15
Dieci anni prima lo avevo atteso diciotto ore.
Non dubitai mai che non arrivasse. Rimasi semplicemente seduto nella sua poltrona con la Ruger sulle ginocchia e attesi. Non dormii, non battei quasi le palpebre. Rimasi soltanto seduto lì per tutta la notte, l'alba, la mattina seguente. Mezzogiorno venne e passò. Io continuai a restare seduto e ad aspettare.
Arrivò alle due esatte del pomeriggio. Udii una macchina rallentare sulla strada, mi alzai e tenendomi lontano dalla finestra lo osservai svoltare. Aveva un'auto a noleggio simile alla mia, una Pontiac rossa. Lo vidi distintamente oltre il parabrezza. Era pulito e in ordine, ben pettinato, indossava una polo blu con il colletto aperto e sorrideva. L'auto si diresse verso il lato della casa e la sentii fermarsi tra lo scricchiolio della ghiaia nello spiazzo davanti alla cucina. Uscii in corridoio e mi appiattii contro la parete accanto alla porta di cucina.
Udii la chiave nella toppa e la porta aprirsi. I cardini cigolarono in segno di protesta. La lasciò aperta. Sentivo il motore dell'auto girare al minimo.
Non lo aveva spento. Non aveva intenzione di fermarsi molto. Udii i suoi passi sul linoleum di cucina: passi svelti, leggeri, sicuri. Di un uomo che pensava di aver giocato e vinto. Varcò la soglia e io lo colpii alla tempia col gomito.
Cadde di schiena. Aprii la mano e lo inchiodai a terra per la gola. Posai la Ruger e lo perquisii. Era disarmato. Mollai la presa: lui sollevò la testa e io gliela sbattei giù premendogli il mento con la mano. Picchiò la nuca sul pavimento e roteò gli occhi. Entrai in cucina e chiusi la porta. Tornai indietro e lo trascinai in soggiorno per i polsi. Lo gettai a terra e gli diedi un paio di schiaffi. Gli puntai quindi la Ruger in piena faccia e attesi che riaprisse gli occhi.
Lui lo fece e mise a fuoco prima la pistola, poi me. Ero in uniforme, con tanto di grado e di nome dell'unità, perciò non impiegò molto a capire chi fossi e perché fossi lì.
«Aspetti», disse.
«Cosa?»
«Sta commettendo un errore.»
«Davvero?»
«Sì. Loro erano corrotti.»
«Loro chi?»
«Frasconi e Kohl.»
«Davvero?» Lui annuì di nuovo. «E poi lui ha cercato di fregarla.»
«Come?»
«Posso sedermi?» Scossi la testa e tenni la pistola dov'era.
«No», risposi.
«Stavo gestendo un'operazione sotto copertura», aggiunse. «Insieme al dipartimento di Stato. Contro le ambasciate nemiche. Ero a caccia di mele marce.»
«E della bambina di Gorowski che mi dice?» Lui scosse la testa, impaziente. «Non è successo niente con quella dannata bambina. Gorowski doveva soltanto recitare una parte. Era una messinscena, in caso i nemici lo avessero controllato. Facciamo queste cose per bene. Ci deve essere un filo logico da seguire, semmai qualcuno s'insospettisca. Avevamo organizzato con cura le consegne e tutto quanto, nell'eventualità che ci pedinassero.»
«E Frasconi e Kohl?»
«Erano in gamba. Mi hanno individuato subito, pensavano fossi corrotto, il che mi ha lusingato: significava che stavo svolgendo bene il mio ruolo.
Poi hanno preso una brutta strada. Sono venuti da me e mi hanno detto che, se li avessi pagati, avrebbero rallentato le indagini. Che mi avrebbero dato il tempo di uscire dal Paese. Credevano avessi in mente di farlo. Perciò io ho pensato: ehi, perché non assecondarli? Perché chi può mai sapere quali mele marce si trovano andando a caccia? Più sono, meglio è, giusto?
Così li ho assecondati.» Tacqui.
«L'indagine è stata lunga, vero?» osservò. «Lo deve aver notato. Settimane e
settimane. È stata veramente lunga.» Lunga come la fame.
«E poi ieri è successo», affermò. «Ho messo nel sacco i siriani, i libanesi e gli iraniani, e anche gli iracheni, che erano il pesce grosso. E ho pensato che fosse arrivato il momento di mettere nel sacco anche i suoi. Sono venuti per il pagamento finale, una bella cifra. Frasconi però lo voleva tutto per sé e mi ha colpito in testa. Quando sono rinvenuto, ho scoperto che aveva massacrato Kohl. Era un pazzo, mi creda, perciò ho preso una pistola da un cassetto e gli ho sparato.»
«Allora perché è scappato?»
«Perché ero terrorizzato. Io lavoro al Pentagono, prima non avevo mai visto del sangue e non sapevo con chi altri fossero d'accordo. Potevano essercene altri.» Frasconi e Kohl.
«Lei è molto in gamba», disse. «È venuto direttamente qui.» Annuii e pensai al profilo di otto pagine, scritto con la grafia immacolata di Kohl. L'attività dei genitori, la casa dell'infanzia.
«Di chi è stata l'idea?» chiesi.
«In origine?» disse. «Di Frasconi, naturalmente. Era superiore di grado.»
«Come si chiamava lei?» Vidi un bagliore nei suoi occhi.
«Kohl», rispose.
Annuii di nuovo. Era andata ad arrestarlo con l'uniforme verde che sul petto, a destra, aveva una targhetta nera di acetato con il nome. KOHL.
Una denominazione neutra. Uniforme, donna: la targa del nome viene adattata in base alle differenze di corporatura e centrata orizzontalmente a destra, dai due centimetri e mezzo ai cinque centimetri al di sopra del primo bottone della giacca. Lui l'aveva notata non appena Kohl aveva varcato la soglia.
«Nome proprio?» Tacque.
«Non ricordo», disse.
«Il nome proprio di Frasconi?» Uniforme, uomo: la targa è centrata sul risvolto della tasca destra del petto, equidistante tra l'orlo e il bottone.
«Non ricordo.»
«Si sforzi», insistetti.
«Non ci riesco», rispose. «È solo un dettaglio.»
«Tre su dieci», osservai. «Diciamo che è un cinque.»
«Cosa?»
«La sua prova», spiegai. «Il voto è insufficiente.»
«Cosa?»
«Suo padre lavorava alle ferrovie», proseguii. «Sua madre era casalinga.
Il suo nome intero è Francis Xavier Quinn.»
«E allora?»
«Le indagini sono così», dissi. «Se vuoi mettere qualcuno nel sacco, scopri tutto sul suo conto. Lei stava cercando di incastrare quei due e non ha mai scoperto i loro nomi propri? Non ha mai preso appunti? Non ha mai aperto un dossier?» Non disse nulla.
«E Frasconi non ha mai avuto un'idea in vita sua», aggiunsi. «Non andava neanche al cesso se qualcuno non glielo diceva. Nessuno che li conoscesse avrebbe mai detto Frasconi e Kohl ma Kohl e Frasconi. Lei è corrotto fino al midollo e non aveva mai visto i miei uomini in vita sua se non nel momento stesso in cui si sono presentati a casa sua per arrestarla. E li ha uccisi entrambi.» Mi dimostrò che avevo ragione cercando di reagire, ma io ero pronto.
Fece per rialzarsi e io lo sbattei a terra con più forza del necessario. Era ancora in stato di incoscienza quando lo misi nel baule della macchina e quando lo trasferii nella mia, dietro il ristorante abbandonato. Andai a sud per un po' sulla 101, quindi svoltai a destra in direzione del Pacifico. Mi fermai in una piazzola di ghiaia. C'era una vista straordinaria. Erano le tre del pomeriggio, il sole splendeva e l'oceano era blu. La piazzola aveva una protezione metallica alta fino al ginocchio, oltre la quale c'erano mezzo metro ancora di ghiaia e poi una lunga parete verticale a picco sulle onde.
Il traffico era molto scarso, forse un'auto ogni due minuti. Quella strada costituiva solo una deviazione arbitraria dall'interstatale.
