13

 

Era sabato di primo pomeriggio, perciò il complesso era tranquillo. Era stato ripulito dalla pioggia e sembrava lindo e nuovo. Gli edifici metallici rilucevano come peltro sotto il cielo grigio. Perlustrammo la rete di stradine a trenta all'ora e non vedemmo nessuno. L'edificio di Quinn sembrava ben chiuso. Mentre vi passavamo accanto, mi voltai e studiai di nuovo l'insegna: XAVIER EXPORT COMPANY. Le parole erano state incise ad arte su una targa di acciaio inossidabile, ma le X gigantesche sembravano un'idea da grafico dilettante.

«Perché c'è scritto 'export'?» chiese Duffy. «Lui è certamente un importatore.»

«Come facciamo a entrare?» chiese Villanueva.

«Scassiniamo», risposi. «Una porta o una finestra posteriore, direi.» Gli edifici erano disposti retro contro retro e davanti avevano un bel parcheggio. Per il resto nel complesso c'erano solo strade e prati delimitati da alti cordoli di calcestruzzo. Non c'erano recinzioni, da nessuna parte. L'edificio dietro quello di Quinn aveva una targa con la scritta PAUL KEAST

& KRIS MADEN PROFESSIONAL CATERING SERVICES. Era chiuso e deserto. Al di là di esso vedevo bene tutto il tratto fino alla porta posteriore di Quinn, un semplice rettangolo metallico dipinto di rosso opaco.

«Non c'è nessuno», affermò Duffy.

Sul retro, accanto alla porta rossa, c'era una finestra di vetro cemento, probabilmente di un bagno. Aveva le sbarre di ferro.

«Sistema di sicurezza?» chiese Villanueva.

«In un posto nuovo come questo?» dissi. «È quasi certo.»

«Collegamento diretto con la polizia?»

«Ne dubito», risposi. «Non sarebbe furbo per uno come Quinn. Non vuole che gli sbirri mettano il naso qui ogni volta che qualche teppistello gli spacca le finestre.»

«Una società privata?»

«È quello che penso, oppure direttamente i suoi.»

«Allora come agiamo?»

«Saremo molto rapidi. Entreremo e usciremo prima che qualcuno reagisca. Possiamo arrischiarci a restare cinque, dieci minuti.»

«Uno davanti e due dietro?»

«Esatto», dissi. «Tu vai davanti.» Gli dissi di aprire il bagagliaio, poi Duffy e io scendemmo. L'aria era fredda e umida. Tirava vento. Presi la leva per pneumatici da sotto la gomma di scorta, chiusi il bagagliaio e guardai l'auto allontanarsi. Duffy e io costeggiammo il lato della ditta di catering e attraversammo il prato divisorio avvicinandoci alla finestra del bagno di Quinn. Appoggiai l'orecchio al rivestimento metallico freddo e restai in ascolto. Niente. Poi guardai le sbarre: erano costituite da un'unica grata metallica sottile di forma rettangolare assicurata con otto bulloni a testa scanalata, due per lato, che passavano attraverso flange saldate grandi quanto un quarto di dollaro. Le teste dei bulloni erano grandi come un nichelino. Duffy estrasse la Glock dalla fondina. La sentii sfregare sul cuoio. Controllai la Beretta nella tasca del cappotto. Poi presi la leva per pneumatici a due mani. Posai l'orecchio sul rivestimento e sentii l'auto di Villanueva fermarsi davanti all'edificio.

Sentii il battito del motore trasmesso dal metallo, la portiera che si apriva e si chiudeva. L'aveva lasciata accesa. Poi sentii i suoi passi sul vialetto d'accesso.

«Tieniti pronta», dissi.

Sentii Duffy muoversi alle mie spalle e Villanueva che bussava forte alla porta d'ingresso. Infilai l'estremità della leva nel rivestimento accanto a uno dei bulloni e feci una piccola tacca nel metallo. Poi la conficcai di lato nella tacca, sotto le sbarre, e feci forza, ma il bullone tenne. Passava chiaramente oltre il rivestimento ed entrava nel telaio di acciaio. Riposizionai la leva e tirai con più forza una, due volte. La testa del bullone si ruppe e le sbarre si mossero un po'.

In tutto dovetti rompere sei teste di bullone, il che mi richiese circa trenta secondi. Villanueva stava ancora bussando, ma nessuno rispondeva.

Quando il sesto bullone si ruppe, afferrai le sbarre e le aprii a novanta gradi come una porta. I due bulloni residui stridettero in segno di protesta.

Presi di nuovo la leva per pneumatici e fracassai il vetro. Infilai la mano all'interno, trovai il fermo e aprii la finestra. Estrassi quindi la Beretta ed entrai di testa nel bagno.

Era uno stanzino di due metri per uno e venti. C'erano un water e un lavandino con un piccolo specchio senza cornice. Un cestino e una mensola con alcuni rotoli di carta igienica di scorta e un pacco di salviettine. Un secchio con uno straccio lavapavimenti appoggiato in un angolo. Il linoleum del pavimento era pulito e si sentiva un forte odore di disinfettante.

Al davanzale era avvitato un piccolo dispositivo di sicurezza, ma l'edificio era ancora tranquillo: niente sirene, niente allarmi. Un allarme silenzioso.

In quel momento un telefono stava squillando da qualche parte o il monitor di un computer stava lampeggiando.

Dal bagno passai in un corridoio posteriore. Lì non c'era nessuno. Era buio. Mi voltai e arretrai verso la porta sul retro. Armeggiai dietro di me senza guardare e aprii la chiusura, poi spalancai la porta. Udii Duffy entrare.

Durante l'addestramento di base aveva probabilmente passato sei settimane a Quantico e ricordava ancora bene la procedura. Tenendo la Glock con due mani, mi superò e prese posizione accanto a una porta che dal corridoio portava al resto dell'edificio. Si appoggiò con la spalla allo stipite e piegò le braccia per non intralciarmi con la pistola. Io avanzai, diedi un calcio alla porta, la varcai e mi gettai a sinistra. Lei mi seguì e si buttò a destra. Eravamo in un altro corridoio: era stretto e correva per l'intera lunghezza dell'edificio. Vi si aprivano varie stanze, a destra e a sinistra. Sei in tutto, tre per lato. Sei porte, tutte chiuse.

«Avanti», sussurrai. «Da Villanueva.» Avanzammo di lato, schiena contro schiena, coprendo tutte le porte a turno. Rimasero chiuse. Raggiungemmo l'ingresso: azionai la chiusura e aprii la porta. Villanueva entrò e la richiuse alle sue spalle. Nella mano vecchia e nodosa stringeva una Glock 17. Pareva proprio adatta al caso.

«Allarme?» sussurrò.

«Silenzioso», risposi sempre sussurrando.

«Allora sbrighiamoci.»

«Stanza per stanza», mormorai.

Non era una bella sensazione. Avevamo fatto tanto rumore che chiunque fosse stato nell'edificio non avrebbe avuto dubbi sulla nostra presenza. E il fatto che non si fosse precipitato ad affrontarci significava che era abbastanza in gamba da starsene immobile, con il cane armato e il mirino puntato all'altezza del petto, dietro una porta. Il corridoio centrale era largo poco meno di un metro, il che non ci lasciava molto spazio per manovrare.

Non era una bella sensazione. Le porte avevano tutte i cardini a sinistra, perciò piazzai Duffy alla mia sinistra, rivolta verso l'esterno in modo da coprire le porte sull'altro lato. Non volevo che guardassimo tutti e tre nella stessa direzione. Non volevo che ci sparassero alla schiena. Poi piazzai Villanueva alla mia destra: lui aveva il compito di aprire le porte con un calcio, a una a una. Io mi sistemai al centro. Sarei entrato per primo, stanza dopo stanza.

