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In verità ero dentro da ben undici giorni, da un sabato sera umido a Boston in cui vidi un uomo morto attraversare il marciapiede e salire in macchina. Non si trattava di una strana somiglianza, di un sosia, di un gemello, di un fratello o di un cugino. Era un uomo morto dieci anni prima, su questo non c'erano dubbi. Non era neanche un abbaglio. Sembrava più vecchio, il che del resto era logico, e recava le cicatrici delle ferite che lo avevano ucciso.
Stavo camminando lungo Huntington Avenue e dovevo percorrere ancora un chilometro e mezzo per raggiungere un bar di cui avevo sentito parlare. Era tardi. Proprio in quell'istante la gente stava uscendo dalla Symphony Hall. Ero troppo testardo per attraversare la strada ed evitare la folla, perciò m'infilai in mezzo a essa. C'era una calca di persone profumate ed eleganti, perlopiù anziane. C'erano macchine parcheggiate in doppia fila e taxi accanto al marciapiede. I motori erano accesi e i tergicristalli si muovevano ritmicamente avanti e indietro, a intervalli irregolari. Vidi quell'uomo uscire dalle porte del foyer alla mia sinistra. Indossava un cappotto pesante di cachemere, guanti e sciarpa. Era a capo scoperto e aveva una cinquantina d'anni. Per poco non ci scontrammo. Mi fermai e lui fece altrettanto. Mi guardò in faccia. Restammo coinvolti in una di quelle tipiche situazioni da marciapiede affollato: esitammo, tentammo di muoverci contemporaneamente e ci bloccammo di nuovo. All'inizio pensai che non mi avesse riconosciuto, poi colsi un'ombra sul suo volto, ma niente di certo. Mi scostai e lui mi passò davanti per salire su una Cadillac DeVille nera in attesa accanto al marciapiede. Io rimasi lì a guardare mentre l'autista si destreggiava nel traffico e si allontanava. Udii il sibilo degli pneumatici sull'asfalto bagnato.
Presi il numero di targa. Non ero in preda al panico, non stavo mettendo in dubbio nulla. Ero pronto a credere alle prove che avevo sotto gli occhi.
Dieci anni di storia si erano ribaltati in un istante. Quell'uomo era vivo, il che mi creava un enorme problema.
Quello fu il primo giorno. Mi scordai del bar. Tornai dritto all'albergo e presi a telefonare a numeri quasi dimenticati dei tempi in cui ero nella Polizia militare. Dovevo parlare con qualcuno che conoscessi e di cui mi fidassi, ma me n'ero andato ormai da sei anni ed era un sabato sera tardi, perciò avevo scarse probabilità di riuscita. Alla fine mi accontentai di qualcuno che sostenne di aver sentito parlare di me, il che avrebbe potuto ma anche no, fare la differenza in ordine al possibile esito della questione.
Era un sottufficiale di nome Powell.
«Mi servirebbe che rintracciasse una targa civile», gli dissi. «Esclusivamente come favore.» Lui sapeva chi fossi, perciò non mi irritò dicendomi che non era in grado di farlo. Gli fornii i dettagli e gli dissi che ero piuttosto sicuro che si trattasse di un'auto privata, non a noleggio. Annotò il mio numero e promise di richiamarmi il mattino, che sarebbe stato il secondo giorno.
Invece non mi richiamò: mi vendette. Date le circostanze, penso che chiunque l'avrebbe fatto. Il secondo giorno era domenica e mi alzai presto.
Ordinai la colazione in camera e attesi la telefonata, ma invece di uno squillo udii bussare alla porta, poco dopo le dieci. Avvicinai l'occhio allo spioncino e vidi due persone in piedi, tanto vicine da rientrare entrambe nella lente. Un uomo e una donna. Giacche scure, senza cappotto. L'uomo aveva una valigetta. Ciascuno teneva una sorta di documento identificativo in alto, inclinato in modo che fosse illuminato dalla luce del corridoio.
«Agenti federali», esclamò l'uomo con voce sufficientemente alta da farsi sentire oltre la porta.
In una situazione come quella non ha senso fingere di non essere in camera: più volte mi ero trovato nei loro panni. Uno dei due si ferma in corridoio, l'altro scende a cercare un responsabile con un passe-partout. Perciò, aprii la porta e mi spostai per farli entrare.
All'inizio erano sospettosi, ma si rilassarono non appena videro che non ero armato e non avevo l'aria di un pazzo. Mi porsero i documenti e ispezionarono con garbo la stanza mentre li decifravo. In alto si leggeva United States Department of Justice, in fondo, Drug Enforcement Administration.
In mezzo c'era ogni sorta di sigilli, firme e filigrane. C'erano anche le fotografie e i nomi battuti a macchina. L'uomo si chiamava Steven Eliot, con una l come il poeta. Aprile è il mese più crudele, quello era maledettamente certo. Nella fotografia era molto somigliante. Steven Eliot poteva avere fra i trenta e i quarant'anni, era di corporatura robusta, scuro, con un principio di calvizie e aveva un sorriso che in foto sembrava cordiale e di persona ancora di più. La donna si chiamava Susan Duffy: era un po' più giovane di Steven Eliot e anche un po' più alta. Era pallida, snella e molto attraente. Rispetto alla foto aveva cambiato pettinatura.
«Fate pure», dissi. «Perquisite la stanza. È passato molto tempo da quando avevo qualcosa d'importante da nascondervi.» Restituii i documenti e loro li riposero nelle tasche interne, facendo in modo di scostare la giacca quel tanto da far sì che notassi le armi. Le portavano alla spalla. Sotto il braccio di Eliot riconobbi l'impugnatura zigrinata di una Clock 17. Duffy aveva una 19, che è esattamente uguale, solo un po' più piccola. La teneva contro il seno destro. Doveva essere mancina.
«Non vogliamo perquisire la stanza», rispose lei.
«Vogliamo parlare di una targa», spiegò Eliot.
«Non ho la macchina», replicai.
Eravamo ancora in piedi, in perfetta formazione a triangolo poco oltre la soglia. Eliot teneva ancora la valigetta in mano. Stavo cercando di capire chi fosse il capo. Forse nessuno dei due. Forse erano pari grado. A ogni modo, erano entrambi veterani. Erano ben vestiti, ma avevano l'aria un po' stanca. Forse avevano lavorato gran parte della notte ed erano arrivati in aereo da Washington DC.
«Possiamo sederci?» chiese Duffy.
«Certo», risposi. Ma nella stanza di un albergo modesto la cosa era complessa. C'era soltanto una sedia, infilata sotto un piccolo tavolo incassato tra il muro e il mobile del televisore. Duffy la prese e la girò in modo che fosse rivolta verso il letto. Io mi sedetti sul letto, in alto, vicino ai cuscini, Eliot si appollaiò ai piedi e vi posò sopra la valigetta. Mi stava ancora sorridendo in modo cordiale e in quell'atteggiamento non notai nulla di falso. Duffy era splendida sulla sedia. L'altezza del sedile era proprio giusta per lei. Portava una gonna corta e un paio di collant scuri che, con le gambe flesse, lasciavano intravedere la pelle delle ginocchia.
«Lei è Reacher, giusto?» chiese Eliot.
Distolsi lo sguardo dalle gambe di Duffy e annuii. Presumevo già lo sapessero.
«La stanza è registrata a nome di un certo Calhoun», continuò Eliot.
«Pagata in contanti, per una notte sola.»
«Abitudine», risposi.
«Parte oggi?»
«Vivo giorno per giorno.»
«Chi è Calhoun?»
«Il vicepresidente di John Quincy Adams», dissi. «Mi sembrava adatto al luogo. Ho esaurito da tempo i presidenti e sono passato ai vice. Calhoun era un tipo insolito: si è dimesso per candidarsi al Senato.»
«Ci è riuscito?»
«Non lo so.»
«Perché un nome falso?»
«Abitudine.» Susan Duffy mi stava guardando dritto negli occhi, non come se fossi pazzo, ma come se la interessassi. Probabilmente la riteneva una valida tecnica di interrogatorio. Quand'ero io a fare gli interrogatori, usavo lo stesso metodo. Saper fare le domande significa nel novantanove per cento dei casi saper ascoltare le risposte.
«Abbiamo parlato con un poliziotto militare di nome Powell», disse.
«Lei gli ha chiesto di rintracciare una targa.» Aveva una voce bassa, calda e un po' roca. Non risposi nulla.
«Nei computer quella targa fa scattare una miriade di allarmi», spiegò.
