E tu?»
«Anch'io, grazie. Il tempo è orribile, ma è normale in Inghilterra.» «Papà dice sempre che non si può vivere lì per colpa del tempo», osservò Robert.
«Lo so.» Lei si rimproverò mentalmente. Il figliastro di certo non le aveva telefonato per parlare con lei del tempo, ma probabilmente non sapeva come affrontare l'argomento che gli stava a cuore.
«Rob, tuo padre e io abbiamo litigato», disse. «Spero che non sia troppo di cattivo umore.»
Si capiva chiaramente che Rob era sollevato per il fatto che lei avesse affrontato il tema spinoso. «Ha un umore di merda.» Sebbene si sforzasse di apparire distaccato, era chiaro che soffriva. «Non posso fare niente. Sabato prossimo ci sarà una festa delle ultime classi della scuola. Alcuni di noi sono stati invitati. E adesso mi ha detto che non posso andarci.»
«Oh, Rob! Lo so che per te è difficile. Ma in effetti non siete ancora un po'"giovani per certe cose? Voglio dire, le classi dell'ultimo anno... sono ragazzi parecchio più grandi di voi.»
«Hanno diciotto anni! Io ne ho sedici. Dov'è tutta "sta differenza?» «Sono due anni, Rob. Due anni di differenza. Ecco dove sta.» «Gli altri possono andare. Soltanto io no. Papà è...» Tacque per cercare la parola giusta. Evidentemente non gli veniva in mente niente che potesse anche solo lontanamente descrivere quanto fosse insopportabile suo padre. «Papà è cattivo, ecco», disse alla fine, ma si capiva che era un aggettivo ancora troppo benevolo per lui. La solita vecchia storia. Rosanna capiva perfettamente le remore e le preoccupazioni di Dennis, ma immaginava anche benissimo che tono avesse usato per manifestarle. Il problema di Dennis non era tanto che volesse proteggere il figlio dai pericoli, ma il modo in cui lo faceva. Quando Dennis pensava a una festa di fine scuola, gli venivano in mente solo associazioni negative del tipo: alcol, droga, sesso incontrollato e senza protezione. Per motivi che a Rosanna restavano tuttora oscuri, non riusciva a intavolare un dialogo sereno e ragionevole con il figlio, in modo da spiegargli e fargli magari capire i propri timori. Impartiva un divieto categorico, in tono rude e autoritario, ogni frase che sottintendeva un tacito ma inconfondibile niente obiezioni! Ogni volta l'escalation tra i due era inevitabile già in partenza. E in genere non bastava neppure la diplomazia di Rosanna per ricomporre almeno in parte il conflitto. «Il tuo papà non è cattivo, Robert», disse, «non devi nemmeno pensarlo. È solo... si preoccupa per te. Non riesci a capirlo? Ha paura che tu beva troppo. Che tutti bevano troppo. Che i più grandi salgano in auto con voi e partano ubriachi. Pensa sempre a cose che lo turbano profondamente.» «Ma...»
«Il tuo papà ti vuole bene, Rob. A volte è un po'"brusco, ma ti vuole molto bene. Davvero.»
Rob rimase un attimo zitto e Rosanna pensò che mai come in quel momento il silenzio le era sembrato più incredulo di così. Poi, con voce volutamente indifferente, lui le chiese: «Quando pensi di tornare?»
«Il prima possibile, Rob. Mi mancate molto anche voi. In particolare mi manchi tu.» Ed era vero. Il suo viso lentigginoso. La perenne espressione strafottente in faccia e nella voce, dalla quale si capiva quanto fosse insicuro. Dietro i suoi modi da grande era ancora un bambino, un ragazzino sensibile che non aveva mai avuto una madre, che aveva rappresentato un grosso guaio per i genitori ancora troppo giovani e inesperti, quando era capitato loro non voluto e non cercato nel momento sbagliato. Alla fine era stato suo padre a prenderlo con sé, ma Rosanna sapeva che non lo aveva fatto con molto entusiasmo. E il piccolo Roby forse l'aveva intuito più di quanto le persone intorno a lui avessero capito. «Sì, certo», disse ora.
