6

 

Andare a letto non avrebbe avuto senso, perciò rimasi alla finestra a guardare l'alba. Sorse di lì a poco: il sole spuntò dal mare. L'aria era fresca e tersa. Vedevo fino a ottanta chilometri di distanza. Osservai una sterna artica arrivare da nord. Sulla costa si abbassò più che poté. Immaginai cercasse un posto per costruire il nido. Il sole basso dietro di lei creava un'ombra enorme, facendola sembrare un avvoltoio. A un certo punto rinunciò, volteggiò e si allontanò sull'acqua per piombare poi in picchiata nell'oceano. Ne emerse poco dopo lasciandosi dietro una scia di goccioline argentee d'acqua gelida mentre risaliva in cielo. Non aveva niente nel becco, ma volava come se fosse lo stesso contenta. Era meglio adattata di me.

Dopo non ci fu molto altro da vedere. C'erano alcuni gabbiani reali in lontananza. Socchiusi gli occhi alla luce intensa e cercai tracce di balene o di delfini, ma non vidi nulla. Osservai i tappeti di alghe ondeggiare, mossi da correnti circolari. Alle 6.15 udii i passi di Duke in corridoio e lo scatto della serratura. Non entrò, si allontanò semplicemente con passo pesante.

Mi voltai verso la porta e feci un respiro profondo. Era il giorno numero tredici, giovedì. Forse era meglio di venerdì tredici, ma non ne ero molto sicuro. Comunque sia, va' avanti. Feci un altro respiro, uscii e mi diressi verso le scale.

Niente era uguale alla mattina precedente. Duke era in forze e io ero stanco. Paulie non si vedeva. Andai in palestra, nel seminterrato, ma non vi trovai nessuno. Duke non si era fermato a colazione, era scomparso da qualche parte. Richard Beck venne a mangiare in cucina. A tavola c'eravamo solo lui e io. Il meccanico non c'era e la cuoca era occupata ai fornelli. La ragazza irlandese andava e veniva dalla sala da pranzo, muovendosi rapida. Nell'aria c'era fermento. Stava accadendo qualcosa.

«C'è un grosso carico in arrivo», disse Richard Beck. «È sempre così.

Tutti si eccitano per i soldi che guadagneranno.»

«Torni a scuola?» domandai.

«Domenica», rispose. Non sembrava preoccupato all'idea, io invece sì.

Domenica sarebbe stata di lì a tre giorni. Il mio quinto giorno in quel posto, la scadenza finale. Qualsiasi cosa fosse successa, sarebbe successa entro quella data e il ragazzo si sarebbe trovato sotto il fuoco incrociato.

«Te la senti?» chiesi.

«Di tornare?» Annuii. «Dopo quello che è successo?»

«Adesso sappiamo chi è stato», rispose. «Una banda di coglioni del Connecticut. Non si ripeterà.»

«Ne siete così sicuri?» Mi guardò come se fossi impazzito. «Mio papà si occupa costantemente di cose del genere. E se per domenica la faccenda non verrà chiusa, resterò qui finché non lo sarà.»

«Tuo papà gestisce da solo l'attività? O ha un socio?»

«La gestisce da solo», rispose. La sua ambivalenza era scomparsa: sembrava contento d'essere a casa, sicuro, a suo agio, fiero del padre. Il suo mondo si era ridotto a mezzo acro di nudo granito, con un mare agitato e un muro alto di pietra provvisto di filo spinato che facevano da confini.

«Secondo me tu non hai ucciso quello sbirro», disse.

In cucina piombò il silenzio. Lo fissai.

«Probabilmente lo hai solo ferito», aggiunse. «Almeno, lo spero. Sai, forse adesso si starà riprendendo in un ospedale o da qualche altra parte.

Questo è quello che penso. Tu dovresti cercare di fare lo stesso. Pensa positivo. Così è meglio: vedi il mezzo bicchiere pieno, non quello vuoto.»

«Non lo so», dissi.

«Allora fa' finta», suggerì lui. «Usa il potere del pensiero positivo. Ripeti a te stesso: ho fatto una buona azione e non ci sono stati risvolti negativi.»

«Tuo padre ha chiamato il dipartimento di Polizia», osservai. «Questo non lascia spazio a dubbi.»

«Allora fa' finta», ripeté. «È quello che faccio io: le cose brutte non succedono a meno che tu non le evochi.» Aveva smesso di mangiare e teneva la mano sinistra sulla testa. Sorrideva radioso, ma il suo inconscio stava ricordando alcune brutte cose che gli erano capitate nella vita: era chiaro. Le stava ricordando, eccome.

«D'accordo», esclamai. «Non era una ferita grave.»

«Il proiettile è entrato e uscito», aggiunse lui. «Pulito, pulito.» Io rimasi in silenzio.

«Ha mancato di un pelo qualsiasi organo», proseguì. «È stato un miracolo.» Annuii. Ci sarebbe proprio voluto un miracolo, quello era maledettamente certo: colpisci al petto qualcuno con un 44 Magnum a punta molle e gli fai un foro grande quanto il Rhode Island. La morte in genere è istantanea. Il cuore si ferma subito, soprattutto perché non esiste più. Immaginai che il ragazzo non avesse mai visto uccidere nessuno con un'arma da fuoco, poi invece pensai: magari sì, e non gli è piaciuto molto.

«Pensiero positivo», affermò. «Questo è il segreto. Immagina che sia al sicuro e al caldo da qualche parte, in fase di pieno recupero.»

«Il carico in arrivo, che cos'è?» chiesi.

«Roba falsa, probabilmente», rispose. «Dal Pakistan. Laggiù facciamo fare tappeti persiani antichi di duecento anni. Le persone sono così imbecilli.»

«Davvero?» Lui mi guardò e annuì. «Vedono quello che vogliono vedere.»

«Davvero?»

«Sempre.» Distolsi lo sguardo. Non c'era caffè. Dopo un po' ti rendi conto che la caffeina dà dipendenza. Mi sentivo irritato e stanco.

«Che fai oggi?» mi chiese.

«Non lo so», risposi.

«Io ho intenzione di leggere», affermò Richard. «Forse farò due passi lungo la costa per vedere che cosa ha portato il mare.»

«Il mare porta cose?»

«A volte. Sai, cose che cadono dalle barche.» Lo guardai. Era un messaggio? Avevo sentito che i contrabbandieri gettavano in mare balle di marijuana in modo che le correnti le portassero a terra in zone isolate. Immaginai che lo stesso sistema potesse essere adottato per l'eroina. Era un messaggio? O mi stava avvertendo? Sapeva del fagotto di arnesi che avevo nascosto? E cos'era tutta quella faccenda del poliziotto a cui avevo sparato? Psicologia da strapazzo? O stava giocando con me?

«Ma succede soprattutto in estate», aggiunse. «Adesso fa troppo freddo per andare in giro in barca, perciò resterò a casa, forse a dipingere un po'.»

«Tu dipingi?»

«Studio arte», rispose. «Te l'ho detto.» Annuii e fissai la nuca della cuoca, come per indurla telepaticamente a fare il caffè. A quel punto arrivò Duke. Si avvicinò al posto dov'ero seduto, posò una mano sullo schienale della sedia e l'altra sul tavolo, estesa. Poi si chinò come se dovesse parlarmi con tono confidenziale.

«È il tuo giorno fortunato, coglione», disse.

Non risposi nulla.

«Porterai in giro la signora Beck», aggiunse. «Desidera fare un po' di shopping.»

«Dove?»

«Da qualsiasi parte», rispose.

«Tutto il giorno?»

«Sarà meglio.» Annuii. Niente sconosciuti il giorno in cui arriva un carico.

«Prendi la Cadillac», disse gettando le chiavi sul tavolo. «E fa' in modo che non torni presto indietro.» O meglio, niente signora Beck il giorno in cui arriva un carico.

«D'accordo», affermai.

«Lo troverai molto interessante», aggiunse. «Soprattutto nella prima parte. A me eccita sempre da matti, ogni volta.» Non avevo idea di quello che intendesse e non persi tempo a cercare di capire. Mi limitai a fissare la caffettiera vuota. Duke se ne andò e poco dopo udii la porta d'ingresso aprirsi e chiudersi. Il metal detector squillò due volte. Duke e Beck, con chiavi e pistole. Richard si alzò da tavola e uscì con calma. Io rimasi solo con la cuoca.