«Non appena ha inviato la richiesta, lo abbiamo saputo. Lo abbiamo chiamato per sapere perché gli interessasse e ci ha detto che in realtà la cosa interessava a lei.»
«Con riluttanza, spero», commentai.
Lei sorrise. «Si è ripreso abbastanza rapidamente da darci un numero falso di telefono, perciò non tema questioni di slealtà da parte della sua vecchia unità.»
«Ma alla fine vi ha dato il numero giusto.»
«Lo abbiamo minacciato.»
«Allora, dai miei tempi i poliziotti militari sono cambiati.»
«Per noi è importante», affermò Eliot. «Lui lo ha capito.»
«Quindi ora anche lei è importante per noi», concluse Duffy.
Distolsi lo sguardo. Ho avuto tante storie da non riuscire nemmeno più a contarle, ma il suono della sua voce mi dà ancora un vago brivido. Iniziai a pensare che forse era lei il capo, oltre che molto abile nell'arte dell'interrogatorio.
«Un cittadino comune chiede una verifica su una targa», disse Eliot.
«Perché lo fa? Forse ha avuto un piccolo incidente con l'auto che ha quella targa. Forse si è trattato di un atto di pirateria della strada. Ma se cosi fosse, non andrebbe alla polizia? E lei poi ci ha appena detto di non avere la macchina.»
«Quindi potrebbe aver visto qualcuno nell'auto», suggerì Duffy.
Lasciò il resto della frase in sospeso. Non avevo alternativa: se la persona in macchina era mia amica, io ero probabilmente un nemico. Se era mia nemica, lei era disposta a essermi amica.
«Avete fatto colazione?» chiesi.
«Sì», rispose lei.
«Anch'io», dissi.
«Lo sappiamo», proseguì Duffy. «Servizio in camera, una piccola porzione di pancake con uova, più una grossa caffettiera di caffè nero. È stata ordinata per le 7.45 e servita alle 7.44. Ha pagato in contanti e dato tre dollari di mancia al cameriere.»
«Mi è piaciuta?»
«L'ha mangiata.» Eliot fece scattare le chiusure della valigetta e sollevò il coperchio. Ne estrasse un fascio di carte tenute insieme da un elastico. Sembravano nuove, ma la calligrafia era sbiadita. Fotocopie di fax, probabilmente scattate nella notte.
«Il suo curriculum», disse.
Nella valigetta vidi alcune foto: in bianco e nero, 20x25, stampate su carta lucida. Sembrava un'operazione di sorveglianza.
«È stato maggiore nella Polizia militare per tredici anni», esordì Eliot.
«Promosso rapidamente da sottotenente a maggiore. Encomi e medaglie.
Era apprezzato, un tipo in gamba. Molto in gamba.»
«Grazie.»
«Anzi, più che in gamba. In numerose occasioni è stato il loro uomo di riferimento.»
«Immagino di sì.»
«Ma l'hanno lasciata andare.»
«Procedura RF», dissi.
«RF?» ripeté Duffy.
«RF, riduzione della forza. Adorano inventare acronimi. La guerra fredda era terminata, le spese militari erano state tagliate e l'Esercito è stato ridotto, perciò non avevano più bisogno di tanti uomini di riferimento.»
«L'Esercito esiste ancora», osservò Eliot. «Non hanno mandato via tutti.»
«No.»
«Allora perché lei in particolare?»
«Non capireste.» Eliot non mi provocò.
«C'era droga nell'Esercito?» chiese.
Sorrisi.
«Gli eserciti adorano la droga», risposi. «Da sempre. Morfina, benzedrina. L'esercito tedesco ha inventato l'ecstasy: sopprimeva l'appetito. La CIA ha inventato l'LSD e l'ha testato sull'esercito statunitense. Tutti gli eserciti marciano con qualche droga nelle vene.»
«La usano a scopo ricreativo?»
«L'età media di una recluta è diciotto anni. Lei cosa pensa?»
«Era un problema?»
«Non lo avevamo fatto diventare tale. Un soldato semplice va in licenza e si fuma un paio di spinelli nella camera della ragazza: a noi non interessa. Pensavamo fosse meglio si facesse due spinelli che due confezioni da sei di birra. Quand'erano al di fuori del nostro controllo, preferivamo fossero docili piuttosto che aggressivi.» Duffy lanciò un'occhiata a Eliot che raccolse le foto dalla valigetta e me le porse. Ce n'erano quattro, tutte sgranate e lievemente sfocate, tutte della Cadillac DeVille che avevo visto la sera prima. La riconobbi dal numero di targa. Era in una specie di garage. Accanto al bagagliaio c'erano due uomini in piedi: in due immagini il bagagliaio era chiuso, nelle altre due, aperto.
Gli uomini stavano guardando qualcosa all'interno, ma non c'era modo di capire di che cosa si trattasse. Uno dei due era un latino, membro di una banda. L'altro era un uomo più vecchio in giacca e cravatta. Non lo conoscevo.
Duffy mi stava probabilmente scrutando in volto.
«Non è l'uomo che ha visto?» chiese.
«Non ho detto di aver visto qualcuno.»
«Il latino è un grosso spacciatore», spiegò Eliot. «Anzi, è il principale spacciatore in gran parte della contea di Los Angeles. Non lo possiamo provare, ovviamente, ma sappiamo tutto di lui. I suoi profitti si aggirano su qualche milione di dollari alla settimana. Vive come un imperatore, ma si è fatto tutto il viaggio fino a Portland, nel Maine, per incontrare quell'altro.» Toccai una foto. «Questa è Portland, nel Maine?» Duffy annuì. «Un garage in centro città. Circa nove settimane fa. Ho scattato io stessa le fotografie.»
«Allora chi è quell'altro?»
«Non ne siamo del tutto certi. Abbiamo rintracciato la targa della Cadillac, naturalmente: è intestata a una società chiamata Bizarre Bazaar con sede centrale a Portland, nel Maine. Da quel che siamo riusciti a sapere, all'inizio era un import-export di merce strana, vagamente hippy, che commerciava con il Medio Oriente. Adesso è specializzata in importazione di stuoie orientali. Da quel che ci risulta il proprietario è un certo Zachary Beck. Presumiamo sia lui nella foto.»
«Il che significa che è davvero un pezzo grosso», continuò Eliot. «Se quel tizio di Los Angeles attraversa tutto il Paese per incontrarlo, deve per forza essere più importante di lui. E chiunque sia più importante del latino di Los Angeles sta nella stratosfera, mi creda. Quindi Zachary Beck è un uomo di punta e ci sta prendendo in giro: importatore di roba, importatore di droga. Gli piace scherzare.»
«Mi spiace», dissi. «Non l'ho mai visto prima.»
«Non se ne dispiaccia», commentò Duffy protendendosi di scatto sulla sedia. «Per noi è meglio se non è Beck l'uomo che ha visto. Di lui sappiamo già. Per noi sarebbe meglio se avesse visto uno dei suoi soci. Potremmo cercare di arrivare a lui in quel modo.»
«Non potete prenderlo direttamente?» Ci fu un breve silenzio, in cui mi parve di cogliere una nota di imbarazzo.
«Abbiamo qualche problema», rispose Eliot.
«Mi sembra abbiate prove a sufficienza per arrestare lo spacciatore di Los Angeles e avete queste foto, che lo ritraggono a fianco di Beck.»
«Le fotografie non valgono niente», spiegò Duffy. «Ho commesso un errore.» Un altro silenzio.
«Il garage è proprietà privata», aggiunse. «Si trova sotto un palazzo di uffici. Non avevo un mandato. Il Quarto emendamento rende le fotografie inammissibili.»
«Non potete mentire? Dire che eravate all'esterno dell'edificio?»
«Impossibile per via della struttura stessa del palazzo. La difesa lo capirebbe all'istante e il caso si smonterebbe.»
«Dobbiamo sapere chi ha visto», disse Eliot.
Non risposi.
«Dobbiamo proprio saperlo», insistette Duffy. Parlò con quella voce dolce che fa perdere la testa a un uomo, ma in lei non c'era niente di finto, di artefatto. Non si rendeva conto di quanto fosse affascinante il suo tono.
Doveva proprio saperlo.
«Perché?» chiesi.
«Perché dobbiamo sistemare le cose.»
«Tutti fanno errori.»
«Abbiamo mandato un agente a sorvegliare Beck», aggiunse. «Sotto copertura. Una donna. È scomparsa.» Silenzio.
«Quando?»
«Sette settimane fa.»
«L'avete cercata?»
«Non sappiamo dove. Non sappiamo dove vada Beck. Non sappiamo nemmeno dove viva. Non ha alcun immobile intestato a suo nome. La casa deve essere intestata a qualche società fantasma. È un ago in un pagliaio.»
