IX
Donne che comandano il lavoro
Marisa Bellisario, la donna che cambiò l’industria di Stato
«Per una donna esiste il problema della credibilità, bisogna dimostrare che si è brave. Alla donna manca il diritto alla mediocrità, si arriva a occupare posti importanti solo se si è bravissime. Ma quando ci saranno anche le mediocri, come avviene per gli uomini, vorrà dire che esisterà la parità. Occorre quindi dimostrare che a uguali opportunità corrispondono uguali meriti.»
Sono parole di Marisa Bellisario, il simbolo del riscatto femminile nella grande impresa, riportate dalla sua biografa Fiorenza Barbero in Marisa. La prima top manager italiana. Donna affascinante, gli americani la chiamavano «the legs», in onore delle sue splendide gambe, e i sindacalisti (e non solo) «donna con i baffi» per il suo carattere che, con un eufemismo, si può definire «fermo». Insomma, faccia d’angelo e pugno di ferro: era considerata, infatti, il manager più duro d’Italia, ma anche uno dei migliori.
Marisa Bellisario (Ceva, Cuneo, 1935) cominciò come poteva cominciare «una ragazza di provincia con la valigia» degli anni Cinquanta, per usare le parole con le quali si sarebbe definita lei stessa. Prima dei tre figli del direttore del locale ufficio delle imposte, laurea nemmeno brillantissima in economia e commercio a Torino e nessun master all’estero, ma una provvidenziale segnalazione per entrare in Olivetti, fabbrica mito dell’epoca. In quegli anni, infatti, grazie alle intuizioni di Adriano Olivetti l’azienda di Ivrea era giunta a primeggiare nell’elettronica: nasceva il primo computer, costruito interamente nel nostro paese. Dopo un corso di formazione a Milano, nel 1959 Marisa fu assunta alla direzione commerciale elettronica ed entrò a far parte della prima generazione di specialisti italiani del computer. «Un mondo nuovo, tutto da scoprire, competitivo e un po’ misterioso, all’avanguardia della tecnologia, proiettato nel futuro, modernissimo» avrebbe scritto nell’autobiografia Donna & top manager, pubblicata nel 1987.
Nel 1960 conobbe il matematico Lionello Cantoni, responsabile dei sistemi informatici dell’Olivetti e, poi, professore al Politecnico di Torino, che l’avrebbe sposata nel 1969 sciogliendo una precedente unione. Grandissimo amore per entrambi. («La mia vergine di 25 anni» l’avrebbe pianta il marito dopo la sua prematura scomparsa nel 1988.)
Come tutti i suoi colleghi impegnati sul fronte dello sviluppo della tecnologia d’avanguardia, la Bellisario restò traumatizzata dalla crisi finanziaria che, alla morte di Adriano, portò l’Olivetti a cedere la divisione elettronica alla multinazionale statunitense General Electric. Usò parole come «sdegno», «tradimento» per stigmatizzare il disinteresse del mondo politico, dei giornali e dell’opinione pubblica dinanzi alla «svendita di un prezioso patrimonio di conoscenza italiano». Eppure, l’esperienza internazionale fu decisiva per la sua formazione e carriera, e lei diventò ben presto una delle pochissime top manager nell’universo mondiale dell’informatica. E poiché alle riunioni importanti era l’unica donna, nacque lo slogan «Marisa and gentlemen».
Quando, nel 1970, il suo storico capo Ottorino Beltrami, amministratore delegato dell’Olivetti, diventò direttore generale di Finmeccanica, tutti pensarono a lei per la successione. Ma si ritenne che era ancora un po’ presto perché fosse una donna a ricoprire una carica del genere. Dopo un solo anno, però, Beltrami tornò in Olivetti e la volle al suo fianco per lanciare la sfida informatica alle piccole e medie aziende italiane in generosa concorrenza con il colosso americano Ibm. Nel 1975 il «Financial Times» acclamava la Bellisario come «una delle poche donne a raggiungere gli alti livelli dell’imprenditoria italiana al di fuori di legami familiari». Stava cambiando il mondo del lavoro, stavano cambiando gli impiegati, stavano cambiando le donne, che «tra vent’anni» profetizzò al quotidiano inglese «non vorranno più fare le segretarie».
Nel 1978 l’Olivetti fu comprata da Carlo De Benedetti, finanziere intelligente e spregiudicato prima che industriale a tutto tondo. Manager durissimo, con la Bellisario non s’intese mai fino in fondo e tra i due, che pure si stimavano, si aprì una sfida durata tre anni. L’Ingegnere le propose una «retrocessione»: la presidenza della disastratissima Olivetti Corporation of America. Tutti si aspettavano che lei rifiutasse, e invece accettò. Nel 1979 partì per gli Stati Uniti e, nel giro di pochi mesi, riportò in utile un bilancio pessimo.
Il 1980 fu per la Bellisario un anno chiave. S’iscrisse al Partito socialista e «divorziò» da De Benedetti per approdare al mondo delle partecipazioni statali. Qualche giorno dopo che l’azienda aveva dato notizia della sua uscita con un freddo comunicato, la Bellisario andò a salutare l’Ingegnere. «Anche se i nostri rapporti non sono stati facili» raccontò nell’autobiografia «lui mi dice che gli sembrerà impossibile non vedermi più nel suo ufficio. Gli rispondo che da lui ho imparato molto, per esempio l’importanza della gestione delle risorse finanziarie e la necessità in certi casi di essere duri. Ci salutiamo quasi emozionati (almeno io).»
Ancora una volta era stato Beltrami a lanciarle una nuova sfida: risanare l’Italtel, un’azienda pubblica che fabbricava telefoni e centrali telefoniche e, dopo la scadenza dell’accordo con la Siemens, si trovava nella difficile condizione di dover camminare da sola. L’azienda era decotta: sei stabilimenti, 29.000 dipendenti, bassa produttività, alto assenteismo, conflitti sindacali continui, l’ombra del terrorismo in fabbrica. «Uno scandalo nazionale, unico in Europa» lo definì lei stessa. Quando la Bellisario ne assunse la guida nel 1981, l’Italtel fatturava 503 miliardi di lire e ne perdeva 2327. Ogni dipendente aveva prodotto nel 1980 un passivo di 81 milioni. Accolta nel gelo dai sindacati, che non credevano alla ristrutturazione, e incoraggiata da Gianni De Michelis, ministro socialista delle Partecipazioni statali, Marisa fece il miracolo. Cambiò 180 dirigenti su 300, in due anni aumentò il fatturato del 30 per cento e dimezzò le perdite, e l’anno successivo triplicò quasi il fatturato, portandolo a 1300 miliardi, e guadagnandosi così l’«Oscar del bilancio». Il 1986 registrò un utile consolidato di 75 miliardi, mentre il numero dei dipendenti era sceso a 17.745, 11.000 in meno rispetto a cinque anni prima: uscite senza traumi, grazie a prepensionamenti e altre iniziative di solidarietà.