Iniziammo con la stanza anteriore sinistra. Villanueva diede un calcio poderoso alla porta. La serratura si ruppe, il telaio si scheggiò e la porta si aprì con fragore. Io entrai subito. La stanza era vuota. Era un locale quadrato di tre metri per tre con una finestra, un tavolo e una parete di schedari. Uscii immediatamente. Ci girammo tutti e tre e aprimmo all'istante la porta di fronte. Duffy ci copriva le spalle. Villanueva sferrò il calcio e io entrai. Anche quella era vuota, ma presentava una caratteristica utile: il muro che la divideva da quella seguente era stato abbattuto. Misurava tre metri per sei e aveva due porte che davano sul corridoio. Dentro c'erano tre scrivanie con computer e telefoni. Nell'angolo c'era un appendiabiti con un impermeabile femminile.

Attraversammo il corridoio e ci avvicinammo alla quarta porta. Alla terza stanza. Villanueva aprì la porta e io entrai scivolando lungo lo stipite.

Vuota. Un altro quadrato di tre per tre senza finestre. Lì c'era un solo tavolo con una grande bacheca di sughero dietro, dov'erano appesi vari elenchi.

Un tappeto orientale copriva gran parte del linoleum.

Eravamo a quattro. Ne mancavano due. Scegliemmo la stanza a destra sul retro. Villanueva colpì la porta e io entrai. Vuota. Un quadrato di tre per tre, pittura bianca, linoleum grigio, completamente spoglia. Dentro non c'era niente se non macchie di sangue. Erano state pulite, ma non bene. Sul pavimento c'erano chiazze brune là dove uno straccio troppo impregnato d'acqua non aveva fatto che allargarle. Sulle pareti c'erano vari schizzi: alcuni erano stati ripuliti, altri ignorati. Si notavano scie complesse fino all'altezza della vita. Gli angoli tra il battiscopa e il linoleum erano orlati di marrone e di nero.

«La cameriera», dissi.

Nessuno rispose. Rimanemmo immobili, in silenzio, per un lungo minuto. Poi uscimmo, ci girammo e spalancammo con violenza l'ultima porta.

Entrai con la pistola puntata e mi fermai di colpo.

Era una prigione ed era vuota.

Misurava tre metri per tre, aveva le pareti bianche e il soffitto basso.

Non c'erano finestre. Il pavimento era di linoleum grigio, e sul linoleum c'era un materasso con un paio di lenzuola stropicciate. Dappertutto si vedevano confezioni di cibo cinese per asporto e bottiglie di plastica vuote d'acqua minerale.

«Era qui», esclamò Duffy.

Annuii. «È come nel seminterrato della villa.» Avanzai e sollevai il materasso. Sul pavimento, a lettere grandi e visibili, era stata scritta la parola JUSTICE con un dito. Sotto di essa c'era la data di quel giorno: sei numeri, giorno, mese, anno, via via più sbiaditi e d'un tratto più netti, dopo che il dito era stato immerso di nuovo in un liquido nero-brunastro.

«Spera che la rintracciamo», disse Villanueva. «Giorno dopo giorno, luogo dopo luogo. In gamba, la ragazza.»

«È scritto col sangue?» chiese Duffy.

Sentivo odore di cibo rancido e di aria viziata in tutta la stanza, di paura e disperazione. Aveva sentito morire la cameriera. Due porte sottili non avevano attutito molto i rumori.

«Salsa hoisin», risposi. «Almeno spero.»

«Quanto sarà passato da quando l'hanno spostata?» Guardai dentro le confezioni più vicine. «Forse due ore.»

«Merda.»

«Allora andiamo», disse Villanueva. «Andiamo a cercarla.»

«Cinque minuti», fece Duffy. «Mi serve qualcosa da dare all'ATF, per rimettere a posto le cose.»

«Non abbiamo cinque minuti», obiettò Villanueva.

«Due minuti», dissi io. «Afferra quello che riesci, lo guarderai dopo.» Uscimmo dalla cella. Nessuno guardò la camera di tortura di fronte.

Duffy ci condusse di nuovo nella stanza con il tappeto orientale. Scelta intelligente, pensai. Probabilmente era l'ufficio di Quinn. Lui era di certo il tipo da concedersi un tappeto orientale. Duffy prese un dossier spesso con l'etichetta IN CORSO e staccò gli elenchi dalla bacheca di sughero.

«Andiamo», ripeté Villanueva.

Uscimmo dalla porta principale esattamente quattro minuti dopo che ero entrato dalla finestra del bagno. Mi erano sembrate quattro ore più che quattro minuti. Ci buttammo nella Taurus grigia e un minuto dopo eravamo di nuovo sulla Uno.

«Continua verso nord», dissi. «Va' verso il centro città.»

All'inizio restammo in silenzio. Nessuno guardò gli altri e nessun parlò.

Stavamo pensando alla cameriera. Io ero dietro, Duffy davanti con le carte di Quinn sparpagliate sulle ginocchia. Il traffico sul ponte era lento. Molti stavano andando a far spese in città e procedevano cauti: la strada era viscida per la pioggia e gli schizzi d'acqua salmastra. Duffy radunò le carte e le scorse, una dopo l'altra. Poi ruppe il silenzio, il che fu un sollievo.

«È tutto piuttosto criptico», disse. «Abbiamo un XX e un BB.»

«Xavier Export Company e Bizarre Bazaar», osservai.

«BB importa», proseguì lei. «XX esporta, ma sono ovviamente legati.

Sono le due facce della stessa ditta.»

«Non m'interessa», risposi. «Io voglio solo Quinn.»

«E Teresa», aggiunse Villanueva.

«Il foglio contabile del primo trimestre», affermò Duffy «Quest'anno gireranno ventidue milioni di dollari. Sono un bel po' di armi.»

«Duecentocinquantamila armi economiche», affermai, «o quattro carri armati Abrams.»

«Mossberg», esclamò Duffy «Hai mai sentito questo nome?»

«Perché?» chiesi.

«XX ne ha appena ricevuto un carico.»

«O.F. Mossberg and Sons», dissi. «Sta a New Haven, nel Connecticut. È una fabbrica d'armi.»

«Che cos'è un Persuader?»

«Un fucile a canne mozze», spiegai. «Il Mossberg M500 Persuader. È un'arma paramilitare.»

«XX spedisce i Persuader da qualche parte. Il valore complessivo della fattura è di sessantamila dollari. Sostanzialmente li scambia con qualcosa che BB riceve.»

«Import-export», commentai. «Così funziona.»

«Ma i prezzi non tornano», osservò Duffy. «Il carico arrivato a BB ammonta a settantamila dollari, perciò XX si ritrova con diecimila dollari di guadagno.»

«La magia del capitalismo», dissi.

«No, aspetta, c'è un'altra voce. Adesso torna tutto. Duecento Mossberg Persuader più un omaggio da diecimila dollari per far combaciare le cifre.»

«Di che omaggio si tratta?» chiesi.

«Non lo dice. Che cosa può valere diecimila testoni?»

«Non m'interessa», dissi.

Duffy sfogliò ancora un po' le carte.

«Keast and Maden», disse. «Dove abbiamo visto questi nomi?»

«Sull'edificio dietro quello di Quinn», risposi. «La ditta di catering.»

«Ha fatto un ordine», proseguì Duffy. «Oggi gli consegnano qualcosa.»

«Dove?»

«Non lo dice.»

«Qualcosa di che genere?»

«Non lo dice. Diciotto prodotti da cinquantacinque dollari ciascuno.

Quasi un migliaio di dollari in totale.»

«Adesso dove si va?» chiese Villanueva.

Avevamo attraversato il ponte e ci stavamo dirigendo a nord-ovest con un'ampia traiettoria curva, lasciandoci il complesso di uffici alla sinistra.

«Prendi la seconda a sinistra», dissi.

Ci infilammo direttamente nel garage sotterraneo della Missionary House. C'era un addetto alla sicurezza privato con un'uniforme elegante in una guardiola. Registrò il nostro ingresso senza prestarci molta attenzione.