«Non lo avete pedinato?»
«Ci abbiamo provato. Ha guardie del corpo e autisti. Sono troppo in gamba.»
«Per la DEA?»
«Per noi. Siamo solo in due. Il dipartimento di Giustizia ha chiuso l'operazione quando ho combinato il casino.»
«Anche se un'agente è scomparsa?»
«Non lo sanno. L'abbiamo coinvolta dopo che hanno chiuso il caso. Non era autorizzata.»
«Perciò come ci state lavorando?»
«Sono capo della mia squadra. Nessuno controlla quel che faccio quotidianamente. Fingo di lavorare a un altro caso, ma non è così. Lavoro su questo.»
«Quindi nessuno sa che l'agente è scomparsa?»
«Solo la mia squadra», rispose. «Siamo in sette. E ora lo sa anche lei.» Non dissi nulla.
«Siamo venuti direttamente qui. Altrimenti perché farsi un viaggio aereo la domenica?» Nella stanza calò il silenzio. Guardai lei, poi Eliot poi ancora lei. Avevano bisogno di me e io di loro. Inoltre, mi piacevano. Mi piacevano molto.
Erano onesti, gradevoli. Mi ricordavano le persone migliori con cui avevo lavorato.
«Patteggerò», risposi. «Informazione per informazione. Vediamo se andiamo d'accordo, poi decideremo.»
«Che cosa le serve?»
Le dissi che mi serviva una cartella clinica di dieci anni prima, rintracciabile in un posto chiamato Eureka, in California, e anche che cosa cercare. Le dissi che sarei rimasto a Boston finché non fosse tornata e di non mettere niente per iscritto. Dopodiché se ne andarono e quello fu il secondo giorno. Il terzo giorno non accadde nulla e nemmeno il quarto. Nell'attesa andai un po' in giro. Trovai Boston accettabile per un paio di giorni: è quella che chiamo una città da quarantotto ore. Superato quel termine, inizia a diventare estenuante. Naturalmente, per me molti posti sono così. Sono una persona inquieta, perciò all'inizio del quinto giorno stavo già impazzendo. Ero quasi convinto che si fossero dimenticati di me, che fosse il caso di dire basta e di mettersi di nuovo in movimento. Stavo pensando a Miami. Laggiù faceva molto più caldo. Ma in tarda mattinata il telefono squillò. Era lei. Fu un piacere sentirla.
«Siamo per strada», disse. «Vediamoci sotto quella grossa statua di chiunque sia a cavallo, a metà del Freedom Trail, alle tre.» Non era un appuntamento molto preciso, ma sapevo a che cosa si riferisse. Era un luogo nel North End, vicino a una chiesa. Era primavera e faceva troppo freddo per andarci senza uno scopo, eppure arrivai lo stesso in anticipo. Mi sedetti su una panchina accanto a una vecchia che dava da mangiare croste di pane sbriciolate ai passeri e ai colombi terraioli. Mi guardò e si spostò su un'altra panchina. Gli uccelli le sciamarono attorno ai piedi becchettando nella ghiaia. Un sole acquoso stava lottando per fare capolino tra le nubi cariche di pioggia. Era Paul Revere quello a cavallo.
Duffy ed Eliot arrivarono puntuali. Indossavano impermeabili neri tutti pieni di asole, fibbie e cinghie. Tanto valeva mettersi al collo un cartello con su scritto AGENTI FEDERALI DI WASHINGTON DC. Si sedettero, Duffy alla mia sinistra, Eliot alla mia destra. Io mi appoggiai allo schienale e loro si protesero in avanti, con i gomiti sulle ginocchia.
«I paramedici hanno ripescato un uomo sotto costa, nel Pacifico», spiegò Duffy «Dieci anni fa, poco a sud di Eureka, in California. Un maschio bianco di circa quarant'anni. Aveva due fori di proiettile in testa e uno nel petto. Di piccolo calibro, probabilmente 22. Ritengono sia stato gettato nell'oceano dagli scogli.»
«Era vivo quando l'hanno ripescato?» chiesi pur sapendo già la risposta.
«A malapena», rispose lei. «Aveva un proiettile vicino al cuore e il cranio fratturato, oltre a fratture a entrambe le gambe e al bacino dovute alla caduta. Ed era semi-annegato Lo hanno sottoposto a un intervento di quindici ore di fila. È rimasto in terapia intensiva per un mese e in ospedale per altri sei, per la convalescenza.»
«Identificazione?»
«Sul suo conto non c'è niente. Nei documenti compare come John Doe.»
«Hanno cercato di identificarlo?»
«Non hanno trovato alcuna corrispondenza con le impronte», rispose Duffy «Niente negli elenchi delle persone scomparse. Nessuno ne ha denunciato la sparizione.» Annuii. I computer con le impronte ti dicono quello che sono programmati per dirti.
«E poi?»
«Poi si è ripreso», continuò lei. «Dopo sei mesi. Stavano cercando di decidere che farsene quando all'improvviso ha chiesto di essere dimesso.
Non lo hanno più rivisto.»
«Ha detto qualcosa al personale sulla sua identità?»
«Gli hanno diagnosticato una forma di amnesia, di certo causata dal trauma: è quasi inevitabile. Hanno ritenuto che potesse essersi sinceramente dimenticato dell'episodio e dei giorni precedenti a esso, ma concluso che fosse in grado di ricordare eventi più remoti e avuto la netta impressione che fingesse di non farlo. La cartella clinica è piuttosto spessa: valutazioni psichiatriche e tutto il resto. È stato molto risoluto. Non ha mai detto una parola su di sé.»
«In che condizioni fisiche era quando se n'è andato?»
«In condizioni piuttosto buone. Certo, aveva evidenti cicatrici di proiettile.»
«Bene», dissi reclinando la testa e guardando il cielo.
«Chi era?»
«Voi che ne dite?»
«Proiettili di piccolo calibro alla testa e al petto?» disse Eliot. «Buttato nell'oceano? Crimine organizzato. Un assassinio. Un killer prezzolato ha tentato di farlo fuori.» Non dissi nulla, guardando il cielo.
«Chi era?» insistette Duffy.
Continuai a guardare il cielo e lentamente tornai indietro nel tempo di dieci anni, a un mondo del tutto diverso.
«Vi intendete di carri armati?»
«Di carri armati militari? Cingoli e cannoni? Non molto.»
«Non c'è niente di particolare al riguardo», risposi. «Vuoi che vadano veloci, che siano abbastanza affidabili e non obietti se ti fanno risparmiare un po' di carburante. Ma se io ho un carro armato e anche voi ne avete uno, qual è l'unica cosa che v'interessa veramente sapere?»
«Quale?»
«Io sono in grado di spararvi prima che spariate a me? Questo vi interessa sapere. Se ci troviamo a un chilometro e mezzo di distanza, il mio cannone vi può raggiungere? E il vostro può raggiungere me?»
«Quindi?»
«Naturalmente, visto che di fisica si tratta, la risposta probabile è che se io vi posso colpire a un chilometro e mezzo di distanza anche voi potete farlo. Perciò tutto si riduce alle munizioni. Se mi allontano di altri duecento metri in modo che il vostro proiettile rimbalzi senza colpirmi, posso creare un proiettile che non rimbalzi e vi colpisca? Questo è il punto con i carri armati. L'uomo nell'oceano era un ufficiale dell'intelligence dell'Esercito che ricattava uno specialista d'armi dell'Esercito.»
«Perché è finito nell'oceano?»
«Avete seguito la guerra del Golfo in televisione?» chiesi.
«Io sì», rispose Eliot.
«Lasci perdere le bombe intelligenti», dissi. «La vera star dello spettacolo era il carro da battaglia Abrams M1A1. Ha stracciato gli iracheni che usavano il meglio che avessero trovato sulla piazza. Ma il fatto che la guerra fosse seguita in televisione ha significato che avevamo mostrato il nostro asso nella manica al mondo intero, perciò abbiamo dovuto escogitare qualcosa di nuovo per il futuro. E abbiamo fatto progressi.»
«Quindi?»
«Se vuoi che un proiettile arrivi più lontano e colpisca con più violenza, devi aumentarne la carica esplosiva o renderlo più leggero, o entrambe le cose. Ovviamente, se ne aumenti la carica esplosiva, devi adottare qualche misura radicale d'altro tipo per renderlo più leggero, il che è proprio quello che hanno fatto. Hanno tolto la carica esplosiva. Sembra assurdo, vero?