«C'è un po' di caffè?» domandai.

«No», rispose.

Rimasi seduto finché mi venne in mente che un bravo autista doveva essere pronto, in attesa, perciò uscii dalla porta posteriore. Il metal detector suonò con discrezione per le chiavi. La marea era salita da tempo e l'aria era fredda e frizzante. Sentivo odore di sale e di alghe. L'oceano non era più calmo, s'infrangeva sugli scogli. Mi diressi al garage, accesi la Cadillac e uscii in retromarcia. Imboccai la rotonda e rimasi lì in attesa con il motore acceso per attivare il riscaldamento. Ero rivolto a nord-est e all'orizzonte vedevo le navi minuscole che entravano e uscivano da Portland. Si muovevano poco prima della linea in cui il cielo si congiungeva con il mare, seminascoste, incredibilmente lente. Mi chiesi se una di esse fosse quella di Beck o se la sua fosse già arrivata e bene ormeggiata, pronta a scaricare.

Se un doganiere la stesse superando con lo sguardo fisso davanti a sé, alla nave successiva, con un rotolo di banconote nuove, fruscianti, in tasca.

Elizabeth Beck uscì di casa dieci minuti dopo il mio arrivo. Indossava una gonna scozzese al ginocchio, un maglioncino bianco sottile e un cappotto di lana. Aveva le gambe nude, senza collant, e i capelli raccolti con un elastico. Aveva un'aria infreddolita, ma anche di sfida, rassegnata e pensierosa nello stesso tempo. Sembrava una nobildonna condotta alla ghigliottina. Immaginai fosse abituata ad avere Duke come autista e che fosse un po' in imbarazzo a farsi portare in giro dall'ammazza-sbirri. Scesi e le aprii la portiera posteriore, ma lei non si fermò.

«Salgo davanti», disse.

Si sistemò sul sedile del passeggero e io mi sedetti al suo fianco.

«Dove andiamo?» chiesi educatamente.

Lei fissò fuori del finestrino.

«Ne parleremo dopo il cancello», rispose.

Questo era chiuso e Paulie era in piedi proprio davanti a esso. Sembrava grande e grosso più che mai. Sotto le spalle e nelle maniche della giacca sembrava avere dei palloni da basket. Aveva la pelle del volto rossa per il freddo. Ci stava aspettando. Fermai l'auto a un paio di metri da lui, che tuttavia non si mosse per aprire il cancello. Lo guardai in faccia. Mi ignorò e si avvicinò al finestrino di Elizabeth Beck. Le sorrise, batté con le nocche sul vetro e le fece cenno di abbassarlo. Lei guardava davanti a sé, oltre il parabrezza, cercando di ignorarlo. Lui bussò di nuovo, al che lei si voltò a guardarlo. Paulie inarcò le sopracciglia e ripeté il gesto. Elizabeth rabbrividì con tanta forza da far ondeggiare la macchina sulle sospensioni. Si fissò intensamente un'unghia, poi la posò sul pulsante del finestrino e lo premette. Il vetro si abbassò. Paulie si chinò e posò l'avambraccio destro sul telaio della portiera.

«Buongiorno», disse.

Si protese nell'abitacolo e le toccò la guancia con il dorso dell'indice. Lei non si mosse, continuò solo a fissare davanti a sé. Lui le mise una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

«Mi è piaciuta la tua visita ieri sera», aggiunse.

Lei tremò ancora, come se morisse di freddo. Paulie mosse la mano, abbassandola sul seno. Le afferrò una mammella e gliela strinse. Lei rimase immobile senza reagire. Al che usai il pulsante del finestrino sulla mia portiera e il vetro si sollevò bloccandosi contro il gigantesco braccio di Paulie.

Scattò il dispositivo di sicurezza e il vetro si abbassò di nuovo. Aprii la portiera, scesi e girai attorno al cofano. Paulie era ancora chino, ancora con la mano nell'auto. L'aveva abbassata ancora un po'.

«Sta' lontano», disse guardando lei, ma rivolgendosi a me.

Mi sentivo come un taglialegna senza un'ascia o una sega elettrica di fronte a una sequoia: da dove inizio? Gli sferrai un calcio nei reni. Era un calcio che avrebbe mandato un pallone da football fuori dello stadio, fin nel posteggio, o che avrebbe rotto un palo del telefono. Sarebbe bastato di per sé a spedire la maggior parte delle persone in ospedale, qualcuna, forse, l'avrebbe anche uccisa, ma su Paulie ebbe l'effetto di un colpetto educato sulla spalla. Non emise neanche un verso. Si limitò a posare tutte e due le mani sul telaio della portiera e a sollevarsi lentamente. Poi si voltò a guardarmi.

«Rilassati, maggiore», disse. «È solo il mio modo di dire buongiorno alla signora.» Si allontanò dalla macchina, passò alla mia destra e aprì il cancello. Era molto calmo. Non diede alcun segno di reazione: era come se non l'avessi toccato. Io rimasi fermo e lasciai che l'adrenalina calasse, poi guardai la macchina: il bagagliaio, il cofano. Passare dietro, accanto al bagaglio, equivaleva a dirgli ho paura di te. Perciò passai accanto al cofano, ma feci in modo di restare ben al di fuori della sua portata. Non avevo alcun desiderio di dare sei mesi di lavoro a un chirurgo per ricostruirmi le ossa della faccia. Giunsi al massimo a un metro e mezzo da lui. Paulie non accennò ad aggredirmi. Spalancò completamente il portone e rimase lì, paziente, in attesa di richiuderlo.

«Di quel calcio parleremo dopo, va bene?» esclamò.

Non risposi nulla.

«E non farti idee sbagliate, maggiore», aggiunse. «A lei piace.» Tornai in macchina. Elizabeth Beck aveva chiuso il finestrino e fissava dritto davanti a sé, pallida, muta, umiliata. Superai il cancello e mi diressi a ovest osservando Paulie nel retrovisore. Chiuse il cancello e si diresse di nuovo nella guardiola, scomparendo alla vista.

«Mi spiace che abbia dovuto assistere», affermò calma Elizabeth.

Non replicai.

«E grazie per essere intervenuto», aggiunse. «Anche se è stato inutile.

Temo che ti procurerà parecchi guai. Già prima ti odiava, sai, e non è un tipo che ragioni molto.» Rimasi sempre zitto.

«È una questione di controllo, naturalmente», proseguì come se parlasse a se stessa, non a me. «Una dimostrazione di potere. Solo questo, e basta.

Non c'è sesso. Non può farlo. Troppi steroidi, credo. Mi tocca soltanto.» Tacqui ancora.

«Mi fa spogliare», spiegò lei, «e sfilare davanti a lui. Mi tocca, ma non facciamo sesso. È impotente.» Tacqui, continuando a guidare piano per non sbandare sulle curve della costiera.

«In genere dura un'ora», disse ancora Elizabeth.

«Lo ha detto a suo marito?» chiesi.

«Che cosa può fare lui?»

«Licenziarlo.»

«Impossibile», rispose.

«Perché?»

«Perché Paulie non lavora per mio marito.» La guardai. Ricordai di aver detto a Duke: Sbarazzatene. E lui mi aveva risposto: Non è così semplice.

«Allora per chi lavora?» domandai.

«Per qualcun altro.»

«Chi?» Lei scosse la testa. Era come se non riuscisse a pronunciarne il nome.

«È una questione di controllo», ripeté. «Non posso oppormi a quello che mi fanno, così come mio marito non può opporsi a quello che fanno a lui.

Nessuno si può opporre a niente, capisci. Questo è il punto. Non lo permetteranno nemmeno a te. Duke non penserebbe mai di farlo, ovviamente.

Quello è un animale.» Rimasi zitto.

«Ringrazio solo Dio di avere un figlio maschio», aggiunse. «Non una femmina.» Restai ancora in silenzio.

«Ieri sera è stato orribile», esclamò. «Pensavo mi avrebbe lasciata in pace ora che sto invecchiando.» La guardai di nuovo. Non sapevo che dire.

«Ieri era il mio compleanno», affermò. «Quello è stato il regalo di Paulie.» Tacqui.