Nel frattempo si era avvicinata alla politica attraverso il Psi. Nel 1984, anno d’oro del craxismo, fu inserita nell’assemblea nazionale socialista tra le cento personalità eminenti del partito. «Una targa l’ho dovuta accettare» ammise in un’intervista riportata dal «Corriere della Sera» del 5 agosto 1988 «perché in un’azienda pubblica fa parte delle regole del gioco.» Ma si può dire che, nel matrimonio tra lei e il Psi, a guadagnarci fu il secondo.
Nel 1987 si fu a un passo dall’accordo tra Iri e Fiat per la fusione – dinanzi ai colossi mondiali del settore – di Italtel e della concorrente italiana Telettra in una nuova azienda chiamata Telit. La Fiat avrebbe fatto un affarone, visto che Telettra valeva sul mercato meno del 10 per cento di Italtel, ma rifiutò di affidare alla Bellisario il ruolo di amministratore delegato e così l’accordo saltò. Negli stessi anni Marisa commissionò studi sul personale, che dimostrarono due cose: 1) non è vero che l’assenteismo femminile è assai superiore a quello maschile e 2) il 90 per cento delle donne occupate in Italia era impegnata in mansioni di basso livello e poco motivanti.
Oltre che un manager eccellente, Marisa Bellisario era un formidabile personaggio mediatico. «Marisa la narcisa» scrisse «Epoca» nel 1987. «Un asso nel culto della propria immagine. Per continuare a vincere, l’Italtel deve avere una immagine forte e positiva.» La Bellisario vestiva alla moda: Armani e Trussardi, soprattutto, ma anche Valentino e Courrèges. Era solita indossare abiti trasgressivi, come trasgressivo era il taglio di capelli, spesso coloratissimi. E «con i capelli violentemente rossi in foggia quasi punk, giacca di Armani» Guido Vergani la ritrasse «visibilmente emozionata» sulla «Repubblica» l’11 marzo 1987 dopo la presentazione della sua autobiografia. «Non credo che abbia successo benché donna,» disse presentandola il vicepresidente della Teknibank Franco Morganti «ma proprio perché è donna e si porta dietro una certa somma di insicurezze. È questa somma di insicurezze che la spinge a indagare, ad approfondire i problemi.»
Un anno e mezzo dopo questo nuovo trionfo mediatico, Marisa Bellisario moriva il 4 agosto 1988, passando dal sonno alla morte, dopo un’agonia brevissima. E qui accadde un fatto assai singolare. Il marito, Lionello Cantoni, che era vissuto nell’ombra («Mister Bellisario») nei «ventotto anni di amore», fin dall’indomani della scomparsa della moglie iniziò a rilasciare interviste su interviste per ricordarla nei momenti più personali, e perfino più intimi. (Marisa era convinta di avere la pleurite e l’asma, continuò a lavorare fino all’ultimo, e nessuno, tranne i familiari più stretti e i medici, seppe mai la verità.) E quando nella camera ardente entrarono le tre segretarie vittime delle sue frequenti sfuriate, il marito fece sollevare il coperchio della bara e la mostrò vestita in un abito rosa di Armani, il suo preferito.
«Sono orgoglioso della carriera di mia moglie, per me ci voleva una donna così. Marisa era ambiziosa, ma limpida, onestissima. E spendacciona, ma i soldi erano solo i simboli di contare davvero. Voleva sempre essere la capa: il progetto Telit, la Superstet sarebbero andati bene, ma solo se a comandare fosse stata lei. Puntava sempre al massimo. In casa invece la leonessa, l’ambizioso amministratore delegato dell’Italtel, cambiava completamente. Se Marisa Bellisario a Milano amava la vita sociale, nei fine settimana torinesi diventava una pantofolaia. Qui era il nostro rifugio, preparava una cenetta calda, il venerdì sera. Il sabato mattina andava dall’estetista. Era la sua mania: ha profuso una fortuna in cosmetici e anche in vestiti. Uscivamo insieme la sera, andavamo al San Carlo, mentre la domenica ci mettevamo qui, al nostro tavolo, a lavorare. Io al computer, lei a mano. Sembra strano, ma non maneggiava macchine…» raccontò a Enrico Bonerandi della «Repubblica» qualche giorno dopo la morte della moglie. E aggiunse di aver scritto per lei una lettera mai consegnata e blindata nel suo computer: «Cara leonessa, moglie, madre, sorella, figlia e bambina mia, da oggi sei morta e siamo morti entrambi. … In questo momento di bilanci, di conti e di rimorsi, ho addirittura la tentazione di rimproverarti perché te ne vai senza una ragione, come accade alla protagonista di quell’altra altrettanto bella canzone, Yesterday, con la quale sembrava facile fare all’amore fino a ieri come con te, per me, tesoro mio».
Le fluviali, amorevoli confessioni di Cantoni disturbarono Enzo Biagi, che lo stroncò sulla «Repubblica» un mese dopo la morte della moglie. Titolo del corsivo: Il vedovo inconsolabile. «Interviste, dichiarazioni, qualche anticipo su un probabile libro di ricordi, di cui è già pronto il titolo: La mia vita con Marisa … la dottoressa Bellisario è stata una brava dirigente, ha conquistato posti di grande responsabilità e si occupava di telecomunicazioni: ma non aveva inventato il telefono. … Si capirebbe più facilmente un’opera del professor Curie: La mia vita con Maria, e di un amante della Mansfield: Giorni con Katherine … [Dicendo] Marisa era per me un soggetto-oggetto politico-sessuale … il professor Cantoni non sta esagerando?»
A Marisa Bellisario, in assoluto la prima grande manager italiana, è intitolata una fondazione – creata nel 1989 dalla socialista (e futura deputata del PdL) Lella Golfo – che premia ogni anno donne eminenti nei diversi campi di attività.
Emma Marcegaglia, «lady d’acciaio» (sulle orme di papà)
«È vero, fino al 1991 abbiamo abitato in una villetta costruita da mio padre a Gazoldo degli Ippoliti, vicino Mantova, con un bagno solo. Facevamo i turni: prima io e mia madre, poi mio padre e mio fratello Antonio.» Emma Marcegaglia (Mantova, 1965), presidente dell’Eni e titolare con il fratello Antonio di un’azienda che fattura 4 miliardi di euro all’anno, sorride al pensiero di un mondo che sembra lontanissimo e che, invece, è appena di ieri.
«Mio padre Steno era povero, ma estremamente ambizioso» mi racconta. «Suo padre era andato in Eritrea, sua madre faceva la cameriera in un ristorante. Lui era molto intelligente e aveva una gran voglia di dimostrare le sue capacità. Si era diplomato geometra, ma aveva una sorprendente preparazione giuridica. Perciò fece i primi soldi dando consigli da avvocato, senza esserlo, ai contadini che lottavano contro i latifondisti. A 29 anni, nel 1959, gli capitò di comprare una macchina che piegava i ferri a U per le tapparelle. Un’occasione come un’altra, ma lui ci si buttò dentro e cominciò a lavorare bene. Erano gli anni d’oro del Miracolo, papà reinvestiva tutto quello che guadagnava e, a metà degli anni Sessanta, ebbe un bel finanziamento dal Mediocredito Lombardo. La sua aziendina fatturava 100 e ottenne un finanziamento per 1000. Voleva comprare un laminatoio, in banca ebbero fiducia in lui e gli diedero i soldi.»
