1
L'agente scese dalla macchina esattamente quattro minuti prima di beccarsi una pallottola.
Si muoveva come se conoscesse il suo destino.
Aprì la portiera facendo forza per vincere la resistenza di un cardine duro, si girò lentamente sul sedile logoro di vinile e posò entrambi i piedi sulla strada.
Si afferrò al telaio della portiera con entrambe le mani e si sollevò. Rimase in piedi nell'aria fredda e tersa per un istante, si girò, chiuse la portiera con una spinta e restò fermo ancora per un secondo. Poi avanzò e si appoggiò al cofano di lato, vicino al faro.
L'auto era una Chevrolet Caprice vecchia di sette anni. Era nera, senza insegne della polizia, ma aveva tre antenne radio e mozzi cromati standard.
Gran parte degli agenti sostengono che la Caprice sia il migliore veicolo della polizia che sia mai stato costruito. Quell'uomo sembrava della stessa idea. Ricordava un detective in borghese, un veterano che aveva a disposizione l'intero parco macchine e guidava la storica Chevy per passione, come se non gli interessassero le nuove Ford. Nel suo portamento notai quell'inflessibilità tipica dei poliziotti della vecchia guardia. Era grosso e corpulento, indossava un vestito scuro tinta unita di lana pesante. Era alto, ma curvo. Un uomo anziano. Girò la testa, guardò a nord e a sud lungo la strada, poi allungò il collo robusto per guardare il cancello del college alle sue spalle. Si trovava a una trentina di metri da me.
Il cancello del college era una struttura puramente simbolica: due alti pilastri di mattoni si ergevano su una distesa d'erba ben curata al di là del marciapiede. In mezzo vi era un'inferriata alta a due battenti, composta da sbarre ritorte, piegate e curvate in fogge strane, di color nero lucido. Sembrava ridipinto da poco. Probabilmente lo dipingevano dopo ogni inverno.
Non aveva alcuna funzione di sicurezza: chiunque avesse voluto evitarlo, avrebbe potuto passare con l'auto sul prato. In ogni modo, era spalancato.
Dietro si apriva un viale d'accesso con due paletti di ferro alti fino al ginocchio, collocati a una distanza di due metri e mezzo e dotati di un meccanismo di blocco. I battenti del cancello erano fissati a essi, in modo da restare spalancati. Il viale conduceva a un gruppetto di edifici di mattoni dai colori caldi, un centinaio di metri più in là, con i tetti spioventi ricoperti di muschio, sovrastati da alberi. Altri alberi fiancheggiavano il viale e il marciapiede. C'erano alberi dappertutto e stavano appena mettendo le foglie: piccole, arricciate, di un verde brillante. Di lì a sei mesi sarebbero state grandi, rosse e dorate, e i fotografi sarebbero accorsi a scattare le foto per il dépliant del college.
Venti metri più indietro, alle spalle dell'agente e della sua macchina, un pick-up era parcheggiato sull'altro lato della strada, accanto al cordolo. Era rivolto nella mia direzione, una cinquantina di metri più in là, e sembrava vagamente fuori posto. Era di un rosso sbiadito e davanti aveva un grosso bull bar nero opaco, che pareva essere stato piegato e raddrizzato un paio di volte. Nell'abitacolo c'erano due uomini: giovani, alti, capelli chiari, un'aria da persone per bene. Se ne stavano seduti lì perfettamente immobili, a guardare davanti a loro senza fissare niente di preciso. Non stavano guardando né l'agente né me.
Io mi trovavo a sud. Avevo un furgoncino anonimo marrone, posteggiato all'esterno di un negozio di dischi. Era il tipico negozio che trovavi nei paraggi di un college, con gli espositori di CD usati sul marciapiede e i poster appesi alle vetrine che pubblicizzavano gruppi mai sentiti. Il portellone posteriore del furgoncino era aperto. Dentro, c'erano varie scatole impilate. In mano tenevo un fascio di carte. Portavo il cappotto perché era una fredda mattinata di aprile, e i guanti perché dalle scatole del furgone che erano state aperte sporgevano i punti metallici. Portavo anche una pistola perché lo faccio spesso. La tenevo infilata nei pantaloni, sulla schiena, sotto il cappotto. Era una Colt Anaconda, un grosso revolver di acciaio inossidabile predisposto per cartucce 44 Magnum. Era lunga trentaquattro centimetri e pesava un chilo e ottocento grammi. Non era certo la mia arma preferita: era dura, pesante e fredda, e ne avvertivo costantemente la presenza.
Mi fermai nel centro del marciapiede, sollevai lo sguardo dalle carte e in lontananza udii accendersi il motore del pick-up che però non si mosse.
Rimase dov'era, col motore che girava al minimo. Il fumo di scarico bianco si raccoglieva attorno alle ruote posteriori. L'aria era fredda. Era presto e la strada era deserta. Mi spostai dietro il furgoncino e guardai verso il lato del negozio di dischi, in direzione degli edifici del college. All'esterno di uno di essi vidi una Lincoln Town Car nera in attesa. In piedi accanto all'auto c'erano due uomini. Mi trovavo a un centinaio di metri, ma nessuno dei due assomigliava a un autista di limousine. Gli autisti di limousine non girano in coppia, non hanno l'aria giovane e robusta, né si comportano in modo teso, sospettoso. Quei due sembravano proprio guardie del corpo.
L'edificio all'esterno del quale la Lincoln attendeva era una specie di piccola casa dello studente. Sopra il grande portone di legno c'erano alcuni caratteri greci. Rimasi a osservare e il grande portone di legno si aprì per lasciare uscire un uomo giovane e magro. Aveva l'aria di uno studente e i capelli lunghi tutti arruffati; era vestito come un barbone, ma portava una borsa che sembrava di pelle lucida costosa. Una guardia del corpo rimase di vedetta mentre l'altra apriva la portiera. Il giovane gettò la borsa sul sedile posteriore e s'infilò in macchina, chiudendo la portiera. La udii sbattere: fu un suono debole, attutito, proveniente da un centinaio di metri di distanza. I due uomini si guardarono attorno per qualche istante, si sistemarono sui sedili anteriori e un attimo dopo l'auto partì. Trenta metri più indietro un mezzo della security del college si avviò lentamente nella stessa direzione, non come se intendesse fare da scorta, ma come se si trovasse lì per caso. Dentro c'erano due addetti alla sicurezza accasciati sui sedili, con l'espressione annoiata di chi non aveva uno scopo.