Viene da chiedersi: cosa fa, allora? Rimbalza da qualche parte con un bel clang? Ne hanno modificato la forma e hanno inventato un aggeggio che assomiglia a un dardo gigante, con tanto di alette e cose del genere. È una fusione di tungsteno e uranio impoverito, i metalli più densi che esistano.
Va molto veloce e molto lontano. L'hanno chiamato 'penetratore longrod'.» Duffy mi guardò con le palpebre semichiuse, sorrise e nel contempo abbassò lo sguardo. Contraccambiai il sorriso.
«Hanno cambiato nome», aggiunsi. «Adesso si chiama APFSDS. Vi ho già detto che amano gli acronimi. Armour Piercing Fin Stabilized Discarding Sabot. Sostanzialmente, viene alimentato dal suo piccolo motore a razzo. Colpisce il carro armato nemico con un'energia cinetica spaventosa che, proprio come ti insegnano alle superiori, si trasforma in energia termica. In una frazione di secondo penetra nel metallo fondendolo, lo proietta all'interno del carro uccidendone gli occupanti e facendo scoppiare qualsiasi materiale esplosivo o infiammabile. È davvero una bella trovata. E in qualsiasi caso, spari e fai centro perché se la corazzatura del nemico è troppo spessa o se il tiro è partito da troppo lontano, il proiettile resta conficcato a metà come una freccia e frammenta lo strato interno della corazzatura, gettando scaglie di metallo rovente nell'abitacolo come una bomba a mano. La squadra nemica viene fatta a brandelli, come rane in un frullatore. Era un'arma nuova, geniale.»
«E che mi dice del tizio nell'oceano?»
«Ha ottenuto i progetti dall'uomo che ricattava», dissi. «Pezzo per pezzo, in un lungo periodo di tempo. Lo tenevamo sotto controllo e sapevamo esattamente che cosa facesse. Aveva intenzione di venderli all'intelligence irachena. Gli iracheni volevano pareggiare i conti alla prima occasione e l'Esercito degli Stati Uniti non voleva che ciò accadesse.» Eliot mi fissò. «Così lo hanno fatto ammazzare?» Scossi la testa. «Abbiamo mandato un paio di poliziotti militari ad arrestarlo. Procedura operativa standard, tutto legale e ufficiale, credetemi. Ma le cose sono andate storte. Lui è fuggito con l'intenzione di scomparire per sempre e l'Esercito degli Stati Uniti non voleva assolutamente che ciò accadesse.»
«E a quel punto lo hanno ucciso?» Sollevai di nuovo lo sguardo al cielo senza rispondere.
«Quella non era una procedura standard», commentò Eliot. «Vero?» Non risposi.
«Non era autorizzata», proseguì. «Giusto?» Non risposi.
«Ma quell'uomo non è morto», osservò Duffy. «Come si chiamava?»
«Quinn», risposi. «La persona peggiore che abbia mai conosciuto.»
«E lo ha visto sabato nell'auto di Beck?» Annuii. «L'autista era venuto a prenderlo alla Symphony Hall.»
Riferii loro i particolari che conoscevo, ma mentre parlavo sapevamo tutti che si trattava di informazioni inutili. Non era pensabile che Quinn usasse la sua vecchia identità, perciò tutto quello che potei fornire fu la descrizione fisica di un uomo bianco sulla cinquantina dall'aspetto anonimo, con due cicatrici da proiettile sulla fronte. Era meglio di niente, ma non li avrebbe portati da nessuna parte.
«Perché non si è trovata nessuna corrispondenza con le sue impronte?» chiese Eliot.
«È stato cancellato», risposi. «Come se non fosse mai esistito.»
«Perché non è morto?»
«Una calibro 22 silenziata», dissi. «La nostra arma standard per le operazioni ravvicinate sotto copertura. Ma non è molto potente.»
«È ancora pericoloso?»
«Non per l'Esercito», risposi. «È acqua passata. Tutto questo è accaduto dieci anni fa. Tra poco l'APFSDS finirà in un museo insieme all'Abrams.»
«Allora perché rintracciarlo?»
«Perché in base a quello che ricorda potrebbe essere pericoloso per l'uomo che era stato incaricato di eliminarlo.» Eliot annuì senza proferire parola.
«Aveva un'aria importante?» chiese Duffy. «Sabato? Nell'auto di Beck?»
«Aveva l'aria di una persona ricca», dissi. «Cappotto costoso di cachemere, guanti di pelle, sciarpa di seta. Aveva l'aria di chi è abituato a farsi portare in giro dall'autista. È salito in macchina come se lo facesse da sempre.»
«Ha salutato l'autista?»
«Non lo so.»
«Dobbiamo inquadrarlo», affermò Duffy. «Ci serve un contesto. Come si comportava? Usava l'auto di Beck e sembrava avere l'autorità per farlo?
O sembrava qualcuno a cui era stato fatto un favore?»
«Sembrava averne l'autorità», risposi. «Come se la usasse tutti i giorni della settimana.»
«Quindi è allo stesso livello di Beck?» Mi strinsi nelle spalle. «Potrebbe essere il capo di Beck.»
«Il socio, nella migliore delle ipotesi», osservò Eliot. «Il nostro uomo di Los Angeles non avrebbe fatto quel viaggio per incontrare un tirapiedi.»
«Non penso che Quinn possa essere socio di qualcuno», replicai.
«Che tipo era?»
«Un tipo normale», dissi. «Per essere un ufficiale dell'intelligence. Sotto quasi ogni aspetto.»
«Tranne per lo spionaggio», affermò Eliot.
«Sì», ammisi. «Tranne per quello.»
«E per quello che ha decretato la sua eliminazione non autorizzata.»
«Anche.» Duffy taceva. Stava riflettendo con attenzione. Ero più che certo che stesse pensando in che modo utilizzarmi e a me la cosa non turbava affatto.
«Resterà a Boston?» mi chiese. «Dove la possiamo trovare?» Risposi di sì. Poi se ne andarono e così terminò il quinto giorno.
Trovai un bagarino in un bar di sportivi e passai gran parte del sesto e del settimo giorno a Fenway Park, a guardare i Red Sox faticare in un homestand di inizio stagione. La partita del venerdì arrivò a diciassette inning e finì molto tardi, perciò dormii per gran parte dell'ottavo giorno e la sera tornai alla Symphony Hall per osservare la folla. Forse Quinn era abbonato alla stagione di concerti. Lui però non si fece vedere. Ripensai al modo in cui mi aveva guardato: poteva essersi trattato solo del fastidio per la ressa sul marciapiede, ma poteva essere anche qualcosa di più.
Susan Duffy mi chiamò il mattino del nono giorno, domenica. Aveva un tono diverso. Sembrava una persona che aveva riflettuto molto a lungo.
Una persona con un piano.
«A mezzogiorno, nell'atrio dell'albergo», disse.
Arrivò in macchina. Sola. L'auto era una Taurus modello base, sudicia all'interno. Un'auto governativa. Lei indossava un paio di jeans sbiaditi, delle scarpe buone e un giubbotto di pelle logora. Si era da poco lavata i capelli e li aveva pettinati all'indietro. Salii dal lato del passeggero. Duffy attraversò sei corsie e puntò verso l'imboccatura di un tunnel che conduceva alla Mass Pike.
«Zachary Beck ha un figlio», disse.
Prese una curva in galleria a gran velocità, poi il tunnel finì e uscimmo nella debole luce di aprile, poco oltre Fenway.
«È matricola al college», continuò. «Un piccolo istituto di secondaria importanza dove si insegnano belle arti, guarda caso non molto lontano da qui. Abbiamo parlato con un compagno di classe: in cambio gli abbiamo detto che chiuderemo un occhio su un problema di cannabis. Il ragazzo si chiama Richard Beck. Non gode di grande popolarità, è un tipo un po' strano. Sembra molto traumatizzato da una cosa accaduta cinque anni fa.»
«Che genere di cosa?»
«È stato rapito.» Non commentai.
«Capisce?» continuò Duffy. «Sa con che frequenza oggi viene rapita una persona normale?»
«No», risposi.
«Con frequenza zero», rispose. «È un crimine scomparso. Perciò dev'essersi trattato di una guerra per il territorio. È praticamente la prova che suo padre è nel racket.»
«È un po' tirata come ipotesi».
«D'accordo, ma è molto convincente. E il crimine non è mai stato denunciato. L'FBI non ne ha documentazione. Qualsiasi cosa sia accaduta, è stata gestita privatamente e in modo non molto brillante. Richard Beck è senza un orecchio.»