Nello stesso istante suonò il telefono della camera. «Aspetta un momento», disse Rosanna, alzando la cornetta. Era il portiere dell'albergo. «Mrs. Hamilton, è arrivato Mr. Reeve.» «Scendo subito», rispose Rosanna. Tornò a parlare con Robert. «Rob, senti, adesso devo proprio...»
«Chi è Mr. Reeve?» domandò Robert diffidente. Evidentemente aveva sentito le parole del portiere.
«È una persona che ha a che fare con gli articoli che devo scrivere.
Un testimone, per così dire. Devo fargli qualche domanda.»
«Aha. Ok. Allora... stammi bene. Ciao!» disse Robert riagganciando.
Lei spense il cellulare e rimase qualche istante a riflettere. Quando Robert le aveva chiesto di Reeve, aveva colto nella sua voce un autentico terrore. Il ragazzo non l'aveva chiamata soltanto per lamentarsi del comportamento paterno. Aveva telefonato per stabilire un contatto con lei, per accertarsi letteralmente che lei esistesse ancora, che facesse ancora parte della sua vita. Era al corrente del litigio tra lei e suo padre. Probabilmente sapeva molto di più: che non le piaceva vivere a Gibilterra. Che aveva nostalgia del suo vecchio lavoro. Che la convivenza con Dennis era costellata da tanti piccoli dissapori quotidiani - e da una crescente frustrazione da parte di lei. Le era sempre stato chiaro quanto Robert fosse stato entusiasta di accoglierla come moglie di suo padre e madre per sé, ma per la prima volta si rendeva conto che lui viveva nel costante timore che la famiglia finalmente ottenuta intorno a sé potesse disgregarsi nuovamente. Soffriva davvero per il viaggio in Inghilterra della matrigna, perché non era sicuro che lei sarebbe tornata. Dopo tutto non era la sua madre biologica. Ma pure lei lo aveva lasciato.
Quando lui aveva solo quattro settimane, la donna che lo aveva messo al mondo l'aveva affidato piangendo all'uomo con cui l'aveva concepito, urlando isterica: «Non ce la faccio! Non posso! Non posso!»
Ovviamente Robert non aveva vissuto quel momento in maniera consapevole. Eppure era stato un pezzo decisivo della sua biografia e del suo essere, si era radicato saldamente nei suoi sogni e nelle sue paure.
Ah, Rob, pensò Rosanna, se potessi credermi... certo che torno a casa da te. Naturale!
Avrebbe voluto richiamarlo subito per dirgli che gli voleva bene e che lui faceva parte della sua vita, ma non le sembrava il momento giusto. La frase, detta così, l'avrebbe profondamente turbato. Avevano bisogno di parlare a lungo dell'argomento che non poteva essere affrontato per telefono. E di sotto nella hall c'era ad attenderla Mare Reeve.
Non aveva più avuto notizie di Cedric, ma gli aveva infilato un biglietto sotto la porta. Vado a cena con Mare Reeve. Prese il cappotto e uscì dalla camera.
Conosceva Reeve dalle foto sui giornali e sapeva che era un bell'uomo. Ma niente di più. Il viso le era sembrato imperscrutabile, l'espressione distaccata. Dalle foto non si riusciva a capire se fosse un uomo gioviale oppure freddo, allegro o serio, disponibile o introverso, cordiale o rude. Dalle telefonate fatte con lui aveva appreso che aveva una voce piacevole e che era molto educato.
Nient'altro. Si era fatta una sua immagine di lui, a partire da ciò che aveva letto sui giornali e arricchita dal recente dialogo con Mr. Hall. E poi aveva riassunto il tutto mentalmente in poche categorie. Attraente. Intelligente. Ambizioso. Carrierista. Schietto. Opportunista, o quanto meno calcolatore.
Gli aveva attribuito tutte le caratteristiche che si legano normalmente alla figura di un avvocato di successo. Se qualcuno le avesse chiesto di esprimere nuovamente un'opinione su di lui al termine della prima ora del loro incontro, le sarebbe venuto in mente dapprincipio un aggettivo soltanto: prudente. Era una delle persone più prudenti che avesse mai conosciuto.