Mi tolsi i guanti e li gettai nel retro del furgoncino. Scesi in strada dove la visuale era migliore e vidi la Lincoln percorrere il viale a velocità moderata. Era nera, lucida, immacolata, tutta piena di cromature e di cera. Gli addetti alla sicurezza del college erano molto indietro. Si fermò al cancello, svoltò a sinistra e si diresse a sud, verso la Caprice nera della polizia.
Verso di me.
Quello che accadde dopo si svolse nell'arco di otto secondi, anche se mi sembrò un batter d'occhio.
Venti metri più indietro il pick-up rosso sbiadito si scostò dal marciapiede e accelerò bruscamente. Raggiunse la Lincoln, sterzò e la superò proprio all'altezza della Caprice dell'agente. Passò a trenta centimetri dalle ginocchia di quest'ultimo, poi accelerò di nuovo per un breve tratto e infine il guidatore sterzò di colpo, in modo che il paraurti colpisse in pieno il parafango anteriore della Lincoln. L'uomo tenne il volante sterzato e il piede premuto con forza sull'acceleratore buttando la Lincoln fuori strada. L'auto creò profondi solchi nell'erba e rallentò di colpo per finire dritta contro un albero. Si udì il clangore del metallo che si deformava e si lacerava, e il frantumarsi dei fari; poi una grossa nube di vapore si levò in cielo, e le foglioline verdi dell'albero tremarono e frusciarono rumorosamente nell'aria immobile del mattino.
Allora i due uomini del pick-up scesero sparando. Avevano pistole mitragliatrici nere e sparavano alla Lincoln. Il rumore era assordante. Vedevo le traiettorie arcuate dei bossoli che cadevano a pioggia sull'asfalto. Gli uomini afferrarono le portiere della Lincoln e le spalancarono. Uno dei due si chinò sul sedile posteriore e tirò fuori il ragazzo. L'altro stava ancora sparando verso la parte anteriore dell'abitacolo. Un istante dopo infilò la mano sinistra in tasca e ne estrasse una specie di bomba a mano. La gettò nella Lincoln, chiuse le portiere, afferrò il compagno e il ragazzo per le spalle, li fece voltare e li buttò a terra. Nell'auto ci fu una forte esplosione.
Tutti i sei finestrini si ruppero. Io ero a più di venti metri e sentii in pieno l'onda d'urto. Le schegge di vetro volarono dappertutto creando riflessi iridescenti nella luce del sole. Poi l'uomo che aveva tirato la bomba si rimise in piedi e corse verso il lato del passeggero del pick-up, mentre l'altro spingeva col braccio teso il ragazzo nell'abitacolo e si sedeva al suo fianco.
Le portiere si richiusero sbattendo e io vidi il ragazzo bloccato in mezzo, sul sedile. Lessi il terrore sul suo volto. Era pallido per lo shock; oltre il parabrezza sporco scorsi la sua bocca aprirsi ed emettere un urlo silenzioso. Il guidatore inserì la marcia, il motore rombò e gli pneumatici sgommarono. Un attimo dopo il pick-up partì esattamente nella mia direzione.
Era un Toyota.
Vidi la scritta TOYOTA sul radiatore dietro il bull bar.
Era alto sulle sospensioni e davanti notai un enorme differenziale nero, grande quanto un pallone da calcio. Un quattro ruote motrici con pneumatici grossi e larghi. La carrozzeria, sbiadita e tutta ammaccata, non veniva lavata da quando il pick-up era uscito dalla fabbrica. Si stava dirigendo dritto verso di me.
Avevo meno di un secondo per decidere.
Scostai il lembo del cappotto ed estrassi la Colt. Presi con cura la mira e sparai un colpo al radiatore del Toyota. La pesante semiautomatica emise un lampo e un boato, scuotendomi la mano per il rinculo. Il grosso proiettile calibro 44 mandò in pezzi il radiatore. Sparai quindi allo pneumatico anteriore sinistro che, con un'esplosione spettacolare, si trasformò in una pioggia di brandelli di gomma nera. Metri di battistrada lacerato piroettarono in aria. Il pick-up sbandò e si fermò col lato del guidatore rivolto verso di me, a una decina di metri di distanza. Mi riparai dietro la parte posteriore del furgoncino, chiusi con un colpo il portello posteriore, uscii sul marciapiede e sparai allo pneumatico posteriore sinistro con lo stesso risultato: pezzi di gomma volarono dappertutto. Il pick-up si inclinò sui cerchioni sinistri e lì rimase, tutto sbilenco. Il guidatore aprì la portiera e si buttò sull'asfalto, dopodiché si sollevò a fatica su un ginocchio. Aveva la pistola nella mano sbagliata. La passò nell'altra e io attesi finché non fui più che sicuro che me l'avrebbe puntata contro. Con la mano sinistra tenni fermo l'avambraccio destro per reggere i quasi due chili della Colt, mirai con attenzione al centro del bersaglio come tanto tempo prima mi avevano insegnato e premetti il grilletto. Il petto dell'uomo esplose in un'enorme nube di sangue. All'interno dell'auto il giovane tutto pelle e ossa sembrava irrigidito: si limitava a fissare davanti a sé in preda allo shock e all'orrore.
Il secondo uomo, tuttavia, era già uscito dall'auto e stava raggiungendo il cofano per avvicinarsi di più a me. Mi stava puntando contro la pistola. Mi girai a sinistra, mi fermai un attimo e tenni fermo l'avambraccio destro, mirando al petto. Sparai, con lo stesso risultato: l'uomo cadde riverso dietro il parafango in una nube di vapore rosso.