Aprii il bagagliaio e lo richiusi con forza, in caso fosse stato sveglio e avesse progettato di aggredirmi, ma non lo era: gli mancava l'aria ed era quasi incosciente. Lo trascinai fuori, lo misi in piedi sulle gambe molli e lo feci camminare. Lasciai che guardasse l'oceano per qualche istante mentre controllavo che non vi fossero testimoni. Non c'era nessuno perciò lo girai e mi allontanai di cinque passi.
«Si chiamava Dominique», dissi.
Poi gli sparai, due volte alla testa e una al petto. Mi aspettavo che crollasse subito nella ghiaia, nel qual caso mi sarei avvicinato e gli avrei piantato un quarto proiettile nell'orbita prima di buttarlo nell'oceano, ma non lo fece. Barcollò all'indietro, inciampò nella ringhiera, cadde al di là e, dopo aver colpito l'ultimo metro di America con la spalla, rotolò dritto giù dal precipizio. Mi tenni al parapetto con una mano, mi sporsi e guardai in basso. Lo vidi colpire gli scogli, poi i frangenti lo inghiottirono. Non lo rividi più. Rimasi lì per un minuto intero a pensare. Due alla testa, uno al petto, una caduta da più di trentacinque metri nell'oceano, non c'è modo di sopravvivere.
Raccolsi i bossoli. Dieci-diciotto, Dom, dissi tra me e tornai alla macchina.
Dieci anni dopo l'oscurità stava calando rapida e io mi stavo facendo strada tra gli scogli dietro il garage. Il mare si gonfiava e s'infrangeva alla mia destra e il vento mi soffiava in faccia. Non mi aspettavo di trovare nessuno in giro, soprattutto ai lati o sul retro della casa. Perciò mi muovevo rapido, vigile, attento, con un Persuader in ogni mano. Quinn, sto venendo a prenderti.
Quando superai il retro del garage, vidi il furgone della ditta di catering parcheggiato davanti all'angolo posteriore dell'edificio, proprio nello stesso punto in cui Harley aveva lasciato la Lincoln per scaricare il corpo della cameriera dal bagagliaio. Le porte posteriori del furgone erano aperte e guidatore e passeggero stavano andando avanti e indietro per scaricarlo. Il metal detector dell'ingresso della cucina bippava a ogni contenitore di stagnola che passava. Avevo fame. Sentivo l'odore del cibo caldo portato dal vento. Gli uomini indossavano entrambi lo smoking e tenevano la testa china per il maltempo. Non prestavano attenzione a nulla tranne che al loro lavoro, ma mi tenni ugualmente alla larga. Restai sul margine degli scogli e avanzai seguendo una traiettoria curva. Saltai la spaccatura di Harley e continuai.
Quando fui il più possibile lontano dai due, tagliai e mi diressi all'angolo opposto della casa. Mi sentivo molto bene, silenzioso e invisibile, una specie di forza primordiale che arrivava possente dal mare. Mi fermai e cercai di capire quali fossero le finestre della sala da pranzo. Le trovai: la sala era tutta illuminata. Mi avvicinai di più e azzardai un'occhiata oltre il vetro.
La prima persona che vidi fu Quinn. Se ne stava dritto in piedi, con un abito scuro addosso e un drink in mano. Aveva i capelli completamente grigi e le cicatrici sulla fronte erano piccole, rosate e lucide. Era lievemente curvo e un po' più pesante rispetto a un tempo. Aveva dieci anni di più.
Accanto a lui c'era Beck, anche lui in abito scuro e con un drink in mano. Era spalla a spalla con il suo capo. Di fronte avevano tre arabi piccoli dai capelli neri brillantinati. Erano vestiti all'europea, con completi di color grigio o azzurro chiaro, e anche loro avevano un drink in mano.
Alle loro spalle Richard ed Elizabeth erano in piedi, vicini, assorti in una conversazione. Sembrava fosse in corso un party intorno al gigantesco tavolo. Questo era apparecchiato con diciotto coperti, in modo molto formale: ogni posto aveva tre bicchieri e piatti e posate sufficienti per una settimana. La cuoca girava per la sala con un vassoio di drink. Vidi flute di champagne e bicchieri da whisky. La donna indossava una gonna nera e una camicetta bianca: era stata relegata al ruolo di cameriera. Forse la cucina mediorientale esulava dalle sue competenze.
Non vedevo Teresa Daniel: magari avevano in programma di farla balzar fuori da una torta più tardi. Gli altri presenti erano tutti uomini. Erano tre, i ragazzi più fidati di Quinn, suppongo. Un trio eterogeneo, assortito a caso, personaggi dal volto duro, ma forse non più pericolosi di Angel Doll o Harley.
Quindi, diciotto coperti, ma solo dieci invitati. Otto assenti: Duke, Angel Doll, Harley ed Emily Smith erano quattro. L'uomo che avevano messo alla guardiola al posto di Paulie era forse il quinto. Gli altri tre restavano misteriosi. Probabilmente uno era alla porta d'ingresso, uno alla finestra di Duke e uno con Teresa Daniel.
Rimasi all'esterno a guardare. Ero stato tante volte a cocktail party e cene formali: a seconda di dove prestavi servizio, potevano rappresentare una parte importante della vita della base. Immaginai che quelle persone sarebbero rimaste là dentro per almeno quattro ore: non sarebbero uscite se non per andare in bagno. Quinn stava parlando e mantenendo attentamente il contatto visivo con i tre arabi. Arringava la folla: sorrideva, gesticolava, rideva. Aveva l'aria di chi stava giocando e vincendo, ma non era così. I suoi piani erano andati storti. Una cena per diciotto persone si era trasformata in una cena per dieci perché io ero ancora in giro.
Mi chinai sotto la finestra e strisciai verso la cucina. Restando in ginocchio, mi sfilai il cappotto e vi avvolsi i Persuader, lasciandoli in un punto dove avrei potuto ritrovarli. Mi alzai ed entrai in cucina. Il metal detector suonò per la Beretta che avevo in tasca. Gli addetti al catering erano lì: stavano armeggiando con la stagnola. Feci loro un cenno come se vivessi nella casa e uscii deciso in corridoio. Avanzai silenzioso grazie agli spessi tappeti, sentendo il forte brusio della conversazione che proveniva dalla sala da pranzo. Vidi un uomo all'ingresso. Era rivolto di schiena e guardava fuori della finestra. Con la spalla era appoggiato al bordo del vano. I suoi capelli avevano un alone azzurro a causa delle luci del muro, in lontananza. Sparare per uccidere. Io o loro. Mi fermai per un istante. Poi mi avvicinai e gli misi la mano destra sotto il mento e le nocche della sinistra contro la nuca. Con la destra tirai bruscamente in alto e all'indietro, con la sinistra spinsi in basso e in avanti e gli spezzai il collo all'altezza della quarta vertebra. Mi crollò addosso, al che lo presi sotto le braccia e lo trascinai nel salotto di Elizabeth Beck, scaricandolo sul divano. Il Dottor Živago era ancora lì, su un tavolino.
Via uno.
Chiusi la porta del salottino e mi diressi verso le scale. Salii, rapido e silenzioso e mi fermai davanti alla stanza di Duke. Eliot giaceva scomposto per terra poco oltre la soglia. Morto. Supino. Aveva la giacca aperta e la camicia rigida per il sangue, tutta sforacchiata. I tappeti sotto di lui erano incrostati. Lo scavalcai e, restando nascosto dietro la porta, lanciai un'occhiata nella stanza. Capii perché era morto. La NSV si era inceppata. Aveva ricevuto la chiamata di Duffy e, sul punto di uscire, aveva alzato lo sguardo e visto un convoglio dirigersi verso di lui sulla strada. Era balzato dietro la grossa mitragliatrice, aveva premuto il grilletto e lo aveva sentito incepparsi. Quell'arma era un rottame. Il meccanico l'aveva smontata sul pavimento e ora, chino su di essa, stava cercando di riparare il meccanismo di alimentazione a nastro. Era assorto nel suo lavoro e non mi vide né mi sentì.
