4

 

Il tempo correva, ne ero consapevole. Era una specie di prova, o di esame, e mi ci sarebbero volute almeno dieci ore preziose per completarla.

Dieci ore che non potevo sprecare. E il furgone era uno strazio: vecchio e pesante, emetteva un rombo costante dal motore e un gemito lancinante dalla trasmissione. Le sospensioni erano logore, usurate e l'intero veicolo dondolava di qua e di là. I retrovisori però erano belli grandi, rettangolari e robusti, e mi offrivano una buona visuale di qualsiasi cosa si trovasse dieci metri più indietro. Ero sull'Interstatale 95, diretto a sud, e tutto era tranquillo. Ero piuttosto sicuro che nessuno mi seguisse. Piuttosto sicuro, ma non del tutto certo.

Rallentai il più possibile e con varie manovre misi il piede sinistro sull'acceleratore, poi mi chinai e mi tolsi la scarpa destra. Con un'abile mossa riuscii a mettermela sulle ginocchia ed estrassi l'apparecchio e-mail con una mano sola. Tenendolo contro il bordo del volante, scrissi: Urgente incontrarsi alla 1a stazione di servizio I-95 direzione S, uscita di Kennebunk ora subito. Comperate saldatore a stilo e piombo per saldatura da Radio Shack o da un ferramenta. Poi premetti Invia e gettai l'apparecchio sul sedile accanto. Infilai il piede nella scarpa e lo rimisi sul pedale, dopodiché mi raddrizzai e controllai di nuovo nel retrovisore. Niente. A quel punto feci un paio di calcoli. Da Kennebunk a New London c'erano trecentoventi chilometri, forse un po' di più. Quasi quattro ore a novanta chilometri all'ora, tre a centodieci, e centodieci all'ora era probabilmente il massimo che avrei fatto con quel furgone. Perciò avevo un margine massimo di un'ora e dieci per fare qualsiasi cosa andasse fatta.

Continuai a guidare alla velocità costante di novanta chilometri all'ora, nella corsia di destra. Mi superavano tutti, nessuno mi restava dietro. Non ero seguito e non sapevo se fosse un bene o un male. L'alternativa poteva essere peggio. Dopo ventinove minuti superai l'uscita di Kennebunk, un chilometro e mezzo dopo vidi il cartello di una stazione di servizio: a un decina di chilometri avrei trovato cibo, benzina e toilette. Per coprirli impiegai otto minuti e mezzo. C'era uno svincolo in piano che curvava a destra e risaliva un pendio fino a raggiungere un boschetto. La vista non era buona. Le foglie erano piccole, nuove, ma ce n'erano tante che non vedevo gran che. L'area di servizio stessa era nascosta. Lasciai che il furgone continuasse sull'abbrivio e risalisse il pendio, per scendere poi in una tipica area di sosta da interstatale. Era un semplice spiazzo con parcheggi a pettine su entrambi i lati e un gruppetto di edifici bassi di mattoni sulla destra. Al di là di essi sorgeva la stazione di servizio. C'erano forse una decina di macchine posteggiate vicino ai bagni. Una era la Taurus di Susan Duffy.

Era l'ultima della fila a sinistra. Lei era in piedi lì accanto con Eliot a fianco.

La superai lentamente, con la mano le feci cenno di aspettare e parcheggiai quattro posti più in là. Spensi il motore e per un istante rimasi seduto, grato dell'improvviso silenzio. Rimisi l'apparecchio e-mail nel tacco e mi allacciai la scarpa, poi cercai di comportarmi come una persona qualsiasi.

Allungai le braccia e aprii la portiera, scivolai fuori e camminai per qualche istante sul posto come per sgranchirmi le gambe e assaporare l'aria fresca del bosco. Feci un paio di giri completi su me stesso, mi fermai e tenni gli occhi puntati sullo svincolo. Non arrivava nessuno. Sentivo il rumore del traffico scarso sull'interstatale. Era vicino e piuttosto forte, ma il fatto che provenisse da dietro gli alberi mi faceva sentire nascosto, isolato. Contai settantadue secondi, il tempo necessario a coprire un chilometro e mezzo alla velocità di novanta all'ora. Dallo svincolo non arrivò nessuno, e nessuno segue un'auto a più di un chilometro e mezzo di distanza. Perciò mi avvicinai in fretta al punto in cui Duffy ed Eliot mi stavano aspettando.

Lui era vestito casual e sembrava un po' impacciato, lei indossava un paio di vecchi jeans e lo stesso giubbotto consumato di pelle che le avevo visto in precedenza. Era splendida. Nessuno dei due perse tempo in convenevoli, cosa di cui fui lieto.

«Dove sei diretto?» chiese Eliot.

«A New London, nel Connecticut», risposi.

«Che c'è nel furgone?»

«Non lo so.»

«Non ti hanno seguito», osservò Duffy. La sua era un'affermazione, non una domanda.

«Forse c'è un congegno elettronico», replicai.

«E dove sarebbe?»

«Nel retro, se hanno un po' di buonsenso. Avete il saldatore a stilo?»

«Non ancora», rispose. «Sta arrivando. Perché ci serve?»

«C'è un sigillo di piombo», spiegai. «Dobbiamo essere in grado di rifarlo.» Lei guardò lo svincolo, in ansia. «Non è una cosa facile da recuperare in poco tempo.»