«Ho cinquant'anni», proseguì Elizabeth. «Immagino che a te non venga in mente di chiedere a una cinquantenne di sfilarti nuda davanti.» Non sapevo che rispondere.

«Anche se mi tengo in forma», spiegò. «Uso la palestra quando gli altri sono via.» Restai sempre zitto.

«Mi chiama col cerca-persone», disse. «Devo portarlo sempre con me. È suonato nel cuore della notte. Ieri notte. Ho dovuto andare, subito. Se lo faccio aspettare è peggio.» Non dissi nulla.

«Stavo tornando quando mi hai vista», affermò. «Là fuori, sugli scogli.»

Accostai, frenai dolcemente e fermai la macchina, spostando il cambio sulla posizione di posteggio.

«Penso che tu lavori per il governo», disse.

Scossi la testa.

«Si sbaglia», risposi. «Sono uno qualsiasi.»

«Allora mi deludi.»

«Sono uno qualsiasi», ripetei.

Lei non parlò.

«Non dovrebbe dire cose del genere», aggiunsi. «Sono già abbastanza nei guai.»

«Sì», ammise. «Ti uccideranno.»

«Be', ci proveranno», replicai, poi tacqui per qualche istante. «Li ha informati della sua teoria?»

«No», rispose lei.

«Be', non lo faccia. E comunque, si sbaglia.» Lei non aprì bocca.

«Sarebbe la guerra», spiegai. «Loro mi attaccherebbero, ma io non cederei facilmente. Ci sarebbero dei feriti. Richard, forse.» Lei mi fissò. «Stai cercando di patteggiare?» Scossi di nuovo la testa.

«Sto cercando di avvertirla», risposi. «Sono un sopravvissuto.» Lei abbozzò un sorriso amaro.

«Tu non hai assolutamente idea», disse. «Chiunque tu sia, sei in guai più grossi di te. Dovresti andartene, ora.»

«Sono uno qualsiasi», ripetei. «Non ho niente da nascondere a loro.» Il vento scuoteva la macchina. Non vedevo altro che granito e alberi. Eravamo a chilometri di distanza da qualsiasi essere umano.

«Mio marito è un criminale», affermò.

«Lo immaginavo», risposi.

«È un uomo duro», disse. «Sa essere violento, ed è sempre spietato.»

«Ma non è lui che comanda», osservai.

«No», ammise. «Non è lui che comanda. È un uomo duro che trema letteralmente come una foglia di fronte a quello che è il suo capo.» Non dissi nulla.

«C'è un modo di dire...» proseguì. «La gente si chiede perché le cose brutte capitino ai buoni. Ma nel caso di mio marito le cose brutte capitano a un malvagio. Ironico, vero? E sono davvero cose brutte.»

«Da chi dipende Duke?» chiesi.

«Da mio marito», rispose. «Ma Duke, a suo modo, è marcio quanto Paulie. Non saprei chi dei due è meglio. È un ex poliziotto corrotto, un ex agente federale corrotto e un assassino. È stato in carcere.»

«È l'unico?»

«Alle dipendenze di mio marito? Be', aveva le due guardie del corpo.

Quelle erano sue o quanto meno gli erano state fornite. Ma sono state uccise, naturalmente, all'esterno del college, da quelli del Connecticut. Perciò sì, Duke adesso è l'unico. A parte il meccanico, ma lui è solo un tecnico.»

«Quanti uomini ha quell'altro?»

«Non ne sono certa. Sembra ci sia sempre un gran viavai.»

«Che cosa importano esattamente?» Elizabeth distolse lo sguardo. «Se non sei del governo, allora queste cose non ti devono interessare.» Seguii il suo sguardo in direzione degli alberi lontani. Pensa, Reacher.

Potrebbe essere un piano architettato con cura per farti uscire allo scoperto.

Potrebbero essere tutti coinvolti. Per Beck la mano di quell'uomo sul seno della moglie potrebbe essere un prezzo irrisorio da pagare in cambio di un'informazione di cruciale importanza. E io credevo nei piani architettati con cura: ne stavo giusto seguendo uno.

«Non sono del governo», risposi.

«Allora mi deludi», ripeté lei.

Misi il cambio nella posizione di guida e tenni il piede sul freno.

«Dove andiamo?» chiesi.

«Pensi che m'importi dove diavolo andiamo?»

«Le va un caffè?»

«Un caffè?» chiese. «Certo. Vai a sud. Teniamoci alla larga da Portland, oggi.»

Svoltai a sud e imboccai la Uno, circa un chilometro e mezzo prima dell'Interstatale 95. Era una strada vecchia e piacevole, come un tempo erano tutte le strade. Passammo un posto chiamato Old Orchard Beach, con graziosi marciapiedi di mattoni e vecchi lampioni in stile vittoriano. Alcune targhe indicavano la spiaggia a sinistra. C'erano varie bandiere francesi sbiadite: supposi che i canadesi del Quebec venissero lì in vacanza prima che la riduzione delle tariffe aeree per la Florida e i Caraibi li pilotasse altrove.

«Perché sei uscito la notte scorsa?» mi chiese Elizabeth Beck.

Non dissi nulla.

«Non puoi negarlo», continuò. «Credevi non ti avessi visto?»

«Non ha reagito», osservai «Ero nella modalità Paulie», rispose. «Ho imparato a non reagire.» Non parlai.

«La tua stanza era chiusa a chiave», proseguì lei.

«Sono sceso dalla finestra», affermai. «Non mi va d'essere chiuso a chiave.»

«E poi cos'hai fatto?»

«Due passi, come credevo facesse anche lei.»

«E sei risalito dalla finestra?» Annuii senza dire nulla.

«Il muro è il grande problema», osservò. «Ci sono le luci e il filo spinato, ovviamente, ma ci sono anche i sensori nel terreno. Paulie ti sentirebbe a trenta metri di distanza.»

«Volevo solo prendere una boccata d'aria», affermai.

«Sotto il viale non ci sono sensori», continuò. «Sotto l'asfalto non avrebbero potuto funzionare. Ma sulla guardiola c'è una telecamera e il cancello ha un sensore di movimento. Sai che cos'è una NSV?»

«Una mitragliatrice istallata sulla torretta dei carri armati sovietici», risposi.

«Paulie ne ha una», disse. «La tiene accanto alla porta laterale. Ha l'ordine di usarla se sente scattare il sensore di movimento.» Inspirai ed espirai. Una NSV è lunga più di un metro e mezzo e pesa circa venticinque chili. Usa proiettili lunghi dodici centimetri con un diametro di centotrenta millimetri. Ne può sparare dodici in un secondo e non ha la sicura. L'abbinamento Paulie-NSV avrebbe inquietato chiunque.

«Secondo me tu hai nuotato», aggiunse. «Sento l'odore del mare sulla camicia. Non ti sei asciugato bene quando sei rientrato.» Superammo un cartello che indicava la cittadina di Saco. Accostai a bordo strada e mi fermai di nuovo. Auto e camion ci superarono sibilando.

«Ti è andata incredibilmente bene», commentò. «Al largo del promontorio ci sono delle brutte correnti di risucchio. Sul fondale c'è un gran movimento d'acqua. Ma immagino tu sia entrato in mare dietro il garage, nel qual caso le hai evitate diciamo di circa tre metri.»

«Non lavoro per il governo», insistei.

«Davvero?»

«Non crede di stare rischiando grosso?» domandai. «Supponiamo che non sia quello che sembro. Così, solo perché ne stiamo discutendo. Diciamo che appartenga, per esempio, a un'organizzazione rivale. Non capisce quanto rischia? Crede che con quello che ha detto tornerebbe viva a casa?» Lei distolse lo sguardo.

«Allora, immagino che questa sarà la prova», replicò. «Se sei del governo, non mi ucciderai. Altrimenti lo farai.»

«Sono uno qualsiasi», dissi. «E lei potrebbe mettermi nei guai.»

«Cerchiamo un posto dove bere un caffè», osservò. «Saco è una bella cittadina. Una volta, tanti anni fa, ci vivevano tutti i proprietari dei grandi stabilimenti.»