Poi Villanueva gli mostrò il distintivo della DEA e gli disse di starsene tranquillo e di non prendere iniziative. Di non chiamare nessuno. Alle sue spalle il garage era silenzioso. C'erano all'incirca ottanta posti auto e meno di dieci macchine parcheggiate. Una di loro però era la Grand Marquis grigia, quella che avevo visto all'esterno del magazzino di Beck quel mattino.

«Qui abbiamo scattato le foto», affermò Duffy.

Raggiungemmo il fondo del garage e parcheggiammo in un angolo.

Scendemmo e prendemmo l'ascensore per un piano, fino all'atrio. Aveva una banale decorazione di marmo e un elenco degli uffici dell'edificio. La Xavier Export Company condivideva il quarto piano con una ditta chiamata Lewis, Strange e Greeville. La cosa ci rallegrò: significava che lassù c'era un corridoio interno. Non saremmo usciti dall'ascensore direttamente nell'ufficio di Quinn.

Tornammo nell'ascensore e schiacciammo il quarto, poi ci voltammo verso la porta. Questa si chiuse e il motore si avviò con un gemito. Ci fermammo al quarto e sentimmo delle voci. Il campanello dell'ascensore trillò e la porta si aprì. Il corridoio era pieno di avvocati. A sinistra c'era una porta di mogano con una targa di ottone su cui spiccava la scritta LEWIS

STRANGE & GREEVILLE, STUDIO LEGALE. Era aperta e ne erano appena uscite tre persone, due uomini e una donna, tutti con abiti casual, la valigetta e l'aria contenta. Si voltarono e ci guardarono, ci rivolsero un sorriso e fecero un cenno, come quando si incontra uno sconosciuto in un corridoio. O forse pensavano andassimo da loro per una consulenza legale.

Villanueva ricambiò il sorriso e indicò la porta della Xavier Export. Non cercavamo voi, ma loro. La donna distolse lo sguardo e superandoci s'infilò nell'ascensore. I suoi soci chiusero l'ufficio e la seguirono. Le porte dell'ascensore si chiusero e sentimmo la cabina scendere.

«Testimoni», sussurrò Duffy. «Merda.» Villanueva indicò la porta della Xavier Export. «E là dentro c'è qualcuno. Quegli avvocati non sono rimasti sorpresi che venissimo qui a quest'ora di sabato. Perciò sapevano per forza che là dentro c'è qualcuno. Forse hanno pensato che avessimo un appuntamento o che.» Annuii. «Una delle auto nel garage era al magazzino di Beck stamattina.»

«Quinn?» chiese Duffy.

«Me lo auguro di cuore.»

«Siamo d'accordo: prima Teresa», disse Villanueva. «Poi Quinn.»

«Cambierò piano», risposi. «Io non me ne vado, non se è là dentro. Non se è un bersaglio colpibile.»

«Ma non possiamo comunque entrare», affermò Duffy «Ci hanno visti.»

«Voi non potete entrare», replicai. «Io sì.»

«Cosa, da solo?»

«Così voglio che sia: lui e io e basta.»

«Abbiamo lasciato una traccia.»

«Allora andatevene. Tornate al garage e allontanatevi con l'auto. La guardia registrerà la vostra uscita. Passati cinque minuti, chiamate quest'ufficio. Registro del garage e tabulati telefonici dimostreranno che mentre eravate qui non è successo nulla.»

«E tu? Risulterà che ti abbiamo lasciato qui.»

«Ne dubito», risposi. «Non credo che l'uomo del garage presti molta attenzione. Non avrà certo contato le persone o cose del genere. Ha scritto solo il numero di targa.» Lei non replicò.

Guardò la porta dello studio legale, poi quella della Xavier Export, poi ancora l'ascensore e infine me.

«Va bene», affermò. «Lasceremo fare a te. Non vorrei, davvero, ma sono costretta, capisci?»

«Perfettamente», risposi.

«Teresa potrebbe essere là dentro con lui», mormorò Villanueva.

Assentii. «Se è lì, ve la porterò. Ci vediamo in fondo alla strada, dieci minuti dopo la telefonata.» Esitarono entrambi per un istante, poi Duffy chiamò l'ascensore. Udimmo il rumore nel pozzo quando i macchinari si avviarono.

«Sta' attento», disse.

Il campanello suonò e le porte si aprirono. Entrarono. Villanueva mi lanciò un'occhiata e premette il pulsante dell'atrio, poi le porte si chiusero come un sipario. Un attimo dopo erano scomparsi. Mi allontanai e mi appoggiai al muro, oltre la porta di Quinn. Era bello essere solo. Strinsi l'impugnatura della Beretta in tasca e attesi.

Immaginai Duffy e Villanueva che uscivano dall'ascensore e si avviavano verso la macchina. Uscivano dal garage, notati dalla guardia, parcheggiavano dietro l'angolo e chiamavano il servizio abbonati, ottenendo il numero di Quinn. Guardai la porta. Immaginai Quinn dall'altra parte, seduto alla scrivania, con il telefono davanti. Fissai la porta come se potessi vedere attraverso.

La prima volta che lo vidi fu il giorno stesso dell'arresto. Frasconi aveva fatto tutto per bene con il siriano. Si era distinto. Frasconi era decisamente adatto a gestire situazioni del genere: se gli davi tempo e un chiaro obiettivo, lui concludeva la missione. Il siriano portò il contante dall'ambasciata e ci sedemmo tutti insieme davanti al pubblico ministero del tribunale militare a contarlo. Erano cinquantamila dollari. Supponevamo fosse il saldo di una lunga serie di rate e contrassegnammo separatamente ogni banconota.

Contrassegnammo persino la valigetta: vi scrivemmo le iniziali del pubblico ministero con uno smalto per unghie trasparente vicino a una delle cerniere. Questi preparò un affidavit per il dossier. Frasconi si occupò del siriano e Kohl e io ci mettemmo in posizione per la sorveglianza. Il fotografo era già pronto a una finestra del primo piano di un edificio situato dall'altra parte della strada rispetto al caffè, venti metri più a sud. Il pubblico ministero ci raggiunse dieci minuti dopo. Usammo un camioncino parcheggiato accanto al marciapiede. Aveva il portellone con i vetri a specchio. Kohl lo aveva preso a prestito dall'FBI e aveva reclutato tre soldati per completare la messinscena: indossavano le tute di un'azienda elettrica e stavano realmente scavando una buca in strada.

Aspettammo in silenzio. Nel camioncino l'aria scarseggiava e il tempo era tornato buono. Frasconi lasciò andare il siriano quaranta minuti dopo.

L'uomo spuntò da nord camminando con passo tranquillo. Era stato avvertito di quello che gli sarebbe successo se ci avesse traditi. Kohl aveva scritto il copione e Frasconi lo aveva recitato. Erano minacce che probabilmente non avremmo mai attuato, anche se lui non lo sapeva. Immagino fossero plausibili, fondate su quanto accade a certe persone in Siria.

L'uomo si sedette a un tavolino sul marciapiede, a tre metri da noi. Posò la valigetta per terra, a lato del tavolino. Sembrava attendere un secondo cliente. Il cameriere arrivò e prese l'ordine, tornando un minuto dopo con un espresso. Il siriano si accese una sigaretta, la fumò a metà e la schiacciò nel posacenere.

«Il siriano sta aspettando», disse piano Kohl. Aveva acceso un registratore per avere a riprova anche una documentazione audio in tempo reale.

Indossava l'uniforme verde, pronta per l'arresto. Le stava proprio bene.

«Confermo», disse il pubblico ministero. «Il siriano sta aspettando.» Questi finì il caffè e fece cenno al cameriere di portargliene un altro. Poi si accese un'altra sigaretta.

«Fuma sempre così tanto?» chiesi.

«Perché?» domandò Kohl.

«Non starà avvertendo Quinn?»

«No, fuma sempre così», rispose lei.

«Bene», dissi. «Ma avranno un segnale di ritirata.»