Adesso il ragazzo tutto pelle e ossa si stava muovendo nell'abitacolo. Mi precipitai da lui, lo tirai fuori passando sopra il corpo del primo uomo e lo portai di corsa al mio furgoncino. Era inerte per lo spavento e in stato confusionale. Lo buttai sul sedile del passeggero, chiusi la portiera con un colpo secco, mi girai e mi diressi al posto di guida. Con la coda dell'occhio vidi un terzo uomo venirmi incontro e frugarsi nella giacca. Era alto e corpulento, vestito di scuro. Impugnai l'arma, sparai e vidi il suo petto disintegrarsi in un'enorme esplosione rossa proprio nello stesso istante in cui capii che era il vecchio agente della Caprice e che aveva infilato la mano in tasca per prendere il distintivo: uno scudo dorato in un portadocumenti di pelle logora che volò in aria per ricadere capovolto sul cordolo davanti al mio furgoncino.
Il tempo si fermò.
Fissai il poliziotto. Era steso di schiena nel canalino di scolo col petto ridotto a una poltiglia rossa. Era ricoperto di sangue. Non zampillava né usciva a fiotti. Non c'era segno di battito cardiaco. Nella camicia l'uomo aveva un grosso strappo ed era completamente immobile. Aveva la testa girata e la guancia premuta sull'asfalto. Le braccia erano aperte e gli vedevo le vene pallide delle mani. Vidi il nero della strada, il verde brillante dell'erba e l'azzurro vivo del cielo. Sentivo il fremito della brezza tra le foglie nuove al di sopra del rumore degli spari che ancora mi riecheggiava nelle orecchie. Vidi il ragazzo tutto pelle e ossa fissare dal parabrezza del furgoncino prima il poliziotto a terra, poi me. Vidi l'auto degli addetti alla sicurezza del college uscire dal cancello e svoltare a sinistra. Si muoveva più lentamente del dovuto. Erano state sparate decine di proiettili. Forse non sapevano dove iniziasse e finisse la loro giurisdizione, forse erano solo spaventati. Vidi le loro facce rosee, pallide, dietro il parabrezza. Erano voltati nella mia direzione. Andavano a circa venticinque chilometri all'ora.
Guardai lo scudo dorato nel canalino di scolo: il metallo era liscio, usurato da una vita di lavoro. Guardai il furgoncino e restai perfettamente immobile. Una cosa che ho imparato molto tempo fa è che è abbastanza facile sparare a un uomo, ma dopo non hai modo di invertire il processo.
Udii la macchina del college avvicinarsi lenta e le sue gomme scricchiolare sul ghiaino dell'asfalto. Tutto il resto era silenzio. Poi il tempo riprese a scorrere. Una voce in testa mi urlò vai, vai, vai, e io scattai. Mi precipitai nel furgone, gettai la pistola sul sedile centrale, accesi il motore e feci inversione a U tanto bruscamente da inclinarmi su due ruote. Il ragazzo tutto pelle e ossa fu sballottato di qua e di là. Raddrizzai il volante, premetti l'acceleratore e puntai a sud. Nel retrovisore avevo una visuale limitata, ma vidi lo stesso gli agenti del college accendere le luci sul tetto e partire all'inseguimento. Il ragazzo al mio fianco sedeva assolutamente muto con la bocca aperta, impegnato a mantenersi in equilibrio sul sedile. Io invece lo ero ad accelerare il più possibile. Il traffico per fortuna era scarso. Ci trovavamo in una cittadina sonnolenta del New England, il mattino presto.
Riuscii a spingere il furgoncino fino ai centodieci. Stringevo il volante a tal punto che le nocche erano bianche e fissavo la strada davanti a me come se non volessi guardarmi alle spalle.
«A che distanza sono?» chiesi al ragazzo.
Lui non rispose. Era inerte per lo shock, raggomitolato nell'angolo del sedile, il più lontano possibile da me. Fissava il tetto e con la mano destra si teneva alla portiera. Pelle chiara, dita lunghe.
«A che distanza sono?» chiesi di nuovo. Il motore rombava.
«Hai ucciso un poliziotto», rispose lui. «Quel vecchio, era un poliziotto, sai.»
«Sì.»
«Gli hai sparato.»
«È stato un incidente», osservai. «A che distanza sono gli altri?»
«Ti stava mostrando il distintivo.»
«A che distanza sono gli altri?» Il ragazzo si mosse, si girò e abbassò la testa in modo da poter guardare dal piccolo lunotto posteriore.
«A circa trenta metri», rispose. Aveva un tono vago, spaventato. «Sono davvero vicini. Uno di loro si è sporto dal finestrino e ha una pistola in mano.» In quel momento esatto udii il pop lontano di una pistola sovrastare il rumore del motore e il gemito degli pneumatici. Presi la Colt dal sedile accanto, ma subito dopo la lasciai. Era scarica. Avevo già sparato sei colpi.
Uno al radiatore, due alle gomme, due agli uomini. E uno al poliziotto.
«Il vano del cruscotto», dissi.
«Dovresti fermarti», replicò lui. «Spiegare, dire che mi stavi aiutando, che è stato un errore.» Non mi stava guardando, stava fissando fuori del lunotto posteriore.
«Ho sparato a un poliziotto», affermai mantenendo un tono del tutto indifferente. «Questo è quello che sanno ed è tutto quello che vogliono sapere. A loro non interessa come o perché.» Il ragazzo non disse nulla.
«Il vano del cruscotto», ripetei.
Si voltò di nuovo e armeggiò per aprire il vano. Dentro c'era un'altra Anaconda. Identica, di acciaio inossidabile lucido, carica. La presi dalle mani del ragazzo, aprii il finestrino e l'aria fresca si riversò dentro impetuosa.
Colsi il rumore di una pistola che sparava alle nostre spalle, rapida e costante.
«Merda», esclamai.
Il ragazzo non aprì bocca. Gli spari continuavano, forti, sordi, martellanti. Com'è che mancano il bersaglio?
«Stenditi giù sul fondo», dissi.