Sparare per uccidere. Io o loro.
Via due.
Lo lasciai steso sulla mitragliatrice. La canna sporgeva da sotto il suo corpo a mo' di terzo braccio. Controllai dalla finestra. Ero esattamente a metà dell'ora di cui disponevo.
Tornai di sotto, percorsi il corridoio come un fantasma e raggiunsi la porta del seminterrato. Lì le luci erano accese. Scesi le scale, superai la palestra e la lavatrice, quindi estrassi la Beretta dalla tasca togliendo la sicura. La tenni davanti a me e svoltai l'angolo, puntando direttamente alle due stanze chiuse a chiave. Una era vuota con la porta spalancata, l'altra era chiusa con un giovane magro davanti: era seduto su una sedia e la teneva inclinata contro la porta. L'uomo mi guardò in faccia e sgranò tanto d'occhi. Aprì la bocca, ma non emise alcun suono. Non sembrava molto pericoloso. Portava una maglietta con la scritta DELL: forse era Troy, il genio del computer.
«Sta' zitto se ci tieni a vivere», dissi.
Lui obbedì.
«Tu sei Troy?» Rimase sempre zitto e con un cenno rispose di sì.
«Bene, Troy», affermai.
Calcolai che ci trovassimo esattamente sotto la sala da pranzo. Non potevo rischiare di sparare in una cantina di pietra sotto i piedi di tutti quanti.
Perciò rimisi la Beretta in tasca, lo presi per il collo e gli sbattei la testa contro il muro due volte, facendogli perdere i sensi. Forse gli fracassai il cranio, forse no, a dire il vero non m'importava. Con le sue indagini informatiche aveva ucciso la cameriera.
Via tre.
Trovai la chiave in una delle sue tasche, la infilai nella toppa, spalancai la porta e vidi Teresa Daniel seduta sul materasso. Lei si voltò e mi guardò in faccia. Era proprio come nelle foto che Duffy mi aveva mostrato nella stanza del motel, la mattina presto dell'undicesimo giorno. Sembrava in perfetta salute. Aveva i capelli lavati e pettinati e indossava un abito bianco verginale, collant bianchi e scarpe bianche. La pelle era pallida e gli occhi azzurri. Sembrava una vittima sacrificale.
Mi fermai per un istante, incerto sul da farsi. Non potevo prevedere la sua reazione. Aveva probabilmente capito quello che volevano da lei e non mi conosceva. Per quanto ne sapesse, ero uno di loro, pronto a condurla sull'altare. Ed era un'agente federale addestrata. Se le avessi chiesto di venire con me, avrebbe potuto aggredirmi. Forse aveva risparmiato le forze per la sua ultima chance e io non volevo fare chiasso, non ancora.
Poi però la guardai di nuovo negli occhi. Una pupilla era enorme, l'altra minuscola. Era perfettamente immobile, silenziosa. Inerte e stordita. L'avevano drogata, forse con qualche sostanza strana. Come si chiamava? La droga degli stupri? Roipnol? Ropinol? Non ricordavo il nome, non era il mio ambito di competenza. Eliot lo avrebbe saputo, Duffy e Villanueva lo sapevano. Rendeva passivi, obbedienti e accondiscendenti. Ti induceva a rilassarti e subire qualsiasi cosa.
«Teresa?» sussurrai.
Lei non rispose.
«Tutto a posto?» sussurrai ancora.
«Sto bene.»
«Puoi camminare?»
«Sì», disse.
«Allora cammina insieme a me.» Lei si alzò. Era incerta sulle gambe: debolezza muscolare, pensai. Era rimasta chiusa per nove settimane.
«Da questa parte», mormorai.
Lei non si mosse, rimase semplicemente dov'era. Tesi la mano: lei si allungò e la prese. Aveva la pelle calda e secca.
«Andiamo», dissi. «Non guardare l'uomo per terra.» La bloccai subito dopo la porta. Lasciai andare la sua mano, trascinai Troy nella stanza, chiusi la porta e girai la chiave. Poi la presi di nuovo per mano e la condussi via. Era molto suggestionabile, molto obbediente. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé e camminava insieme a me. Svoltammo l'angolo e superammo la lavatrice. Attraversammo la palestra. Il suo vestito era morbido come seta e ornato di pizzi. Mi teneva per mano come se fossimo fidanzati. Avevo quasi la sensazione di andare al ballo del college.
Salimmo le scale fianco a fianco e giungemmo in cima.
«Aspetta qui», le dissi. «Non andare da nessuna parte senza di me, intesi?»
«Intesi», mormorò in risposta.
«Non fare rumore, intesi?»
«Va bene.» Chiusi la porta e la lasciai sul primo gradino con la mano appoggiata alla ringhiera e una lampadina accesa alle sue spalle. Controllai con attenzione il corridoio e tornai in cucina. Gli addetti al catering erano ancora affaccendati.
«Siete Keast e Maden?» domandai.
Quello più vicino a me annuì.
«Paul Keast», disse.
«Chris Maden», rispose il socio.
«Devo spostare il furgone», dissi.
«Perché?»
«Perché ingombra.» L'uomo mi guardò. «Mi ha detto lei di metterlo lì.»
«Ma non di lasciarcelo.» L'uomo si strinse nelle spalle, frugò su un bancone e trovò le chiavi.
«Come vuole», rispose.
Presi le chiavi, uscii e controllai il retro del furgone: era dotato di rastrelliere per i vassoi da entrambi i lati. In mezzo c'era uno stretto corridoio.
Niente finestrini: andava bene. Lasciai le porte posteriori aperte, salii al posto di guida e lo accesi. Feci retromarcia fino alla rotonda, lo girai e feci di nuovo retromarcia fino alla porta della cucina. Adesso era rivolto nella giusta direzione. Spensi il motore, ma lasciai le chiavi inserite. Tornai in cucina e il metal detector bippò.
«Che cosa mangeranno?» domandai.
«Kebab di agnello», rispose Maden. «Con riso, cuscus e hummus. Involtini di foglie di vite per antipasto e baklava per dessert. Con il caffè.»
«È cucina libica?»
«Internazionale», rispose. «La si mangia dappertutto.»
«Io per queste cose pagavo un dollaro», dissi. «Voi le mettete a cinquantacinque.»
«Dove? A Portland?»
«A Beirut», risposi.
Uscii e controllai il corridoio. Tutto era silenzioso. Aprii la porta del seminterrato. Teresa Daniel mi stava aspettando lì dietro, come un automa.
Le tesi la mano.
«Andiamo», dissi.
Lei uscì. Chiusi la porta alle sue spalle e la portai in cucina. Keast e Maden la fissarono. Li ignorai e le feci attraversare la cucina fino a condurla fuori della porta, al furgone. Tremava dal freddo. L'aiutai a salire dietro.
«Adesso aspettami qui. Senza fare il minimo rumore, d'accordo?» Lei annuì e non disse nulla.
«Adesso chiudo le porte», spiegai.
Lei annuì di nuovo.
«Tra poco ti porterò fuori di qui.»
«Grazie», rispose.
Chiusi le porte e tornai in cucina dove mi fermai ad ascoltare. Sentivo conversare in sala da pranzo.
«Quando cenano?» chiesi.
«Tra venti minuti», rispose Maden. «Quando avranno finito i drink. Sa, nei cinquantacinque dollari è compreso anche lo champagne.»
«Bene», dissi. «Non se la prenda.» Guardai l'orologio. Erano passati quarantacinque minuti. Me ne restavano quindici.
Era ora di iniziare lo show.
Tornai fuori nel freddo, m'infilai nel furgone del catering e lo accesi.
Avanzai piano, girando lentamente l'angolo della villa, percorsi la rotonda a passo d'uomo e a passo d'uomo imboccai il viale. Mi allontanai dalla casa e superai il cancello. Raggiunsi la strada e lì diedi gas. Feci le curve in velocità e inchiodai all'altezza della Taurus di Villanueva. Saltai giù. Villanueva e Duffy erano già fuori, pronti a venirmi incontro.