«Non lo useranno. Frasconi lo ha spaventato per bene.» Aspettammo. Il siriano terminò la seconda sigaretta, posò le mani sul tavolo e prese a tamburellare le dita. Sembrava normale, un uomo in attesa di qualcuno che era forse un po' in ritardo. Si accese un'altra sigaretta.

«Non mi piacciono tutte quelle sigarette», osservai.

«Non vi preoccupate, fa sempre così», rispose Kohl.

«Sembra nervoso. Quinn potrebbe insospettirsi.»

«È normale. È un mediorientale.» Aspettammo. Guardai la folla aumentare. Era quasi ora di pranzo.

«Quinn sta arrivando», disse Kohl.

«Confermo», rispose il pubblico ministero. «Sta arrivando.» Guardai verso sud e vidi un uomo dall'aspetto ordinato, curato ed elegante, alto poco meno di un metro e novanta, di una novantina di chili di peso. Dimostrava un po' meno di quarant'anni, aveva i capelli neri lievemente brizzolati sulle tempie. Indossava un abito blu con una camicia bianca e una cravatta rosso cupo. Sembrava un cittadino qualunque di Washington. Camminava spedito, ma faceva in modo che non lo si notasse.

Compiva movimenti netti, era chiaramente atletico e in forma. Quasi sicuramente faceva jogging. Portava una valigetta Halliburton, identica in tutto e per tutto a quella del siriano, che alla luce del sole emanava vaghi riflessi dorati.

Il siriano posò la sigaretta sul portacenere e accennò un saluto. Sembrava un po' a disagio, ma supposi fosse normale: essere parte di un grosso giro di spionaggio nel cuore della capitale del nemico non era un gioco da ragazzi. Quinn lo vide e si diresse verso di lui. Il siriano si alzò e si strinsero la mano davanti al tavolino. Sorrisi. Avevano escogitato un buon sistema. A Georgetown scene del genere erano tanto familiari da passare quasi inosservate: un americano in giacca e cravatta che stringeva la mano a uno straniero davanti a un tavolino con un posacenere e una tazza di caffè. Si sedettero. Quinn si dimenò sulla sedia, si mise comodo e posò la valigetta accanto a quella già presente. A prima vista le due valigette sembravano una sola, di dimensioni più grandi.

«Le valigette sono adiacenti», disse Kohl al microfono.

«Confermo», disse il pubblico ministero. «Le valigette sono adiacenti.» Il cameriere portò il secondo caffè del siriano. Quinn gli disse qualcosa e lui se ne andò di nuovo. Il siriano disse qualcosa a Quinn che sorrise. Era un sorriso di totale controllo, di totale soddisfazione. Poi il siriano disse qualcos'altro: stava recitando la sua parte, pensava di salvarsi la vita.

Quinn allungò il collo in cerca del cameriere. Il siriano prese la sigaretta, voltò la testa dall'altra parte ed espirò il fumo direttamente nella nostra direzione, poi la spense nel posacenere. Il cameriere tornò con l'ordine di Quinn. Era una grossa tazza, probabilmente un cappuccino. Entrambi bevvero in silenzio.

«Sono nervosi», disse Kohl.

«Eccitati», osservai io. «Sono quasi al termine. Questo è l'ultimo incontro e il traguardo è in vista, per entrambi. Vogliono solo concludere.»

«Osservi le valigette», fece Kohl.

«Le sto osservando», rispose il pubblico ministero.

Quinn posò la tazza sul piattino e scostò la sedia. Allungò la destra verso il basso e prese la valigetta del siriano.

«Quinn ha la valigetta del siriano», affermò il pubblico ministero.

Quinn si alzò, disse un'ultima cosa, si voltò e si allontanò. Aveva un passo scattante. Lo guardammo finché non scomparve alla vista. Toccò al siriano pagare il conto. Lo fece e si allontanò in direzione nord finché Frasconi non uscì da una porta, lo prese per un braccio e lo condusse verso di noi. Kohl aprì il portello posteriore del camioncino e Frasconi lo spinse dentro. In cinque non avevamo molto spazio.

«Apra la valigetta», disse il pubblico ministero.

Da vicino il siriano sembrava molto più teso che dal vetro. Sudava e non aveva un buon odore. Stese la valigetta sul fondo e vi si accovacciò davanti. Ci guardò uno alla volta, fece scattare le chiusure e sollevò il coperchio.

Era vuota.

Udii suonare il telefono nell'ufficio della Xavier Export Company. La porta era spessa, pesante, e il suono era attutito, lontano, ma era un telefono e suonò esattamente cinque minuti dopo che Duffy e Villanueva erano usciti dal garage. Squillò due volte e qualcuno rispose. Non sentii alcuna conversazione. Immaginavo che Duffy avrebbe inventato una scusa dicendo che aveva sbagliato numero, in modo che la telefonata durasse abbastanza da essere notata nei tabulati. Le diedi un minuto: in casi del genere nessuno parla per più di sessanta secondi.

Estrassi la Beretta dalla tasca e spalancai la porta. Entrai in un'ampia reception di legno scuro con la moquette. A sinistra c'era un ufficio chiuso e anche a destra. Davanti a me c'era il banco, dietro il quale una persona stava riagganciando il telefono. Non era Quinn, ma una donna sulla trentina.

Aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri. Davanti a lei c'era una targa di acetato con una cornice di legno e la scritta: EMILY SMITH. Alle sue spalle c'era un appendiabiti con un impermeabile e un abito da cocktail nero avvolto in una busta da tintoria. Armeggiai alle mie spalle con la sinistra e chiusi a chiave la porta che dava sul corridoio, osservando gli occhi di Emily. Mi stavano fissando e non si mossero. Non si voltarono a destra o a sinistra verso uno degli uffici, quindi probabilmente era sola. E non si abbassarono verso una borsetta o un cassetto del banco, quindi probabilmente era disarmata.

«Dovresti essere morto», disse.

«Davvero?» Lei annuì vagamente, come se non riuscisse a capacitarsi di ciò che vedeva.

«Tu sei Reacher», disse. «Paulie ci ha detto di averti eliminato.»

«D'accordo, sono un fantasma. Non toccare il telefono.» Avanzai e guardai il tavolo. Non c'erano armi. Il telefono era un apparecchio complicato a console con più linee, tutto pieno di tasti. Mi chinai e con la sinistra strappai il filo dalla presa.

«Alzati», dissi.

Lei obbedì. Spinse semplicemente la sedia all'indietro e si sollevò.

«Controlliamo le altre stanze.»

«Non c'è nessuno», affermò. Nella sua voce c'era paura, quindi mi stava presumibilmente dicendo la verità.

«Controlliamo lo stesso», dissi.

Lei si allontanò dal tavolo. Era più bassa di me di una trentina di centimetri, indossava una gonna e una camicia scure e un paio di scarpe eleganti che, supposi, sarebbero andate bene anche con l'abito da cocktail, dopo.

Le puntai la bocca della Beretta alla schiena, con la sinistra l'afferrai per il colletto della camicetta e la spinsi in avanti. Era piccola e fragile e i suoi capelli mi ricaddero sulla mano. Sapevano di pulito. Controllammo prima l'ufficio a sinistra. Emily aprì la porta per me: la spinsi dentro e mi spostai di lato, togliendomi dalla soglia. Non volevo che qualcuno mi sparasse alla schiena dalla reception.

Era soltanto un ufficio: uno spazio abbastanza ampio, deserto, con un tappeto orientale e una scrivania. C'era un bagno: uno stanzino minuscolo con un water e un lavandino. Dentro non c'era nessuno. La feci girare e attraversare l'intera reception fino all'ufficio a destra: stesso arredo, stesso tipo di tappeto orientale, stesso tipo di scrivania. Deserto anche quello. Lì non c'era nessuno. Niente bagno. La tenni stretta per il colletto e la spinsi di nuovo nel centro della reception fermandomi davanti al suo tavolo.