«Controlliamo le parti accessibili», propose Eliot. «Mentre aspettiamo.» Tornammo al furgone blu. Mi abbassai e guardai sotto: era tutto incrostato di fango grigiastro secco e schizzato di olio e di altri liquidi.

«Non è qui», dissi. «Dovrebbero usare uno scalpello per arrivare al metallo.» Eliot lo trovò nell'abitacolo, circa quindici secondi dopo aver iniziato l'ispezione. Era attaccato alla gommapiuma sul fondo del sedile del passeggero con un pezzetto di velcro. Era un piccolo cilindro di metallo liscio, un po' più grande di un quarto di dollaro e spesso poco più di un centimetro.

Da esso fuoriusciva un cavetto di venti centimetri, presumibilmente l'antenna. Eliot chiuse l'apparecchio nel palmo della mano, uscì rapido dal furgone e fissò l'imbocco dello svincolo.

«Che c'è?» chiese Duffy.

«È strano», disse. «Un aggeggio del genere ha una batteria da apparecchio acustico, nient'altro. Bassa energia, raggio corto. A più di tre chilometri non lo si capta. Dov'è l'uomo che ti segue?» L'imbocco dello svincolo era deserto. Io ero stato l'ultimo a risalirlo. Restammo lì con gli occhi che ci lacrimavano per il vento freddo, a fissare il nulla. Il sibilo del traffico arrivava oltre gli alberi, ma nessun veicolo risalì lo svincolo.

«Da quanto sei qui?» domandò Eliot.

«Da circa quattro minuti», risposi. «Forse cinque.»

«Non ha senso», osservò. «Questo significherebbe che ti seguono a sei, otto chilometri di distanza, ma così lontani non ti possono sentire.»

«Forse non c'è nessuno», dissi. «Forse si fidano.»

«Allora perché mettere quell'aggeggio?»

«Forse non l'hanno messo, forse è lì da anni. Forse se ne sono scordati.»

«Troppi forse», replicò lui.

Duffy si girò a destra e fissò gli alberi.

«Potrebbero essersi fermati sul ciglio della strada», affermò. «Esattamente alla stessa altezza a cui ci troviamo noi.» Io ed Eliot ci girammo nella stessa direzione e guardammo. Aveva senso. In un pedinamento non era molto furbo fermarsi a una stazione di servizio accanto al bersaglio.

«Diamo un'occhiata», suggerii.

C'era una sottile striscia d'erba ben tagliata e un'altra zona altrettanto stretta in cui gli addetti alla manutenzione stradale avevano cercato di disciplinare la vegetazione, piantando cespugli e pacciamando il suolo con pezzi di corteccia di quercia. Poi c'erano solo alberi. La strada ne aveva ridotto l'estensione a est e l'area di servizio a ovest, ma in mezzo c'era un boschetto di una decina di metri che pareva esistere dall'inizio dei tempi.

Non fu semplice attraversarlo tra rampicanti, rovi puntuti e rami bassi, ed eravamo in aprile: in luglio o agosto sarebbe stato impossibile.

Ci fermammo poco prima che gli alberi cedessero il posto ad arbusti più bassi, oltre i quali si estendeva il bordo piatto ed erboso della strada. Avanzammo fin dov'era prudente e allungando il collo guardammo a destra e a sinistra. Non c'erano veicoli parcheggiati. Da quanto riuscivamo a vedere il margine era libero in entrambe le direzioni e il traffico era molto scarso. Passavano anche cinque secondi senza che si vedesse un mezzo. Eliot si strinse nelle spalle come per esprimere la sua perplessità, al che ci voltammo e tornammo faticosamente indietro.

«Non ha senso», affermò cupo.

«Hanno pochi uomini», dissi.

«No, sono sulla Uno», replicò Duffy. «Dev'essere per forza così. Corre parallela all'Interstatale 95 per tutta la sua lunghezza, fino alla costa. Da Portland a sud. Probabilmente per gran parte del tragitto corre a non più di tre chilometri di distanza.» Ci voltammo di nuovo verso est, come se potessimo vedere tra gli alberi e individuare una macchina ferma sul bordo di una strada parallela, lontana da noi.

«Ecco come fanno», aggiunse Duffy.

Annuii. Era un quadro plausibile, ma ci sarebbero stati degli inconvenienti tecnici: con uno spostamento laterale di tre chilometri qualsiasi lieve anomalia in direzione longitudinale dovuta al traffico avrebbe reso instabile il segnale. Ma in fondo tutto ciò che volevano sapere era la mia direzione generica.

«È possibile», affermai.

«No, è probabile», replicò Eliot. «Duffy ha ragione. È semplice buonsenso. Finché possono, cercano di non farsi vedere.» Assentii di nuovo. «Comunque, da qualche parte devono pur essere. Fino a dove la Uno corre parallela all'Interstatale 95?»

«Fino all'infinito», rispose Duffy. «Ben oltre New London, nel Connecticut. Si allontanano dalle parti di Boston, ma poi si riavvicinano.»