Oggi, obietto, forse non glielo avrebbero dato. Lei annuisce. «Fece il laminatoio e lo chiamò Mino. Di fatto aveva tre figli: io, Antonio e Mino. Il successo, anche economico, fu notevole, al punto che nel 1982 papà fu rapito. Avevamo un’azienda ad Arzano, vicino Napoli. I rapitori lo aspettarono all’uscita e lo portarono in Aspromonte. Restò sequestrato per 52 giorni. Lui aveva capito che la debolezza di quei ragazzi erano i soldi e spiegò loro come guadagnarli in borsa. Era diventato, insomma, un loro “amico”, ma capì anche che la sua sorte era segnata: aveva riconosciuto dalla voce uno dei rapitori, un dipendente dell’azienda di Napoli. Perciò una sera scappò, approfittando di un cambio di sorveglianza. Lo ripresero il giorno dopo, ma fu molto fortunato. Il pilota di un elicottero della polizia con la passione della caccia atterrò per seguire non so quale pista e vide mio padre e i suoi sequestratori in marcia. E così mio padre fu libero. Quando la polizia lo accompagnò a Gazoldo, c’era tutto il paese ad aspettarlo. Ma lui, prima di rientrare a casa, andò a fare il giro della fabbrica, che non vedeva da quasi due mesi. Avevo 17 anni e sono cresciuta con l’azienda nel sangue. Un’intera famiglia, madre compresa, e un’intera comunità che vivono intorno all’azienda entrano nel tuo Dna.»
Emma ha studiato al liceo scientifico pubblico di Mantova («Preside severissimo. Ero brava a scuola, ma guai ad arrivare con un minuto di ritardo» mi dice), si è laureata con il massimo dei voti e la lode in economia aziendale alla Bocconi e ha frequentato un master di specializzazione alla New York University. A 25 anni, entrata in azienda, si sentì fare dal padre questo discorso: «Abbiamo preso il bellissimo complesso dell’Isola di Albarella, in Veneto. È un patrimonio straordinario, che fattura 9 miliardi di lire e ne perde altrettanti. Io ti do piena fiducia. Vedi di sistemare le cose». «Io andai,» racconta «cambiai il management, aggiustai i conti. Da allora è cominciata la mia avventura nel settore finanziario dell’azienda, mentre mio fratello, di due anni più grande, si è sempre occupato della produzione.»
Parallelamente, la Marcegaglia cominciò la sua esperienza associativa. «Nacque tutto per caso. Dopo aver abitato a New York, il rientro era stato molto duro. Volevo aprirmi meglio gli orizzonti. Un mio amico del liceo era diventato presidente dei giovani di Confindustria a Mantova. “Vieni in consiglio,” mi disse “sarà un modo per rivedersi.” Nel 1992 ero vicepresidente nazionale dei giovani di Confindustria, nel 1996 presidente. Fu un’esperienza fantastica. Tra il 2000 e il 2002 fui vicepresidente di Confindustria con Antonio D’Amato e, dal 2004 al 2008, con Luca di Montezemolo. Poi, nel 2008, fui nominata presidente, fino al 2012.»
Era la prima volta per una donna. «Sono stati anni difficili, complicati, impegnativi, con la crisi finanziaria e lo spread che nel 2011 superò i 500 punti. Ma anche molto belli. Mi hanno aperto la testa e consentito di conoscere da vicino la politica e le istituzioni.» In quegli anni fu chiamata «lady d’acciaio», vista la produzione di famiglia, e «Black & Decker». («Nacque in un convegno in cui si parlava di mercato del lavoro, efficienza, produttività. La mia posizione era senza se e senza ma, e allora…» mi confida.)
Meno visibile, ma forse perfino più interessante, il ruolo attuale di presidente di BusinessEurope, la Confindustria europea, incarico biennale assunto nel 2013 e rinnovato nel 2015 su richiesta della Germania. «L’Europa è complicata. Lì dentro siamo 34 perché, oltre ai 28 dell’Unione, ci sono la Turchia e i paesi nordici che non fanno parte dell’Ue. Questo incarico mi ha consentito di conoscere i primi ministri di tutti i paesi europei e di avere molti contatti a livello mondiale.» L’unico italiano a rivestire questo ruolo era stato Guido Carli, all’inizio degli anni Ottanta.
Infine, nel 2014, la nomina a presidente dell’Eni, la più grande multinazionale italiana. «Era per me un momento molto complesso. Papà era morto nel settembre 2013 per un banale incidente. Uscendo dall’azienda era inciampato rompendosi un femore. Poco prima di essere operato, un embolo l’ha ucciso. Era molto stressato per una gravissima malattia che aveva colto mia madre nel 2012. Erano sposati da cinquant’anni. Papà, nella vita, aveva superato ogni tipo di difficoltà, ma non ha resistito alla malattia della mamma. Avevo deciso, perciò, di rientrare a tempo pieno in azienda, quando mi arrivò una telefonata da Renzi, che avevo conosciuto mentre era presidente della provincia di Firenze. Mi disse che aveva intenzione di nominare alla presidenza delle principali aziende pubbliche donne brave e competenti. Ero disponibile? Gli risposi che ero lusingata e che – se fosse accaduto – non avrei potuto essere un presidente a tempo pieno. Questo, peraltro, non era previsto. Quattro giorni dopo venni designata dal governo e nominata il 9 maggio 2014.»
Chiedo alla Marcegaglia com’è l’Italia vista dal tetto della nostra prima multinazionale. Non stiamo perdendo troppe aziende strategiche? «Nel mondo globalizzato si compra e si vende. Il problema è che noi vendiamo più di quanto compriamo. Abbiamo un manifatturiero davvero forte, ma i grandi gruppi sono troppo pochi. Dobbiamo ampliare la dimensione dei nostri e puntare molto sulla competitività. Negli ultimi anni qualche passo è stato fatto, parecchie nostre aziende hanno aperto all’estero, ma non basta. Dobbiamo recuperare ancora tra il 15 e il 20 per cento di produzione industriale rispetto ai momenti migliori che hanno preceduto la crisi del 2008. Ci servono scelte politiche e scelte imprenditoriali.»
L’azienda di Emma Marcegaglia, che poco più di vent’anni fa divideva l’unico bagno di casa con la madre, ha investito sull’internazionalizzazione del gruppo, ha uffici commerciali in tutto il mondo e 46 stabilimenti in Italia, Cina, India, Russia, Turchia, Romania, Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania, Brasile, Polonia e Perú.