«Teresa è dietro», dissi. «Sta bene, ma l'hanno drogata.» Duffy alzò i pugni in aria, spiccò un balzo e mi abbracciò forte mentre Villanueva spalancava le porte. Teresa gli cadde tra le braccia. Lui la sollevò come se fosse una bambina e Duffy la condusse via. A quel punto toccò a lui abbracciarmi.
«Dovreste portarla in ospedale», suggerii.
«La porteremo al motel», rispose Duffy. «Siamo sempre in una missione non autorizzata.»
«Ne sei sicura?»
«Si rimetterà», disse Villanueva. «Devono averle dato del Roipnol, probabilmente dei loro amici trafficanti, ma l'effetto non dura a lungo. Lo elimini presto.» Duffy stava abbracciando Teresa come una sorella e Villanueva stava ancora abbracciando me.
«Eliot è morto», dissi.
La notizia depresse fortemente l'umore generale.
«Chiamate l'ATF dal motel», dissi. «Se prima non vi chiamerò io.» Mi fissarono.
«Torno là dentro», aggiunsi.
Girai il furgone e tornai indietro. Vedevo la casa davanti a me. Le finestre erano illuminate di giallo e le luci del muro apparivano azzurre nella nebbiolina. Il furgone avanzava a fatica nel vento. Piano B, decisi. Quinn era mio, gli altri sarebbero stati un grattacapo dell'ATF.
Mi fermai sul lato esterno della rotonda e feci retromarcia lungo il lato della casa fino alla cucina. Scesi e andai sul retro dove ritrovai il cappotto.
Lo srotolai, mettendo da parte i Persuader, e me lo infilai. Mi serviva: era una notte fredda e di lì a cinque minuti sarei stato di nuovo per strada.
Mi avvicinai alle finestre della sala da pranzo per guardare dentro. Avevano chiuso le tende. Ha senso, pensai. Era una notte turbolenta e tempestosa. La sala da pranzo sarebbe stata più bella con le tende tirate, più accogliente: tappeti orientali sul pavimento, pannellatura di legno, argenteria e tovaglia di lino.
Recuperai i Persuader e tornai in cucina. Il metal detector stridette. I due addetti al catering avevano allineato dieci piatti di involtini di foglie di vite su un banco. Le foglie apparivano scure, unte, coriacee. Avevo fame, ma non avrei potuto mangiarne neanche una: lo stato dei miei denti me lo impediva. Pensai che grazie a Paulie sarei stato costretto a mangiare gelato per una settimana.
«Aspettate cinque minuti a servire, d'accordo?» dissi.
Keast e Maden fissarono i fucili.
«Le vostre chiavi», affermai.
Le lasciai cadere accanto alle foglie di vite. Non mi servivano più. Avevo le chiavi che Beck mi aveva dato. Pensavo di uscire dalla porta principale e di usare la Cadillac, più veloce e confortevole. Presi un coltello dal portacoltelli di legno e praticai un piccolo taglio nella parte interna della tasca del cappotto, in modo da far passare la canna di un Persuader nella fodera. Presi il fucile con cui avevo ucciso Harley e lo infilai nel cappotto.
Tenni l'altro con due mani e feci un bel respiro. Uscii in corridoio. Keast e Maden mi seguirono con lo sguardo. La prima cosa che feci fu controllare il bagno: non aveva senso preparare una scena a effetto se Quinn non si trovava nemmeno in sala da pranzo. Il bagno era vuoto. Nessuno ne aveva avuto bisogno.
La porta della sala da pranzo era chiusa. Feci un altro bel respiro, poi un altro ancora. L'aprii con un calcio, entrai e sparai due Brenneke nel soffitto. Ebbero l'effetto di granate stordenti. Le due esplosioni gemelle furono colossali e scatenarono una pioggia di intonaco e legno. Polvere e fumo riempirono l'aria. Tutti restarono impietriti come statue. Abbassai il fucile all'altezza del petto di Quinn in attesa che gli echi svanissero.
«Ti ricordi di me?» chiesi.
Elizabeth Beck urlò nell'improvviso silenzio.
Avanzai di un altro passo e tenni la bocca del fucile puntata su Quinn.
«Ti ricordi di me?» ripetei.
Un secondo, due. La sua bocca prese a muoversi.
«Ti ho visto a Boston», rispose. «Per strada. Un sabato sera. Forse un paio di settimane fa.»
«Riprova», esclamai.
Il suo volto era completamente inespressivo. Non si ricordava di me.
«Gli hanno diagnosticato una forma di amnesia, causata dal trauma», mi aveva spiegato Duffy. «È abbastanza comune. Probabilmente si è completamente dimenticato dell'episodio e dei giorni precedenti a esso.»
«Sono Reacher», dissi. «Ho bisogno che ricordi.» Lui guardò impotente Beck.
«Si chiamava Dominique», affermai.
Quinn si girò e mi fissò con gli occhi sgranati. Adesso sapeva chi fossi.
Il suo viso mutò: impallidì e fu pervaso da un sentimento di furia e di paura. Le cicatrici della calibro .22 divennero di un bianco puro. Pensai di sparargli in mezzo, ma sarebbe stato un tiro difficile.
«Credevi davvero che non ti avrei mai trovato?» domandai.
«Possiamo parlare?» Sembrava avesse la bocca secca.
«No», risposi. «Hai già parlato per dieci anni di troppo.»
«Siamo tutti armati», intervenne Beck con tono spaventato. I tre arabi mi fissavano. La polvere d'intonaco si era appiccicata alla brillantina dei loro capelli.
«Allora dica a tutti di non sparare», replicai. «Non c'è ragione di fare più di una vittima.» La gente si allontanò da me. La polvere si depositò sul tavolo. Un pezzo del soffitto aveva rotto un bicchiere. Mi spostai con il gruppo, mi voltai e studiai la geometria per tenere i criminali sotto tiro in un angolo della stanza. Nello stesso tempo cercai di spingere Elizabeth, Richard e la cuoca nell'altro, accanto alla finestra, dove sarebbero stati al sicuro. Puro linguaggio del corpo. Girai la spalla, avanzai di poco e, anche se tra me e gran parte di loro c'era il tavolo, andarono dove volevo: il gruppetto si divise obbediente, otto da una parte e tre dall'altra.
«Ora allontanatevi tutti dal signor Xavier», dissi.
Tutti si scostarono tranne Beck, che rimase attaccato alla sua spalla. Lo fissai, poi mi resi conto che Quinn gli teneva una mano sul braccio. Lo stringeva poco al di sopra del gomito, anzi lo tirava con forza alla ricerca di uno scudo umano.
«Le palle hanno un diametro di due centimetri e mezzo», affermai. «Non ti servirà a niente fintantoché vedrò due centimetri e mezzo del tuo corpo.» Lui non replicò, continuò solo a tirare mentre Beck opponeva resistenza.
Nei suoi occhi scorsi paura. Era in corso una piccola gara al rallentatore, ma supposi che Quinn la stesse vincendo: in dieci secondi Beck gli copriva metà corpo. La spalla sinistra di Beck copriva quella destra di Quinn. Entrambi tremavano per lo sforzo. Anche se il Persuader aveva un'impugnatura da pistola al posto del calcio, lo portai alla spalla e mirai con attenzione seguendo la canna.
«Ti vedo ancora», dissi.
«Non sparare», esclamò Richard Beck alle mie spalle.
C'era qualcosa nella sua voce.
Gli lanciai un'occhiata. Mossi brevemente la testa, solo per un istante: la voltai e la girai di nuovo. In mano stringeva una Beretta, identica a quella che avevo in tasca, e la teneva puntata alla mia testa. La luce elettrica vi si rifletteva, aspra, mettendola in risalto. Anche se l'avevo guardata per una frazione di secondo soltanto, avevo visto l'elegante incisione sul lato, PIETRO BERETTA, la patina di olio nuovo e il puntino rosso che appare quando la sicura è tolta.
«Mettila via, Richard», dissi.
«Non se mio padre è lì», rispose.
«Lascialo andare, Quinn», ordinai.