«Bene», esclamai e controllai l'ora. «Sono qui da quasi nove minuti. Sono più che sufficienti per un salto al bagno e un caffè. È ora di rimettere in moto il dispositivo elettronico.» Dissi a Eliot di infilarsi il trasmettitore in tasca e di dirigersi verso sud con la Taurus di Duffy alla velocità costante di novanta all'ora. Spiegai che lo avrei raggiunto col furgone da qualche parte prima di New London. Dopo avrei pensato a rimettere l'apparecchio al suo posto. Eliot partì e io rimasi solo con Duffy. Guardammo l'auto scomparire a sud, poi ci voltammo verso nord e guardammo lo svincolo di accesso. Avevo un'ora e un minuto e mi serviva il saldatore a stilo. Il tempo correva.

«Com'è lassù?» chiese Duffy «Un incubo», risposi. Le raccontai del muro di granito di due metri e mezzo, del filo spinato, del cancello e dei metal detector alle porte e della stanza senza la toppa sul lato interno della porta. Le raccontai di Paulie.

«Nessuna traccia della mia agente?» chiese.

«Sono lì da poco», risposi.

«È in quella casa», affermò. «Voglio credere che sia così.» Non replicai.

«Devi fare qualche progresso», aggiunse. «Ogni ora che passi lì dentro il rischio aumenta, per te e anche per lei.»

«Lo so», risposi.

«Che tipo è Beck?» chiese Duffy «Un tipo piuttosto strano», dissi. Le raccontai delle impronte sul bicchiere e del modo in cui si era sbarazzato della Maxima. Poi le raccontai anche della roulette russa.

«Hai giocato?»

«Sei volte», risposi guardando la rampa.

Lei mi fissò. «Pazzo. Sei a uno, dovresti essere morto.» Sorrisi. «Tu hai mai giocato?»

«Non lo farei mai. Non amo correre rischi del genere.»

«Sei come la maggior parte delle persone. Anche Beck è così. Ha creduto che le probabilità fossero di sei a uno, ma in realtà erano di quasi seicento a uno, o seimila. Metti un solo proiettile pesante in un'arma ben fatta e ben tenuta come quell'Anaconda e sarebbe un miracolo se il tamburo si fermasse con il proiettile in alto. La forza della rotazione lo porta sempre in basso. Il meccanismo di precisione, un po' d'olio e la gravità ti aiutano a uscirne vivo. Non sono un idiota. La roulette russa è molto più sicura di quanto non si creda. E valeva la pena correre il rischio pur di essere ingaggiato.» Lei rimase in silenzio per un po'.

«Impressioni?»

«Sembra un importatore di tappeti», dissi. «La casa ne è piena.»

«Ma?»

«Ma non lo è», risposi. «Ci scommetto la pensione. Gli ho chiesto dei tappeti e non mi ha detto molto, come se non fosse molto interessato alla cosa. Gran parte delle persone ama parlare del proprio lavoro, a volte non riesci a farle smettere.»

«Tu hai una pensione?»

«No», risposi.

In quel momento una Taurus grigia, identica a quella di Duffy tranne per il colore, spuntò veloce dallo svincolo. Rallentò per un istante mentre il guidatore scrutava la zona e accelerò rapida nella nostra direzione. Al volante c'era il vecchio, quello che avevo lasciato nel canale di scolo sotto il marciapiede, vicino al cancello della scuola. Inchiodò accanto al furgone blu, aprì la portiera e issandosi su uscì nello stesso modo in cui era uscito dalla Caprice presa in prestito dalla polizia. Aveva un grosso sacchetto rosso e nero di Radio Shack in mano, pieno di scatole. Lo sollevò sorridendo e si avvicinò per stringermi la mano. Indossava una camicia pulita, ma il vestito era lo stesso. Vedevo alcune macchie là dove aveva tentato di togliersi il sangue finto. Lo immaginai in piedi davanti al lavandino del motel, mentre si ripuliva con l'asciugamano. Non aveva ottenuto un grande risultato: sembrava si fosse sporcato sbadatamente di ketchup la sera precedente a cena.

«Ti mandano già in giro a sbrigare commissioni?» chiese.

«Non so che cosa mi stiano facendo fare», dissi. «Abbiamo problemi con un sigillo.» Lui annuì. «Lo supponevo. Con una lista della spesa del genere, di che altro si poteva trattare?»

«Sei esperto?»

«Sono della vecchia guardia», rispose. «Ai nostri tempi ne facevamo una decina al giorno. I camion si fermavano di qua e di là: noi ci entravamo e ne uscivamo prima ancora che l'autista avesse ordinato la zuppa.» Si chinò e svuotò il sacchetto di Radio Shack sull'asfalto. Aveva un saldatore a stilo e un rotolo di lega opaca per saldatura. Aveva anche un invertitore che gli avrebbe permesso di collegare il saldatore all'accendisigari dell'auto. Ciò significava che avrebbe dovuto tenere acceso il motore, perciò lo avviò e fece lievemente marcia indietro perché il cavo arrivasse.

Il sigillo era in sostanza un filo di piombo con due grandi piastrine fuse all'estremità. Queste erano state schiacciate con uno strumento rovente e si erano fuse creando un grosso sigillo in rilievo. Il vecchio le evitò con cura: era chiaro che aveva già fatto lavori del genere. Inserì il saldatore a stilo e lasciò che si scaldasse; verificò quindi la temperatura sputando sulla punta.