Finimmo su un'isola in mezzo al fiume Saco, su cui sorgeva un'enorme costruzione di mattoni che molto tempo prima era stata una fabbrica. Adesso era stata riqualificata e ospitava una miriade di uffici e negozi. Trovammo un bar tutto vetro e cromo chiamato Café Café. Non che fosse un nome molto originale, pensai. Ma il profumo bastava a giustificare il viaggio. Ignorai i caffelatte e i caffè aromatizzati pieni di schiuma e ne ordinai uno nero, caldo, grande. Poi mi voltai verso Elizabeth Beck, che scosse il capo.

«Tu resta pure», disse. «Ho deciso che andrò a far spese. Da sola. Ci vediamo qui tra quattro ore.» Non risposi nulla.

«Non mi serve il tuo permesso», aggiunse. «Sei solo un autista.»

«Non ho soldi», dissi.

Elizabeth Beck prese venti dollari dalla borsa. Pagai il caffè e lo portai a un tavolino. Lei mi seguì e mi guardò mentre mi sedevo.

«Quattro ore», ripeté. «Forse qualcosa di più, ma non di meno. In caso tu debba fare qualcosa.»

«Non ho niente da fare», risposi. «Sono solo il suo autista.» Lei mi guardò e chiuse la cerniera della borsa. Lo spazio attorno al tavolino era scarso: dovette girarsi lievemente per mettersi la borsa in spalla e piegarsi in avanti per evitare di toccare il tavolino e rovesciare il caffè. In quel momento udii un tonfo soffocato, come se un oggetto di plastica fosse caduto per terra. Abbassai lo sguardo. Qualcosa le era scivolato da sotto la gonna. Lei lo fissò e il suo viso assunse lentamente un colorito rosso intenso. Si chinò, raccolse l'oggetto e lo strinse in mano. Poi si buttò verso la sedia davanti alla mia come se d'un tratto non avesse più forze, come se fosse stata brutalmente umiliata. In mano teneva un cerca-persone Era un rettangolo di plastica nera, più piccolo del mio apparecchio e-mail. Elizabeth lo fissò. Aveva il collo tutto rosso, ben oltre la scollatura del maglioncino. Parlò sussurrando, con tono basso e triste.

«Mi costringe a portarlo lì», disse. «Nelle mutandine. Gli piace che abbia quello che chiama 'il giusto effetto' quando suona. Controlla che ci sia ogni volta che esco dal cancello. Dopo, di solito lo tolgo e lo metto in borsa, ma stavolta non ho voluto farlo, sai, con te che guardavi.» Rimasi in silenzio. Lei si alzò. Batté un paio di volte le palpebre, inspirò e deglutì.

«Quattro ore», ripeté. «In caso tu debba fare qualcosa.» Quando si allontanò, la osservai. Superata la porta, girò a sinistra e scomparve. Un piano architettato con cura? Era possibile che cercassero di farmi cadere in trappola con la sua storia, che portasse un cerca-persone nelle mutande per renderla più credibile e che avesse fatto in modo di perderlo al momento giusto. Tutto era possibile. Ma ciò che non lo era assolutamente era indurre a comando quel rossore intenso. Nessuno ci sarebbe riuscito, nemmeno l'attrice più abile al meglio delle sue capacità. Perciò Elizabeth Beck era stata sincera. Non abbandonai del tutto le precauzioni più logiche, era un'abitudine troppo radicata. Finii il caffè come una persona che aveva a disposizione tutto il tempo del mondo. Mi avviai con calma lungo i marciapiedi interni del centro commerciale, svoltando a caso a destra e a sinistra finché fui certo d'essere solo. A quel punto tornai al bar e ordinai un'altra tazza di caffè. Chiesi la chiave della toilette e mi chiusi dentro. Seduto sul coperchio del water mi tolsi la scarpa. C'era un messaggio di Duffy: Perché ti interessava sapere il vero nome di Teresa Daniel?

Ignorai la domanda e scrissi: Dov'è il tuo motel? Novanta secondi dopo rispose: Che cos'hai mangiato a colazione il primo giorno a Boston? Sorrisi.

Duffy era una donna pratica. Temeva che il mio apparecchio e-mail fosse controllato e mi aveva fatto una domanda di sicurezza. Una piccola porzione di pancake con uova e caffè, mancia: tre dollari, scrissi. Qualsiasi altra risposta le avessi dato, di lì a un secondo sarebbe saltata in macchina.

Novanta secondi dopo rispose: Sulla Uno, lato ovest, a un centinaio di metri a sud del fiume Kennebunk. Immaginavo fosse a una quindicina di chilometri di distanza. Ci vediamo tra dieci minuti, risposi.

Per tornare alla macchina e districarmi nel traffico che s'imbottigliava nel punto in cui la Uno attraversava Saco, impiegai invece più di quindici minuti. Per l'intero tragitto tenni d'occhio il retrovisore, ma non vidi nulla di allarmante. Attraversai il fiume e trovai il motel sulla destra. Era una costruzione allegra di color grigio brillante che imitava le abitazioni coloniali del New England. Era aprile e non c'era molto movimento. Vidi la Taurus in cui avevo viaggiato da passeggero quando avevo lasciato Boston parcheggiata accanto all'ultima stanza. Era l'unica berlina che notai. Posteggiai la Cadillac a trenta metri di distanza, dietro un capanno di legno che riparava un grande serbatoio di propano. Non aveva senso che fosse visibile a chiunque passasse sulla Uno.

Tornai indietro e bussai una volta. Susan Duffy aprì subito e ci abbracciammo. Fu un gesto spontaneo per entrambi e la cosa mi colse del tutto alla sprovvista. Anche lei, credo, rimase spiazzata. Probabilmente, se ci avessimo pensato, non l'avremmo fatto. Lei era in ansia e io stressato, per questo accadde. Ma fu davvero molto piacevole. Duffy era alta e sottile: la mia mano copriva l'intera larghezza della sua schiena. Sentii le sue costole cedere lievemente. Sapeva di fresco e di pulito: non aveva profumo, era l'odore della sua pelle. Si era fatta la doccia da poco.

«Che cosa sai di Teresa?» domandò.

«Sei sola?»

«Sì. Gli altri sono a Portland. La Dogana ci ha detto che oggi arriva una nave di Beck.» Ci allontanammo ed entrammo nella stanza.

«Che hanno intenzione di fare?» domandai.

«Osservare soltanto», rispose. «Non ti preoccupare. Sono bravi. Nessuno li vedrà.» Era una stanza di motel come tante: un letto queen size, un tavolo, un televisore, una finestra, un condizionatore a incasso. Le uniche cose che la distinguevano dalla miriade di altre stanze di motel erano l'abbinamento cromatico blu-grigio e le stampe di marina alle pareti, che conferivano una tipica atmosfera da zona costiera del New England.

«Che cosa sai di Teresa?» ripeté.

Le raccontai del nome inciso nella stanza del seminterrato e della data.

Duffy mi fissò, poi chiuse gli occhi.

«È viva», disse. «Grazie.»

«Be', ieri lo era», osservai.

Lei aprì gli occhi. «Pensi che oggi lo sia?» Annuii. «Secondo me le probabilità sono piuttosto elevate. La usano per qualcosa. Perché tenerla in vita per nove settimane e ucciderla ora?» Duffy non parlò.

«Devono averla solo spostata», aggiunsi. «È la mia migliore ipotesi. Al mattino la porta era chiusa a chiave, la sera lei non c'era più.»

«Pensi la trattino bene?» Non le dissi quello che Paulie amava fare a Elizabeth Beck: aveva già abbastanza preoccupazioni.

«Credo abbia inciso il suo nome con una forchetta», affermai. «E ieri sera c'era un piatto in più con una bistecca e delle patate, come se l'avessero portata via tanto in fretta da scordarsi di avvisare la cuoca. Perciò le danno da mangiare. Per loro è una prigioniera, nient'altro.»

«Dove l'avranno portata?»

«Suppongo l'abbia presa Quinn», risposi «Perché?»

«Perché mi sembra che qui abbiamo un'organizzazione sovrapposta a un'altra. Beck è sicuramente un criminale, ma è passato alle dipendenze di uno che è peggio di lui.»

«Come in una sorta di società?»

«Esatto», dissi. «Ma è stato un assorbimento forzato. Quinn ha messo i suoi a lavorare nell'azienda di Beck e la sfrutta come un parassita.»