Quale carburante ci manca rispetto ai tempi di Steno Marcegaglia e di tanti suoi eroici colleghi? La fame? «Forse sì. Allora c’era tutto da costruire e c’erano meno regole di oggi. Adesso è certamente più difficile fare impresa, ma manca anche l’energia, la voglia di crescere, la voglia di dimostrare di essere bravi. E manca la spinta della fame. Mio fratello e io dobbiamo essere grati a nostro padre per averci insegnato che niente è facile, che le cose vanno conquistate con il sacrificio, che il denaro va rispettato. Io ero brava a scuola. Ma dal giorno in cui presi cinque e mezzo in latino, non mi parlò per un mese. “Il tuo mestiere” mi diceva “è essere brava a scuola…”.»
Emma è sposata dal 2001 con Roberto Vancini, ingegnere informatico e direttore generale di Acantho, una società del gruppo Hera da lui fondata insieme ad altri e che si occupa di telefonia. Si autodefinisce «First Sir», principe consorte. «La mia fortuna» mi dice Emma «è che mio marito non si è mai messo in competizione con me, mi ha sempre sostenuto e ha visto questo mio percorso come un suo successo. Abbiamo fatto la scelta sana di non lavorare insieme, al contrario di quanto fecero i miei genitori. Oltre un certo limite, c’è qualche rischio. È dotato di un grande senso di humour. Quando una sera ci sentì chiamare Signora e Signor Marcegaglia, si mise a ridere.»
In Pillole di Venere Cesare Lanza le attribuisce le «seste gambe più belle d’Italia», dopo quelle di Simona Ventura, Alessia Marcuzzi, Paola Barale, Martina Colombari e Marta Flavi. Quando glielo dico, lei si schermisce, ma sa che c’è un fondo di verità. Come nella sua passione irrefrenabile per il cioccolato. Per mantenersi in forma e «gestire lo stress» si alza alle 5 e mezzo di mattina e, quando è a casa, dalle 6 alle 7 corre e fa yoga.
Ha una figlia, Gaia, nata nel 2003. «I ragazzi di oggi vivono in un altro mondo. Gaia, a 3 anni, senza saper leggere e scrivere giocava con Internet.»
Come immagina la sua vita? «Con molte opportunità in più di quelle che ho avuto io, ma con il rischio che i rapporti personali contino meno e che venga meno la capacità di gestire tutte queste informazioni. Si può perdere la voglia di lottare per conquistare le cose, come ha fatto mio padre e anche un po’ la mia generazione. Al ristorante s’incontra una selva di ragazzini che non parlano e giocano con il telefonino. Noi tre, quando stiamo insieme, spegniamo i cellulari. Cerchiamo di gestire le informazioni senza esserne vittime.»
Diana Bracco, la signora Cebion regina di Expo
Nell’autunno del 2015, alla fine della nostra conversazione nel suo ufficio di presidente Expo a Milano, Diana Bracco mi regala una scatola colorata di metallo. Apro, c’è una confezione di Cebion, la più nota tra le vitamine C e il più noto dei farmaci prodotti dalle industrie Bracco, che lo mettono in commercio dal 1934. «Ne prendo una pasticca ogni mattina» mi dice. «La stessa cosa faceva Andreotti, al quale mio padre ne mandava in quantità industriale.» Ma i farmaci ai quali lei è più affezionata sono i mezzi di diagnostica, che hanno consentito nei decenni all’azienda di conquistare mercati in un centinaio di paesi di tutto il mondo.
«Mio nonno Elio» mi racconta Diana Bracco (Milano, 1941) «era un irredentista istriano e per qualche anno fu imprigionato con i genitori dagli austriaci a Graz. Lì conobbe un rappresentante della grande casa farmaceutica tedesca Merck e, nel 1927, aprì in Italia uno stabilimento per la fabbricazione e la commercializzazione dei prodotti Merck. Da giovanissimo, mio padre Fulvio, studente di chimica, durante le vacanze faceva il ragazzo di laboratorio della Merck. Aveva una visione industriale molto avanzata, nel dopoguerra sviluppò l’azienda e costruì il nostro primo grande stabilimento a Lambrate. Nonno Elio diceva al figlio che le sue ambizioni erano eccessive. Alla prova dei fatti, dovette riconoscere “beato il padre che ti ha generato”.»
E continua: «Io a scuola ero bravissima. Dopo il liceo al Parini di Milano, volevo fare medicina. Mio padre la riteneva inadatta a una donna e mi propose farmacia, ma io rifiutai. Giungemmo a un compromesso su chimica, ma ottenni di frequentare a Pavia per non essere troppo controllata dai genitori. Ero la maggiore di tre femmine ed era fatale che entrassi in azienda».
Ci entrò a 25 anni, occupandosi di diversi aspetti dell’attività industriale, ma il grande salto internazionale l’azienda lo fece nel 1981. «Dai nostri laboratori uscì l’Iopamidolo, una molecola dalla quale è nato un mezzo di contrasto per le Tac molto rivoluzionario. Prima si usavano mezzi di contrasto salini, che procuravano sofferenza al paziente, mentre il nostro era del tutto indolore. Ricordo il primo congresso a Washington in cui fu presentato il prodotto. Un professore americano fece le prove dal vivo. Iniettò un mezzo di contrasto salino in un paziente, che provò vistosamente dolore. Poi iniettò quello a base di Iopamidolo e il paziente non sentì niente. Avevamo la coda di americani, giapponesi e tedeschi che chiedevano la licenza. La demmo alla Squibb, e il prodotto fu lanciato per la prima volta in Germania. Lì c’è stato il salto di cui avevamo bisogno per entrare tra i grandi innovatori a livello mondiale e per acquisire i mezzi finanziari necessari a espanderci. Oggi il 30 per cento degli esami di questo genere nel mondo viene fatto con un mezzo di contrasto Bracco.»
L’azienda del Cebion e della Xamamina aveva preso il volo. «Eppure il farmaco al quale sono più affezionata è un altro» dice Diana Bracco. «Si chiama “SonoVue” e ha una storia curiosa. Vent’anni fa venimmo a sapere che un gruppetto di giovani ricercatori aveva inventato a Ginevra microbolle adatte all’ecografia. Comprammo questa start-up, che si muoveva ancora a livello rudimentale, e l’abbiamo sviluppata. Oggi “SonoVue” è in tutto il mondo grazie alla sua capacità di fare diagnosi in modo non invasivo.»
La Bracco parla di microbolle con la tenerezza che avrebbe riversato su figli e nipoti, se ne avesse avuti. «Sono le più belle e servono a creare immagini agli ultrasuoni dalle quali si risale alla diagnosi. In Italia alcuni professori li usano nella microchirurgia. Si sta lavorando su un nuovo filone di interventi sul cervello. Una volta scoperta la tecnologia, cerchiamo le applicazioni più adatte.»
Diventata prestissimo direttore generale dell’azienda e, poi, amministratore delegato, nel 1999 ereditò dal padre anche la presidenza. «È l’anno in cui abbiamo ricomprato dalla Merck il 50 per cento con il quale i tedeschi erano entrati in Bracco nel dopoguerra. E l’abbiamo pagato carissimo…»
Con oltre 1 miliardo di fatturato e 3300 dipendenti in tutto il mondo, per l’Italia la Bracco è assai più di una «multinazionale tascabile». E mentre il dibattito tra economisti si orienta sulle grandi aggregazioni (che in Italia mancano), lei difende le dimensioni familiari. «La grande forza delle aziende familiari sta nella velocità delle scelte» mi dice.