Quando la giudicò adeguata, sfiorò la manica del vestito con la punta e quindi l'avvicinò al filo in un punto in cui era sottile. Questo si sciolse e si staccò. L'agente allargò l'apertura come se aprisse un paio di minuscole manette ed estrasse il sigillo dall'occhiello. S'infilò in macchina e lo posò sul cruscotto. Io afferrai la maniglia della serranda e la girai.

«Bene», esclamò Duffy. «Cos'abbiamo?» Avevamo un carico di tappeti. La serranda si aprì sferragliando e la luce del sole inondò il piano di carico: vedemmo circa duecento tappeti, tutti ordinatamente arrotolati e legati con spago, disposti in piedi. Erano di dimensioni varie, i più alti accanto all'abitacolo, i più bassi vicino alla serranda. Digradavano nella nostra direzione come una sorta di antica formazione basaltica. Erano arrotolati con la parte dritta all'interno, perciò potevamo vederne solo il rovescio ruvido, dai colori smorti. Lo spago che li legava era di sisal, vecchio e ingiallito. Si sentiva un forte odore di lana grezza e uno più lieve di tintura vegetale.

«Dovremmo controllarli», affermò Duffy con una nota di delusione nella voce.

«Quanto tempo abbiamo?» chiese il vecchio.

Controllai l'orologio.

«Quaranta minuti», risposi.

«Meglio farlo a campione», suggerì.

Ne tirammo fuori un paio dalle file anteriori. Erano arrotolati stretti, senza tubi di cartone: erano semplicemente avvolti e legati con lo spago. Uno di loro aveva una frangia. Odorava di vecchio e di muffa. I nodi erano vecchi e appiattiti: cercammo di scioglierli con le unghie senza riuscirci.

«Taglieranno lo spago per svolgerli», commentò Duffy. «Non possiamo fare niente.»

«No», convenne il vecchio.

Lo spago era grezzo e sembrava di provenienza straniera. Non ne vedevo uno simile da tempo: sembrava di fibra naturale, di iuta, forse, o di canapa.

«Allora che si fa?» chiese il vecchio.

Estrassi un altro tappeto e ne valutai il peso. Pesava proprio come un tappeto. Lo strinsi: cedette lievemente. Lo posai in piedi per terra e lo colpii al centro con un pugno. Si piegò un po', proprio come un tappeto.

«Sono solo tappeti», dissi.

«Sotto c'è qualcosa?» chiese Duffy. «Forse quelli più alti in fondo non sono affatto alti. Forse appoggiano su qualcos'altro.» Li tirammo fuori, a uno a uno e li posammo per terra in ordine, per poterli in seguito risistemare. Ci creammo così un passaggio a zigzag sul piano di carico. I tappeti alti erano proprio quello che sembravano: tappeti alti, arrotolati stretti, legati con spago e collocati in piedi. Sotto non vi era nascosto niente. Uscimmo dal furgone e restammo lì al freddo, a guardarci in faccia, circondati da una distesa assurda di tappeti.

«È un carico fittizio», commentò Duffy. «Beck immaginava avresti trovato modo di guardar dentro.»

«Forse», dissi.

«Oppure ti voleva fuori dei piedi.»

«Per fare cosa?»

«Indagini sul tuo conto», rispose. «Per essere sicuro.» Guardai l'orologio. «È tempo di risistemare i tappeti. Già così dovrò guidare come un pazzo.»

«Verrò con te», disse lei. «Fino al punto di incontro con Eliot, intendo.» Annuii. «Volevo proprio chiedertelo. Dobbiamo parlare.» Caricammo i tappeti sul furgone, spingendoli a calci e con le mani finché non ebbero ripreso la posizione originaria. Dopodiché abbassai la serranda e il vecchio si mise all'opera con il saldatore. Infilò il sigillo rotto nell'occhiello e ne avvicinò le estremità. Scaldò il saldatore e con la punta chiuse l'apertura, poi toccò l'estremità del filo di lega per fonderla. L'apertura si riempì formando una grossa chiazza argentea. Era del colore sbagliato e troppo grande: ora il filo ricordava un serpente dei cartoni animati che aveva appena ingoiato un coniglio.

«Non ti preoccupare», disse l'agente.

Usò la punta del saldatore a mo' di minuscolo pennello e assottigliò via via la chiazza. Di tanto in tanto la scrollava per eliminare il materiale in eccesso. Aveva una mano molto delicata. Impiegò tre lunghi minuti, ma alla fine rese il sigillo quasi identico a quello originario. Lo lasciò raffreddare per un po' e quindi vi soffiò con forza. Il colore argenteo diventò d'un tratto grigio. Era la riparazione invisibile più riuscita che avessi mai visto, di certo migliore di quella che avrei potuto fare io.

«Bene», esclamai. «Molto bene. Ma ne dovrai fare un'altra. Ho l'incarico di portare indietro un altro furgone e sarà meglio dare un'occhiata anche a quello. Ci incontreremo alla prima area di servizio dopo Portsmouth, nel New Hampshire, in direzione nord.»

«Quando?»

«Trovati lì fra cinque ore.»

Io e Duffy lo lasciammo lì in piedi e ci dirigemmo verso sud alla massima velocità che il vecchio furgone consentiva, non di molto superiore ai centodieci. Aveva una forma squadrata e la resistenza del vento frustrò qualsiasi tentativo di correre di più. Ma una velocità di centodieci all'ora poteva andar bene. Avevo ancora alcuni minuti a disposizione.