«Non sparare, Reacher», ripeté Richard. «O ti sparo io per primo.» A quel punto Beck copriva quasi completamente Quinn.
«Non sparare», insistette Richard.
«Mettila giù, Richard», ripetei.
«No.»
«Mettila giù.» Ascoltai con attenzione la sua voce: non si sarebbe mosso, sarebbe rimasto fermo dov'era. Sapevo esattamente dove si trovasse e sapevo a quale angolazione girarmi. Provai la sequenza mentalmente: Girati, spara, carica, girati, spara. Li avrei potuti colpire entrambi in un secondo e un quarto. Quinn non avrebbe fatto a tempo a reagire. Respirai.
Poi vidi mentalmente Richard: i capelli scompigliati, l'orecchio mancante, le dita lunghe. Immaginai la grossa Brenneke che lo devastava, schiacciando e lacerando i tessuti, e la poderosa energia cinetica che lo disintegrava. Non potevo farlo.
«Mettila via», dissi.
«No.»
«Per favore.»
«No.»
«Così li aiuti.»
«Così aiuto mio padre.»
«Non colpirò tuo padre.»
«Non posso correre il rischio. È il mio papà.»
«Elizabeth, glielo dica lei.»
«No», rispose lei. «È mio marito.» Ero in stallo.
Anzi, peggio che in stallo perché non c'era assolutamente niente che potessi fare. Non potevo sparare a Richard perché non me lo sarei mai perdonato, perciò non potevo sparare a Quinn e non potevo dire che non avrei sparato a Quinn perché otto uomini mi avrebbero immediatamente puntato contro un'arma. Ne avrei colpiti alcuni, ma prima o poi uno avrebbe colpito me. Non potevo nemmeno separare Quinn da Beck: mai e poi mai lo avrebbe lasciato e sarebbe uscito dalla stanza con me.
Ero in stallo.
Piano C.
«Mettila via, Richard», dissi.
Ascolta.
«No.» Non si era mosso. Riprovai mentalmente la sequenza. Girati. Spara. Respirai, mi voltai e sparai trenta centimetri più a destra di Richard, alla finestra. La palla squarciò le tende, colpì il telaio e lo divelse. Feci tre passi di corsa e mi gettai a capofitto nel buco. Rotolai due volte avvolto nella tenda di velluto strappata, mi rimisi in piedi e scappai dritto verso gli scogli.
Dopo una ventina di metri mi voltai e rimasi immobile. La tenda rimasta si era gonfiata al vento e ondeggiava dentro e fuori del foro. Sentivo la stoffa sbattere e schioccare. Dietro brillava una luce gialla. Vedevo alcune ombre che si stavano radunando davanti al vetro infranto. Tutto si muoveva: la tenda, la gente. A seconda dei movimenti della tenda, la luce si attenuava o s'intensificava. Arrivarono i primi proiettili. Stavano sparando con le pistole: prima due, poi quattro, cinque, poi altre ancora. Le pallottole mi sfrecciavano accanto, colpivano gli scogli emettendo scintille e rimbalzando di qua e di là. Gli spari sembravano lievi, simili a scoppi attutiti, insignificanti, tanto che si perdevano nell'ululato del vento e nel fragore delle onde. Mi gettai in ginocchio e sollevai il Persuader, dopodiché gli spari cessarono. Aspettai a rispondere. La tenda scomparve: qualcuno l'aveva strappata. La luce m'investì. Vidi Richard ed Elizabeth spinti in prima fila alla finestra. Avevano le braccia piegate dietro la schiena. E vidi il volto di Quinn alle spalle di Richard. Teneva una pistola puntata verso di me.
«Sparami, adesso», gridò.
La sua voce si perse quasi del tutto nel vento. Udii la settima onda infrangersi alle mie spalle. Gli spruzzi si levarono in aria, portati dal vento, e mi colpirono con forza alla nuca. Dietro Elizabeth vidi uno degli uomini di Quinn. La donna aveva il viso piegato in una smorfia di dolore. L'uomo teneva il polso destro appoggiato sulla sua spalla e la testa dietro quella di lei. In mano stringeva una pistola. Vidi il calcio di un'altra arma eliminare i frammenti di vetro rimasti sul telaio e ripulirlo completamente. Un attimo dopo Richard fu spinto in avanti: mise un ginocchio sul davanzale e Quinn lo gettò fuori, seguendolo subito dopo e tenendolo vicino a sé.
«Sparami, adesso», urlò di nuovo.
Alle sue spalle Elizabeth fu sollevata e portata fuori della finestra. Un braccio robusto la cingeva alla vita. Scalciò disperata, ma fu posata a terra e strattonata indietro per coprire l'uomo che la teneva. Vedevo il suo volto pallido nell'oscurità, contorto dal dolore. Arretrai di qualche passo. Altre persone uscirono, una dopo l'altra e si misero in formazione. Crearono un cuneo con Richard ed Elizabeth in testa, fianco a fianco. Poi il cuneo prese ad avanzare nella mia direzione rapido ma scoordinato. Vidi cinque pistole. Arretrai ancora. Il cuneo continuava ad avanzare e le pistole ripresero a sparare.
Non intendevano colpirmi, ma mettermi con le spalle al muro. Arretrai e contai i colpi. Cinque pistole con il caricatore pieno, avevano almeno settantacinque proiettili in totale, forse anche più, e ne avevano sparati una ventina. Erano tutt'altro che scariche e sparavano in modo controllato, non a caso: miravano alla mia destra e alla mia sinistra verso gli scogli, a intervalli regolari di qualche secondo. Il cuneo avanzava come una macchina, come un carro armato umano. Mi alzai e arretrai, e loro continuarono a venirmi addosso.
Richard era a destra, Elizabeth a sinistra. Scelsi un uomo dietro il ragazzo e presi la mira, ma lui mi vide e si nascose nella folla. Il cuneo si compattò fino a trasformarsi in una stretta colonna che avanzava costante. Non avevo il campo libero. Camminai all'indietro, passo dopo passo.
Col tallone sinistro toccai il bordo della spaccatura di Harley.
L'acqua ribollì e mi sommerse la scarpa. Ascoltai le onde. La ghiaia rotolava trascinata dal risucchio. Allineai il piede destro al sinistro e mi tenni in equilibrio sull'orlo. Vidi Quinn che mi sorrideva: scorsi solo un bagliore di denti nel buio.
«Dacci la buonanotte, ora», urlò.
Resta vivo. Vedi quello che succede in seguito.
Dalla colonna spuntarono delle braccia, sei o sette in tutto. Si protesero e puntarono le armi. Presero la mira, in attesa di un ordine. Udii la settima onda infrangersi ai miei piedi: mi bagnò le caviglie e sommerse tre metri di scogli davanti a me. Rimase ferma per un istante e quindi si ritirò, indifferente, come un metronomo. Guardai Elizabeth e Richard, i loro volti.
Respirai profondamente e pensai: io o loro. Gettai i Persuader e mi buttai all'indietro in acqua.
Prima sentii lo shock del freddo, poi fu come precipitare da un edificio, ma non in caduta libera: mi sembrò d'essere finito in un tubo gelido, lubrificato, che mi risucchiava mantenendomi a una pendenza notevole, ma controllata. La velocità però aumentava. Ero capovolto, con la testa all'ingiù. Ero atterrato di schiena e per una frazione di secondo non avevo sentito nulla tranne l'acqua gelida nelle orecchie, negli occhi e nel naso. E il labbro che mi pungeva. Ero a una trentina di centimetri dalla superficie ed ero fermo. Temevo di tornare a galla. Sarei riemerso proprio davanti a loro. Di certo si erano ammassati sui bordi della spaccatura con le armi puntate verso l'acqua.
Un attimo dopo tuttavia avevo sentito i capelli rizzarsi: era una sensazione dolce, come se qualcuno me li pettinasse tirandoli con delicatezza.