Diana è l’unica delle tre sorelle a occuparsi dell’azienda in modo operativo: «La decisione di puntare su un unico leader è stata di mio padre. Ed è stata una decisione importante».
Nel 2000 è entrata anche nel comitato di presidenza di Confindustria (vicepresidente di Antonio D’Amato per la ricerca e l’innovazione), prima donna con Emma Marcegaglia. Dal 2003 al 2005 è stata presidente di Federchimica e, nel quadriennio successivo, di Assolombarda. Dal 2012 è di nuovo vicepresidente di Confindustria con Giorgio Squinzi.
La questione femminile? «Sono stata fortunata. Non ho avuto problemi a entrare in un’azienda di famiglia e, se sei brava, fare carriera non è difficile. Ho fatto invece fatica come donna nel mondo delle nostre associazioni. In Assolombarda, soprattutto. Gli imprenditori più importanti non venivano, e con i piccoli la convivenza non è stata sempre facile.»
Da qualche anno, però, Diana Bracco ha un grande amore. «Tutta la mia vita è Expo» mi dice. Ne è stata presidente e commissario generale per il padiglione Italia. Il successo crescente dell’esposizione, manifestatosi nell’autunno del 2015 fino alla chiusura del 31 ottobre, ha fatto dimenticare la diffidenza e le angosce che avevano caratterizzato i mesi immediatamente precedenti l’apertura del 1º maggio. Tre inchieste, tra la primavera e l’autunno del 2014, quando era stato arrestato per corruzione Antonio Acerbo, ex responsabile del padiglione Italia (che nel 2015 ha patteggiato la pena), e i colpi di coda nell’aprile 2015 avevano fatto temere seriamente per lo stesso svolgimento della manifestazione. «A novembre 2014» mi confessa la Bracco «mi sentivo una statua di ghiaccio. Eravamo nel pieno di una catastrofe. Abbiamo recuperato grazie allo sforzo enorme di Italcementi, di Intesa Sanpaolo e, soprattutto, grazie alla generosità dei bresciani, che hanno lavorato di notte per costruire l’Albero della Vita, il simbolo di Expo.»
Quando avete capito che ce l’avreste fatta? «La mattina del 1º maggio, il giorno dell’inaugurazione. Avevamo detto: facciamo entrare soltanto i capi di Stato e di governo, e continuiamo a lavorare. Poi, al mattino, a un certo punto è arrivato Marco Balich, curatore della mostra sulle Identità italiane, e mi ha detto: può aprire a tutti. E abbiamo aperto nel pomeriggio, con il cuore in gola: piacerà?»
La Bracco aveva il compito più difficile. «Mettere in mostra il paese in tutte le sue componenti. Mi chiedevo: oddio, come farò? E, invece, hanno partecipato tutti. All’inizio c’era un po’ di diffidenza, poi il pubblico è via via cresciuto e, dall’estate, è cominciata l’ondata di piena, proseguita in misura crescente fino alla chiusura. Ogni sera, diecimila persone hanno assistito allo spettacolo luminoso dell’Albero della Vita. La Merkel, per vederlo, ha ritardato lo slot del volo di rientro, prendendosi anche un bel temporale. I coniugi Netanyahu erano entusiasti: sembravano una coppia di innamorati, lui che fumava il sigaro di nascosto, lei che ha voluto fermarsi per vedere lo spettacolo una seconda volta. Sono arrivati 55 capi di Stato e due regine e, sotto il profilo economico, quando mai i nostri imprenditori hanno avuto tutti insieme interlocutori provenienti da 140 paesi?»
Che immagine dell’Italia è venuta fuori da Expo? «Volevamo che gli italiani ritrovassero l’orgoglio di esserlo. La sera l’Albero della Vita proietta sulla facciata di palazzo Italia la scritta “Orgoglio italiano”. E quando la sera la gente va via, molti dicono: sono orgoglioso di essere italiano. D’altra parte, nei nostri giri per l’Italia per preparare Expo abbiamo avuto conferma del fatto che l’Italia agricola e manifatturiera, con la creatività, riesce a trarre profitto dalle difficoltà.»
Il bilancio di Expo? «Credo che Expo abbia creato una piattaforma di relazioni che contribuisce anche alla pace. Conoscersi aiuta: è bello vedere paesi “nemici” collaborare nella ricerca. Il paradosso è che noi avremmo le tecnologie per sconfiggere la fame, ma le condizioni politiche lo impediscono.»
Che cosa consiglierebbe a una ragazza che vuole affermarsi? «Puntare sulla ricerca e l’innovazione. Che significa, in pratica? L’ideale è avere un laureato forte nelle tecnologie, ma che abbia anche una formazione economica. Il tecnologo puro si ferma in laboratorio.»
Patrizia Grieco, se non fosse stata donna…
«Ogni tanto mi chiedo: se non fossi stata donna, di che cosa sarei stata amministratore delegato? Qualche dubbio ce l’ho. Ma lo dico senza rimpianti. Non ho subìto discriminazioni. Però, forse sarei stata inserita in qualche rosa più prestigiosa. Perché non è successo? Oggi molti ostacoli sono stati rimossi, ma ai miei tempi la posizione delle donne era meno facile…»
Patrizia Grieco (Milano, 1952), presidente di Enel dal 2014, è una donna solare e una nonna felice, ma anche una manager tostissima. Figlia di un imprenditore di elettrodomestici, laurea in giurisprudenza, ha cominciato nel 1977 all’ufficio legale di Italtel, quattro anni prima che arrivasse il ciclone Bellisario. «Quando mi sono laureata, non sapevo che esistesse il mestiere di giurista d’impresa. A Italtel cercavano persone per l’ufficio legale, io conoscevo bene l’inglese e mi misero nel settore contrattualistico. Già dall’inizio, perciò, sono entrata in contatto con la componente business dell’azienda, fino a guidare la linea operativa. Furono anni entusiasmanti: l’azienda era rinata, si stava riposizionando sul mercato internazionale e attraversava un grande processo di trasformazione da elettromeccanica a elettronica. Nel 1999 sono diventata direttore generale di staff. Non essere ingegnere si è rivelato un vantaggio: non capivo che cosa fossero i bit, ma capivo a che cosa sarebbe servita la tecnologia.»
Anche in questo settore l’Italia ha perso un treno… «Nelle telecomunicazioni e nell’informatica avevamo straordinarie eccellenze. Erano gli anni in cui fu chiusa la divisione elettronica in Olivetti. Perché la Bellisario non diventò amministratore delegato di Telettra? Era un personaggio scomodo…» La Grieco ne prese il posto in Italtel nel 2002 come amministratore delegato, per poi diventarlo di Siemens Italia (2003-06), del Gruppo Value Team (2006-08) e di Olivetti (2008-13), azienda di cui assunse la presidenza nel 2011.