«Qui non c'è nessuno», dissi.

«Te l'avevo detto», replicò lei.

«Allora dove sono tutti?» Non rispose. La sentii irrigidirsi, come se fosse decisa a non rispondere.

«In particolare, dov'è Teresa?» chiesi.

Nessuna risposta.

«Dov'è Xavier?» domandai.

Nessuna risposta.

«Come sai il mio nome?»

«Beck lo ha detto a Xavier. Gli ha chiesto il permesso di assumerti.»

«Xavier ha fatto qualche controllo sul mio conto?»

«Per quel che ha potuto.»

«E ha dato l'okay a Beck?»

«Ovviamente.»

«Allora perché stamattina mi ha messo contro Paulie?» Lei s'irrigidì di nuovo. «La situazione è cambiata.»

«Stamattina? Perché?»

«Ha avuto nuove informazioni.»

«Quali informazioni?»

«Non lo so con precisione», rispose. «Qualcosa che riguarda una macchina.» La SAAB? Gli appunti mancanti della cameriera?

«Ha fatto un paio di deduzioni», proseguì. «Adesso sa tutto di te.»

«Nessuno sa tutto di me», obiettai.

«Sa che parlavi con l'ATF.»

«Come ho detto, nessuno sa veramente qualcosa.»

«Sa quello che stai facendo qui.»

«Davvero? Anche tu?»

«Non me lo ha detto.»

«Qual è il tuo ruolo qui?»

«Sono la responsabile operativa.» Strinsi con più forza il colletto della camicia con il pugno sinistro e spostai la bocca della Beretta per grattarmi la guancia nel punto in cui la contusione mi tirava la pelle. Pensai ad Angel Doll e John Chapman Duke, alle due guardie del corpo di cui non sapevo nemmeno il nome e a Paulie.

Pensai che aggiungere Emily alla lista non mi sarebbe costato molto in termini universali. Le puntai la pistola alla testa. Udii un aereo in lontananza: stava decollando dall'aeroporto. Rombò nel cielo a meno di un chilometro e mezzo. Pensai che avrei potuto aspettare il seguente e premere il grilletto. Nessuno avrebbe sentito nulla e probabilmente lei se lo meritava.

O forse no.

«Dov'è lui?» chiesi.

«Non lo so.»

«Sai cos'ha fatto dieci anni fa?» Vivi o muori, Emily. Se lo sapeva, lo avrebbe detto di sicuro, per orgoglio, spirito di appartenenza o presunzione. Non sarebbe stata capace di tenerlo per sé. E se sapeva, meritava di morire, perché così era se sapevi e continuavi a lavorare per l'uomo che lo aveva fatto.

«No, non me lo ha mai detto», rispose. «Dieci anni fa non lo conoscevo.»

«Ne sei certa?»

«Sì.» Le credetti.

«Sai cos'è successo alla cameriera di Beck?» chiesi.

Chi è sincero può tranquillamente rispondere di no, ma di solito prima tace e riflette. Forse fa a sua volta una domanda. Rientra nella natura umana.

«Chi?» domandò. «No, cosa?» Espirai.

«Va bene», affermai.

Rimisi la Beretta in tasca, lasciai andare il colletto, la girai e le bloccai entrambi i polsi con la sinistra. Presi il filo elettrico del telefono con la destra, la spinsi nell'ufficio a sinistra fino in bagno e la gettai dentro.

«Gli avvocati della porta accanto sono andati a casa», dissi. «Nell'edificio non arriverà nessuno fino a lunedì mattina, perciò grida, urla e strepita quanto vuoi, nessuno ti sentirà.» Lei non aprì bocca. Chiusi la porta e legai il cavo telefonico stretto attorno alla maniglia. Aprii il più possibile la porta dell'ufficio e ne fissai l'altra estremità alla maniglia. Avrebbe potuto tirare la porta del bagno per tutto il fine settimana senza ottenere nulla: nessuno riesce a spezzare un filo telefonico tirandolo nel senso della lunghezza. Immaginai che avrebbe rinunciato dopo un'ora e se ne sarebbe stata tranquilla. Avrebbe bevuto acqua dal rubinetto, usato il water e cercato di far passare il tempo.

Mi sedetti alla sua scrivania. Un responsabile operativo doveva maneggiare carte interessanti, pensai, ma lei non ne aveva. Il documento più rilevante che trovai era una copia dell'ordine a Keast & Maden, la società di catering. Qualcuno vi aveva scritto un appunto a matita. Era una grafia femminile, probabilmente della stessa Emily. Agnello, non maiale! si leggeva. Mi voltai con la sedia e guardai l'abito avvolto nella busta appeso all'appendiabiti. Mi voltai di nuovo e controllai l'orologio. I dieci minuti erano passati.

Scesi in garage con l'ascensore e uscii da una porta antincendio sul retro.

La guardia non mi vide. Girai attorno all'isolato e arrivai alle spalle di Duffy e Villanueva. L'auto era parcheggiata all'angolo ed erano entrambi seduti davanti, intenti a fissare oltre il parabrezza. Immaginai sperassero di veder arrivare due persone lungo la strada, dirette verso di loro. Aprii la portiera e scivolai sul sedile posteriore, al che si voltarono di scatto e rimasero delusi. Scossi semplicemente la testa.

«Nessuno dei due», dissi.

«Qualcuno ha risposto al telefono», affermò Duffy.

«Una certa Emily Smith», spiegai. «La sua responsabile operativa. Non ha aperto bocca.»

«Che cosa ne hai fatto?»

«L'ho chiusa nel bagno. È fuori dei piedi fino a lunedì.»

«Avresti dovuto farle il terzo grado», disse Villanueva. «Strapparle le unghie.»

«Non è nel mio stile», replicai. «Ma potete accomodarvi, se volete. Non fatevi problemi. È sempre lassù. Non andrà da nessuna parte.» Lui si limitò a scuotere il capo e a restare seduto.

«Allora che facciamo adesso?» chiese Duffy.

«Allora che facciamo adesso?» chiese Kohl.

Eravamo ancora nel furgoncino. Kohl, il pubblico ministero e io. Frasconi aveva portato via il siriano. Kohl e io stavamo riflettendo con attenzione e il pubblico ministero era sul punto di lavarsi le mani dell'intera faccenda.

«Io ero qui solo per osservare», disse. «Non vi posso fornire consigli legali, non sarebbe opportuno. E francamente non saprei che dirvi.» Ci lanciò un'occhiata torva, uscì dal portello posteriore e se ne andò senza voltarsi. Immagino che quello fosse il rovescio della medaglia quando si sceglie un gran rompiscatole come osservatore. La legge delle conseguenze impreviste.

«Voglio dire, che cos'è successo?» domandò Kohl. «Che cosa abbiamo visto esattamente?»

«Ci sono solo due possibilità», risposi. «Primo, lo ha raggirato, senza mezzi termini, con la solita truffa: passi tutta una serie di informazioni irrilevanti e non fai la consegna finale. Oppure, secondo, sta operando legittimamente come ufficiale dell'intelligence in una missione autorizzata, per dimostrare che Gorowski non sa tenere la bocca chiusa e che i siriani sono disposti a pagare grosse cifre per mettere le mani su cose del genere.»

«Ha rapito la figlia di Gorowski», obiettò lei. «Non è assolutamente possibile che un atto simile sia stato approvato.» Annuii. «Concordo con te. Li ha raggirati.»

«Cosa possiamo fare al riguardo?»

«Niente», risposi. «Perché se noi due andiamo avanti e lo accusiamo di averli truffati per profitto personale, dirà automaticamente che non è così: che non ha fatto niente del genere, che anzi stava gestendo un'operazione sotto copertura, e ci inviterà a dimostrare il contrario. Oltre a ricordarci con ben poco garbo di non mettere il becco negli affari dell'intelligence.» Lei non disse nulla.