«Ma perché spostare Teresa?»

«Per precauzione», risposi.

«Per causa tua? Quanto ti temono?»

«Un po'», ammisi. «Penso stiano spostando e nascondendo cose.»

«Ma non ti hanno ancora affrontato.»

«In verità, non sono sicuri di me.»

«Perché allora correre un rischio?»

«Perché ho salvato il ragazzo.» Lei annuì e tacque. Aveva l'aria un po' stanca. Immaginai non avesse dormito molto da quando le avevo chiesto l'auto a mezzanotte. Indossava un paio di jeans e una camicia Oxford da uomo. Era di un bianco immacolato, bene infilata nei pantaloni. I due bottoni in alto erano aperti. Portava un paio di scarpe da barca senza calze. Il riscaldamento della stanza era alzato. Sul tavolo, accanto al telefono della camera, c'era un laptop. L'apparecchio era uno di quei modelli a console tutto pieno di tasti per le chiamate rapide. Controllai il numero e lo memorizzai. Il computer si inseriva mediante un complicato adattatore in una porta dati alla base del telefono.

Sul monitor si vedeva uno screensaver con lo scudo del dipartimento di Giustizia che si muoveva di qua e di là. Ogniqualvolta raggiungeva il bordo dello schermo, rimbalzava e ripartiva in una direzione a caso, come quel vecchio videogioco sul tennis. Non emetteva alcun suono.

«Hai già visto Quinn?» Scossi la testa.

«Sai da dove opera?» Scossi di nuovo la testa. «A dire il vero non ho scoperto proprio niente, tranne che i loro libri sono tutti in codice e che non hanno una flotta di distribuzione sufficiente a movimentare le merci che sembra movimentino.

Forse sono i clienti a venirle a prendere.»

«Sarebbe una pazzia», commentò Duffy. «Non mostrerebbero mai ai clienti la loro base operativa. Anzi, sappiamo che non lo fanno. Beck si è incontrato con lo spacciatore di Los Angeles in un garage, ricordati.»

«Allora potrebbero fissare gli appuntamenti in qualche zona neutra. Per le vendite vere. In un punto vicino, nel nord-est.» Lei annuì. «Come hai fatto a vedere i libri?»

«Ero nel loro ufficio ieri sera. Per questo volevo una macchina.» Duffy si avvicinò al tavolo, si sedette e toccò il touch pad del computer.

Lo screensaver scomparve e sotto apparve la mia ultima mail: Ci vediamo tra dieci minuti. Selezionò il cestino e cliccò un messaggio di Powell, il poliziotto militare che mi aveva venduto.

«Abbiamo verificato quei nomi», disse. «Angel Doll ha fatto otto anni a Leavenworth per aggressione sessuale. Avrebbe dovuto prendere l'ergastolo per stupro e omicidio, ma l'accusa ha combinato un casino. Era un tecnico delle comunicazioni. Ha violentato un tenente colonnello e l'ha lasciata morire dissanguata per lesioni interne. Non è un tipo molto raccomandabile.»

«Non è un tipo molto vivo», replicai.

Lei mi guardò.

«Ha controllato le targhe della Maxima», spiegai. «Mi ha preso di petto: un grosso errore. È stata la prima vittima.»

«Lo hai ucciso?» Annuii. «Gli ho spezzato il collo.» Lei non disse nulla.

«Se l'è voluta», commentai. «Stava per compromettere la missione.» Duffy era pallida.

«Stai bene?» chiesi.

Lei distolse lo sguardo. «A dire il vero non credevo ci sarebbero state delle vittime.»

«Potrebbero essercene altre. Preparati.» Lei mi guardò di nuovo. Inspirò e assentì.

«Bene», disse, poi tacque. «Mi spiace per le targhe. È stato uno sbaglio.»

«E di Paulie che mi dici?» Duffy fece scorrere il testo. «A Leavenworth Doll aveva un compagno, un certo Paul Masserella, un bodybuilder condannato a otto anni per aggressione a un ufficiale. Il collegio di difesa ha sostenuto che la violenza era stata scatenata dalla rabbia da steroidi e cercato di incolpare l'Esercito per non aver controllato l'uso che ne faceva.»

«Adesso ne è imbottito.»

«Credi sia lo stesso Paulie?»

«Dev'essere lui. Mi ha detto che non gli piacciono gli ufficiali. Gli ho tirato un calcio nei reni: tu o Eliot sareste rimasti secchi, lui non si è nemmeno scomposto.»

«E cosa ha intenzione di fare?»

«Non voglio pensarci.»

«Te la senti di tornare?»

«La moglie di Beck sa che non sono quello che sembro.» Lei mi fissò. «Come?» Scrollai le spalle. «Forse non lo sa, forse desidera che non lo sia. Forse sta cercando di autoconvincersi.»

«Lo ha detto in giro?»

«Non ancora. Ieri sera mi ha visto all'esterno della casa.»

«Non puoi tornare.»

«Non sono uno che molla.»

«Ma nemmeno un idiota. Adesso la situazione è fuori controllo.» Annuii. «Ma la decisione è mia.» Lei scosse la testa. «La decisione è nostra, congiunta. Dipendi da noi per il supporto.»

«Dobbiamo tirare fuori di lì Teresa. Sul serio, Duffy. Si trova in brutte acque.»

«Ora che mi hai confermato che è viva, potrei mandare le SWAT.»

«Non sappiamo dove sia in questo momento.»

«Lei è una mia responsabilità.»

«E Quinn è una mia responsabilità.» Duffy tacque.

«Non puoi mandare le SWAT», dissi. «La missione non è autorizzata.

Chiamare le SWAT è come chiedere di essere licenziata.»

«Sono disposta a farmi licenziare, se necessario.»

«Non si tratta solo di te», osservai. «Altre sei persone verrebbero licenziate insieme a te.» Lei rimase zitta.

«E comunque, ho intenzione di tornare», aggiunsi. «Perché voglio Quinn, con o senza di te. Perciò puoi tranquillamente usarmi.»

«Che cosa ti ha fatto Quinn?» Non risposi e Duffy rimase a lungo in silenzio.

«La signora Beck sarebbe disposta a parlare?» domandò infine.

«Non glielo voglio chiedere», risposi. «Farlo significherebbe confermare i suoi sospetti. Non so esattamente dove ci porterebbe.»

«Che cosa farai se tornerai indietro?»

«Mi farò promuovere», risposi. «Quella è la chiave. Devo arrivare a prendere il posto di Duke e diventare così il braccio destro di Beck. A quel punto potrò avere un contatto ufficiale con gli uomini di Quinn. Questo è quello che mi serve, altrimenti mi muoverei alla cieca.»

«Ci servono progressi», osservò lei. «Prove.»

«Lo so», risposi.

«Come ti farai promuovere?»

«Come fanno tutti», dissi.

Lei non rispose. Tornò alla casella della posta in arrivo e si allontanò dal computer per guardar fuori della finestra. La osservai. La luce le filtrava attraverso la camicia. Aveva i capelli pettinati all'indietro e alcune ciocche le ricadevano sul colletto. Sembrava un'acconciatura da cinquecento dollari, ma immaginai che con gli stipendi che offriva la DEA probabilmente se l'era fatta lei. Oppure l'aveva aiutata un'amica. La immaginai nella cucina di un'amica, seduta su una sedia in mezzo alla stanza con un vecchio asciugamano attorno al collo, interessata sì al suo aspetto, ma non tanto da spendere follie in un salone del centro.

I jeans le mettevano in risalto il sedere stupendo. Vedevo l'etichetta sul retro: Waist 24. Leg 32. Ciò significava che la gamba del pantalone era di una decina di centimetri più corta della mia, il che era normale, ma una vita di trenta centimetri più piccola mi sembrava incredibile. Io non ho quasi grasso corporeo, solo gli organi necessari, tonici e compatti. Lei doveva avere organi in miniatura. Quando vedo una vita del genere, mi viene voglia di misurarla con le mani per lo stupore, e magari anche di sprofondare la testa un po' più in su. Se non si fosse voltata, non avrei potuto scoprire che sensazioni avrei provato a fare una cosa del genere con lei, ma immaginai fossero molto piacevoli.