Poi mi ero sentito afferrare per la testa. Mi era parso che un omone dalle mani grosse mi avesse preso la faccia tra i palmi e me la stesse tirando, dapprima piano, quindi con sempre maggior forza. Percepivo la trazione al collo, come se mi stessi allungando, poi al petto e alle spalle. Le braccia galleggiavano libere, ma a un tratto si erano sollevate sopra la mia testa e avevo iniziato a cadere. Era come effettuare un perfetto tuffo di testa all'indietro. Cadevo verso il basso con la schiena inarcata, accelerando via via, molto più veloce di quanto non avrei fatto nell'aria. Era come essere tirato da un gigantesco elastico.
Non vedevo niente e non sapevo se avessi gli occhi aperti o chiusi. Il freddo mi stordiva e la pressione sul corpo era tanto uniforme che non provavo quasi sensazioni fisiche. Non avvertivo nessuna forza, tutto era fluido, come nel teletrasporto dei film di fantascienza, come se un raggio mi risucchiasse verso il basso, come se fossi diventato all'improvviso alto nove metri e stretto un paio di centimetri. C'erano buio e freddo dappertutto. Trattenni il fiato. Ogni tensione abbandonò il mio corpo e reclinai il capo per sentire l'acqua tra i capelli. Allungai le dita dei piedi, inarcai la schiena e tesi il più possibile le braccia sopra la testa. Aprii le dita delle mani per sentire l'acqua che vi fluiva in mezzo. C'era una grande pace. Ero un proiettile e la cosa mi piaceva.
Poi avvertii un tonfo d'allarme al petto e capii che stavo annegando, perciò iniziai a lottare. Mi girai e il cappotto mi venne in testa. Me lo strappai di dosso, rigirandomi e capovolgendomi nel gelido tubo d'acqua. Il cappotto mi colpì al volto e volò via. Mi liberai anche della giacca, che scomparve nel nulla. D'un tratto sentii un freddo pungente. Stavo ancora precipitando rapido e sentivo una forte pressione alle orecchie che mi sibilavano.
Stavo ruzzolando al rallentatore, precipitando sempre più giù, più veloce di quanto non mi fosse mai capitato, girandomi e rigirandomi come se fossi intrappolato in una ragnatela.
Quant'era grande il tubo? Non lo sapevo. Scalciai disperato e cercai di far presa sull'acqua circostante. Era come essere nelle sabbie mobili. Non nuotare verso il basso. Scalciai e mi dimenai cercando di trovare il limite della corrente. Contrattai con me stesso. Concentrati, trova il limite, fa' qualche progresso, stai calmo, lascia che ti porti giù di quindici metri per ogni cinquanta centimetri che guadagni in direzione laterale. Mi fermai per un secondo, mi organizzai e cominciai a nuotare in modo adeguato, con forza, come se il tubo fosse la superficie piana di una piscina e io stessi facendo una gara, come se per il vincitore ci fossero in premio una ragazza, un drink e una sdraio sul patio.
Da quanto ero sott'acqua? Non lo sapevo, probabilmente da quindici secondi. Potevo trattenere il respiro forse per un minuto. Perciò rilassati, nuota con forza e trova il limite. Ci doveva essere un limite, tutto l'oceano non si muoveva in quel modo, non era possibile, altrimenti il Portogallo sarebbe stato sommerso come pure metà della Spagna. Le orecchie mi ronzavano per la pressione.
Da che parte stavo andando? Non importava. Dovevo solo uscire dalla corrente. Continuai a nuotare e sentii la corrente che mi contrastava. Era incredibilmente forte. All'inizio delicata, ora mi stava strattonando come se non gradisse la mia reazione. Strinsi i denti e proseguii. Mi sembrava di strisciare su un pavimento con tonnellate di mattoni sulla schiena. I polmoni erano gonfi e mi bruciavano. Lasciavo uscire un po' d'aria tra i denti e nuotavo, facendo forza con le braccia.
Trenta secondi. Stavo annegando, lo sapevo. Stavo perdendo le forze. I polmoni erano vuoti e avvertivo un'oppressione al petto. Sopra di me c'erano tonnellate d'acqua e percepivo la faccia torcersi dal male. Le orecchie mi ronzavano e avevo lo stomaco contratto. La spalla sinistra mi bruciava là dove Paulie mi aveva colpito. Sentii la voce di Harley nella mia mente: non ne è mai tornato indietro uno. Continuai a nuotare.
Quaranta secondi. Non stavo facendo progressi, venivo solo trascinato giù negli abissi. Avrei raggiunto il fondale. Nuotai ancora, cercando di vincere la corrente. Cinquanta secondi. Le orecchie mi fischiavano e la testa stava per scoppiarmi. Digrignavo i denti. Ero molto arrabbiato: Quinn si era salvato dall'oceano. Perché io non ci riuscivo?
Nuotai disperato. Un minuto intero. Avevo le dita congelate, in preda ai crampi, e gli occhi che mi bruciavano. Più di un minuto. Mi agitavo e mi dimenavo facendomi strada nell'acqua. Scalciavo e combattevo. Poi sentii la corrente cambiare. Avevo trovato il limite. Fu come afferrarmi a un palo del telegrafo saltando da un treno in corsa. Mi buttai al di là di esso e un'altra corrente mi afferrò le mani e mi colpì alla testa. Il vorticare dell'acqua mi sbatté di qua e di là e all'improvviso mi ritrovai a ruzzolare e a galleggiare in un'acqua che sembrava immobile, trasparente e fredda.
Adesso pensa: da che parte è la superficie? Mi appellai a tutto il mio autocontrollo e smisi di lottare: rimasi lì a galleggiare e cercai di stabilire la direzione. Non mi mossi. Avevo i polmoni vuoti. Le mie labbra erano strette. Non potevo respirare. Ero in assetto neutro, fermo, immobile nell'acqua, in un metro cubo di oceano nero. Aprii gli occhi e mi guardai attorno. Guardai sopra, sotto, di lato. Mi girai e rigirai, ma non vidi nulla.
Era come essere nello spazio profondo: tutto era buio pesto. Non c'era neanche una luce. Non ne è mai tornato indietro uno.
Poi avvertii una lieve pressione al petto e una minore alla schiena. Ero a faccia all'ingiù nell'acqua, sospeso. Stavo salendo verso l'alto molto lentamente, di schiena. Mi concentrai e memorizzai bene la sensazione. Memorizzai la posizione. Inarcai la schiena, annaspai con le mani e spinsi le gambe verso il basso. Poi allungai le braccia verso la superficie. Ora va'.
Non respirare.
Spinsi furiosamente con i piedi e diedi grandi bracciate, stringendo le labbra. Non avevo più aria in corpo. Tenni la faccia rivolta verso l'alto in modo che la prima parte del corpo a riemergere fosse la bocca. Quanto manca? Sopra di me era tutto nero. Lassù non c'era niente. Ero a chilometri dalla superficie. Sarei morto. Aprii le labbra e l'acqua mi entrò in bocca.
Sputai e deglutii, continuando a spingere con i piedi. Vedevo macchie rosse negli occhi e la testa mi ronzava. Mi sembrava di avere la febbre, di stare bruciando, di stare congelando, di essere avvolto in un grosso piumino.
Era bello morbido. Non sentivo niente.
A quel punto smisi di spingere perché ero sicuro che sarei morto. Aprii la bocca per respirare e ingurgitai acqua salata. Il mio petto ebbe uno spasmo e la sputò. L'acqua entrò e uscì, due volte. Stavo respirando acqua pura. Spinsi ancora una volta: era tutto ciò che potevo fare. Un'ultima spinta, molto energica. Poi chiusi gli occhi, mi lasciai andare e respirai acqua fredda.
Mezzo secondo dopo raggiunsi la superficie. Sentii l'aria sul viso: era la carezza di un'amante. Aprii la bocca. Il mio petto si sollevò e sputai un bel getto d'acqua. Inspirai di nuovo, affannosamente, prima ancora che il getto mi ricadesse addosso. Poi lottai come un matto per tenere il viso rivolto verso l'alto, verso il freddo e dolce ossigeno. Spinsi con le gambe, ansimando e respirando, inspirando e soffiando, tossendo e vomitando.