Erano seduti in un ristorante indiano su Marshall Street. Lui le aveva chiesto se preferisse mangiare indiano o italiano, oppure se avesse qualche altra predilezione e lei si era resa conto all'improvviso di quanto fosse affamata. Il pensiero di un curry di agnello le fece venire letteralmente l'acquolina.
«Indiano» aveva risposto, e lui aveva annuito, dicendo: «Conosco un buon ristorante indiano a Soho. Se vuole...» «Volentieri.»
Lui guidava veloce e sicuro nel traffico londinese. Sembrava conoscere la città come le proprie tasche, perché due volte, rimasti bloccati in un ingorgo, aveva girato in viuzze secondarie che avevano fatto perdere l'orientamento a Rosanna, ma che l'avevano condotto esattamente dove voleva lui. Aveva trovato parcheggio nelle vicinanze del ristorante, anche se pareva umanamente impossibile che ci fosse posto, visto che le auto erano fitte fitte. Scendendo Rosanna si era chiesta se la Range Rover nera fosse la stessa che possedeva cinque anni prima. Era l'auto su cui era salita Elaine? Si era seduta sullo stesso sedile? La vettura non sembrava nuova, ma Rosanna non se la sentì di chiedere niente. Mare Reeve aveva acconsentito a incontrarla solo dopo molte insistenze e lei non voleva spaventarlo bombardandolo subito di domande, mostrando così il proprio volto di zelante giornalista.
Il ristorante era accogliente e tranquillo, c'era un ottimo profumo di spezie indiane e tutti i camerieri indossavano giacche ricamate e grandi turbanti. Era ancora presto e per di più era una serata feriale, così non c'erano molti avventori ai tavoli. Mare Reeve ne chiese uno nell'angolo più remoto. Rosanna capì che non voleva ascoltatori indesiderati.
Ordinarono la cena e, mentre aspettavano sorseggiando del vino, chiacchierarono del più e del meno. Rosanna raccontò qualcosa della sua vita a Gibilterra, poi parlarono del tempo in Inghilterra e della catastrofica situazione del traffico a Londra. La dichiarazione più personale che Reeve concesse fu: «A volte sogno di trasferirmi in campagna. Abbiamo luoghi magnifici in Inghilterra. Luoghi pieni di pace».
Lei lo osservava senza farsi notare. Per qualche motivo se l'era immaginato abbronzato, se non dal sole, almeno dalla lampada, e invece era molto pallido. Il tipico pallore invernale proprio degli abitanti dell'Europa centrale e settentrionale a metà febbraio. Capelli neri, qua e là spruzzati di grigio, camicia, cravatta, abito scuro. Probabilmente era uscito direttamente dallo studio. Aveva l'aria stanca.
Alla fine fu lui a compiere il primo passo. Assumendo un'espressione grave, si sporse leggermente in avanti e guardò Rosanna dritto negli occhi.
«Non ci siamo incontrati per parlare del clima o del collasso automobilistico di Londra», disse, «bensì di Elaine Dawson. Vorrei precisarle che ho acconsentito a vederla esclusivamente perché ho intuito che lei nutre un interesse del tutto personale per il destino di Elaine Dawson a causa dell'amicizia che la legava a lei. Presumo - e la prego di scusarmi se le appaio troppo franco - che non si tratti di un mero trucco giornalistico. Mi rimetto altresì a quanto mi ha garantito circa il fatto che questa sarà una conversazione privata e che senza una mia esplicita autorizzazione niente di essa finirà sulla stampa. Queste sono le mie condizioni per la serata.»
Rosanna annuì. «Sono decisa a mantenere la promessa che le ho fatto, Mr. Reeve. Mi trovo qui nelle vesti di un'amica - anzi di un'intima conoscente - di Elaine Dawson. Non come giornalista.»
Nonostante il lieve sorriso che le rivolse e che era adeguato ad allentare di poco la tensione del momento, Rosanna non ebbe l'impressione che lui si fosse rilassato. Non che lui diffidasse in toto delle sue parole, ma di sicuro era ben lungi dal fidarsi di lei. Di colpo le venne da chiedersi per quale motivo avesse accettato di incontrarla.