«Quindi?» Lei non rispose, continuando a guidare verso ovest. Mi allungai sul sedile del passeggero e la guardai con la coda dell'occhio. Era bella. Corpo lungo, magra e graziosa, e aveva la vita negli occhi. Non usava trucco. Era una di quelle donne che non ne avevano assolutamente bisogno. Mi piaceva che mi portasse in giro, anche se non stavamo andando a zonzo: Duffy mi stava portando in un posto preciso, era chiaro. Era venuta da me con un piano.
«Ho studiato il suo curriculum», disse. «Da cima a fondo. Lei è una persona sorprendente.»
«Non proprio», risposi.
«E ha piedi grandi», aggiunse. «E anche questo è un bene.»
«Perché?»
«Lo vedrà», rispose.
«Mi spieghi.»
«Noi siamo molto simili», disse. «Lei e io. Abbiamo qualcosa in comune. Io voglio avvicinarmi a Zachary Beck per ritrovare la mia agente, lei per scovare Quinn.»
«La sua agente è morta. Otto settimane, sarebbe un miracolo. Dovrebbe accettarlo.» Duffy rimase in silenzio.
«E di Quinn non m'importa.» Lei guardò a destra e scosse il capo.
«Invece sì», replicò. «E anche molto, lo vedo da qui. È una cosa che le rode, un lavoro non concluso e lei sembra proprio il tipo d'uomo che detesta i lavori non conclusi.» Tacque per un istante, poi aggiunse: «Continuerò a pensare che la mia agente sia viva, per lo meno finché lei non mi dimostrerà con certezza il contrario».
«Io?»
«Non posso usare uno dei miei», disse. «Questo lo capisce, vero? Tutta questa faccenda è illegale per il dipartimento di Giustizia, perciò qualsiasi cosa io faccia d'ora in poi non deve risultare. E lei sembra proprio il tipo d'uomo che capisce le operazioni non autorizzate. Magari le preferisce anche.»
«Quindi?»
«Devo infiltrare qualcuno in casa di Beck e ho deciso che quel qualcuno sarà lei. Lei sarà il mio 'penetratore long-rod'.»
«Come?»
«Sarà Richard Beck ad aiutarla.»
Uscì dall'autostrada a circa sessantacinque chilometri da Boston e svoltò a nord, nella campagna del Massachusetts. Passammo alcuni paesi del New England da cartolina, con i vigili del fuoco intenti a pulire le autopompe e gli uccellini che cantavano. Gli abitanti lavoravano sui prati e potavano le siepi. Nell'aria si sentiva odore di fumo di legna.
Ci fermammo a un motel in mezzo al nulla. Con i sobri rivestimenti di mattoni e le finiture di un bianco accecante aveva proprio un'aria immacolata. Nel parcheggio c'erano cinque auto che bloccavano l'accesso alle ultime cinque stanze. Erano tutte auto governative. Steven Eliot ci attendeva nella stanza centrale insieme a cinque uomini. Avevano portato tavoli e sedie dalle altre camere e sedevano ordinati in semicerchio. Duffy mi condusse all'interno e fece un cenno a Eliot. Pensai fosse un segnale per comunicargli: Gliel'ho proposto e non ha risposto di no. Non ancora. Si avvicinò alla finestra e si voltò in modo da rivolgersi alla stanza. La luce del giorno brillava intensa alle sue spalle e rendeva difficile vederla in volto.
Si schiarì la gola e nella stanza calò il silenzio.
«Bene, ascoltatemi, ragazzi», disse. «Ancora una volta è un'operazione non autorizzata, priva di un'approvazione ufficiale: verrà svolta nel nostro tempo libero e a nostro rischio. Chi vuole tirarsene fuori, lo faccia ora.» Nessuno si mosse. Nessuno se ne andò. Era una tattica intelligente e mi dimostrò che Eliot e lei avevano almeno cinque uomini che li avrebbero seguiti fino all'inferno e ritorno.
«Abbiamo meno di quarantotto ore», affermò. «Dopodomani Richard Beck andrà a casa per il compleanno della madre. La nostra fonte dice che lo fa ogni anno: salta le lezioni e tutto il resto. Il padre gli manda un'auto con due guardie del corpo, due professionisti, perché il ragazzo è terrorizzato di essere rapito di nuovo. Noi elimineremo le guardie e lo rapiremo.» Tacque per un istante. Nessuno parlò.
«Il nostro scopo è entrare nella casa di Zachary Beck», continuò. «È chiaro che i presunti rapitori non sono i benvenuti là dentro, perciò è opportuno che Reacher salvi immediatamente il ragazzo da loro. Sarà una sequenza rapida: rapimento, salvataggio, una cosa del genere. Il ragazzo sarà molto grato e Reacher verrà accolto come un eroe tra le mura domestiche.» All'inizio tutti rimasero zitti, poi si mossero sulle sedie. Era un piano così pieno di buchi da far sembrare compatto il groviera. Fissai Duffy direttamente negli occhi, poi mi ritrovai a guardare fuori della finestra. C'era modo di riempire i buchi. Sentii il cervello mettersi in moto e mi chiesi quanti ne avesse già individuati, quante risposte avesse già trovato e se sapesse quanto mi piacevano situazioni del genere.
«Il nostro pubblico sarà formato da una sola persona», disse. «Tutto ciò che conta è quello che penserà Richard Beck. L'intera faccenda sarà finta dall'inizio alla fine, ma lui deve assolutamente credere che sia vera.» Eliot mi guardò. «Punti deboli?»
«Due», risposi. «Primo, come eliminare le guardie del corpo senza ferirle? Presumo che un'operazione non autorizzata non arrivi a tanto.»
«Velocità, shock, sorpresa», rispose lui. «La squadra di rapitori avrà pistole mitragliatrici dotate di parecchie cartucce a salve. Più una granata stordente. Non appena il ragazzo sarà uscito dall'auto, gettiamo la granata: creerà gran baccano e gran scompiglio. Resteranno storditi, niente di più, ma il ragazzo penserà che siano stati ridotti in polpette.»
«Bene», dissi. «Ma, secondo punto debole, tutta questa faccenda è un po' come recitare secondo il metodo Stanislavksij, giusto? Io sono una sorta di passante e guarda caso sono anche un passante in grado di salvarlo, il che mi fa apparire un tipo abile, in gamba. Perché allora non lo porto al posto di polizia più vicino? O non aspetto che arrivino gli agenti? Perché non mi fermo per fornire delle prove, per dare la mia testimonianza? Perché dovrei accompagnarlo immediatamente a casa?» Eliot si girò verso Duffy.
«Sarà terrorizzato», rispose. «Vorrà che lo accompagni a casa.»
«Ma perché dovrei accettare? Non importa quello che vuole lui. Importa quello che per me è logico fare. Perché il nostro pubblico non è formato da una sola persona, ma da due: Richard Beck e Zachary Beck. Richard Beck lì, in quel momento, Zachary Beck, dopo. Il padre valuterà la situazione in retrospettiva. Dobbiamo convincere anche lui.»
«Il ragazzo potrebbe non voler contattare la polizia. Come la prima volta.»
«Ma perché dovrei ascoltarlo? Se fossi il signor Qualunque, per prima cosa penserei di rivolgermi alla polizia. Farei tutto come da regola.»
«Richard si metterebbe a discutere.»
«E io lo ignorerei. Perché un adulto abile, in gamba, dovrebbe ascoltare un ragazzino squilibrato? È un punto debole. Sembrerebbe troppo facile, troppo pilotato, troppo finto. Troppo palese. Zachary Beck se ne accorgerebbe subito.»
«Potrebbe caricarlo su una macchina ed essere inseguito.»
«Andrei dritto a una stazione di polizia.»
«Merda», esclamò Duffy.
«È un piano», dissi. «Ma dobbiamo essere realistici.» Guardai di nuovo dalla finestra. Fuori era chiaro. Vidi un sacco di verde: alberi, cespugli, pendii collinosi ricoperti di boschi con le foglie nuove.
Con la coda dell'occhio vidi Eliot e Duffy guardare il pavimento della stanza e i cinque uomini seduti immobili. Sembravano una squadra capace.
Due erano più giovani di me, alti e biondi, due circa della mia età, anonimi, comuni. Uno era molto più vecchio, curvo e grigio. Pensai a lungo, con attenzione. Rapimento, salvataggio. La casa di Beck. Devo entrare nella casa di Beck. Devo proprio. Perché devo trovare Quinn. Concentrati sul gioco lungo. Esaminai l'intera questione dal punto di vista del ragazzo.