«Quant'è pericoloso, adesso?» chiese. «Voglio una valutazione realistica.»

«Non sono in grado di dirlo», risposi. «Ci sono troppe variabili. La signora Beck si basa sull'intuito e basta, forse anche sull'autoconvinzione.

Non ha prove concrete: da questo punto di vista, me la sto cavando bene.

Perciò anche se la signora Beck parlasse, tutto dipenderebbe dalla loro decisione di dar credito o no al suo intuito.»

«Ti ha visto all'esterno della casa. Questa è una prova concreta.»

«E di cosa? Del fatto che sono irrequieto?»

«Quel tizio, Doll, è stato ucciso mentre eri libero.»

«Presumeranno non abbia superato il muro e non troveranno Doll. Non ci riusciranno, non in tempo.»

«Perché hanno spostato Teresa?»

«Per precauzione.»

«Adesso la situazione è fuori controllo», ripeté.

Mi strinsi nelle spalle anche se non poteva vedere il mio gesto. «Questo genere di situazioni è sempre fuori controllo, c'è da aspettarselo. Niente va come prevedi. Tutti i piani crollano non appena spari il primo colpo.» Lei tacque e si girò.

«Ora che farai?» chiese.

Rimasi zitto per un istante. La luce le filtrava sempre attraverso la camicia. Davvero molto piacevole.

«Mi farò una dormitina», risposi.

«Quanto tempo hai?» Controllai l'orologio. «Circa tre ore.»

«Sei stanco?» Annuii. «Sono rimasto in piedi tutta la notte e mi sono fatto una bella nuotata.»

«Hai superato il muro a nuoto?» domandò. «Forse sei davvero idiota.»

«Anche tu sei stanca?» chiesi.

«Molto. Sono settimane che lavoro sodo.»

«Allora fatti una dormitina come me», proposi.

«Non è il caso. Teresa è in pericolo da qualche parte.»

«Non posso comunque andar via adesso», spiegai. «Non finché la signora Beck non torna.» Lei tacque per qualche istante. «C'è un letto solo.»

«Non è un grave problema», osservai. «Sei magra, non occupi tanto spazio.»

«Non è opportuno», replicò.

«Non dobbiamo infilarci sotto le coperte», osservai. «Possiamo stenderci sopra.»

«Uno a fianco dell'altra?»

«Completamente vestiti», dissi. «Terrò anche le scarpe.» Lei non rispose nulla.

«Non è contro la legge», commentai.

«Forse sì», affermò. «In alcuni Stati è ancora in vigore qualche legge strana. Magari anche nel Maine è così.»

«Sono altre le leggi del Maine che mi preoccupano.»

«Non in questo momento.» Sorrisi e sbadigliai. Mi sedetti sul letto e mi stesi di schiena. Poi mi spostai su un lato, misi le braccia sotto la testa e chiusi gli occhi. La sentii restare in piedi lì vicino, minuto dopo minuto, poi stendersi al mio fianco. Si mosse un po' e quindi s'immobilizzò, ma era tesa, lo avvertivo. Dalle molle del materasso mi arrivavano le minuscole vibrazioni della sua tensione.

«Non temere», dissi. «Sono troppo stanco.»

In realtà non lo ero. Il problema iniziò quando lei si mosse lievemente e mi toccò il sedere col suo. Fu un contatto molto lieve, ma era come se mi avesse collegato a una presa elettrica. Aprii gli occhi, fissai il muro e cercai di capire se fosse addormentata e si fosse mossa involontariamente o se lo avesse fatto apposta. Passai un paio di minuti a riflettere, ma suppongo che il pericolo mortale abbia un effetto afrodisiaco perché mi ritrovai a peccare d'ottimismo. Non sapevo quale fosse la risposta giusta. Decisi di muovermi un po' a mia volta e di rafforzare il contatto: in quel modo, pensai, rilancio la palla. Ora era lei a dover interpretare la mia mossa.

Per un minuto intero non accadde nulla. Stavo metabolizzando la delusione quando Duffy si mosse di nuovo. Adesso il contatto era più che rafforzato. Se non avessi avuto i miei centodieci chili di peso, mi avrebbe spinto sul copriletto lucido. Ero certo di sentire i rivetti delle tasche posteriori dei suoi jeans. Ora tocca a me. Mascherai la mossa con una sorta di verso assonnato e mi girai: adesso eravamo nella posizione del cucchiaio e guarda caso col braccio le toccavo la spalla. Avevo i suoi capelli in faccia: erano morbidi e profumavano d'estate. Il cotone della sua camicia era fresco e scendeva fino alla vita dove iniziava il denim dei jeans che le copriva morbidamente i fianchi. Sbirciai rapido in basso. Si era tolta le scarpe e le vedevo le piante dei piedi. Dieci piccole dita, tutte in fila.

Allora Duffy emise un verso sonnolento. Ero più che certo che l'avesse fatto apposta. Si accoccolò fino ad appoggiarsi completamente a me, dalla testa ai piedi. Le posai la mano sul braccio, poi lo abbassai fino a toccarle il gomito e mi fermai all'altezza della vita. Avevo la punta del mignolo nella vita dei suoi jeans. Fece un altro verso, anche stavolta quasi certamente apposta. Trattenni il fiato. Mi teneva il sedere premuto contro l'inguine. Il cuore mi martellava nel petto e la testa mi girava. Non c'era modo di resistere, proprio nessun modo. Era uno di quei momenti di pazzia governati solo dagli ormoni: avrei rischiato otto anni a Leavenworth pur di viverlo.

Spostai la mano in avanti verso l'alto e le toccai il seno. Dopodiché, la situazione sfuggì a qualsiasi controllo.

Era una di quelle donne che sono molto più attraenti nude che vestite.

Aveva un corpo da sogno. Non era abbronzata, ma non aveva la pelle chiara. Era morbida come seta, ma non trasparente. Era molto magra, ma non ne vedevo le ossa. Sarebbe stata divinamente con uno di quei costumi da bagno sgambati sui fianchi. Aveva un seno piccolo, sodo, perfetto, un collo lungo e sottile, orecchie, caviglie, ginocchia e spalle splendide. Alla base del collo aveva una piccola cavità, lievemente umida.

Era anche molto forte. Pesavo una sessantina di chili più di lei, ma mi aveva sfinito. Era giovane, immagino, doveva avere dieci anni meno di me, e mi aveva lasciato senza forze, il che la fece sorridere. Aveva un bellissimo sorriso.

«Ricordi la mia stanza di motel a Boston?» chiesi. «Il modo in cui ti sei seduta sulla sedia? È stato in quel momento che ti ho voluta.»

«Stavo solo seduta su una sedia. Non c'era niente di particolare.»

«Non me la racconti giusta.»

«Ricordi il Freedom Trail?» chiese lei. «Quando mi hai detto del 'penetratore long-rod'? È stato in quel momento che ti ho voluto.» Sorrisi.

«Faceva parte di un contratto miliardario della difesa», osservai. «Perciò sono molto contento che una cittadina ne abbia ricavato un beneficio.»

«Se con me non ci fosse stato Eliot, l'avrei fatto lì nel parco.»

«C'era una donna che dava da mangiare agli uccelli.»

«Saremmo potuti andare dietro un cespuglio.»

«Paul Revere ci avrebbe visti.»

«Lui aveva cavalcato tutta la notte.»

«Io però non sono Paul Revere», replicai.

Lei sorrise di nuovo, la sentii a contatto con la mia spalla.

«Sei KO, vecchio mio?»

«Non ho detto esattamente questo.»

«Il rischio è afrodisiaco, vero?» esclamò.

«Direi proprio di sì.»

«Allora ammetti che stai correndo un rischio?»

«Il rischio che mi venga un infarto.»

«Davvero, non dovresti tornare», insistette Duffy.

«Il rischio di non essere in grado di farlo.» Lei si mise a sedere sul letto. La gravità non alterava per nulla la perfezione del suo corpo.

«Sono seria, Reacher», disse.

Le sorrisi. «Andrà tutto bene. Altri due o tre giorni. Troverò Teresa e Quinn, poi me ne andrò.»

«Solo se te lo permetterò.» Annuii.

«Le due guardie del corpo», dissi.