Aprii bene le braccia e lasciai che le gambe toccassero la superficie, quindi reclinai la testa tenendo la bocca aperta. Guardai il petto sollevarsi e abbassarsi, riempirsi e svuotarsi. Si muoveva a una velocità incredibile. Mi sentivo stanco e in pace, come indistinto. Non avevo ossigeno nel cervello.
Mi dimenai nell'acqua per un buon minuto pensando solo a respirare. La vista mi si schiarì. Vidi una nube scura sopra di me. La testa mi si schiarì.
Respirai ancora. Inspira, espira, inspira, espira, con le labbra increspate, come un mantice. La testa prese a farmi male. Mi tenni a galla in verticale e cercai l'orizzonte, ma non lo trovai. Salivo e scendevo di un metro, un metro e mezzo alla volta, portato da onde rapide, insistenti, su e giù, su e giù. Spinsi lievemente con i piedi quando l'onda successiva mi portò in alto e guardai davanti a me. Non vidi nulla prima di ricadere nel suo ventre.
Non avevo idea di dove fossi. Mi girai di novanta gradi, aspettai l'onda seguente e guardai a destra. Forse là fuori c'era una barca. Niente. Non c'era niente. Ero solo in mezzo all'Atlantico, alla deriva. Non ne è mai tornato indietro uno.
Mi girai di centottanta gradi, aspettai un'altra onda e guardai a sinistra.
Niente. Ricaddi nel ventre e attesi ancora un'onda. Guardai dietro di me.
Ero a un centinaio di metri dalla costa.
Vedevo la casa, le finestre illuminate, il muro, l'alone azzurro delle luci.
Mi sfilai la camicia dalla testa: era fradicia e pesante. Inspirai, mi girai sul ventre e cominciai a nuotare.
Cento metri. Qualsiasi nuotatore degno di partecipare alle Olimpiadi li coprirebbe in quarantacinque secondi, qualsiasi nuotatore degno di partecipare a una gara scolastica, in meno di un minuto. Io impiegai quasi quindici minuti. La marea stava calando e avevo l'impressione di essere trascinato indietro, di stare ancora annegando. Alla fine tuttavia raggiunsi la costa e mi buttai su uno scoglio liscio ricoperto di una patina viscida e gelida, tenendomi ben stretto. Il mare era ancora molto agitato. Grosse onde m'investivano e mi sbattevano la guancia contro il granito con la regolarità di un orologio, ma non m'importava: amavo l'impatto, ogni volta. Amavo quello scoglio.
Rimasi lì aggrappato a riposare per un altro minuto, poi mi mossi. Restai dietro il garage camminando chino, un po' dentro e un po' fuori dell'acqua.
A un certo punto mi misi carponi, mi girai sul dorso e fissai il cielo. Uno è tornato, Harley.
Le onde arrivavano a lambirmi la vita. Mi spostai di schiena finché raggiunsero solo le ginocchia. Poi mi rigirai sul ventre e rimasi con il volto premuto sugli scogli. Mi sentivo gonfio e avevo freddo. Ero congelato fino alle ossa. Non avevo più il cappotto né la giacca. I Persuader erano andati, e anche la Beretta.
Mi alzai e l'acqua mi gocciolò di dosso. Feci alcuni passi barcollando e sentii la voce di Leon Garber nella mia testa: Quello che non ti uccide ti rende più forte. Era convinto che fosse una frase di JFK. Per me l'aveva detta Friedrich Nietzsche e il verbo era distruggere, non uccidere. Quello che non ci distrugge ci rende più forti. Barcollai ancora per un breve tratto e mi appoggiai al muro del cortile, rigettando litri d'acqua salmastra, il che mi fece stare meglio. Agitai le braccia e mossi alternatamente le gambe per stimolare la circolazione e scrollarmi un po' d'acqua di dosso. Poi mi ravviai i capelli e feci un paio di respiri profondi. Temevo gli attacchi di tosse: avevo la gola in fiamme per il freddo e il sale.
Mi avviai lungo il muro posteriore e girai l'angolo. Trovai la mia buca e presi il fagotto per l'ultima volta. Quinn, sto venendo a prenderti.
L'orologio funzionava ancora e indicava che l'ora a mia disposizione era da tempo scaduta. Duffy aveva chiamato l'ATF da venti minuti. La risposta però sarebbe stata lenta: dubitavo che avessero un ufficio operativo a Portland. Boston era probabilmente la sede più vicina, quella da cui avevano inviato la cameriera, perciò avevo ancora tempo a sufficienza.
Il furgone del catering era scomparso, evidentemente la cena era stata annullata. Gli altri veicoli tuttavia erano ancora lì: la Cadillac, la Town Car, i due Suburban. Otto nemici ancora nella villa, più Elizabeth e la cuoca. Non sapevo in quale categoria inserire Richard.
Mi tenni aderente al muro della casa e guardai in ogni finestra. La cuoca era in cucina, intenta a pulire. Keast e Maden avevano lasciato tutta la roba lì. Mi abbassai sotto il davanzale e proseguii. La sala da pranzo era un disastro: l'aria che entrava dalla finestra rotta aveva sollevato la tovaglia di lino gettando piatti e bicchieri dappertutto. Negli angoli il vento aveva formato piccole dune di polvere d'intonaco. Nel soffitto c'erano due grossi fori, come del resto nel soffitto della camera sovrastante e in quello della stanza sopra ancora. Le Brenneke erano probabilmente arrivate fino al tetto, come missili.
Nella stanza quadrata dove avevo giocato alla roulette russa c'erano i tre libici e i tre uomini di Quinn. Sedevano tutti attorno al tavolo di quercia senza far nulla, con aria inespressiva, sotto shock. Parevano fuori combattimento. Non si sarebbero mossi. Mi abbassai sotto il davanzale e proseguii ancora. Arrivai al salotto di Elizabeth Beck. Lei era lì con Richard.
Qualcuno aveva portato via il morto. Era seduta sul divano e stava parlando concitata. Non sentivo quello che diceva, ma Richard la stava ascoltando con attenzione. Mi abbassai di nuovo e avanzai.
Beck e Quinn erano nel piccolo studio. Quinn sedeva nella poltrona rossa, Beck era in piedi davanti alla vetrina con i mitra. Aveva un'aria pallida, cupa, ostile, mentre Quinn sembrava pieno di sé. In mano teneva un grosso sigaro spento. Lo stava girando tra le dita e stava avvicinando un tagliasigari d'argento all'estremità.
Completato il giro, tornai alla cucina ed entrai. Non feci alcun rumore. Il metal detector tacque e la cuoca non mi sentì arrivare. La presi alle spalle, le misi una mano sulla bocca e la trascinai vicino a un banco. Dopo quello che mi aveva fatto Richard non avrei più corso rischi. Trovai uno strofinaccio di lino e lo usai per imbavagliarla. Ne trovai un altro per legarle i polsi e un altro ancora per legarle le caviglie. La lasciai seduta scomoda per terra accanto al lavandino. Trovai un quarto strofinaccio e me lo misi in tasca, poi uscii in corridoio.
Tutto era silenzioso. Sentivo vagamente la voce di Elizabeth Beck. La porta del salotto era aperta. Non sentivo altro però. Andai dritto verso la porta dello studio di Beck. L'aprii, entrai e la richiusi.
Fui accolto da una nube di fumo di sigaro. Quinn se lo era acceso da poco. Ebbi la sensazione che avesse finito di ridere per qualcosa. Adesso però era pietrificato dallo shock. Anche Beck era rimasto di sasso: pallido e immobile. Mi fissarono entrambi.
«Sono tornato», dissi.
Beck aveva la bocca aperta. Lo colpii con un pugno. La bocca gli si richiuse violentemente e la testa si spostò all'indietro. Roteò gli occhi e si accasciò all'istante sul triplo strato di tappeti. Era un discreto pugno, ma non il migliore. Il figlio gli aveva salvato la vita, dopotutto. Se non fossi stato tanto stanco per la nuotata, un pugno migliore lo avrebbe ucciso.