Mi spostai di lato fino a bloccare la spalla sinistra contro il telaio della portiera, allungai completamente il braccio destro per poter tenere la pistola fuori del finestrino, puntata in direzione posteriore. Sparai una volta e il ragazzo mi fissò inorridito, poi scivolò in avanti e si accucciò nello spazio tra il sedile e il cruscotto con le braccia sulla testa. Un secondo dopo il lunotto posteriore, a tre metri dal punto in cui un attimo prima si trovava la sua testa, esplose.
«Merda», esclamai di nuovo e sterzai per avvicinarmi al lato della strada e migliorare l'angolo di tiro. Sparai di nuovo alle nostre spalle.
«Ho bisogno che controlli», dissi. «Sta' giù più che puoi.» Il ragazzo non si mosse.
«Alzati», ordinai. «Ora. Ho bisogno che controlli.» Si sollevò lievemente e si girò quel tanto da alzare la testa per poter dare un'occhiata dietro. Lo vidi osservare il lunotto posteriore in frantumi e concludere che un attimo prima la sua testa si trovava proprio su quella traiettoria.
«Rallenterò un po'», dissi. «Andrò più piano in modo che accelerino per superarmi.»
«Non farlo», replicò lui. «Puoi ancora sistemare le cose.» Lo ignorai. Ridussi la velocità a circa ottanta chilometri e mi portai sulla destra. L'auto del college si spostò automaticamente a sinistra per affiancarmi. Sparai gli ultimi tre proiettili e il parabrezza andò in frantumi. La macchina sbandò per l'intera larghezza della strada, come se il guidatore fosse stato colpito o se fosse scoppiata una gomma. Si diresse di muso verso il ciglio opposto, si schiantò contro una fila di arbusti ornamentali e sparì alla vista. Lasciai cadere la pistola scarica sul sedile accanto, chiusi il finestrino e accelerai forte. Il ragazzo non disse nulla, si limitò a fissare il retro del furgoncino. Il lunotto a pezzi emetteva uno strano gemito, come se l'aria vi venisse risucchiata.
«Bene», dissi. Ero senza fiato. «Adesso possiamo andare.» Il ragazzo si voltò a guardarmi in faccia.
«Sei impazzito?»
«Sai cosa capita a chi spara a un poliziotto?» A quello non seppe cosa rispondere. Continuammo in silenzio per una trentina di secondi; percorremmo quasi un chilometro battendo le palpebre, ansimando e fissando dritto davanti a noi oltre il parabrezza, quasi fossimo stregati. L'abitacolo del furgoncino puzzava di polvere da sparo.
«È stato un incidente», ripetei. «Non lo posso resuscitare, perciò fattene una ragione.»
«Chi sei?» domandò.
«Chi sei tu, piuttosto?» replicai.
Lui tacque. Respirava in modo affannoso. Controllai nel retrovisore: la strada alle nostre spalle era completamente deserta, come del resto quella davanti a noi. Eravamo in mezzo alla campagna, forse a una decina di minuti da un raccordo a quadrifoglio.
«Sono il bersaglio», rispose. «Di un sequestro.» Aveva usato il termine più tecnico.
«Volevano rapirmi.»
«Davvero?»
«Sì. È già successo.»
«Perché?»
«Per soldi», disse il ragazzo. «Per cosa se no?»
«Sei ricco?»
«Mio padre lo è.»
«Chi è?»
«Uno come tanti», rispose.
«Uno ricco però.»
«È un importatore di stuoie.»
«Stuoie?» chiesi. «In che senso? Vuoi dire di tappeti?»
«Di stuoie orientali.»
«E ci si può arricchire importando stuoie orientali?»
«Molto», affermò il ragazzo.
«Come ti chiami?»
«Richard», disse. «Richard Beck.» Guardai di nuovo nel retrovisore. La strada era sempre deserta alle nostre spalle e anche davanti a noi. Rallentai un po' e tenni il furgone nel centro della corsia, cercando di guidare normalmente.
«Allora, chi erano quegli uomini?» domandai.
Richard Beck scosse la testa. «Non ne ho idea.»
«Sapevano dove andavi. E quando.»
«Stavo andando a casa per il compleanno di mia madre. È domani.»
«Chi ne era al corrente?»
«Non saprei. Chiunque conosca la mia famiglia. Chiunque appartenga alla comunità degli importatori di stuoie orientali, suppongo. Siamo molto noti.»
«Esiste una comunità di importatori di stuoie?» chiesi.
«Ci facciamo concorrenza», rispose. «Stesse fonti, stesso mercato. Ci conosciamo tutti.» Tacqui, continuando semplicemente a guidare a novantacinque chilometri all'ora.
«Hai un nome?» mi domandò il ragazzo.
«No», risposi.
Lui annuì, come se avesse capito. In gamba, il ragazzo.
«Che hai intenzione di fare?»
«Di lasciarti in prossimità dell'autostrada», affermai. «Potrai fare autostop o chiamare un taxi e dimenticarti completamente di me.» Il ragazzo tacque.
«Non ti posso portare alla polizia», proseguii. «Non è proprio possibile.
Lo capisci, vero? Ho ucciso uno di loro. Forse anche tre. Tu mi hai visto.» Lui rimase zitto. Era il momento della decisione. L'autostrada era a sei minuti di distanza.
«Getterebbero via la chiave», aggiunsi. «Ho combinato un casino, è stato un incidente, ma non mi ascolterebbero. Non lo fanno mai. Perciò non mi chiedere di andare in qualche posto o da qualcuno. Non come testimone, né in altra veste. Me ne tiro fuori, come se non fossi mai esistito. È chiaro?» Lui non aprì bocca.
«E non dare loro descrizioni», aggiunsi. «Di' che non ti ricordi che aspetto avessi. Di' che eri sotto shock, altrimenti ti ritrovo e ti ammazzo.» Ancora silenzio.
«Ti lascerò da qualche parte», continuai. «Come se non mi avessi mai visto.» Il ragazzo si mosse. Si voltò di lato sul sedile e mi guardò dritto in faccia.