«Hai visto il suo ufficio?» chiese Duffy.

«Non ancora», risposi. «Dobbiamo controllarlo. Anzi, dobbiamo controllare l'intera ditta che ha al porto.»

«Ci stiamo lavorando», affermò lei. Doveva parlare ad alta voce. Il rumore del motore e il gemito della scatola del cambio erano due volte peggio a centodieci che a novanta all'ora. «Per fortuna, Portland non ferve di attività: è solo il quarantaquattresimo porto degli Stati Uniti per mole di lavoro. Circa quattordici milioni di tonnellate di importazioni all'anno, cioè duecentocinquantamila tonnellate alla settimana. Beck, a quanto pare, ne muove una decina, due o tre container.»

«La Dogana ispeziona la sua merce?»

«Come quella di altri. Il tasso attuale di controlli è circa del due per cento. Se Beck riceve centocinquanta container all'anno, forse tre di loro vengono controllati.»

«Allora come fa?»

«Potrebbe giocare d'azzardo e spedire la merce che scotta, diciamo, solo in un container su dieci. In quel modo il tasso effettivo di controlli si ridurrebbe allo zero virgola due per cento. In questo modo potrebbe andare avanti per anni.»

«Va già avanti da anni. Pagherà qualcuno perché chiuda un occhio.» Lei annuì al mio fianco senza dire nulla.

«Potete richiedere controlli aggiuntivi?» domandai.

«Non senza prove sufficienti», rispose. «Non te lo scordare, questa missione non è autorizzata. Ci servono prove certe. E comunque, la possibilità che Beck paghi qualcuno trasforma l'intera faccenda in un campo minato.

Potremmo imbatterci nel funzionario sbagliato.» Continuammo il viaggio. Il motore rombava e le sospensioni ondeggiavano. Superavamo qualsiasi veicolo incontrassimo. Adesso guardavo nei retrovisori in cerca della polizia, non di qualcuno che mi pedinasse. Immaginavo che le carte della DEA che Duffy aveva con sé avrebbero risolto qualsiasi problema, ma non volevo perdere tempo, visto che lei avrebbe impiegato un po' a spiegare ogni cosa.

«Come ha reagito Beck?» chiese. «La tua prima impressione?»

«Era perplesso», spiegai. «E un po' risentito. Questa è stata la mia prima impressione. Hai notato che Richard Beck non aveva protezione a scuola?»

«È un posto sicuro.»

«Non proprio. Puoi rapire un ragazzo da un college in men che non si dica. Assenza di protezione significa assenza di pericolo. Probabilmente la storia delle guardie del corpo per il viaggio fino a casa era una specie di contentino perché il ragazzo è paranoico. Una semplice concessione. Non credo che Beck padre la ritenesse davvero necessaria, altrimenti gli avrebbe garantito una protezione anche a scuola. O l'avrebbe allontanato del tutto dal college.»

«Quindi?»

«Quindi penso che in passato abbia stretto un patto, forse in seguito al primo rapimento, che abbia fatto qualcosa per garantirsi una specie di stabilità. Di conseguenza, niente guardie del corpo nell'alloggio del college.

Per questo ora Beck si è risentito, come se qualcuno avesse rotto un accordo.»

«Tu pensi?» Annuii guardando il volante. «È rimasto sorpreso, perplesso e infastidito. La sua prima domanda è stata: chi erano?»

«Una domanda ovvia.»

«Ma il tono era 'come osano?' C'era una sottile implicazione, come se qualcuno non fosse stato in riga. Non era una semplice domanda, era un'espressione di fastidio nei confronti di qualcuno.»

«Che cosa gli hai detto?»

«Gli ho descritto il pick-up e i tuoi uomini.» Lei sorrise. «Questo va bene.» Scossi la testa. «Ha un uomo, un certo Duke. Il nome, non lo conosco. È un ex poliziotto. È il capo della sicurezza. L'ho visto stamattina. È stato in piedi tutta la notte. Aveva l'aria stanca e non si era fatto la doccia. Aveva la giacca del vestito tutta spiegazzata, dietro, sul fondo schiena.»

«E allora?»

«Significa che ha guidato tutta la notte. Credo sia andato a dare un'occhiata al Toyota per verificare la targa posteriore. Dove l'avete nascosto?»

«Lo abbiamo lasciato alla polizia statale, per mantenere una parvenza di credibilità. Non potevamo riportarlo al garage della DEA. Sarà nel loro deposito, da qualche parte.»

«La targa dove conduce?»

«A Hartford, Connecticut», rispose. «Abbiamo sventato un piccolo giro di spacciatori di ecstasy.»

«Quando?»

«La settimana scorsa.» Continuai a guidare. Il traffico stava aumentando.

«Il nostro primo sbaglio», commentai. «Beck farà un controllo e si chiederà perché dei piccoli spacciatori di ecstasy del Connecticut abbiano cercato di rapirgli il figlio. E come possano averlo fatto una settimana dopo essere stati sbattuti in prigione.»

«Merda», esclamò Duffy.