«E sai cosa?» proseguii. «Anche se li avesse truffati, non saprei di che cosa accusarlo. Il Codice militare ti impedisce di prendere soldi da stranieri idioti in cambio di valigette piene d'aria?»

«Non lo so.»

«Nemmeno io.»

«Ma in qualsiasi caso i siriani andranno in bestia», commentò Kohl.

«Non credi? Gli hanno dato mezzo milione di dollari. Dovranno reagire in qualche modo, ne va del loro orgoglio. Anche se avesse agito legittimamente, avrebbe corso un bel rischio. Mezzo milione di bei rischi. Lo prenderebbero di mira e lui non potrebbe scomparire: dovrebbe rimanere dov'è.

Sarebbe un facile bersaglio.» Tacqui per un istante e la guardai. «Se non ha intenzione di scomparire, perché trasferire tutti i soldi?» Lei non disse nulla. Guardai l'orologio e pensai: non questo, quello. O, forse, solo per una volta, questo e quello.

«Mezzo milione sono troppi soldi», affermai.

«Per cosa?»

«Perché gli siano stati pagati dai siriani. Non vale quella cifra, presto ci saranno un prototipo e un lotto pre-produzione. Tra qualche mese in fureria ci saranno un centinaio di armi finite: potrebbero comprarne una per diecimila dollari, probabilmente. Un caporale corrotto potrebbe venderla.

Potrebbero addirittura rubarla e smontarla.»

«Bene, allora come uomini d'affari sono degli incapaci», osservò Kohl.

«Ma abbiamo sentito Quinn su nastro. Ha messo mezzo milione di dollari in banca.» Guardai di nuovo l'orologio. «Lo so, quello è un fatto certo.»

«E allora?»

«Sono sempre troppi soldi. I siriani non sono più ottusi di altri. Nessuno valuterebbe uno strano dardo mezzo milione di dollari.»

«Ma sappiamo che quello è il prezzo che hanno pagato. Hai appena detto che è un fatto certo.»

«No», replicai. «Sappiamo che Quinn ha mezzo milione in banca, questo è il fatto. Non prova però che i siriani gli abbiano dato mezzo milione: quella è una supposizione.»

«Cosa intendi?»

«Quinn è uno specialista del Medio Oriente. È un uomo intelligente e corrotto. Penso che tu abbia smesso di indagare troppo presto.»

«Di indagare su che?»

«Su di lui. Dove va, chi incontra. Quanti regimi dubbi ci sono in Medio Oriente? Quattro o cinque come minimo. E se gestisse i suoi traffici con due o tre contemporaneamente? O con tutti quanti? E se ognuno credesse d'essere il solo? Immagina se avesse ripetuto la stessa truffa tre o quattro volte. Questo spiegherebbe perché ha mezzo milione in banca per qualcosa che non vale mezzo milione per nessuno.»

«E li avrebbe raggirati tutti?» Controllai di nuovo l'orologio.

«Forse», risposi. «O forse con uno di loro fa sul serio. Forse è iniziata così: con il cliente preferito ha sempre avuto intenzione di fare sul serio, ma da lui non riusciva a ottenere la cifra che voleva, perciò ha deciso di moltiplicare il rendimento.»

«Avrei dovuto controllare più bar», osservò lei. «Non mi sarei dovuta fermare al siriano.»

«Probabilmente segue un itinerario fisso», dissi. «Più incontri separati, uno dopo l'altro, come un maledetto postino.» Kohl guardò l'orologio.

«Bene», esclamò. «Quindi in questo momento sta portando a casa i soldi del siriano.» Annuii. «Poi uscirà di nuovo per incontrare il secondo cliente. Perciò devi recuperare Frasconi e organizzare un'altra sorveglianza. Localizzare Quinn mentre torna in città e bloccare chiunque scambi con lui una valigetta. Forse ti ritroverai con un mucchio di valigette vuote, ma forse una non lo sarà, nel qual caso saremo di nuovo in gioco.» Si guardò attorno nell'interno del furgoncino, poi abbassò lo sguardo sul registratore.

«Scordatelo», dissi. «Non c'è tempo per fare le cose ad arte. Dovrete cavarvela tu e Frasconi, là fuori, in strada.»

«Il magazzino», dissi. «Dobbiamo andare a controllarlo.»

«Ci servono rinforzi», fece notare Duffy. «Saranno tutti lì.»

«Me lo auguro.»

«È troppo pericoloso. Siamo solo in tre.»

«A dire il vero penso che stiano andando da un'altra parte. È possibile che siano già partiti.»

«Per dove?»

«Dopo», risposi. «Facciamo un passo alla volta.» Villanueva si scostò dal marciapiede.

«Aspetta», dissi. «Alla prossima, svolta a destra. C'è un'altra cosa che voglio controllare, prima.» Gli indicai di proseguire per due isolati e di percorrerne ancora uno: arrivammo così al garage pubblico dove avevo lasciato Angel Doll nel bagagliaio della sua auto. Villanueva attese davanti all'idrante e io scesi. Entrai dall'ingresso veicoli e lasciai che gli occhi si abituassero all'oscurità. Continuai fino a raggiungere il posto dove avevo parcheggiato: c'era una macchina, ma non era la Lincoln nera di Angel Doll, era una Subaru Legacy verde metallizzato, versione Outback con le barre sul tetto e gli pneumatici grossi. Sul finestrino posteriore aveva un adesivo con la bandiera americana. Era un guidatore patriottico, ma non abbastanza da comprare un'auto americana.

Controllai nei due corridoi adiacenti solo per esserne sicuro, anche se già lo ero. Non la SAAB, la Lincoln. Non gli appunti scomparsi della cameriera, ma il corpo scomparso di Angel Doll. Adesso sa tutto di te. Nessuno sa niente di nessuno, ma immaginavo che ora sapesse qualcosa di più sul mio conto di quello che mi faceva piacere sapesse. Ripercorsi la stessa strada, risalii la rampa e uscii alla luce del giorno. Era tutto grigio e nuvoloso, cupo e scuro per gli alti edifici, eppure mi sembrava di avere un riflettore puntato addosso. M'infilai nella Taurus e chiusi piano la portiera.

«Tutto a posto?» chiese Duffy.

Non risposi. Lei si girò sul sedile e mi guardò.

«Tutto a posto?» ripeté.

«Dobbiamo tirare fuori Eliot di lì», risposi.

«Perché?»

«Hanno trovato Angel Doll.»

«Chi?»

«Gli uomini di Quinn.»

«Come?»

«Non lo so.»

«Ne sei certo?» domandò. «Forse è stata la Polizia di Portland. Un veicolo sospetto, parcheggiato da tanto tempo?» Scossi la testa. «Avrebbero aperto il bagagliaio e ora l'intero garage sarebbe considerato la scena di un crimine. L'avrebbero isolato col nastro e ci sarebbero agenti dappertutto.» Lei non rispose.

«Ormai è del tutto fuori controllo», dissi. «Perciò chiama Eliot sul cellulare e ordinagli di uscire di lì. Digli di portare con sé i Beck e la cuoca, nella Cadillac. Digli di arrestarli tutti minacciandoli con la pistola, se necessario. Di trovare un altro motel e di nascondersi.» Duffy frugò nella borsa in cerca del suo Nokia e premette un tasto di chiamata veloce. Attese. Calcolai mentalmente: uno squillo, due, tre. Quattro. Duffy mi guardò in ansia. Poi Eliot rispose. Lei emise un sospiro e gli diede le istruzioni, con tono forte, chiaro e urgente. Quindi riagganciò.

«Tutto bene?» chiesi.

Lei assentì. «Sembrava molto sollevato.» Annuii in risposta. Certo che lo era: non era divertente starsene chini dietro una mitragliatrice con il mare alle spalle, a fissare un paesaggio grigio senza sapere che cosa ti avrebbe attaccato o quando.

«Allora andiamo», dissi. «Al magazzino.» Di nuovo Villanueva si scostò dal marciapiede. Conosceva la strada.