Lei annuì a sua volta. «Per questo hai bisogno del mio supporto. Scordati gli eroismi: con te o senza di te, un accidente. Se rilasciamo quei due, il tempo di una telefonata e sei un uomo morto.»

«Adesso dove sono?»

«Nel primo motel, nel Massachusetts, dove abbiamo preparato il piano.

Sorvegliati dagli uomini del Toyota e da quelli dell'auto del college.»

«Con attenzione, spero.»

«Con grande attenzione.»

«Sono a ore di distanza da qui», commentai.

Lei scosse la testa.

«In macchina», disse. «Non per telefono.»

«Tu vuoi riavere Teresa.»

«Sì», rispose. «Ma sono la responsabile.»

«Sei una maniaca del controllo», osservai.

«Semplicemente non voglio che ti succeda niente di brutto.»

«A me non succede mai niente di brutto.» Lei si chinò e mi sfiorò con le dita le cicatrici sul petto, sul ventre, sulle braccia, sulle spalle, sulla fronte. «Per essere uno a cui non succede mai niente di brutto, hai un bel po' di segni.»

«Sono maldestro», replicai. «Cado spesso.» Lei si alzò e andò in bagno nuda, aggraziata, senza il minimo imbarazzo.

«Torna subito qui», esclamai.

Ma non lo fece. Rimase in bagno a lungo e quando uscì indossava un accappatoio. Il suo volto era cambiato e sembrava un po' in imbarazzo, un po' triste.

«Non avremmo dovuto farlo», disse.

«Perché no?»

«Non è professionale.» Mi guardò dritto in faccia. Annuii. Immaginai non lo fosse molto.

«Ma è stato divertente», osservai.

«Non avremmo dovuto.»

«Siamo adulti. Viviamo in un Paese libero.»

«Era solo un modo per confortarci perché siamo entrambi tesi e stressati.»

«Non c'è niente di sbagliato in questo.»

«Complicherà le cose», disse.

Scossi la testa.

«No, se lo impediamo», replicai. «Non significa che ci dobbiamo sposare o che. Nessuno è in obbligo con l'altro se è successo.»

«Vorrei che non l'avessimo mai fatto.»

«Io invece sono contento. Se una cosa ti sembra giusta, falla.»

«È la tua filosofia?» Distolsi lo sguardo.

«È la voce dell'esperienza», risposi. «Una volta dissi di no quando volevo dire di sì e non ho fatto che rimpiangere quella scelta.» Lei si strinse nell'accappatoio.

«È stato bello», affermò.

«Anche per me.»

«Ma adesso dobbiamo dimenticarcene. È stato quello che è stato, e basta. D'accordo?»

«D'accordo.»

«E rifletti bene sull'idea di tornare.»

«D'accordo.» Rimasi steso a letto a pensare come ci si sentisse a dire di no quando in realtà si voleva dire di sì. In complesso, dire di sì era stato meglio e non avevo rimpianti. Duffy era silenziosa. Era come se entrambi aspettassimo che accadesse qualcosa. Mi feci una lunga doccia calda e mi vestii in bagno. A quel punto avevamo finito di parlare: non c'era più altro da dire.

Sapevamo tutti e due che sarei tornato alla villa. Apprezzai il fatto che non avesse cercato davvero di fermarmi, che eravamo due persone pratiche, concentrate sul nostro obiettivo. Mi stavo allacciando le scarpe quando arrivò una mail per Duffy. Il laptop emise una sorta di trillo attutito come quello del microonde che ti segnala che il cibo è pronto. Non c'era una voce registrata che annunciava: C'è posta per te. Uscii dal bagno. Duffy si sedette al computer e cliccò un tasto.

«Un messaggio del mio ufficio», disse. «Nei file ci sono undici ex poliziotti di dubbia fama chiamati Duke. Ho inviato ieri la richiesta. Quanti anni ha?»

«Una quarantina», risposi.

Lei fece scorrere l'elenco.

«È del sud?» chiese. «O del nord?»

«Non del sud», risposi.

«Ne restano tre.»

«La signora Beck ha detto che è stato anche agente federale.» Duffy fece scorrere ancora la lista.

«John Chapman Duke», annunciò. «È l'unico a essere passato ai federali, dopo. Ha iniziato la carriera a Minneapolis come agente di pattuglia, poi è diventato detective. È stato sottoposto a tre indagini interne che non hanno condotto a nulla. Poi è arrivato da noi.»

«Alla DEA?» domandai. «Sul serio?»

«No, voglio dire al governo federale», spiegò. «È entrato al dipartimento del Tesoro.»

«A fare che?»

«Non c'è scritto. Nel giro di tre anni è stato incriminato per una storia di corruzione. Era anche sospettato d'essere un pluriomicida, ma non sono mai riusciti a provarlo. A ogni modo, è finito in prigione per quattro anni.»

«Descrizione?»

«Bianco, circa della tua corporatura», disse. «La foto lo fa sembrare più brutto.»

«È lui», affermai.

Duffy fece scorrere di nuovo il testo e lesse il resto del verbale.

«Sta' attento», disse. «Sembra proprio un bel tipo.»

«Non ti preoccupare», risposi. Pensai di darle un bacio di addio sulla porta, ma non lo feci. Immaginai non avrebbe voluto, perciò mi avviai in fretta verso la Cadillac.

Ero tornato al bar e avevo quasi finito la seconda tazza di caffè quando arrivò Elizabeth Beck. Non aveva niente che indicasse che avesse fatto spese: nessun acquisto, nessun sacchetto sfarzoso. Supposi non fosse entrata in alcun negozio e avesse vagabondato per quattro lunghe ore lasciando che l'uomo del governo facesse quello che doveva. Mi ignorò e si diresse al banco. Ordinò un caffè con latte formato grande e lo portò al tavolino. Avevo deciso che cosa dirle.

«Non lavoro per il governo», esordii.

«Allora mi deludi.»

«Come potrei?» osservai. «Ho ucciso un poliziotto, non ricorda?»

«Sì.»

«Chi lavora per il governo non fa cose del genere.»

«Forse sì», replicò. «Per sbaglio.»

«Ma dopo non scappa», obiettai. «Resta e si assume le sue responsabilità.» Lei tacque e rimase in silenzio a lungo, sorseggiando lentamente il caffè.

«Ci sarò stata otto, dieci volte», disse infine. «Al college, intendo. Ogni tanto organizzano eventi per le famiglie degli studenti. E cerco di andarci all'inizio e alla fine di ogni semestre. Un'estate ho persino noleggiato un furgoncino per aiutarlo a portare a casa tutte le sue cose.»

«E allora?»

«È una scuola piccola», aggiunse. «Ma nonostante ciò, il primo giorno del semestre si anima: genitori, studenti, SUV, macchine, furgoni, un gran traffico dappertutto. I giorni delle famiglie sono ancor peggio. E sai cosa?»

«Cosa?»

«Non ho mai visto un poliziotto da quelle parti, non una volta. Tanto meno un detective in borghese.» Guardai fuori della vetrina, verso il marciapiede interno del centro commerciale.

«È stato solo un caso, immagino», proseguì. «Un martedì mattina qualsiasi di aprile, nelle prime ore, non sta succedendo niente di particolare e lì vicino al cancello, senza un chiaro motivo, c'è un detective in borghese.»

«Dove vuole arrivare?» chiesi.

«Al fatto che è stato tremendamente sfortunato», rispose. «Voglio dire, quante erano le probabilità?»

«Io non lavoro per il governo», ripetei.

«Ti sei fatto una doccia», osservò. «E lavato i capelli.»

«Davvero?»

«Lo vedo e lo sento dall'odore. Sapone economico, shampoo economico.»

«Sono andato in una sauna.»

«Non avevi soldi. Ti ho dato venti dollari. Hai preso almeno due caffè, il che significa che sei rimasto con quattordici.»

«Era una sauna economica.»

«Davvero», commentò.

«Sono uno qualsiasi», dissi.

«E io ne sono delusa», replicò.

«Sembra che voglia che suo marito venga arrestato.»

«È così.»

«Finirebbe in prigione.»

«Vive già in una prigione e se lo merita. Ma sarebbe più libero in una vera prigione che dov'è ora. Poi non ci resterebbe per sempre.»