«È un piano», ripetei. «Ma va perfezionato. Perciò io devo essere il tipo d'uomo che non va alla polizia.» Tacqui per un istante. «No, meglio ancora, proprio davanti agli occhi di Richard Beck, diventerò il tipo d'uomo che non può andare alla polizia.»
«Come?» chiese Duffy.
La guardai dritto negli occhi. «Devo ferire qualcuno per sbaglio, nella confusione. Un altro passante, una persona innocente. In una circostanza ambigua. Magari investo qualcuno: una vecchia che porta a spasso il cane.
Magari la uccido. Cado in preda al panico e scappo.»
«Troppo difficile da architettare», disse. «E comunque non è una ragione sufficiente per scappare. Voglio dire, in situazioni del genere un incidente può accadere.» Annuii. La stanza rimase in silenzio. Chiusi gli occhi, pensai ancora e nella mente mi si delineò una scena.
«Bene», dissi. «Di questo, che ne dite? Ucciderò un poliziotto. Per sbaglio.» Nessuno parlò. Aprii gli occhi.
«È un grande slam», esclamai. «Capite? È assolutamente perfetto. Toglierà qualsiasi dubbio a Zachary Beck sul perché non mi sia comportato normalmente e non sia andato alla polizia. Non vai alla polizia se hai appena ucciso un agente, anche se per sbaglio. Lui capirà. E questo mi darà una ragione per restare a casa sua, dopo, cosa che devo riuscire a fare. Penserà che mi stia nascondendo. Mi sarà grato per il salvataggio e visto che è un criminale non avrà rimorsi di coscienza.» Non ci furono obiezioni, solo silenzio, seguito da un lento, indefinibile mormorio di valutazione, assenso, consenso. Avevo sviscerato il problema dall'inizio alla fine. Concentrati sul gioco lungo. Sorrisi.
«Meglio ancora», aggiunsi. «Potrebbe persino assoldarmi. Anzi, sarà fortemente tentato di farlo perché avremo creato l'illusione che la sua famiglia sia diventata all'improvviso un bersaglio, perché si ritroverà con due guardie del corpo in meno e avrà capito che io sono migliore perché loro hanno fallito, io no. Sarà contento di assoldarmi perché, fintantoché mi riterrà un ammazza-sbirri e mi darà riparo, crederà che sia una sua proprietà.» Anche Duffy sorrise.
«Allora mettiamoci all'opera», affermò. «Abbiamo meno di quarantotto ore.»
Ai due agenti più giovani fu assegnata la parte dei rapitori. Decidemmo che avrebbero guidato un pick-up della Toyota preso tra quelli sequestrati dalla DEA. Avrebbero usato Uzi confiscate, caricate con cartucce a salve da nove millimetri e sarebbero state dotate di una granata stordente sottratta dai magazzini della SWAT della DEA. Poi iniziammo a studiare il mio ruolo di soccorritore. Stabilimmo che sarei stato il più verosimile possibile, come insegnano i grandi maestri della truffa: un vagabondo ex militare, capitato nel luogo giusto al momento giusto. Sarei stato armato, il che in quelle circostanze era tecnicamente illegale nel Massachusetts, ma mi avrebbe conferito veridicità e credibilità.
«Mi serve un revolver vecchio stile», dissi. «Devo avere un'arma adatta a un cittadino comune. E il fatto dovrà essere sensazionale, dall'inizio alla fine. Il Toyota mi verrà addosso e io lo toglierò di mezzo. Sparerò contro la macchina, quindi mi serviranno tre proiettili veri e tre a salve, in questa esatta sequenza. I tre proiettili veri sono per il pick-up, i tre a salve per le persone.»
«Possiamo caricare qualsiasi pistola in quel modo», precisò Eliot.
«Ma dovrò poter vedere gli alloggiamenti delle cartucce», affermai.
«Poco prima di sparare. Non sparerò proiettili misti senza avere il controllo visivo. Devo essere certo di iniziare col piede giusto, perciò mi serve un revolver, uno grosso, non una cosetta, in modo che possa vedere bene.» Eliot capì le mie ragioni e prese un appunto. Affidammo all'agente più anziano il ruolo del poliziotto locale. Duffy suggerì che entrasse per sbaglio nel mio campo di fuoco.
«No», risposi. «Dev'essere il giusto tipo di sbaglio, non un semplice errore di tiro. Beck padre deve restare colpito da me, nel modo giusto.
Dev'essere un gesto deliberato anche se avventato, come se fossi un pazzo, ma un pazzo capace di sparare.» Duffy fu d'accordo. Eliot vagliò una lista di veicoli disponibili e mi propose un vecchio furgoncino. Disse che mi sarei potuto spacciare per addetto alle consegne, che in quel modo avrei avuto una ragione fondata per trovarmi lì, in strada. Compilammo degli elenchi, mentalmente e su carta. I due agenti della mia età se ne stavano seduti senza un ruolo e avevano un'aria scontenta.
«Voi sarete i poliziotti di rinforzo», dissi. «Immaginiamo che il ragazzo non mi veda mentre sparo al primo poliziotto: sviene o qualcosa del genere. Voi ci inseguirete in auto e, quando sarò certo che stia guardando, vi eliminerò.»
«Non possiamo avere poliziotti di rinforzo», intervenne il vecchio. «Voglio dire, che succede? All'improvviso l'intero posto pullula di sbirri senza una ragione?»
«Saranno i poliziotti del college», affermò Duffy. «Sai, gli agenti che i college assumono? Si troveranno lì. Voglio dire, dove potrebbero trovarsi se non lì?»
«Splendido», esclamai. «Possono partire proprio dall'interno del campus e controllare l'intera cosa via radio dal retro.»
«Come li farai fuori?» chiese Eliot con un tono da obiezione.
Annuii intuendo il problema. A quel punto avrei già esaurito i sei colpi.
«Non posso ricaricare», dissi. «Non mentre guido. Non con le cartucce a salve. Il ragazzo potrebbe notarle.»
«Non potresti investirli? Costringerli a uscire di strada?»
«Non con un vecchio furgoncino. Mi servirà un secondo revolver. Caricato in anticipo, forse già pronto nel cassetto del cruscotto.»
«Te ne vai in giro con due pistole da sei colpi?» chiese il vecchio. «È un po' strano nel Massachusetts.» Assentii. «È un punto debole. Dobbiamo rischiare e accettare che il piano ne abbia qualcuno.»
«Quindi io dovrei essere in borghese», continuò il vecchio. «Come un detective. Sparare a un agente in uniforme è più che avventato. Anche questo è un punto debole.»
«Bene», affermai. «Concordo. Ottimo. Tu sarai un detective, estrarrai il distintivo e io penserò che sia una pistola. Sono cose che succedono.»
«Ma come moriamo?» chiese lui. «Ci afferriamo il ventre e cadiamo a terra come nei vecchi western?»
«Non è convincente», disse Eliot. «L'intera faccenda deve sembrare vera a beneficio di Richard Beck.»
«Ci serve qualche trucco da set», affermò Duffy. «Giubbotti di kevlar e profilattici riempiti di sangue finto che esplodono a un segnale radio.»
«Ce li possiamo procurare?»
«Da New York o da Boston, forse.»
«Abbiamo poco tempo.»
«Non me lo dire», rispose lei.
Così terminò il nono giorno. Duffy voleva che mi trasferissi al motel e si offrì di farmi riaccompagnare da qualcuno al mio albergo di Boston per prendere i bagagli. Le dissi che non avevo bagagli e lei mi guardò di traverso senza dire nulla. Mi sistemai in una stanza accanto al vecchio. Qualcuno andò a prendere delle pizze. Tutti si diedero da fare e telefonarono di qua e di là, lasciandomi solo. Mi stesi a letto e ripensai all'intera operazione dall'inizio alla fine, dal mio punto di vista. Feci mentalmente un elenco di tutte le cose che non avevamo considerato. Era un lungo elenco, ma c'era una cosa che più di tutte mi preoccupava e non era propriamente in quella lista. Era per così dire parallela. Scesi dal letto e andai a cercare Duffy. Era fuori nel parcheggio e stava tornando in fretta in camera dalla macchina.
«Zachary Beck non è il punto focale», le dissi. «Non può esserlo. Se Quinn è coinvolto, è lui il capo: non avrebbe mai un ruolo di secondo piano. Questo, a meno che Beck non sia peggiore di lui, cosa a cui non voglio nemmeno pensare.»
«Forse Quinn è cambiato», osservò lei. «Ha ricevuto due proiettili in testa. Magari l'esperienza gli ha cambiato il cervello, lo ha in qualche modo sminuito.» Non dissi nulla. Lei corse via e io tornai nella mia stanza.