C’è sempre un rischio a nominare presidenti gli amministratori delegati. Abituati a comandare, talvolta vogliono farlo prescindendo dalle deleghe. La Grieco non è d’accordo. «In Enel il ruolo di presidente è straordinariamente pieno, il suo perimetro è ben distinto da quello dell’amministratore delegato, e non devono esserci alibi alle responsabilità dell’uno o dell’altro. Ho fatto l’amministratore delegato e so quanto possono essere rischiose situazioni conflittuali che portano alla nascita di fazioni e si riflettono negativamente sull’azienda.»
La componente femminile? «Anch’io sono un manager a tutti gli effetti, non voglio essere qualunquista, ma le donne sono portate con il loro buonsenso a interpretare meglio il bene comune delle aziende.»
La Grieco è anche presidente di Enel Cuore, una onlus che si occupa di progetti «tangibili» di solidarietà in favore delle persone disagiate in Italia e nelle aree povere del mondo. Per questo, nell’agosto 2015 la rivista americana «Fortune» ha inserito Enel al quinto posto tra le 50 aziende di tutto il mondo che, all’interno della loro area di business, sono particolarmente attente alle tematiche sociali. «Non c’è nessun’altra azienda italiana nella lista» puntualizza con orgoglio «e siamo l’unica azienda di utility nella classifica internazionale.»
La presidente di Enel riconosce che la norma che prevede almeno il 30 per cento di donne nei consigli d’amministrazione delle aziende quotate è una «forzatura». «Anch’io ne ho beneficiato. La prospettiva migliore sarebbe stata una crescita paritaria tra uomini e donne, visto che non si può mettere in dubbio la competenza femminile. Ma dato che non si riusciva a venir fuori da numeri troppo bassi, la forzatura era necessaria.»
Non ha la sensazione che le invidie tra donne siano maggiori di quelle tra uomini? «No, credo che questo sentimento sia diffuso in entrambi i generi. Io ho lavorato bene con molte donne e con molti uomini. Sarò anche stata oggetto di invidie, ma credo che tanta gente mi stimi davvero.»
Patrizia Grieco è sposata dal 1978 con un commercialista, ha una figlia avvocato di 34 anni e due nipoti. «Quando la bimba era piccola, ero una madre privilegiata, sia per gli aiuti in casa sia per la presenza di mia madre, che vive anche lei a Milano. Il marito? Per una donna in carriera avere accanto un marito al quale questo provoca frustrazioni è il peggior danno possibile. Perciò, ho molto rispetto per le esigenze della mia famiglia.»
Felice che la sede principale di lavoro come presidente di Enel sia Roma (una città che ha sempre amato), per la prima volta fa la vita da pendolare. («Mio marito viene a trovarmi ogni tanto.») I rapporti con la figlia, avvocato come lei? «Una volta mi ha rimproverato perché giudicava troppo alto il livello di aspettativa che avevo su di lei. Da allora evito qualunque interferenza.»
Sua figlia ha mai desiderato una carriera analoga alla sua? «Non me l’ha mai detto. La scelta di fare l’avvocato è stata spontanea. Ho sempre evitato con grande cura qualsiasi accostamento tra le scelte che ha fatto lei e quello che ho fatto io. Mi dispiacerebbe rappresentare per lei un vincolo.»
Mai trascurato la famiglia per il lavoro? «Bisognerebbe chiederlo a mio marito e a mia figlia. Forse in alcuni momenti sì, ma né l’uno né l’altra me lo hanno mai rimproverato. Credo di essere animata da una forte passione civile. Ma lavoro e famiglia sono state sempre le mie priorità. E siamo stati bravi a preservare la famiglia da influenze esterne.»
In cima alle passioni, i due nipoti. «Una bambina di 1 anno e il maschio di 3, che mi fa perdere la testa.» Presidente, sì, ma soprattutto nonna.
Luisa Todini, la manager dalle quattro vite
Luisa Todini è nata a Cecanibbi nel 1966. «Scommetto che non ha mai sentito parlare di Cecanibbi, frazione di Todi. Capisco: oggi vi risiedono 25 abitanti. Quando ci sono nata io, erano un po’ di più, ma insomma un paesino piccolo piccolo. No, non sono nata benestante. E questo mi ha fatto assaporare il piacere della conquista del benessere a poco a poco. Per i miei primi sette anni di vita non avevamo l’acqua calda. L’abitudine mi è entrata nella pelle: ancora adesso faccio la doccia con l’acqua fredda. Dormivamo con i miei cugini nelle ruvide lenzuola di canapa e d’inverno toglievamo l’umidità con i bracieri messi nel “prete”: ho ancora piccole cicatrici delle scottature. Vita da contadini. Mio padre, nato nel 1933, mise da parte un po’ di soldi da ragazzo, commerciando in cereali. Ma ebbe un’intuizione: che cosa manca in Umbria? Le strade. Bene, io voglio fare il costruttore di strade. Negli anni Cinquanta una zia gli prestò 300.000 lire per comprare una macchina schiacciasassi. Cominciò con quella. Poi, firmando cambiali su cambiali (allora erano un’onta), ne comprò altre e cominciò a fare le massicciate. Nel 1970 vinse il primo importante appalto pubblico, la costruzione della via Pontina. Quindi ci trasferimmo a Roma in una casa più grande e la nostra vita cambiò. [A 37 anni Franco Todini aveva già un’azienda con 100 miliardi di lire di fatturato, che presto sarebbe diventata una holding internazionale.] Adesso si comprende meglio perché mi innamorai di mio padre. Ma, all’inizio, non volevo seguirne la strada. Diventai amica di Diana Dei, la moglie di Mario Riva, che aveva una scuola di spettacolo e diceva che io avevo un po’ di stoffa. Mio padre mi disse: fa come vuoi, ma io ti taglio i viveri. Fu così che mi laureai in legge controvoglia, andai a studiare un anno a Parigi ed entrai nell’ufficio legale dell’azienda.»
Poi, nel 1992 arrivò il ciclone di Tangentopoli… «Mio padre fu tra i primi arrestati, il suo processo è finito con un’archiviazione dopo la sua morte, avvenuta nel 2001. Ricordo la reazione degli operai: andarono in pullman sotto le finestre del carcere. Gridavano: ridateci Franco Todini. Mio padre uscì sconvolto da quell’esperienza. Il mio paese mi ha deluso, mi disse, cerchiamone un altro dove posso rifare quello che ho fatto qui. Scegliemmo l’Argentina: azienda di costruzioni, cava di materiali e in più una grande tenuta. Mi trasferii per un po’ laggiù, in una casa dove mancava la luce elettrica, e feci la vita da gaucho. Era il 1993.»