«Potrebbe chiamare qualcuno», suggerii. «Non deve aspettare che siano loro a venire da voi.» Elizabeth scosse la testa. «Sarebbe un suicidio per me e per Richard.»

«Proprio come se parlasse di me in questi termini davanti ad altri. Si ricordi, non cederei facilmente. Ci sarebbero dei feriti. Forse lei o Richard.» Sorrise. «Stai di nuovo cercando di patteggiare?»

«Sto di nuovo cercando di avvertirla», replicai. «Sull'opportunità di divulgare i dettagli.» Lei annuì.

«So tenere la bocca chiusa», rispose e me lo dimostrò evitando di aggiungere altro. Finimmo il caffè in silenzio e tornammo alla macchina.

Non scambiammo neanche due parole. Mi diressi verso casa, a nord-est, incerto se al mio fianco avessi una bomba a orologeria o se stessi voltando le spalle all'unico aiuto interno che avrei mai potuto avere.

Paulie era in attesa dietro il cancello. Doveva averci visto dalla finestra: aveva preso posizione non appena individuata la macchina in lontananza.

Rallentai, mi fermai e lui mi fissò. Poi fissò Elizabeth.

«Mi dia il cerca-persone», dissi.

«Non posso», rispose.

«Me lo dia», insistei.

Paulie aprì il catenaccio e spinse il cancello. Elizabeth aprì la borsa e mi porse il cerca-persone Lasciai che la macchina avanzasse lenta e abbassai il finestrino, fermandomi nel punto in cui Paulie aspettava per richiudere il cancello.

«Prendi un po'», esclamai.

Sollevando il braccio, gettai il cerca-persone davanti all'auto. Usai la sinistra e il lancio risultò debole, impreciso, ma conseguì il suo scopo. Il piccolo rettangolo di plastica tracciò un arco a mezz'aria e atterrò nel centro esatto del viale, a circa sei metri dalla macchina. Paulie ne seguì la traiettoria, poi quando capì che cosa fosse s'immobilizzò.

«Ehi», disse.

Si mosse verso l'apparecchio, e io verso di lui. Premetti l'acceleratore, gli pneumatici sgommarono e l'auto partì con un balzo. Con l'angolo destro del parafango anteriore mirai al lato del ginocchio sinistro. Mi avvicinai molto, ma lui fu incredibilmente rapido. Raccolse il cerca-persone e arretrò, tanto che lo mancai di una trentina di centimetri. L'auto gli sfrecciò accanto. Non rallentai. Continuai ad accelerare e lo guardai nel retrovisore: era in piedi alle mie spalle, mi fissava, col fumo azzurrognolo delle gomme che gli aleggiava intorno. Ero profondamente deluso. Se avessi dovuto lottare con un uomo che pesava una novantina di chili più di me, sarei stato molto più contento se fosse stato storpio o per lo meno non così maledettamente veloce.

 

Mi fermai alla rotonda e feci scendere Elizabeth Beck davanti all'ingresso, poi misi l'auto in garage. Mi stavo avviando in cucina quando Zachary Beck e John Chapman Duke uscirono a cercarmi. Erano agitati e camminavano a passo svelto. Erano tesi, sconvolti. Pensai me ne volessero dire quattro per via di Paulie, ma non fu così.

«Angel Doll è scomparso», annunciò Beck.

Rimasi immobile. Il vento soffiava dall'oceano, che non era più calmo: adesso le onde erano grosse e fragorose come la prima sera. L'aria era piena di spruzzi.

«L'ultima cosa che ha fatto ieri sera è stato parlare con te», disse Beck.

«Poi ha chiuso tutto, se n'è andato e da allora nessuno lo ha più visto.»

«Da te cosa voleva?» chiese Duke.

«Non lo so», risposi.

«Non lo sai? Sei rimasto là dentro cinque minuti.» Annuii. «Mi ha portato nell'ufficio del magazzino.»

«E?»

«E niente. Stava per iniziare un discorso, ma lo hanno chiamato al cellulare.»

«Chi era?» Mi strinsi nelle spalle. «Come faccio a saperlo? Sembrava una cosa urgente. Ha parlato al telefono per tutti i cinque minuti. Stava facendo perdere tempo a me e a voi, perciò ho rinunciato e sono uscito.»

«Cosa ha detto al telefono?»

«Non ho ascoltato», risposi. «Non mi sembrava educato.»

«Hai sentito qualche nome?» chiese Beck.

Mi voltai nella sua direzione e scossi il capo.

«Nessuno», affermai. «Ma si conoscevano, quello era chiaro. Doll è rimasto a lungo in ascolto. Penso ricevesse istruzioni per qualcosa.»

«Per cosa?»

«Non ne ho idea», risposi.

«Era una cosa urgente?»

«Immagino di sì. Sembrava essersi scordato di me e di certo non ha fatto niente per fermarmi quando me ne sono andato.»

«È tutto quello che sai?»

«Presumevo si trattasse di una specie di piano», dissi. «Delle istruzioni per il giorno dopo, forse.»

«Per oggi?» Mi strinsi di nuovo nelle spalle. «Sto solo facendo ipotesi. È stato più un monologo che una conversazione.»

«Splendido», commentò Duke. «Sei davvero di grande aiuto, lo sai?» Beck guardò l'oceano. «Quindi ha ricevuto una telefonata urgente al cellulare, ha chiuso l'ufficio e se n'è andato. È tutto quello che ci sai dire?»

«Non l'ho visto chiudere l'ufficio», osservai. «E nemmeno andarsene.

Quando sono uscito parlava ancora al telefono.»

«Che abbia chiuso l'ufficio è ovvio», replicò Beck. «E anche che se ne sia andato. Stamattina tutto era perfettamente normale.» Non dissi nulla. Beck si voltò di novanta gradi, verso est. Il vento soffiava dal mare e gli appiattì i vestiti addosso. I pantaloni svolazzavano come bandiere. Mosse i piedi sfregando le suole delle scarpe sulla ghiaia, come se cercasse di scaldarsi.

«Ci mancava anche questa adesso», commentò. «Proprio ci mancava. Ci aspetta un fine settimana di fuoco.» Si voltarono entrambi e rientrarono in casa lasciandomi lì, solo.

Ero stanco, ma non mi sarei potuto riposare, quello era chiaro. Il clima era elettrico e la routine delle due sere precedenti era stata completamente sconvolta. In cucina non c'era da mangiare: niente cena. La cuoca era scomparsa. Udii qualcuno muoversi nell'atrio, poi Duke entrò in cucina, mi superò e uscì dalla porta posteriore. Portava una borsa sportiva blu della Nike. Lo seguii all'esterno e rimasi a osservarlo da dietro l'angolo della casa: lo vidi entrare nel secondo box. Cinque minuti dopo uscì in retromarcia con la Lincoln nera e se ne andò. Aveva cambiato targa: adesso ne aveva una a sette cifre dello Stato di New York. Tornai dentro e andai in cerca di un caffè. Trovai la macchina, ma non i filtri di carta, perciò mi accontentai di un po' d'acqua. Ero a metà bicchiere quando arrivò Beck. Anche lui aveva una borsa sportiva. Dal modo in cui la portava e dal rumore che fece quando cozzò contro la sua gamba capii che era piena di qualcosa di metallico e di pesante. Armi, probabilmente, forse un paio.

«Va' a prendere la Cadillac», disse. «Subito. Ti aspetto all'ingresso.» Estrasse le chiavi dalla tasca e le gettò sul tavolo davanti a me, poi si accucciò, aprì la borsa e prelevò due targhe dello Stato di New York e un cacciavite. Mi porse il tutto.

«Prima metti queste», disse.

Vidi le armi: due MP5K della Heckler & Koch, corti, grassi e neri, con grosse impugnature a bulbo di plastica fusa. Futuristiche, come le armi dei film.

«Dove andiamo?» chiesi.

«Seguiamo Duke fino a Hartford, nel Connecticut. Abbiamo un lavoro da sbrigare laggiù, ricordi?» Chiuse la borsa, si alzò e la riportò nell'atrio. Io rimasi seduto immobile per un secondo, poi alzai il bicchiere d'acqua e brindai alla parete bianca di fronte a me.

A guerre sanguinose e malattie terribili, dissi tra me e me.