«Portami a casa», disse. «Portami fin lì. Ti pagheremo. Ti daremo una mano. Ti nasconderemo, se vuoi. I miei ti saranno grati. Voglio dire, io ti sono grato. Credimi. Mi hai salvato il culo. La storia del poliziotto... è stato un incidente, giusto? Solo un incidente. Ti è andata male. Eri sotto pressione, lo posso capire. Terremo la bocca chiusa.»
«Non mi serve il vostro aiuto», risposi. «Mi devo solo sbarazzare di te.»
«Ma io devo tornare a casa», replicò lui. «Ci aiuteremo a vicenda.» L'autostrada era a quattro minuti.
«Dov'è casa tua?»
«A Abbot», rispose.
«Abbot, dove?»
«Abbot, nel Maine», disse. «Sulla costa. Tra Kennebunkport e Portland.»
«Stiamo andando nella direzione sbagliata.»
«Sull'autostrada puoi andare a nord.»
«Saranno almeno trecento chilometri.»
«Ti pagheremo. Faremo in modo che ne sia valsa la pena.»
«Potrei lasciarti dalle parti di Boston», osservai. «Lì ci sarà un pullman per Portland.» Lui scosse la testa con violenza, come in preda a un attacco epilettico.
«No», disse. «Non posso prendere il pullman. Non posso restare solo, non ora. Ho bisogno di protezione. Quelli potrebbero essere ancora in giro.»
«Quelli sono morti», replicai. «Come quel dannato poliziotto.»
«Potrebbero avere dei soci.» Ancora una volta aveva usato un termine strano. Sembrava piccolo, magro, spaventato. Un'arteria gli pulsava sul collo. Con entrambe le mani si sollevò i capelli e si voltò verso il parabrezza per farmi vedere l'orecchio sinistro. Non c'era. Al suo posto c'era solo un ammasso duro di tessuto cicatriziale. Sembrava un pezzetto di pasta cruda. Un tortellino.
«Me lo hanno tagliato e lo hanno spedito per posta», spiegò. «La prima volta.»
«Quando?»
«Avevo quindici anni.»
«Tuo papà non ha pagato?»
«Non abbastanza presto.» Non dissi nulla. Richard Beck rimase seduto e continuò a mostrarmi la cicatrice, traumatizzato, spaventato, col respiro affannoso che ricordava lo sbuffare di una macchina.
«Stai bene?» chiesi.
«Portami a casa», disse quasi con tono di supplica. «Adesso non posso restare solo.» L'autostrada era a due minuti.
«Per favore», insistette. «Aiutami.»
«Merda», esclamai per la terza volta.
«Per favore. Possiamo aiutarci a vicenda. Ti devi nascondere.»
«Non possiamo tenere il furgone», osservai. «Avranno diffuso la descrizione in tutto lo Stato.» Lui mi fissò, pieno di speranza. L'autostrada era a un minuto.
«Dobbiamo trovare una macchina», continuai.
«Dove?»
«In qualsiasi posto. Ci sono macchine dappertutto.» A sud-ovest dello svincolo sorgeva un grosso centro commerciale extraurbano. Lo vedevo già da lontano: enormi edifici marrone chiaro senza finestre, pieni di insegne colorate al neon, con vasti parcheggi occupati quasi per metà. Mi diressi lì e feci un giro intorno al complesso. Era grande quanto una cittadina e pullulava di gente, il che mi rese nervoso. Feci un altro giro e, superata una fila di cassonetti delle immondizie, entrai nello spiazzo posteriore di un grande magazzino.
«Dove stiamo andando?» domandò Richard.
«Al parcheggio del personale», risposi. «I clienti vanno e vengono tutto il giorno. Sono imprevedibili, ma il personale del negozio si ferma per l'intera apertura. È più sicuro.» Lui mi guardò come se non avesse capito. Mi diressi verso una fila di otto macchine parcheggiate di muso contro un muro spoglio. Accanto a una Nissan Maxima di colore smorto di circa tre anni c'era un posto libero. Avrebbe fatto al caso nostro: era un'auto piuttosto anonima. Il parcheggio era isolato, tranquillo, riservato. Mi fermai accanto al posto libero e vi entrai in retromarcia in modo che il portello posteriore del furgone fosse molto vicino al muro.
«Bisogna nascondere il finestrino rotto», spiegai.
Il ragazzo non disse nulla. Misi entrambe le Colt scariche nelle tasche del cappotto e scesi. Provai le portiere della Maxima.
«Trovami un pezzo di filo di ferro», affermai. «Un cavo elettrico spesso o un appendiabiti.»
«Hai intenzione di rubarla?» Annuii senza dire nulla.
«È una mossa furba?»
«La penseresti così se fossi stato tu a uccidere per sbaglio un poliziotto.» Il ragazzo mi guardò inespressivo per qualche istante, poi si riprese e si diede da fare. Io svuotai le Anaconda e gettai i dodici bossoli nel contenitore della spazzatura. Il ragazzo tornò con un pezzo di filo elettrico lungo poco meno di un metro, recuperato da una pila di rifiuti. Tolsi lo strato isolante con i denti, piegai un'estremità a uncino e lo infilai sotto la guarnizione di gomma del finestrino della Maxima.
«Tu fai il palo», dissi.
Richard si allontanò e si mise a scrutare il parcheggio mentre io infilavo il filo più in profondità e lo manovravo finché la maniglia della portiera non scattò. Gettai il filo nuovamente nei rifiuti e mi chinai sotto il volante per togliere la copertura di plastica. Frugai tra i cavi sino a trovare i due che mi servivano e creai il contatto. Il motorino di avviamento emise un gemito, poi il motore si accese, cominciò a girare e assunse un ritmo costante. Il ragazzo parve molto colpito.
«Gioventù bruciata», commentai.
«È una mossa furba?» chiese lui di nuovo.