Il decimo giorno iniziò con l'arrivo dei veicoli. Al vecchio fu assegnata una Chevrolet Caprice di sette anni, che sarebbe servita da auto della polizia senza insegne. Era il modello con il motore della Corvette, l'ultimo prima che la General Motors cessasse di produrla. Il pick-up era grande quanto un vagone, di color rosso sbiadito e con un bull bar davanti. Vidi gli agenti più giovani discutere per stabilire come usarlo. Il mio veicolo era un semplice furgoncino marrone, il più anonimo che avessi mai visto. Non aveva finestrini laterali e il lunotto posteriore era diviso in due. Verificai all'interno se ci fosse un cassetto nel cruscotto. C'era.
«Va bene?» chiese Eliot.
Battei sulla fiancata come fanno i proprietari dei furgoni e questa riecheggiò debolmente in risposta.
«Perfetto», commentai. «Come revolver voglio due 44 Magnum. Voglio tre proiettili pesanti a punta molle e nove a salve. Le cartucce a salve devono fare più rumore possibile.»
«Va bene», disse. «Perché a punta molle?»
«Temo il rimbalzo», risposi. «Non voglio ferire nessuno per sbaglio. I proiettili a punta molle si deformano e si fermano nel bersaglio che colpiscono. Ne sparerò uno nel radiatore e due nelle gomme. Voglio che le gonfiate al massimo in modo che esplodano quando le colpirò. Dobbiamo creare un effetto spettacolare.» Eliot si allontanò di corsa e Duffy mi si avvicinò.
«Ti serviranno», disse. Mi aveva portato un cappotto e un paio di guanti.
«Se li indossi, avrai un aspetto più credibile. Farà freddo. E il cappotto nasconderà la pistola.» Li presi dalle sue mani e provai il cappotto. Mi andava perfetto. Duffy aveva chiaramente occhio per le taglie.
«Dovrai stare attento all'aspetto psicologico», affermò. «Dovrai essere elastico. Il ragazzo potrebbe essere catatonico. Potresti dover indurre una reazione in lui; in teoria però dovrebbe restare vigile e in grado di parlare, nel qual caso ti dovrai dimostrare un po' restio a farti coinvolgere ulteriormente. Sempre in teoria, dovresti fare in modo che sia lui a convincerti a portarlo a casa, ma nello stesso tempo dovrai essere quello che comanda.
Dovrai far sì che le cose vadano in modo che lui non si soffermi a pensare a ciò che vede esattamente.»
«Bene», dissi. «Nel qual caso cambierò piano per le munizioni. Il secondo proiettile della seconda pistola sarà vero. Gli dirò di stendersi sul fondo e farò saltare il lunotto posteriore alle sue spalle. Penserà che siano stati gli agenti del college a spararci. Poi gli dirò di alzarsi. In questo modo la sua percezione del pericolo aumenterà, lo abituerà a fare quello che gli dico e lo farà sentire un po' meglio quando guarderà gli agenti del college avere quello che si meritano. Perché non voglio che opponga resistenza, che cerchi di fermarmi. Potrei avere un incidente e potremmo morire entrambi.»
«In effetti, è bene che instauri un legame con lui», affermò Duffy. «Richard dovrà parlare bene di te, dopo. Perché, sono d'accordo, se ti assoldassero sarebbe un bel colpo. Avresti libertà di movimento. Ma sii molto abile. Non c'è bisogno che risulti simpatico al ragazzo. Devi solo fargli capire che sei un duro che sa quello che fa.» Andai a cercare Eliot, poi i due agenti che avrebbero impersonato gli uomini del college vennero da me. Stabilimmo che all'inizio mi avrebbero sparato a salve, io avrei risposto prima con una cartuccia a salve e quindi avrei rotto il lunotto. Avrei sparato ancora un colpo a salve e infine, a intervalli, le ultime tre cartucce a salve. All'ultimo colpo i due avrebbero fatto saltare il loro parabrezza con un proiettile vero e finto di sbandare finendo fuori strada, come se avessero perso uno pneumatico o se questo fosse stato colpito da uno sparo.
«Non confonderti con le due pistole», disse uno di loro.
«Nemmeno voi», replicai.
A pranzo mangiammo di nuovo pizza e quindi andammo a esplorare la zona. Parcheggiammo a un chilometro e mezzo di distanza ed esaminammo un paio di cartine. Poi azzardammo tre passaggi distinti con due auto diverse davanti al cancello del college. Avrei preferito avere più tempo per studiare la scena, ma temevamo di farci notare. Tornammo al motel in silenzio e ci riunimmo nella stanza di Eliot.
«Mi sembra okay», dissi. «Da che parte svolteranno?»
«Il Maine è a nord», rispose Duffy. «Possiamo presumere che viva dalle parti di Portland.» Annuii. «Ma secondo me andranno a sud. Guardate le cartine. Da quella parte si arriva prima all'autostrada. E la procedura standard di sicurezza è dirigersi verso strade importanti e trafficate.»
«È un'incognita.»
«Andranno a sud», ripetei.
«C'è altro?» chiese Eliot.
«Sarebbe folle tenere il furgoncino», osservai. «Beck padre penserà che, se ho fatto sul serio, mi sia liberato del furgoncino e abbia rubato un'auto.»
«Dove?»
«La cartina mostra un centro commerciale nei pressi dell'autostrada.»
«Bene, ne piazzeremo una lì.»
«Chiavi di riserva sotto il paraurti?» Duffy scosse la testa. «Troppo finto. Dobbiamo fare in modo che tutto sia assolutamente convincente. Dovrai rubarla davvero.»
«Non so come fare», osservai. «Non ho mai rubato una macchina.» Nella stanza calò il silenzio.
«Tutto quello che so è ciò che ho imparato nell'Esercito», dissi. «I mezzi militari non sono mai chiusi a chiave e non hanno chiavi d'accensione. Partono con un pulsante.»
«D'accordo», affermò Eliot. «Nessun problema è insormontabile. La lasceremo aperta. Ma tu agirai come se fosse chiusa a chiave. Fingerai di scassinare la portiera. Lasceremo un po' di filo di ferro e un mucchio di appendiabiti nei paraggi. Magari potresti chiedere al ragazzo di andare a cercarti qualcosa, per coinvolgerlo. Contribuirà ad aumentare l'illusione.
Dopodiché farai finta di armeggiare e, voilà, la portiera si apre. Allenteremo la copertura sotto il volante e toglieremo la protezione ai cavi giusti, solo ai cavi giusti. Tu li trovi, li connetti e diventi un perfetto ladro.»
«Geniale», esclamò Duffy.
Eliot sorrise. «Faccio del mio meglio.»
«Prendiamoci una pausa», affermò lei. «Ricominceremo dopo cena.»
Gli ultimi tasselli andarono a posto dopo cena. Due agenti tornarono con quel che mancava dell'attrezzatura: mi avevano procurato una coppia di Colt Anaconda identiche. Erano armi grosse, brutali, dall'aria costosa. Non chiesi dove le avessero recuperate. Insieme a esse c'erano una scatola di 44
Magnum veri e una di 44 a salve. I secondi arrivavano da un negozio ed erano concepite per una pistola pesante sparachiodi, cioè per un'arma che serve a conficcare i chiodi dritti nel calcestruzzo. Aprii il tamburo delle due Anaconda e con la punta di una forbicina per unghie incisi una X su ogni alloggiamento per le cartucce. Il tamburo di un revolver Colt gira in senso orario, diversamente da quelli Smith and Wesson che ruotano in senso antiorario. La X rappresentava il primo proiettile da sparare. L'avrei allineato a ore dieci in modo da poterlo vedere: alla prima pressione del grilletto sarebbe avanzato e sarebbe stato colpito dal cane.
Duffy mi portò un paio di scarpe. Erano della mia misura. La destra aveva un comparto nel tacco. Mi diede un apparecchio e-mail senza fili che si adattava perfettamente alla cavità.
«Per questo sono contenta che abbia piedi grandi», disse. «È più facile adattarlo.»
«È affidabile?»
«Sarà bene che lo sia», rispose. «È un nuovo apparecchio governativo.
Tutti i dipartimenti lo usano per comunicare in segreto.»
«Ottimo», esclamai. Nella mia carriera, erano nati più pasticci per tecnologie difettose che per qualsiasi altro motivo.