«Temo ci sia dell'altro», proseguii. «Secondo me Duke ha dato un'occhiata anche alla Lincoln. Ha la parte anteriore accartocciata e mancano i vetri dei finestrini, ma non ha fori di proiettile e non sembra essere stata colpita da una vera bomba a mano. Quella Lincoln è la prova concreta che l'intera storia è fasulla.»

«No», replicò Duffy. «La Lincoln è nascosta. Non è insieme al Toyota.»

«Ne sei certa? Perché la prima cosa che Beck mi ha chiesto stamattina è stata una descrizione dettagliata delle Uzi. È come se mi avesse chiesto di autocondannarmi. Due Micro della Uzi, caricatori da venti, quaranta colpi sparati e nessun segno sull'auto?»

«No», ripeté lei. «Non è possibile. La Lincoln è nascosta.»

«Dove?»

«A Boston. Nel nostro garage, ma dalle carte risulta che è nell'obitorio della contea. Risulta essere la scena di un crimine: in tutto l'abitacolo ci sono brandelli dei corpi delle guardie. Abbiamo fatto in modo che ogni aspetto fosse credibile, abbiamo studiato la cosa con cura.»

«Tranne per la targa del Toyota.» Duffy aveva un'aria afflitta. «Ma la Lincoln è a posto. È a centocinquanta chilometri dal Toyota, quel Duke dovrebbe aver guidato tutta la notte.»

«Io credo proprio che lo abbia fatto. Altrimenti perché Beck sarebbe stato tanto interessato alle Uzi?» Lei tacque.

«Lasciamo perdere tutto», affermò. «Per via del Toyota, non della Lincoln. La Lincoln è a posto.» Controllai l'orologio e la strada davanti a me. Il furgone procedeva rombando. Di lì a poco avremmo raggiunto Eliot. Calcolai tempi e distanze.

«Lasciamo perdere tutto», ripeté lei.

«E la tua agente?»

«Se finisci ucciso, la cosa non l'aiuterà.» Pensai a Quinn.

«Ne parleremo dopo», risposi. «Adesso dobbiamo andare avanti.»

Dopo altri otto minuti superammo Eliot. La sua Taurus procedeva stabile sulla corsia interna, tenendo modestamente i settanta all'ora. Mi misi davanti adottando la stessa velocità e lui mi si accodò. Percorremmo l'intera circonvallazione di Boston e ci fermammo nella prima area di servizio a sud della città. Lì il mondo era molto più vivo. Rimasi seduto immobile con Duffy al mio fianco, osservai lo svincolo per settantadue secondi e vidi quattro macchine imboccarlo dopo di me, un paio con passeggeri. Fecero tutti quello che la gente normalmente fa in un'area di servizio: stare in piedi e sbadigliare accanto alla portiera, guardarsi attorno, andare in bagno o al fast food.

«Dov'è l'altro furgone?» chiese Duffy «In un parcheggio a New London», risposi.

«Le chiavi?»

«All'interno.»

«Quindi anche lì ci sarà qualcuno. Nessuno lascia un veicolo con le chiavi all'interno senza sorveglianza. Ti stanno aspettando e non sappiamo che ordini abbiano ricevuto. Dovremmo considerare l'idea di mollare.»

«Non mi caccerò in una trappola», replicai. «Non è nel mio stile. E l'altro furgone potrebbe contenere qualcosa di più interessante.»

«D'accordo», rispose Duffy. «Lo controlleremo nel New Hampshire. Se ci arriverai.»

«Potresti prestarmi la tua Glock.» La vidi allungare la mano e toccarla sotto il braccio. «Per quanto?»

«Per il tempo necessario.»

«Che fine hanno fatto le Colt?»

«Le hanno prese loro.»

«Non posso», disse. «Non posso fare a meno dell'arma d'ordinanza.»

«Hai già infranto ogni regola.» Duffy tacque.

«Merda», esclamò. Estrasse la Glock dalla fondina e me la porse. Era calda per il contatto col suo corpo. La tenni nel palmo della mano, assaporando la sensazione. Lei frugò in borsa e ne estrasse due caricatori di riserva. Li misi in una tasca; nell'altra infilai la pistola.

«Grazie», dissi.

«Ci vediamo nel New Hampshire», affermò lei. «Controlleremo il furgone, poi decideremo.»

«D'accordo», risposi anche se io avevo già deciso. Eliot si avvicinò e tolse il trasmettitore dalla tasca. Duffy scese e lui lo sistemò dov'era, sotto il sedile. Quindi si allontanarono insieme verso la Taurus governativa. Io attesi un po', quel tanto da essere credibile, poi ripresi il cammino.

Trovai New London senza problemi. Era una cittadina vecchia e caotica.

Non ci ero mai stato prima, non ne avevo avuto motivo. È un centro navale. Costruiscono sottomarini lì o nei paraggi, a Groton forse. Seguendo le indicazioni di Beck, lasciai quasi subito l'interstatale e m'infilai in una zona industriale fatiscente. C'erano un sacco di vecchi edifici di mattoni, umidi, sporchi di fumo, ormai marci. Accostai al ciglio a circa un chilometro e mezzo dal punto in cui avevo calcolato si trovasse il parcheggio, poi svoltai a destra e a sinistra, nel tentativo di girarci attorno. Posteggiai accanto a un parchimetro rotto e controllai la pistola di Duffy. Era una Clock 19, forse di un anno, carica. Anche i caricatori di riserva lo erano. Scesi dal furgone e in lontananza, nello stretto, udii l'urlo sordo delle sirene antinebbia. Stava arrivando un traghetto. Una prostituta fece capolino da una porta e mi sorrise. Quello era un centro navale: non era in grado di riconoscere un poliziotto militare come invece sapevano fare le sue colleghe altrove.