Assentii. «È la mossa più furba che possiamo fare. Il furto non verrà denunciato prima delle sei, forse anche delle otto di sera, insomma non prima dell'orario di chiusura del negozio. A quell'ora tu sarai più che arrivato a casa.» Lui rimase fermo con la mano sulla portiera del passeggero, dopodiché sembrò scuotersi e s'infilò in macchina. Spinsi indietro il sedile, regolai lo specchietto e uscii in retromarcia dal posteggio. Quando si trattò di attraversare il parcheggio del centro commerciale, feci con calma. A un centinaio di metri di distanza vidi un'auto della polizia in perlustrazione. Parcheggiai di nuovo nel primo posto che trovai e rimasi lì col motore acceso finché la polizia non se ne fu andata. Poi mi affrettai verso l'uscita, imboccai il raccordo e due minuti dopo eravamo diretti a nord su un'autostrada ampia e liscia, alla rispettabile velocità di novantacinque chilometri all'ora.
Nell'auto aleggiava un forte profumo e c'erano due scatole di fazzolettini.
Attaccato al lunotto posteriore c'era una specie di orsacchiotto di peluche dotato di ventose al posto delle zampe. Sul sedile posteriore c'era un guanto della Little League e nel bagagliaio sentivo sbatacchiare una mazza di alluminio.
«L'auto di una mamma», dissi.
Il ragazzo non rispose.
«Non ti preoccupare», aggiunsi. «Probabilmente è assicurata. Una brava cittadina.»
«Non stai male?» domandò lui. «Per il poliziotto?» Gli lanciai un'occhiata. Era pallido e magro, tutto rattrappito in modo da starmi il più possibile lontano. Teneva la mano sulla portiera. Le lunghe dita ricordavano quelle di un musicista. Penso si sforzasse di apprezzarmi, ma a me non serviva che lo facesse.
«Sono cose che succedono», risposi. «Non ha senso prendersela tanto.»
«Che razza di risposta è?»
«L'unica possibile. È stato un danno collaterale di lieve importanza. Non ha alcun peso, a meno che non diventi fonte di tormento. In conclusione: non possiamo cambiare le cose, perciò guarderemo avanti.» Lui non disse nulla.
«Comunque, è stata colpa di tuo padre», affermai.
«Perché è ricco e ha un figlio?»
«Per aver assunto delle guardie del corpo incapaci.» Il ragazzo distolse lo sguardo e non aprì bocca.
«Erano guardie del corpo, vero?» Lui fece un cenno affermativo senza parlare.
«E tu non stai male?» domandai. «Per loro?»
«Un po'», rispose. «Almeno credo. Non li conoscevo bene.»
«Erano inutili», osservai.
«È accaduto così in fretta.»
«I criminali ti stavano aspettando lì davanti», dissi. «Un pick-up vecchio e scassato come quello in un'elegante cittadina universitaria? Quale guardia del corpo non lo avrebbe notato? Non avevano mai sentito parlare di valutazione dei pericoli?»
«Vuoi dire che tu l'avevi notato?» Annuii. «Certo.»
«Niente male per un guidatore di furgone.»
«Ero nell'Esercito. Ero un poliziotto militare. Conosco il mestiere delle guardie del corpo e conosco i danni collaterali.»
«Adesso hai un nome?» chiese esitante.
«Dipende», risposi. «Devo conoscere il tuo punto di vista. Potrei trovarmi in grossi guai. Almeno un poliziotto è morto e ho appena rubato un'auto.» Il ragazzo tacque e io lo imitai, chilometro dopo chilometro. Gli diedi tempo di pensare. Eravamo quasi fuori del Massachusetts.
«I miei apprezzano la lealtà», disse. «Tu hai reso un servizio al loro figlio. E anche a loro. Se non altro, hai fatto in modo che risparmiassero un po' di soldi. Ti saranno grati e sono certo che l'ultima cosa che farebbero è denunciarti.»
«Li devi chiamare?» Scosse la testa. «Mi stanno aspettando. Se arrivo a casa, non c'è bisogno che li chiami.»
«Lo farà la polizia. Penseranno che tu sia in grave pericolo.»
«Non hanno il numero. Nessuno ce l'ha.»
«Il college avrà il tuo indirizzo. Possono risalire al numero.» Scosse di nuovo la testa. «Il college non ha l'indirizzo. Nessuno ce l'ha.
Stiamo molto attenti quando si tratta di cose del genere.» Scrollai le spalle e, restando in silenzio, continuai a guidare per un altro paio di chilometri.
«E tu?» domandai. «Hai intenzione di denunciarmi?» Lo vidi toccarsi l'orecchio destro, quello ancora presente. Era chiaramente un gesto inconscio.
«Mi hai salvato il culo», rispose. «Non ho intenzione di denunciarti.»
«Bene», dissi. «Mi chiamo Reacher.»
Attraversammo brevemente un angolo del Vermont, quindi ci dirigemmo rapidi a nord-est nel New Hampshire, preparandoci a un viaggio molto, molto lungo. L'adrenalina era svanita, il ragazzo si era ripreso dallo shock e finimmo entrambi per sentirci un po' scarichi e assonnati. Abbassai il finestrino per fare entrare aria fresca e uscire il profumo: l'abitacolo divenne rumoroso, ma almeno restavo sveglio. Scambiammo due parole. Richard Beck mi disse che aveva vent'anni. Era al primo anno e aveva scelto come specializzazione una forma d'arte contemporanea che a me pareva molto simile alla pittura con le dita. Non era un grande esperto di relazioni umane, era soltanto un bambino. Nei confronti della famiglia provava una notevole ambivalenza. Formavano un clan molto unito e lui da un lato voleva evadere, dall'altro aveva bisogno di restare al suo interno. Era rimasto molto traumatizzato dal rapimento precedente, tanto che mi chiesi se non gli avessero fatto qualcos'altro oltre a tagliargli l'orecchio. Qualcosa di peggio.
Gli raccontai dell'Esercito esagerando sulle mie qualifiche di guardia del corpo. Volevo si sentisse in buone mani, almeno per un po'. Guidai a velocità sostenuta e costante. La Maxima aveva il serbatoio pieno e non dovemmo fermarci a fare benzina. Il ragazzo preferì non mangiare. Mi fermai una volta per andare alla toilette e lasciai il motore acceso per non armeggiare di nuovo con i cavi dell'accensione. Tornai all'auto e lo trovai inerte all'interno. Riprendemmo il viaggio, passammo Concord nel New Hampshire e ci dirigemmo verso Portland nel Maine. Il tempo passò. A mano a mano che ci avvicinavamo a casa, Richard era sempre più rilassato, ma anche più taciturno. Di nuovo, l'ambivalenza.