Quinn mi si lanciò contro dalla poltrona. Buttò il sigaro e mise la mano in tasca. Lo colpii allo stomaco. L'aria gli uscì dai polmoni e lui si piegò in avanti, cadendo in ginocchio. Lo colpii alla testa e lo spinsi giù, ventre a terra. Mi inginocchiai sulla sua schiena, tenendo le ginocchia ben puntate tra le scapole.
«No», disse. Non aveva più aria. «Per favore.» Gli posai una mano sulla nuca, presi lo scalpello dalla scarpa e glielo infilai dietro l'orecchio fin su nel cervello, lentamente, centimetro dopo centimetro. Morì prima che arrivasse a metà, ma lo infilai tutto sino al manico e lo lasciai lì. Pulii l'impugnatura con lo strofinaccio che avevo in tasca, gli stesi quest'ultimo sul volto e mi rialzai a fatica.
Dieci-diciotto, Dom, dissi tra me.
Calpestai il sigaro acceso di Quinn. Presi le chiavi di Beck dalla tasca e sgattaiolai in corridoio. Entrai in cucina. La cuoca mi seguì con lo sguardo.
Barcollando, arrivai alla parte anteriore della casa, m'infilai nella Cadillac, l'accesi e partii verso ovest.
Impiegai trenta minuti a raggiungere il motel di Duffy. Lei e Villanueva erano nella stanza di Terry con Teresa Justice. Non era più Teresa Daniel e non era più vestita come una bambola. Le avevano dato un accappatoio del motel. Si era fatta una doccia e si stava riprendendo velocemente. Sembrava debole e pallida, ma aveva l'aspetto di una persona umana, di un'agente federale. Mi fissò inorridita. All'inizio pensai che non sapesse chi fossi: mi aveva visto nella cantina, forse credeva fossi uno di loro.
Poi mi vidi riflesso nello specchio dell'armadio e capii. Ero bagnato dalla testa ai piedi, tremavo tutto e avevo la pelle bianca come un lenzuolo. Il taglio sul labbro si era aperto e i margini erano diventati blu. Avevo nuovi lividi là dove le onde mi avevano sbattuto contro lo scoglio, alghe tra i capelli e fanghiglia sui pantaloni.
«Sono caduto in mare», spiegai.
Nessuno parlò.
«Mi faccio una doccia», dissi. «Rapida. Avete chiamato l'ATF?»
«Sì, stanno arrivando. La Polizia di Portland ha già isolato il magazzino.
Chiuderanno anche la costiera. Te ne sei andato appena in tempo», rispose Duffy.
«Sono mai stato là?» Villanueva scosse la testa. «Tu non esisti e noi non ti abbiamo mai incontrato.»
«Grazie», risposi.
«Vecchia guardia», esclamò lui.
Dopo la doccia il mio spirito migliorò e anche il mio aspetto, ma non avevo vestiti. Villanueva mi prestò i suoi. Erano un po' larghi e corti e li nascosi con il suo impermeabile. Me lo strinsi bene addosso perché avevo ancora freddo. Ci facemmo portare quattro pizze: morivamo tutti di fame.
Mangiammo e bevemmo. Non riuscii a mordere la pasta della pizza, succhiai solo la guarnizione. Dopo un'ora Teresa Justice andò a letto. Mi strinse la mano e con grande educazione mi augurò buonanotte. Non aveva idea di chi fossi.
«Il Roipnol cancella la memoria a breve termine», mi spiegò Villanueva.
Poi parlammo di lavoro. Duffy era molto giù. Stava vivendo un incubo: aveva perso tre agenti in un'operazione illegale e il fatto di aver recuperato Teresa non l'avrebbe aiutata in alcun modo, perché Teresa non sarebbe mai dovuta essere lì.
«Allora molla», dissi. «Passa all'ATF. Hai appena presentato loro un grande risultato su un piatto d'argento. Sarai la celebrità del mese.»
«Io andrò in pensione», affermò Villanueva. «Sono vecchio abbastanza e ne ho abbastanza.»
«Io non posso andare in pensione», replicò Duffy.
La sera prima dell'arresto, al ristorante, Dominique Kohl mi chiese: «Perché lo fai?» Non capii che cosa intendesse. «Cenare con te?»
«No, fare il poliziotto militare. Potevi fare qualsiasi cosa: entrare nelle forze speciali, nell'intelligence, nella cavalleria aerea, nei corpi corazzati, ovunque avessi voluto.»
«Anche tu.»
«Lo so. E so perché faccio quello che faccio. Voglio sapere perché tu lo fai.» Era la prima volta che qualcuno me lo chiedeva.
«Perché ho sempre voluto fare il poliziotto», risposi. «Ma ero predestinato a finire tra i militari, per via del background familiare. Non avevo scelta. Perciò sono diventato poliziotto militare.»
«Questa non è propriamente una risposta. Perché volevi fare il poliziotto?» Mi strinsi nelle spalle. «Sono fatto così. I poliziotti sistemano le cose.»
«Quali cose?»
«Si prendono cura della gente, tutelano i piccoli.»
«È per questo? Per i piccoli?» Scossi la testa.
«No», risposi. «Non esattamente. I piccoli non mi interessano. È che detesto i grandi: i grandi pieni di sé che pensano di farla sempre franca.»
«Allora ottieni i giusti risultati per le ragioni sbagliate.»
«Esattamente, ma cerco di fare la cosa giusta. Penso che in fondo le ragioni non contino. Comunque sia, a me piace che si faccia la cosa giusta.»
«Anche a me», disse lei. «Cerco di fare la cosa giusta, anche se tutti ci odiano e nessuno ci aiuta o ci ringrazia, dopo. Penso che fare la cosa giusta sia di per sé un fine. Deve esserlo, no?»
«Hai fatto la cosa giusta?» chiesi dieci anni dopo.
«Sì», rispose Duffy.
«Nessun dubbio?»
«No.»
«Ne sei certa?»
«Assolutamente sì.»
«Allora rilassati», affermai. «È la miglior cosa a cui tu possa ambire.
Nessuno ti aiuta e nessuno ti dice grazie, dopo.» Lei tacque per un po'.
«Tu hai fatto la cosa giusta?» domandò lei.
«Sicuro.» Poi non ne parlammo più. Duffy aveva sistemato Teresa Justice nella vecchia stanza di Eliot, il che significava che Villanueva avrebbe dormito nella sua e Duffy e io in quella di lei. Sembrava un po' imbarazzata per quello che aveva detto in precedenza, a proposito della mancanza di professionalità. Non sapevo se avrebbe ribadito l'idea o cercato di ritrattare.
«Non temere», dissi. «Sono fin troppo stanco.» E stavolta glielo dimostrai, ma non per mancanza d'iniziativa. Cominciammo. Lei chiarì che aveva intenzione di ritrattare, che dire di sì era meglio che dire di no. Ne fui molto contento perché mi piaceva parecchio.
Perciò cominciammo. Ci spogliammo e andammo a letto insieme. Ricordo che la baciai con tanta passione da farmi male alla bocca, ma questo è tutto quello che ricordo. Poi mi addormentai e dormii il sonno del giusto per undici ore di fila. Quando mi svegliai, se n'erano andati, pronti ad affrontare quello che il futuro aveva in serbo per loro. Ero solo nella stanza con una collezione di ricordi. Il sole filtrava dalle tende e nell'aria volteggiavano granelli di polvere. I vestiti di Villanueva erano scomparsi dallo schienale della sedia e al loro posto c'era un sacchetto pieno di abiti a buon mercato. Sembravano della giusta misura. Susan Duffy aveva occhio per le taglie. Ce n'erano due serie: una per i climi freddi, l'altra per i climi caldi.
Non sapeva dove sarei andato, perciò aveva considerato tutte e due le possibilità.
Era una donna molto pratica.
Pensai che mi sarebbe mancata, almeno per un po'.
Indossai i vestiti per i climi caldi lasciando gli altri nella stanza.
Avrei potuto usare la Cadillac di Beck per raggiungere l'Interstatale 95 e la stazione di servizio di Kennebunk.
Lì avrei potuto abbandonarla e trovare senza problemi un passaggio verso sud.
L'Interstatale 95 ti porta dappertutto, anche fino a Miami.
FINE