Svoltai l'angolo ed ebbi una vista parziale abbastanza buona del parcheggio a cui ero diretto. Il terreno digradava verso il mare e io mi trovavo in posizione soprelevata. Vidi il furgone che mi attendeva: era identico a quello con cui ero arrivato lì. Stessa età, stesso tipo, stesso colore. Se ne stava tutto solo nel centro esatto del terreno, un lotto squadrato deserto di mattoni rotti e di erbacce. Una ventina d'anni fa avevano probabilmente abbattuto qualche vecchio edificio senza costruire niente al suo posto.

Non vidi nessuno che mi aspettasse, anche se alla giusta distanza c'erano un migliaio di finestre sporche: in teoria, dietro ognuna poteva nascondersi qualcuno. Io però non sentivo nulla. Sentire è molto peggio che sapere, ma a volte è tutto quello che hai. Rimasi immobile finché mi venne freddo, allora tornai al furgone. Girai attorno all'isolato ed entrai nel parcheggio. Posteggiai muso contro muso con l'altro, estrassi la chiave e la lasciai cadere nella tasca della portiera. Mi guardai attorno per l'ultima volta e scesi. Misi la mano in tasca e afferrai la pistola di Duffy. Rimasi attentamente in ascolto. Niente, tranne l'acciottolio della ghiaia mossa dal vento e i rumori lontani di una cittadina decrepita che cercava di arrivare al termine anche di quella giornata. Ero al sicuro, a meno che qualcuno armato di fucile non avesse in mente di stendermi con un tiro a lunga distanza. Stringere una Glock 19 in tasca non mi avrebbe difeso da quell'eventualità.

Il nuovo furgone era freddo, immobile. La portiera era aperta e la chiave messa lì, nella tasca. Sistemai il sedile e gli specchietti retrovisori. Lasciai cadere la chiave sul fondo come se fossi maldestro e controllai sotto i sedili. Nessun trasmettitore. Solo alcune carte di chewing-gum e grumi di polvere. Avviai il motore, feci retromarcia allontanandomi dal furgone che avevo appena posteggiato, girai nello spiazzo e mi diressi di nuovo verso la statale. Non vidi nessuno. Nessuno mi seguì.

Il secondo furgone andava un po' meglio del precedente. Era un po' più silenzioso e veloce. Forse lo avevano usato solo un paio di volte. Macinava chilometri su chilometri riportandomi a nord. Fissavo dritto davanti a me, oltre il parabrezza, e mi sembrava di vedere la casa solitaria sul promontorio roccioso che si faceva più grande di minuto in minuto. Mi attirava e nel contempo mi respingeva, perciò me ne restai lì seduto, immobile, con una mano sul volante e gli occhi bene aperti. Superai il Rhode Island senza problemi. Nessuno mi seguì. Il Massachusetts si tradusse più che altro in un lungo giro attorno a Boston e in una corsa lungo la parte nordorientale con posti degradati come Lowell a sinistra e luoghi eleganti come Newburyport, Cape Anne e Gloucester in lontananza sulla destra. Nessuno mi stava pedinando. Poi arrivò il New Hampshire. L'Interstatale 95 lo attraversa per una quarantina di chilometri e ha come ultima tappa Portsmouth.

La superai e cercai i cartelli di un'area di servizio. Ne trovai uno poco dopo il confine di stato con il Maine: Duffy, Eliot e il vecchio con il vestito macchiato mi stavano aspettando tredici chilometri più in là.

Ad aspettarmi non c'erano però solo Duffy, Eliot e il vecchio. Con loro c'era un'unità cinofila della DEA. Se dai a un governativo abbastanza tempo per pensare ti si presenta davanti con qualcosa che non ti saresti mai aspettato. Arrivai a un'area pressoché identica a quella di Kennebunk e vidi le due Taurus posteggiate al termine della fila, accanto a un furgone privo di scritte con un ventilatore che girava sul tetto. Parcheggiai a quattro posti di distanza e seguii la solita strategia prudente, attendere e osservare, ma nessuno entrò nell'area di servizio dopo di me. Gli alberi mi rendevano invisibile dalla strada. Ce n'erano dappertutto. Il Maine ne aveva un bel po', questo era certo.

Scesi dal furgone. Il vecchio si avvicinò con la sua auto e si mise subito all'opera con il saldatore. Duffy mi tolse di mezzo tirandomi per un gomito.

«Ho fatto qualche telefonata», annunciò sollevando il suo Nokia come a dimostrarmelo. «Ci sono buone notizie e cattive notizie.»

«Prima le buone», osservai. «Tirami un po' su.»

«Credo che la faccenda del Toyota sia a posto.»

«Credi?»

«È complicato. Abbiamo ricevuto dalla Dogana il dettaglio delle spedizioni di Beck. Tutta la roba arriva da Odessa, in Ucraina, sul mar Nero,»

«So dov'è.»