Aveva sorvegliato il magazzino con Eliot due volte, per due lunghi giorni.

Si diresse a sud-est destreggiandosi nel traffico cittadino e si avvicinò al porto da nord-ovest. Restammo tutti in silenzio, nessuno aveva voglia di parlare. Cercai di valutare il danno. Era enorme, un vero disastro, ma anche una liberazione. Chiariva tutto, non c'era più bisogno di fingere. La messinscena era stata scoperta. Ora io ero il loro nemico, punto e basta. E loro, i miei nemici. Era un sollievo.

Villanueva era davvero in gamba. Fece ogni mossa nel modo giusto. Si avvicinò al magazzino girandoci attorno a tre isolati di distanza, coprendone tutti e quattro i lati. Riuscimmo a vedere solo brevi scorci dell'edificio, lungo i vicoli e negli spazi tra le altre costruzioni. Quattro passaggi, quattro occhiate. Non c'erano macchine e la serranda era ben chiusa. Le finestre non erano illuminate.

«Dove sono tutti?» chiese Duffy. «Doveva essere un fine settimana importante.»

«Lo è», confermai. «Penso sia molto importante e penso che quello che stanno facendo abbia perfettamente senso.»

«Che stanno facendo?»

«Dopo», risposi. «Andiamo a dare un'occhiata ai Persuader, vediamo che cosa ricevono in cambio.» Villanueva parcheggiò due edifici più a nord-est, davanti a una porta con la targa BRIAN'S FINE IMPORTED TAXIDERMY. Chiuse la Taurus e ci dirigemmo a sud-ovest, per poi curvare e arrivare al magazzino di Beck dalla parte del punto cieco, dove non c'erano finestre. La porta del personale che dava accesso al magazzino era chiusa a chiave. Guardai dalla finestra dell'ufficio posteriore e non vidi nessuno. Girai l'angolo e guardai nella zona delle segretarie: nessuno. Arrivammo alla porta grigia non dipinta e ci fermammo. Era chiusa a chiave.

«Come facciamo a entrare?» chiese Villanueva.

«Con queste», risposi.

Presi le chiavi di Angel Doll, azionai la serratura e aprii la porta. L'allarme iniziò a suonare. Entrai e frugai tra le carte appese in bacheca. Trovai il codice e lo inserii. La luce rossa mutò in verde e il suono cessò.

Nell'edificio calò il silenzio.

«Non sono qui», esclamò Duffy. «Non abbiamo tempo di fare un controllo, dobbiamo trovare Teresa.» Sentivo già odore di olio per armi. Prevaleva su quello di lana grezza dei tappeti.

«Cinque minuti», dissi. «E poi l'ATF ti darà una medaglia.»

«Ti dovrebbero dare una medaglia», esclamò Kohl.

Mi stava chiamando da un telefono pubblico nel campus della Georgetown University.

«Davvero?»

«Lo abbiamo incastrato. Possiamo inchiodarlo. Il nostro uomo è assolutamente finito.»

«Allora di chi si trattava?»

«Degli iracheni», rispose. «Pensa un po'!»

«Ha senso», osservai. «Sono appena stati presi a calci in culo e vogliono essere pronti per la prossima volta.»

«Alla faccia dell'impudenza.»

«Com'è andata?»

«Come in precedenza, ma hanno usato le Samsonite, non le Halliburton.

Da un libanese e da un iraniano abbiamo recuperato valigette vuote. Poi abbiamo fatto centro con l'iracheno: il progetto autentico.»

«Ne sei certa?»

«Assolutamente certa», rispose. «Ho chiamato Gorowski e lui lo ha identificato dal numero del disegno nell'angolo in fondo.»

«Chi ha assistito allo scambio?»

«Tutti e due, Frasconi e io, più alcuni studenti della facoltà. È avvenuto in un bar dell'università.»

«In quale facoltà?»

«Abbiamo un docente di giurisprudenza.»

«Che cos'ha visto?»

«L'intera scena. Ma non può testimoniare sullo scambio in sé. Sono stati molto abili, come nel gioco delle tre carte. Le valigette erano identiche.

Può bastare?» Domande a cui avrei voluto rispondere diversamente. Era possibile che Quinn sostenesse che l'iracheno avesse già il progetto e se lo fosse procurato da fonti sconosciute. Forse avrebbe insinuato che amava portarselo dietro e negato che fosse avvenuto qualsiasi genere di scambio. Poi tuttavia pensai al siriano, al libanese e all'iraniano e a tutti i soldi che Quinn aveva in banca. Le vittime del raggiro si sarebbero volute vendicare e forse sarebbero state disposte a testimoniare a porte chiuse. Il dipartimento di Stato avrebbe offerto loro la possibilità di patteggiare. Inoltre, sulla valigetta in possesso dell'iracheno c'erano le impronte di Quinn: non aveva di certo indossato i guanti all'appuntamento, sarebbe stato troppo sospetto.

Nel complesso, pensai che potesse bastare. Avevamo un modello evidente, la somma inspiegabile sul conto di Quinn, un progetto segreto dell'Esercito degli Stati Uniti in possesso di un agente iracheno, due poliziotti militari e un docente di giurisprudenza a testimoniare il fatto, e le impronte sul manico della valigetta.

«È molto», dissi. «Procedi con l'arresto.»

«Dove andiamo?» chiese Duffy.

«Ora ti mostro», risposi.

Superandola, entrai nell'open space, quindi nell'ufficio sul retro e infine nello stanzino del magazzino. Il computer di Angel Doll era ancora lì sul tavolo. Trovai l'interruttore giusto e accesi le luci del magazzino. Attraverso la parete di vetro vidi tutto. Le file di tappeti erano ancora lì, come pure l'elevatore a forca, ma nel centro del pavimento c'erano cinque pile di casse alte fino alla testa, divise in due gruppi: in quello più lontano dalla serranda c'erano tre pile di casse di legno rovinate, tutte stampinate con lettere di alfabeti stranieri sconosciuti, perlopiù in cirillico, sovrascritte con scarabocchi che andavano da destra a sinistra, in qualche lingua araba. Immaginai fossero le importazioni della Bizarre Bazaar. Accanto alla porta c'erano due pile di casse nuove stampate in inglese: MOSSBERG CONNECTICUT. L'ordine di consegna della Xavier Export Company. Import-export, il baratto nella sua forma più pura. «L'equo scambio non è una rapina», avrebbe forse detto Leon Garber.

«Non è molto, vero?» osservò Duffy. «Cinque pile di casse? Centoquarantamila dollari? Pensavo fosse un grosso affare.»

«Io penso sia grosso», replicai. «In termini di importanza, forse, più che di quantità.»

«Diamo un'occhiata», disse Villanueva.

Raggiungemmo il pavimento del magazzino. Insieme sollevammo la cassa in cima della Mossberg. Era pesante. Sentivo il braccio sinistro ancora un po' debole e il petto mi faceva ancora male nel centro; al confronto il dolore alla bocca mi pareva una sciocchezza.

Villanueva trovò un martello a granchio su un tavolo e lo usò per togliere i chiodi del coperchio. Lo sollevò e lo posò per terra. La cassa era piena di pallini di polistirolo. Vi infilai le mani ed estrassi un fucile a canna lunga avvolto in carta oleata. Stracciai la carta. Era un M500 Persuader modello Cruiser: niente calcio, solo un'impugnatura da pistola. Calibro dodici, canna da quarantasette centimetri, camera da sette centimetri e mezzo, sei colpi, metallo brunito, impugnatura anteriore di materiale plastico nero, niente mirino. Era un'arma da strada rozza e brutale. Azionai la ricarica a pompa, crunch crunch, che scivolò come seta sulla pelle. Premetti il grilletto. Cliccò come una Nikon.

«Vedi munizioni?» chiesi.