Non era forse convinto che ne sarebbe uscito perdente?
Come se le avesse letto nel pensiero, lui disse di punto in bianco:
«Voglio essere del tutto sincero con lei, Mrs. Hamilton. Ho passato momenti terribili dopo la sua telefonata. Se c'è una cosa al mondo che voglio evitare più di ogni altra è rivangare questa storia. Ma alla fine mi sono detto...» Si interruppe.
«Sì?» lo incalzò Rosanna.
Lui si riscosse. «Come le ho già detto, comprendo il suo coinvolgimento nella faccenda. Ma non ho perso mai di vista il fatto che lei comunque scriverà in proposito un articolo per il Cover. Se non mi rifiuto del tutto di collaborare, ho forse l'opportunità di esercitare un certo influsso. Forse. Ma in caso contrario non avrei neppure quella.»
«Lei è molto franco», osservò Rosanna. Dopo un attimo di silenzio aggiunse: «E ho l'impressione che sia rimasto anche molto scottato».
Lui sorrise, ma stavolta con amarezza. «Nel gennaio di cinque anni fa ebbi la sfortuna di scontrarmi letteralmente con una donna in lacrime sulla porta del bagno degli uomini all'aeroporto di Heathrow. Avrei potuto lasciarla perdere e allontanarmi. Non avevo niente da spartire con lei e la cosa non mi riguardava. Ma il suo pianto era così impetuoso, così... disperato, che le chiesi se potevo fare qualcosa per lei. L'unica cosa possibile era offrirle un posto per dormire. Sfortunatamente lei accettò la mia offerta. E poi... niente è più stato come prima.»
Un cameriere portò le pietanze. Avevano un profumo delizioso. «Ho una fame da lupi», disse Rosanna.
Lui annuì. «Anch'io. È il mio primo vero pasto in tutta la giornata.» «Anche per me», confermò Rosanna. Invece di pranzare ho passato il tempo a parlare di te con il tuo ex vicino di casa, pensò imbarazzata. Si augurava che Reeve non venisse mai a sapere della cosa.
Dopo un paio di minuti Reeve chiese con noncuranza: «Perché tutti sono convinti che a Elaine sia successo qualcosa?» «Lo credono tutti?» ribatté Rosanna.
Lui assentì. «Una parte almeno. E primo fra tutti il fratello di Miss Dawson. Ne è categoricamente convinto. La polizia accennò a questa ipotesi, del resto era il suo lavoro. La stampa la seguì a ruota... del resto un omicidio vende molto meglio di una semplice scomparsa.»
«Forse nessuno riusciva a spiegarsi dove potesse essere sparita Elaine senza lasciare traccia. E perché. Voglio dire... non riesco a capirlo neppure io...»
Lui la interruppe. «Ma lei la conosceva. Chi la conosceva doveva essere al corrente di quanto fosse disperata e infelice. A me, un perfetto sconosciuto, lo raccontò subito in ogni caso. Incatenata al fratello. Incatenata al paese. Non vedeva prospettive nella vita. A mio parere era una donna che non sognava altro che di tagliare i ponti.» «Ma...»
Lui posò la forchetta. «Perché nessuno si è mai detto che molto probabilmente è scappata con il suo ragazzo? E che vuole restare nascosta dal fratello? È semplice.»
Rosanna lo guardò perplessa. «Un ragazzo? Elaine aveva un ragazzo!» Lui parve sorpreso. «Non lo sapeva?» «No, no. Neppure lontanamente.»
Lui alzò le spalle. «A me in ogni caso ha raccontato di averlo. E che non poteva parlarne con il fratello. E che l'unico suo desiderio era di scappare via. Le dico una cosa, in tutta sincerità, quando venni a sapere della sua scomparsa, non mi sorpresi neppure per un istante.»
Rosanna rimase seduta come se avesse ricevuto uno schiaffo in faccia. Nella vita di Elaine c'era stato un uomo.
Questo cambiava tutto.