«Un luogo credibile di provenienza dei tappeti. Arrivano a nord da varie regioni, passando dalla Turchia. Ma Odessa, dal nostro punto di vista, è un porto dell'eroina. Tutta quella che non viene fornita dalla Colombia arriva dall'Afghanistan e dal Turkmenistan passando attraverso il Caspio e il Caucaso. Quindi se Beck usa Odessa significa che è un trafficante di eroina, e se è un trafficante di eroina significa che non conosce nessun trafficante di ecstasy, né nel Connecticut né da nessun'altra parte. Non ci possono essere relazioni. Come potrebbero essercene? Sono rami completamente diversi. Perciò, per scoprire qualcosa, dovrà partire da zero. Voglio dire, la targa del Toyota gli darà un nome e un indirizzo, certo, ma quelle informazioni non significheranno niente per lui. Impiegherà qualche giorno a scoprire chi siano e a seguire quella pista.»

«Questa è la buona notizia?»

«Lo è quanto basta. Fidati, vivono in due mondi diversi. Comunque, qualche giorno è tutto quello che hai. Non possiamo trattenere le guardie del corpo per sempre.»

«Qual è la cattiva notizia?» Duffy tacque per un attimo. «Non possiamo escludere che qualcuno abbia dato un'occhiata alla Lincoln.»

«Che cos'è successo?»

«Niente di particolare. Solo che forse la sicurezza al garage non è stata efficace come previsto.» Udimmo la serranda del furgone sollevarsi sferragliando. Batté contro il fermo e un secondo dopo sentimmo Eliot che ci chiamava con urgenza. Ci avvicinammo aspettandoci di trovare qualcosa di buono, invece trovammo un altro trasmettitore. Era lo stesso cilindro metallico con lo stesso cavo da venti centimetri che serviva da antenna. Era incollato alla parte interna della lamiera metallica, vicino alla serranda, quasi all'altezza della testa.

«Ottimo», esclamò Duffy.

Il vano di carico era pieno zeppo di tappeti, proprio come il precedente.

Sembrava lo stesso furgone. Erano tutti arrotolati stretti, legati con spago grezzo e impilati dritti in ordine di altezza.

«Li controlliamo?» chiese il vecchio.

«Non c'è tempo», risposi. «Se dall'altra parte del trasmettitore c'è qualcuno, calcolerà che mi fermi qui per una decina di minuti, non di più.»

«Porta il cane», affermò Duffy.

Un uomo che non avevo mai visto aprì il portello posteriore del furgone della DEA e ne fece uscire un beagle al guinzaglio. Era un coso piccolo e grasso, piuttosto basso, con una pettorina da cane da lavoro. Aveva le orecchie lunghe e un'espressione bramosa. Mi piacciono i cani. A volte penso di prendermene uno, mi terrebbe compagnia. Quello mi ignorò completamente: lasciò che l'addestratore lo portasse al furgone blu, poi attese gli ordini. L'uomo lo sollevò e lo posò nel vano di carico, sulla serie di tappeti. Schioccò le dita, pronunciò una specie di comando e gli tolse il guinzaglio. Il cane prese a trotterellare su e giù e da un lato all'altro. Aveva le zampe corte e incontrò qualche difficoltà a salire e scendere i vari gradini di tappeti, ma coprì ogni centimetro e tornò infine al punto di partenza. Lì rimase con gli occhi luminosi, tutto scodinzolante, la bocca aperta in un sorriso assurdo, umido, come se chiedesse: Allora, dov'è l'azione?

«Niente», disse l'addestratore.

«Un carico legale», commentò Eliot.

Duffy annuì. «Ma perché torna a nord? Nessuno esporta tappeti a Odessa. Perché farlo?»

«Era una prova», risposi. «Per me. Hanno pensato: vediamo se guarda dentro o no.»

«Sistema il sigillo», affermò Duffy.

Il nuovo agente estrasse il cane mentre Eliot, allungandosi, abbassava la serranda. Il vecchio afferrò il saldatore a stilo e Duffy mi prese di nuovo da parte.

«Cosa decidiamo?» chiese.

«Tu che faresti?»

«Rinuncerei», rispose. «La Lincoln è un rischio. Potresti finire ucciso.» Guardai oltre la sua spalla e osservai il vecchio al lavoro. Stava già assottigliando il punto di giunzione.

«Hanno bevuto la storia», risposi. «Impossibile non berla: era ben congegnata.» Il vecchio aveva quasi terminato. Si stava chinando per soffiare sulla giunzione per rendere il filo di color grigio opaco. Duffy mi posò la mano sul braccio.

«Perché allora Beck ti avrebbe chiesto delle Uzi?» domandò.

«Non lo so.»

«Fatto», annunciò l'anziano agente.

«Cosa decidiamo?» chiese Duffy.

Pensai a Quinn, al modo in cui il suo sguardo si era posato sul mio volto, né lento, né veloce. Pensai alle cicatrici della calibro 22, un paio di occhi in più, in alto, sul lato sinistro della fronte.

«Torno alla villa», risposi. «Secondo me è abbastanza sicuro. Se avessero avuto dubbi, mi avrebbero fatto fuori stamattina.» Duffy non replicò. Non si mise a discutere. Tolse solo la mano dal mio braccio e mi lasciò andare.