«È quanto di meglio possiamo fare», continuò lei. «Qualsiasi altra cosa, la troverebbero. Ti perquisiranno e in teoria, se controlleranno eventuali trasmissioni radio, tutto ciò che sentiranno sarà il brevissimo crepitio del modem. Penseranno probabilmente che si tratti di una scarica statica.» Da un costumista teatrale di New York si erano procurati tre trucchi di scena. Erano grossi, voluminosi, costituiti ognuno da un quadrato di trenta centimetri di kevlar da applicarsi al petto della vittima. Avevano una riserva di sangue finto, ricevitori radio, inneschi e batterie.
«Mettetevi una camicia larga, ragazzi», disse Eliot.
I radiocomandi erano costituiti da tasti separati che mi sarei dovuto applicare all'avambraccio destro. Erano collegati a batterie che avrei dovuto tenere in tasca. I tasti erano abbastanza grandi, tanto che potevo sentirli sotto camicia, giacca e cappotto. Pensai che sarei stato credibile se avessi sostenuto il peso della Colt con la mano sinistra. Prima, il guidatore del pick-up. Quello era il tasto più vicino al polso e lo avrei premuto con l'indice. Poi, il passeggero del pick-up. Il tasto da attivare era nel centro, col medio. Terzo, il vecchio che impersonava il poliziotto. Il tasto era accanto al gomito e avrei usato l'anulare.
«Dopo dovrai disfartene», disse Eliot. «Nella casa di Beck ti perquisiranno sicuramente. Ti dovrai fermare in una toilette o in un posto del genere per buttarlo via.» Provammo all'infinito l'operazione nel parcheggio del motel. Tracciammo una strada in miniatura. A mezzanotte eravamo pronti. Avevamo calcolato che avremmo avuto bisogno in tutto di otto secondi, dall'inizio alla fine.
«La decisione cruciale spetta a te», mi disse Duffy. «È una tua scelta. Se c'è qualcosa che non va quando il Toyota ti viene contro, qualsiasi cosa, rinuncia, lascialo passare. In qualche modo rimedieremo noi. Sparerai tre proiettili veri in un luogo pubblico e non voglio che pedoni, ciclisti o amanti del jogging vengano colpiti. Avrai meno di un secondo per decidere.»
«Intesi», risposi, anche se una volta arrivati a quel punto non vedevo alcun modo semplice per rimediare alla cosa. Poi Eliot ricevette le ultime telefonate e confermò che avrebbero avuto in prestito un'auto della security del college e piazzato una vecchia e credibile Nissan Maxima dietro il principale grande magazzino del centro commerciale. La Maxima era stata sequestrata a un piccolo coltivatore di marijuana nello stato di New York.
Laggiù avevano ancora leggi rigide sulla droga. Le avrebbero messo targhe false del Massachusetts e l'avrebbero riempita di tutto il ciarpame che una tipica commessa di grande magazzino tiene in macchina.
«Adesso a dormire», esclamò Duffy. «Domani è il grande giorno.» Così terminò il decimo giorno.
Duffy mi portò ciambelle e caffè in camera per colazione, il mattino presto dell'undicesimo giorno. Eravamo lei e io soli. Rivedemmo l'intero piano per l'ultima volta. Mi mostrò le foto dell'agente che aveva inserito cinquantotto giorni prima, una bionda di trent'anni che si era fatta assumere alla Bizarre Bazaar col nome di Teresa Daniel. Era minuta e pareva piena di risorse. Studiai con attenzione le fotografie e ne memorizzai i tratti, anche se quella che vedevo nella mente era un'altra donna.
«Presumo sia ancora viva», affermò Duffy. «Devo presumerlo.» Non la smentii.
«Cerca di farti assumere in ogni modo», aggiunse. «Abbiamo controllato il tuo passato recente, così come potrebbe fare Beck. Ne emerge un profilo molto vago. Ci sono un sacco di lacune che allarmerebbero me, ma probabilmente non lui.» Le restituii le fotografie.
«Sono una carta vincente», dissi. «L'illusione si autoalimenta. Lui resta a corto di uomini ed è preso di mira, tutto nello stesso tempo. Ma non ho intenzione di insistere troppo, anzi fingerò d'essere un po' riluttante. Qualsiasi altro atteggiamento sembrerebbe finto.»
«D'accordo», fece lei. «Hai sette obiettivi, dei quali i numeri uno, due e tre sono: stare molto attento. Possiamo presumere che siano persone molto pericolose.» Annuii. «Possiamo fare di più che presumere. Se Quinn è coinvolto, possiamo starne certi.»
«Perciò agisci di conseguenza», affermò. «Senza mezze misure, fin dall'inizio.»
«Sì», dissi. Incrociai il braccio sul petto e con la mano destra iniziai a massaggiarmi la spalla sinistra poi mi fermai, sorpreso. Uno psichiatra dell'esercito mi aveva detto che quel gesto inconscio denota un senso di vulnerabilità, di difesa. È legato all'istinto di ripararsi, di nascondersi ed è il primo passo sulla strada che alla fine ti porta a raggomitolarti in posizione fetale. Duffy doveva aver letto gli stessi libri perché lo notò e mi guardò in faccia.
«Hai paura di Quinn, non è vero?» chiese.
«Io non ho paura di nessuno», risposi. «Ma preferivo certamente quand'era morto.»
«Possiamo rinunciare», aggiunse.
Scossi la testa. «Mi piace l'idea di poterlo scovare, credimi.»
«Che cos'è andato storto con l'arresto?» Scossi di nuovo la testa.
«Non intendo parlarne», risposi.
Lei rimase zitta per un istante, ma non insistette. Distolse semplicemente lo sguardo, tacque, mi guardò di nuovo e riprese il briefing in modo calmo e competente.
«L'obiettivo numero quattro è trovare la mia agente», affermò. «E riportarmela.» Annuii.
«Cinque, portami prove concrete con cui inchiodare Beck.»
«D'accordo.» Lei tacque di nuovo. «Sei, trova Quinn e fa' quello che devi con lui. E sette, escine vivo.» Assentii senza dire nulla.
«Non ti seguiremo», proseguì Duffy. «Il ragazzo ci potrebbe individuare. A quel punto sarà già piuttosto paranoico. E non metteremo nessuna cimice sulla Nissan, perché dopo probabilmente la troverebbero. Ci dovrai comunicare per e-mail la posizione, non appena la conoscerai.»
«D'accordo.»
«Punti deboli?» chiese.
Mi sforzai di non pensare a Quinn.
«Tre, che mi risulti», risposi. «Due secondari e uno importante. Il primo dei due secondari è che romperò il lunotto sparando dal furgoncino, ma il ragazzo avrà una decina di minuti per capire che i vetri rotti si trovano nel posto sbagliato e che non c'è un buco corrispondente nel parabrezza.»
«Allora non farlo.»
«Invece devo farlo per forza. È necessario tenere alto il livello di paura.»
«Va bene. Metteremo un po' di scatole nel retro. Se sei un fattorino, dovrai pure avere qualche scatola da consegnare. Forse gli nasconderanno la vista. Se così non fosse, augurati che in dieci minuti non faccia due più due.» Annuii. «Secondo, prima o poi, in qualche modo, Beck padre contatterà la polizia del posto, forse anche i quotidiani. Cercherà informazioni a riprova del fatto.»
«Daremo alla polizia un copione da seguire e saranno loro a comunicare con la stampa. Reggeranno il gioco finché necessario. Qual è il punto debole più grave?»
«Le guardie del corpo», dissi. «Per quanto potete trattenerle? Non potete lasciarle avvicinare a un telefono, altrimenti chiameranno Beck. Non potete arrestarle ufficialmente, né coinvolgerle nel piano. Dovrete trattenerle e far sì che non parlino con nessuno, in modo del tutto illegale. Per quanto tempo riuscirete a farlo?» Lei si strinse nelle spalle. «Quattro o cinque giorni al massimo. Dopo non ti potremmo più proteggere. Perciò sii molto svelto.»
«È mia intenzione», dissi. «Quanto durerà la batteria del mio aggeggio e-mail?»
«Circa cinque giorni», rispose. «Per allora ne sarai fuori. Non possiamo darti un caricabatteria, sarebbe troppo sospetto. Ma se ne trovi uno, puoi usare un carica-cellulare»
«Bene», affermai.
Lei si limitò a guardarmi. Non c'era nient'altro da dire. Poi si avvicinò e mi diede un bacio sulla guancia. Fu improvviso. Le sue labbra erano morbide e mi lasciarono una traccia di zucchero delle ciambelle sulla pelle.
«Buona fortuna», esclamò. «Penso che non abbiamo dimenticato nulla.» Invece avevamo dimenticato molte cose. Il nostro piano era pieno di errori e di lì a poco mi sarebbero balzati tutti agli occhi per angosciarmi.