Ma rientrò quasi subito in Italia. «Il 1994 segnò l’ingresso di Silvio Berlusconi in politica. Tra i giovani di Confindustria ero amica di Stefania Prestigiacomo, che diventò deputato alle elezioni di marzo. In giugno c’erano le europee, e lei mi incoraggiò: tu conosci le lingue, buttati. Mio padre cercò di dissuadermi: gli imprenditori, semmai, sostengono la politica, ma non devono impegnarsi direttamente. Scrissi una lettera a Gianni Letta, lui la girò a Mario Valducci e Roberto Spingardi, che mi proposero di fondare un Club Forza Italia in Umbria. Non avete capito, risposi: io voglio essere candidata. Andai a Milano e li convinsi. All’inizio, mio padre mi disse che avrei dovuto fare tutto da sola, poi vide che sulla scheda c’era scritto il nome della nostra famiglia, pensò a una sorta di riabilitazione dopo la sua vicenda giudiziaria e mi diede il suo pieno appoggio. Presi 90.000 preferenze, risultai seconda eletta dopo Berlusconi. Soddisfeci così anche la mia vecchia aspirazione di fare teatro: la politica è anche palcoscenico, vero? Mio padre mi avvertì: attenta, vincere va bene, stravincere no. Fu un’esperienza interessante, ma quando finì, nel 1999, preferii rientrare in azienda. Due anni dopo, nel 2001, mio padre morì improvvisamente a 67 anni. Dovetti prendere in mano le redini dell’azienda, cercai un partner, lo trovai nel Gruppo Salini, che poi acquistò Impregilo. In seguito ho costituito, nel tempo, una mia holding personale, con interessi nell’energia, nell’immobiliare e in altri settori. Nel 2010, intanto, si era concluso il mio matrimonio con Luca Josi. Ci eravamo conosciuti nel 1999, a una cena di amici comuni: io ero parlamentare europea, lui – molto vicino a Bettino Craxi, come del resto mio padre – aveva cominciato ad andare a Hammamet quando tutti ne fuggivano.»
Che ricordo ha della sua esperienza in Rai? «Anche il mio ingresso nel consiglio d’amministrazione della Rai nel 2012 è stato casuale. Ero presidente dei costruttori europei e rientravo da un convegno a Istanbul con Antonio Tajani, europarlamentare di Forza Italia, che mi sollecitò ad assumere un incarico pubblico per il rinnovo della classe dirigente. Risposi che avrei potuto dare una mano alla Rai. Poiché era utile anche una “presentazione” da parte della “società civile”, sentii Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria: “Se dovete eleggere un imprenditore,” disse “la Todini è gradita”. Grazie alla mia amica Isabella Votino, stretta collaboratrice di Roberto Maroni, la Lega rinunciò a eleggere un proprio membro, se fossi stata eletta io. Così entrai in consiglio in quota centrodestra. È stata una grande esperienza. La Rai è uno spaccato dell’Italia, tutti se ne sentono comproprietari perché hanno il telecomando in mano. Scoprii grandi eccellenze, con qualche sacca di inefficienza. Il problema è che, alla Rai, ogni consigliere pensa di essere un amministratore delegato. Ma oggi non potrei fare il presidente di Poste italiane se non avessi fatto il consigliere della Rai: capitale pubblico al cento per cento, perseguimento dell’interesse generale, un magistrato della Corte dei conti che controlla ogni atto, il rischio di danno erariale. Una responsabilità enorme.»
Come è diventata presidente di Poste italiane? «A Poste italiane sono arrivata con una telefonata di Matteo Renzi nell’aprile 2014. L’avevo conosciuto quando era sindaco di Firenze e gli mandavo ogni tanto un sms per dirgli che apprezzavo il suo coraggio. Lui mi chiamò per chiedermi se me la sentivo di dare una mano. In politica no, nelle aziende di Stato sì, risposi. Era un sabato e il telefono squillò mentre ero al matrimonio di Paolo e Lucia Cirino Pomicino. Due giorni di silenzio, poi il lunedì una seconda telefonata: sei il nuovo presidente di Poste italiane. Lui voleva dare un segnale forte, scegliendo donne. Tutto qui. Non ci sono dietrologie, non ci fu l’intervento dei Poteri Forti. La divisione delle deleghe tra me e l’amministratore delegato? L’amministratore delegato deve avere la possibilità di esercitare in pieno le sue funzioni, ma il consiglio d’amministrazione ha sempre il potere di revocarle. Il 27 ottobre Poste italiane ha fatto il suo debutto in borsa dove è stato collocato il 38 per cento del capitale, tra grandi investitori e piccoli risparmiatori. L’esordio non è stato brillantissimo, ma presidente e amministratore delegato sono sicuri che il titolo darà grandi soddisfazioni.»
Cosa vuol dire per una donna fare carriera? «Quando c’è un’azienda di famiglia, non c’è bisogno di fare le scale: c’è l’ascensore. Dal Parlamento europeo alla Rai, e adesso a Poste italiane, essere donna è diventato un valore aggiunto. Perché? Noi donne siamo geneticamente modificate. Siamo mamme, anche se non abbiamo figli. Lo siamo a 360 gradi: accudenti, accoglienti, interessate. Essere madre è un master di vita. Io ho avuto Olimpia nel 2003, a 37 anni. Dopo la sua nascita sono migliore di prima.»
Monica Mandelli, la signora della finanza
Da lunedì 28 settembre 2015 Monica Mandelli ha cambiato lavoro. Dopo diciassette anni in Goldman Sachs, dove aveva scalato tutti i gradini gerarchici, arrivando a 40 anni a essere managing director dell’investment banking, è passata con lo stesso ruolo alla Kkr (Kohlberg Kravis Roberts). «È la più famosa società al mondo di “private equity” [società specializzate nell’acquisizione di imprese]. Mi hanno fatto un’offerta che non potevo rifiutare» mi dice la Mandelli, che rappresenta una bellissima storia italiana di affermazione internazionale basata unicamente sulle proprie forze.
Eccola, come me l’ha raccontata dal suo ufficio di Wall Street nell’autunno del 2015: «Sono nata a Monza nel 1967 da genitori entrambi imprenditori. Mio padre, ingegnere al Politecnico di Milano, era un uomo eccezionale: il classico imprenditore lombardo, si occupava di macchine per tagliare la carta. Mia madre lavorava nell’azienda di macchinari per l’industria tessile fondata dal nonno. Io sono stata sempre molto studiosa, una prima della classe. Avrei voluto fare qualcosa di creativo in campo artistico, ma i miei volevano qualcosa di più concreto. Ho frequentato un liceo sperimentale (tedesco al posto del greco) e, a 16 anni, ho ottenuto dai miei genitori il permesso di frequentare la quarta classe negli Stati Uniti. Mia madre cedette a malincuore, ma poi si oppose quando chiesi di poter fare l’università in America. “Non voglio perdere mia figlia” disse. Intanto, però, avevo imparato bene l’inglese, cosa che si sarebbe rivelata fondamentale. Mi iscrissi allora alla Bocconi: dottrine economiche e sociali, corso di cinque anni invece di quattro, con tesi sperimentale. Numero chiuso di 100 persone. Non avevo idea di che cosa fosse l’economia, ma mi laureai con 110 e lode, con una tesi sul sistema pensionistico britannico.