Attraversammo il confine di Stato. A una trentina di chilometri da Portland si girò nervoso per guardarsi alle spalle e mi disse di prendere l'uscita seguente. Svoltammo in una strada stretta che puntava a est, verso l'Atlantico. Passava sotto l'Interstatale 95 e attraversava per venticinque chilometri i promontori granitici che si protendevano verso il mare. Era un paesaggio che d'estate doveva essere splendido, ma che adesso era ancora freddo e selvaggio, con i suoi alberi piegati dai venti salati e gli affioramenti rocciosi creati dalle burrasche e dalle forti maree che avevano eroso la terra.
La strada curvava e serpeggiava come se si volesse spingere il più possibile a est. Davanti a me scorsi l'oceano, grigio come il ferro. Superammo insenature a destra e a sinistra. Vidi piccole spiagge di sassolini, poi la strada piegò a sinistra e subito a destra risalendo un promontorio a forma di palmo della mano, che si restringeva bruscamente fino a formare un unico dito puntato verso il mare. Era una penisola rocciosa larga un centinaio di metri e lunga circa ottocento. Sentivo il vento che scuoteva la macchina.
Continuai a percorrerla e vidi una fila di sempreverdi curvi e rachitici: tentavano di mimetizzare un muro di granito, ma non erano alti né spessi a sufficienza per riuscirvi. Il muro era alto circa due metri e mezzo, sovrastato da grosse volute di filo spinato e da luci di sicurezza posizionate a distanza le une dalle altre. Correva lateralmente per tutta la larghezza del dito di terra; alle estremità s'inclinava all'improvviso e arrivava fino al mare, dove le sue massicce fondamenta posavano su grossi blocchi di pietra tutti ricoperti di alghe. Nel muro, esattamente nel centro, c'era un cancello di ferro. Chiuso.
«Eccoci», disse Richard Beck. «Io vivo qui.» La strada conduceva direttamente al cancello, oltre il quale si trasformava in un viale d'accesso lungo e dritto. In fondo sorgeva una casa di pietra grigia. La vedevo sulla punta del dito di terra, proprio sull'oceano. Al di là del cancello c'era una casetta a un piano, della stessa forma e della stessa pietra della villa, ma molto più piccola e bassa. Aveva le fondamenta in comune con il muro. Rallentai e mi fermai davanti al cancello.
«Suona il clacson», disse Richard Beck.
La Maxima aveva un minuscolo simbolo di tromba sul coperchio dell'airbag. Lo premetti con un dito e la tromba emise un educato bip. Vidi la telecamera di sorveglianza sul pilastro del cancello inclinarsi e ruotare per una panoramica. Era come un piccolo occhio di vetro che mi fissava.
Ci fu una lunga attesa, poi la porta della guardiola si aprì. Ne uscì un uomo con un abito scuro, evidentemente acquistato in un negozio per taglie forti: con molta probabilità era della misura più grande che esistesse, eppure a quell'uomo andava stretto di spalle ed era corto di maniche. Era ben più grosso di me, il che lo collocava nella categoria dei mostri. Un vero gigante. Si avvicinò al cancello e guardò fuori. Si soffermò a lungo a osservare me, lanciando solo un'occhiata al ragazzo. Poi fece scattare la serratura e aprì il cancello.
«Va' dritto a casa», disse Richard. «Non fermarti qui. Quel tizio non mi piace molto.» Passai il cancello senza fermarmi, ma guidai lentamente e mi guardai attorno. La prima cosa che fai quando arrivi in un posto è individuare una via d'uscita. Il muro correva fin dentro l'acqua agitata del mare, da entrambi i lati. Era troppo alto per essere scavalcato e il filo spinato in cima rendeva impossibile scalarlo. Dietro c'era un tratto scoperto di una trentina di metri, una sorta di terra di nessuno o di campo minato. Le luci di sicurezza erano state istallate in modo da illuminarlo interamente. Non c'erano vie d'uscita tranne il cancello e il gigante lo stava richiudendo alle nostre spalle: lo vidi nel retrovisore.
Il tragitto fino a casa fu lungo. Eravamo circondati dall'oceano grigio da tre lati. La casa era una villa enorme, grandiosa, forse l'antica residenza di un capitano vissuto quando andare a caccia di balene ti consentiva di fare fortuna. Era interamente di pietra con tondini, cornicioni e spire. Tutte le superfici rivolte a nord erano ricoperte da licheni grigi, le altre erano maculate di verde. Aveva tre piani e una decina di camini. La linea del tetto era complessa: c'erano spioventi dappertutto, con grondaie corte e una miriade di grossi tubi di ferro per far defluire l'acqua piovana. Il portone d'ingresso era di quercia, con lamine e borchie di ferro. Il viale si allargava a formare una rotonda che imboccai in senso antiorario, fermandomi di fronte all'ingresso. La porta si aprì e ne uscì un altro uomo in abito scuro. Era circa della mia corporatura, il che significava molto più piccolo di quello della guardiola, ma non per questo mi piaceva di più. Aveva un volto impassibile e occhi impenetrabili. Aprì la portiera del passeggero della Maxima come se si aspettasse di vedere proprio quella macchina. Così probabilmente era, il gigante della guardiola doveva averlo avvertito.
«Puoi aspettare qui?» mi chiese Richard.
Uscì rapido dall'auto e si allontanò scomparendo nel buio della casa.
L'uomo con il vestito scuro chiuse la porta di quercia dall'esterno e si piazzò di guardia davanti a essa. Non mi stava guardando, ma sapevo di rientrare nella sua visione periferica. Scollegai i cavi sotto il volante, spensi il motore e attesi.
Fu un'attesa ragionevolmente lunga, forse di una quarantina di minuti.