«Eccole», disse Villanueva. In mano teneva una scatola di Brenneke Magnum. Alle sue spalle c'era uno scatolone aperto pieno di confezioni identiche. Aprii due scatole, caricai sei palle, ne misi una nella camera e caricai la settima. Poi inserii la sicura perché le Brenneke non sono pallini da caccia: sono proiettili di rame massiccio da ventotto grammi che escono dal Persuader a più di diciassettemila chilometri all'ora. Nei muri di calcestruzzo creavano buchi tanto grandi che ci potevi passare attraverso. Posai l'arma sul tavolo e ne scartai un'altra. La caricai, misi la sicura e la lasciai accanto alla prima. Sorpresi Duffy intenta a guardarmi.

«È questo il loro scopo», dissi. «Un'arma scarica non serve a nessuno.» Infilai le confezioni vuote di Brenneke nello scatolone e chiusi il coperchio. Villanueva stava osservando le casse della Bizarre Bazaar. In mano aveva alcune carte.

«Questi ti sembrano tappeti?» chiese.

«Per niente», risposi.

«La Dogana degli Stati Uniti pensa invece che lo siano. Un certo Taylor ha dichiarato che si tratta di tappeti tessuti a mano provenienti dalla Libia.»

«La cosa vi aiuterà», osservai. «Potete consegnare questo Taylor all'ATF. Verificheranno il suo conto in banca e forse acquisterete una maggiore popolarità.»

«Ma cosa c'è dentro veramente?» chiese Duffy «Che cosa fanno in Libia?»

«Niente», risposi. «Coltivano datteri.»

«È tutta roba russa», affermò Villanueva. «È passata due volte da Odessa. Importata dalla Libia, girata lì ed esportata qui in cambio di duecento Persuader, solo perché qualcuno vuol fare il duro nelle strade di Tripoli.»

«In Russia fanno un bel po' di roba», osservò Duffy.

Annuii. «Vediamo esattamente cosa.» C'erano nove casse disposte in tre pile. Sollevai la cassa in alto dalla pila più vicina e Villanueva si diede da fare con il suo martello a granchio. Tolse il coperchio e vidi un mucchio di AK-74 adagiati in un letto di trucioli di legno: fucili Kalashnikov standard da assalto, molto usati, privi di qualsiasi fascino, vendibili sulla piazza a circa duecento dollari l'uno, a seconda del posto. Non erano armi alla moda. Non pensavo che una banda che usava giubbotti North Face fosse disposta scambiare i suoi splendidi H&K neri opachi con quella roba.

La seconda cassa era più piccola, piena di trucioli di legno e di mitra AKSU-74, discendenti dagli AK-74, efficaci ma rozzi, anch'essi usati ma in buone condizioni. Niente di entusiasmante, comunque: cinque o sei mitra occidentali equivalenti bastavano a contrastarli. La NATO non aveva passato notti insonni preoccupandosi al riguardo.

La terza cassa era piena di pistole Makarov, in gran parte vecchie e graffiate. È un modello spartano e lento, copiato dall'antica Walther PP. I militari sovietici non hanno mai avuto una grande cultura della pistola, convinti che usare le armi da fianco fosse un po' come lanciare sassi.

«È tutta merda», dissi. «La cosa migliore da fare con questa roba sarebbe fonderla e usarla per fabbricare ancore.» Passammo alla seconda pila e nella prima cassa trovammo qualcosa di molto più interessante: era piena di fucili VAL Silent Sniper, segreti fino al 1994, anno in cui il Pentagono mise le mani su un esemplare. Sono neri, tutti metallici, con calcio tattico e sparano proiettili speciali subsonici pesanti da nove millimetri. I test hanno dimostrato che perforano qualsiasi tipo di giubbotto antiproiettile in un raggio di cinquecento metri. Ricordo che all'epoca destarono un bel po' di sconcerto. Ce n'erano dodici. La cassa seguente ne conteneva altri dodici. Erano armi di qualità e sembravano ben conservate. Con i giubbotti North Face si abbinavano a meraviglia, soprattutto con quelli neri con le fodere argento.

«Sono costosi?» chiese Villanueva.

Mi strinsi nelle spalle. «Difficile a dirsi. Dipende da quanto si è disposti a pagare, suppongo. Ma negli Stati Uniti un Vaime o SIG equivalente nuovo costerebbe più di cinquemila dollari.»

«L'intero ammontare della fattura.» Annuii. «Sono armi serie, ma non molto in uso a South Central Los Angeles, perciò sulla piazza il loro valore potrebbe essere molto minore.»

«Dovremmo andare», fece notare Duffy.

Arretrai di un passo per guardare oltre la finestra dell'ufficio posteriore.

Era metà pomeriggio: fuori era livido, ma c'era ancora luce.

«Tra poco», risposi.

Villanueva aprì l'ultima cassa della seconda pila.

«Che diavolo è questo?» domandò.

Mi avvicinai. Vidi un letto di trucioli di legno e un tubo nero sottile con una piccola sezione di legno che serviva da appoggio per la spalla. Nella bocca era già stato inserito un missile bombato. Dovetti guardare due volte per esserne certo.

«È un RPG-7», dissi. «Un lanciarazzi anticarro. Un'arma da fanteria che viene azionata appoggiandola alla spalla.»

«RPG significa granata con propulsione a razzo», disse.

«In inglese», affermai. «In russo è reaktivnyj protivotankovyj granatomet, lanciagranate anticarro, ma usa un missile non una granata.»

«Come il 'penetratore long-rod'?»

«Più o meno», risposi. «Ma è esplosivo.»

«Fa saltare in aria i carri armati?»

«Quella è l'idea.»

«Chi lo potrebbe comprare da Beck?»

«Non lo so.»

«I trafficanti di droga?»

«Presumibilmente. Sarebbe molto efficace contro una casa o una limousine blindata. Se il tuo rivale si è comperato una BMW antiproiettile, hai bisogno di uno di questi.»

«Oppure i terroristi.» Annuii. «O i miliziani fanatici.»

«È una faccenda molto seria.»

«Con quelli è difficile prendere la mira», dissi. «Il missile è grosso e lento. Nove volte su dieci basta un lieve vento di traverso per mancare il bersaglio, ma non è certo una consolazione per chi viene colpito per sbaglio.» Villanueva scoperchiò la cassa seguente.

«Un altro», disse. «Uguale.»

«Dobbiamo chiamare l'ATF», affermò Duffy. «E anche l'FBI probabilmente. Subito.»

«Tra poco», risposi.

Villanueva aprì le ultime due casse. I chiodi gemettero e il legno si scheggiò.

Guardai dentro e vidi alcuni tubi metallici spessi, dipinti di giallo brillante, con dei moduli elettronici imbullonati sotto. Distolsi lo sguardo.

«Grail», dissi. «SA-7 Grail, missili russi terra-aria.»

«Termosensibili?»

«Esatto.»

«Per abbattere aerei?» chiese Duffy.

Annuii. «E sono molto efficaci anche contro gli elicotteri.»

«Che raggio hanno?» domandò Villanueva.

«Arrivano a tremila metri», risposi.

«Potrebbero abbattere un aereo di linea.» Annuii.

«Nei pressi di un aeroporto. Poco dopo il decollo. Lo potresti usare da una barca sull'East River. Immagina di colpire un aereo decollato da La Guardia: si schianterebbe su Manhattan e sarebbe un nuovo 11 settembre.» Duffy fissò i tubi gialli.

«Incredibile», commentò.

«Qui non si tratta solo di trafficanti di droga», dissi. «Hanno allargato il mercato. Qui si tratta di terrorismo, per forza. Quest'ordine basta ad armare un'intera cellula terroristica. Con queste armi potrebbero fare praticamente tutto.»

«Dobbiamo scoprire chi le compra e perché.» Poi udii un rumore di piedi sul pavimento, sulla soglia, lo scatto di un colpo che s'inseriva nella camera di una pistola automatica e una voce.

«Non chiediamo perché le vogliano», rispose. «Non lo facciamo mai.

Prendiamo solo i loro fottuti soldi.»