Col motore spento l'auto diventò gelida. La brezza marina che soffiava attorno alla casa la scuoteva lievemente. Fissavo dritto davanti a me, oltre il parabrezza. Ero rivolto a nord-est e l'aria era tersa, pungente. Vedevo la linea di costa formare un'insenatura a sinistra e una vaga chiazza marrone in cielo, a circa trenta chilometri di distanza: probabilmente lo smog di Portland. La città era nascosta da un promontorio.
Poi la porta di quercia si riaprì, la guardia del corpo si fece prontamente da parte e comparve una donna, la madre di Richard Beck, non c'erano dubbi. Aveva la stessa corporatura esile e lo stesso volto pallido, le stesse dita lunghe. Indossava jeans e un maglione pesante da pescatore. Aveva i capelli mossi dal vento e una cinquantina d'anni. Sembrava tesa e stanca.
Si fermò a un paio di metri dall'auto, come per farmi capire che sarebbe stato educato da parte mia scendere e andarle incontro. Aprii quindi la portiera e uscii. Ero irrigidito e intorpidito. Mi avvicinai e lei mi tese la mano.
Gliela strinsi. Era gelida come ghiaccio, tutta ossa e tendini.
«Mio figlio mi ha detto quello che è successo», disse. Aveva una voce bassa e un po' roca, come se fumasse molto o se avesse urlato a squarciagola. «Non ho parole per esprimerle la mia gratitudine per l'aiuto che gli ha dato.»
«Sta bene?» Lei fece una smorfia, come se non ne fosse sicura. «Adesso sta riposando.» Annuii e le lasciai la mano, che le ricadde lungo il fianco. Ci fu un breve e imbarazzante silenzio.
«Sono Elizabeth Beck», disse.
«Jack Reacher», risposi.
«Mio figlio mi ha spiegato la sua situazione», proseguì.
Un termine neutro, garbato per definirla. Non risposi nulla.
«Mio marito rientrerà stasera», aggiunse. «Lui saprà cosa fare.» Annuii. Ci fu un altro silenzio imbarazzante. Restai in attesa.
«Si vuole accomodare?» chiese.
Si girò e tornò nell'atrio. Io la seguii. Varcai la soglia e la porta emise un bip. Guardai meglio e vidi un metal detector istallato con gran discrezione sullo stipite interno.
«Le spiace?» domandò Elizabeth Beck facendomi una sorta di timido gesto di scusa e rivolgendosi quindi all'omone in giacca e cravatta. Questi si avvicinò e si accinse a perquisirmi.
«Due pistole», dissi. «Scariche. Nelle tasche del cappotto.» L'uomo le estrasse con la disinvoltura e l'esperienza di chi ha perquisito molte persone nella sua vita. Le posò su un tavolino, si chinò, mi tastò le gambe, poi si alzò e fece lo stesso con le braccia, la vita, il petto e la schiena. Fu molto accurato e non molto delicato.
«Mi spiace», si scusò Elizabeth Beck.
L'uomo in giacca e cravatta arretrò e ci fu un altro imbarazzante silenzio.
«Le serve qualcosa?» chiese Elizabeth Beck.
Mi vennero in mente un sacco di cose, ma mi limitai a scuotere la testa.
«Sono un po' stanco», risposi. «È stata una giornata lunga. Vorrei tanto dormire.» Lei sorrise come se fosse contenta, come se il fatto che il suo ammazza-sbirri dormisse la liberasse da qualsiasi obbligo sociale.
«Ma certo», rispose. «Duke l'accompagnerà in una stanza.» Mi guardò per qualche secondo ancora. Al di là della tensione e del pallore, era una bella donna. Aveva ossa sottili e una pelle perfetta. Trent'anni prima doveva avere avuto uno stuolo di corteggiatori. Poi si voltò e scomparve nei meandri della casa. Mi girai verso l'uomo in giacca e cravatta, supponendo fosse Duke.
«Quando riavrò le pistole?» domandai.
Lui non rispose, mi indicò solo la scala e mi seguì quando la salii. Mi indicò quindi un'altra scala e arrivammo al secondo piano. Mi condusse a una porta e la spalancò. Entrai e trovai una stanza quadrata spoglia, pannellata di quercia, arredata con mobili vecchi, pesanti: un letto, un armadio, un tavolo, una sedia. Sul pavimento c'era un tappeto orientale liso e sottile. Forse era un vecchio tappeto privo di valore. Duke mi superò e mi mostrò il bagno. Sembrava un cameriere d'albergo. Mi passò di nuovo accanto e si diresse alla porta.
«La cena è alle otto», disse senza aggiungere altro.
Uscì e richiuse la porta. Non udii alcun rumore, ma quando controllai la trovai chiusa a chiave dall'esterno. All'interno non c'era il buco della serratura. Mi avvicinai alla finestra e guardai fuori: ero sul retro della casa e vedevo l'oceano. Ero rivolto esattamente a est e tra me e l'Europa non c'era niente. Guardai giù. Quindici metri più in basso c'erano scogli e onde piene di schiuma che s'infrangevano tutt'intorno. Sembrava che la marea stesse salendo.
Tornai alla porta, vi appoggiai l'orecchio e mi misi attentamente in ascolto. Non sentii niente. Esaminai soffitto, mantovane e mobili con gran cura, centimetro per centimetro. Niente. Nessuna telecamera. Dei microfoni non mi preoccupavo: non avrei fatto rumore. Mi sedetti sul letto e mi tolsi la scarpa destra. La capovolsi e con le unghie estrassi un perno dal tacco di gomma, lo ruotai, girai la scarpa e la scossi. Un piccolo rettangolo di plastica nera cadde sul letto rimbalzando una volta. Era un apparecchio e-mail senza fili: niente di sofisticato, un prodotto commerciale come tanti programmato però per inviare messaggi a un solo indirizzo. Era grande circa quanto un cerca-persone e dotato di una tastiera piccola e scomoda, con tasti minuscoli. Lo accesi e scrissi un breve messaggio, poi premetti Invia.
Il messaggio diceva: Sono dentro.