«Era il 1993. Pensai di andare negli Stati Uniti per un dottorato di ricerca e di fare, poi, l’economista. Ma un amico americano mi disse: sto lavorando a Londra nell’investment banking, tu saresti bravissima. Io? Ma io ho studiato per fare l’economista, non so niente di finanza. Non preoccuparti, fa lui: leggi questo libro e preparati all’intervista per l’assunzione in Merrill Lynch [famosa banca americana d’investimenti, fondata nel 1914 e comprata da Bank of America dopo la crisi del 2008]. Andai al quartier generale e mi dissero: “Ti vogliamo nel nostro team”. Una ragazzina di Monza di 25 anni trattata come una principessa, accanto a colleghi che studiavano finanza da quando avevano 16 anni. Mi dissi: proviamo, se non mi piace tra un paio d’anni vado via. Furono, invece, due anni entusiasmanti. Compravamo e vendevamo società, facevamo progetti di grande interesse. Imparai che anche da molto giovane puoi avere un tuo punto di vista nella valutazione di una società. Mi sentivo, insomma, al centro del mondo.
«Naturalmente, chi non mi conosceva non mi prendeva sul serio. In aereo mi scambiarono per una hostess. A un meeting a Milano, un signore mi chiese di portargli un espresso macchiato. Glielo porto, se vuole – gli risposi –, ma sono io che tra poco farò la presentazione per cui siete stati invitati. Compresi così molto presto quanto sia difficile essere donna nel mondo della finanza. Avevo bisogno di crescere e andai a Harvard per un master di due anni. Fui l’unica italiana ammessa nel 1996. Capii allora quanto fosse ingiusto che, degli studenti stranieri, solo quelli appartenenti a famiglie benestanti potessero accedere alle grandi università statunitensi. Per avere il visto dovevi dimostrare di aver versato un sacco di soldi in una banca americana. Adesso, anche in Italia le cose vanno un po’ meglio per gli studenti meritevoli, che in America erano aiutati già allora. Nella stanza accanto alla mia, al college, abitava una ragazza di colore di Chicago, poverissima, che però aveva avuto un prestito pubblico che avrebbe restituito in futuro con il lavoro. Io, invece, dovetti contare su qualche risparmio fatto in Merrill Lynch e sull’aiuto dei miei.
«Alla fine del 1998 entrai in Goldman Sachs, uno dei templi della grande finanza mondiale. Da allora ho sempre fatto l’investment banking, occupandomi in particolare di tecnologia nelle telecomunicazioni. Feci la quotazione al Nasdaq [il mercato tecnologico di Wall Street] della prima società giapponese. E poi su su, fino all’incarico di managing director. La carriera delle donne è difficile anche negli Stati Uniti, ma meno che in Italia, perché gli americani guardano di più al merito. Tuttavia, in un settore come la finanza, in cui girano un sacco di soldi, il controllo degli uomini è quasi assoluto. La discriminazione è diventata molto più sottile rispetto a trent’anni fa, quando ti arrivava una pacca o un complimento fuori luogo. Se c’è un’opportunità di carriera, di promozione, nel 95 per cento dei casi, a parità di titoli, il capo sceglie un uomo, perché non corre il rischio di restare incinto, di preferire la famiglia e, magari, di non tornare più. Quando c’è un progetto speciale, si sceglie quasi sempre un uomo. C’è poi un altro fatto: un senior di 55 anni che deve sponsorizzare un giovane di 30, in genere sceglie un maschio che gli ricorda se stesso venticinque anni prima.
«In effetti, un problema esiste. Bravissime ragazze entrano nel mondo della finanza, poi hanno un bambino e, magari, a 37-38 anni lasciano, perché non se la sentono di conciliare la famiglia con un lavoro molto duro o non sentono di avere la capacità di emergere. In Goldman Sachs ero capo del network delle 6000 donne che lavorano nella banca. L’avevamo creato dieci anni fa per aiutare le donne a prepararsi a essere valorizzate e promosse, proprio perché è difficile.
«Lei mi chiede come ho fatto, io, a far carriera, pur essendo sposata dal 2000 e avendo un bambino di 9 anni e due gemelli di 5. Per due ragioni. La prima: la determinazione nel voler dimostrare che una donna, se vuole, può fare tutto. Ho voluto essere un modello per le altre donne. La seconda: sono molto organizzata. Devi prendere la famiglia come fosse un progetto di lavoro e, naturalmente, avere un compagno che ti sostiene, che è la cosa più difficile. Io sono stata fortunata: mio marito è un banchiere come me, siamo sempre in giro, e nessuno di noi deve lamentarsi se l’altro non c’è. Durante la settimana abbiamo aiuti in casa, ma il finesettimana è sacro. Il venerdì sera andiamo tutti e cinque nella nostra fattoria in campagna a due ore da New York: a me piace moltissimo cucinare. Naturalmente si rinuncia agli amici, ma pazienza.
«Che cosa consiglio ai ragazzi italiani? Devono avere una visione internazionale e conoscere perfettamente, dico perfettamente, l’inglese. Poi, devono saper cogliere al volo le opportunità. In Italia? Bene. A Mumbai, in India? Benissimo. Devono essere pronti, senza paura, ad andare dappertutto. Infine, devono avere molta tenacia: senza fatica non si raggiungono gli obiettivi, né di studio né di lavoro. Devono sognare in grande: “Voglio fare l’amministratore delegato”. Poi magari non ci riesci, ma intanto ci hai provato. Un consiglio finale: devono considerare ogni giorno come se fosse l’ultimo. E dare sempre il massimo.»
Susanna Camusso, stretta tra Renzi e Landini
«Chissà che cosa farebbe oggi Giuseppe Di Vittorio» sospira Susanna Camusso girando i begli occhi grigi verso il ritratto del grande sindacalista dipinto da Carlo Levi, che dal dopoguerra è appeso alle spalle della scrivania di ogni segretario generale della Cgil. (Tranne quella dello stesso Di Vittorio, che lo detestava perché vi era raffigurato senza giacca e senza cravatta.) Già, chissà. Lui era un tipo tosto, come Angelo Costa, il presidente di Confindustria con cui si confrontava. Magari s’incontravano di nascosto nel vagone letto Milano-Roma, ma poi firmavano… «Erano i tempi della ricostruzione, si stava tutti sulla stessa barca, c’era una forte legittimazione reciproca. Vittorio Valletta, il capo della Fiat, era durissimo. Ma riteneva giusto non guadagnare oltre dieci volte più di un operaio. Adesso è saltato tutto. La fabbrica ha perso peso, si taglia sul welfare e si punta tutto sull’illusione di un arricchimento infinito, garantito dalla finanza.»
Susanna Camusso (Milano, 1955) è la prima donna segretario generale del più grande sindacato italiano. L’«elemento femminile» è superato o esiste ancora? «Nella forma, nelle cose che si dicono è totalmente superato. Nella sostanza, tra i maschi ci sono ancora indiscutibili elementi di sofferenza, inconsci e non solo. Indubbiamente ci sono modalità su come si esercita il conflitto e su come si interpretano ruoli di responsabilità assai diverse tra uomini e donne. All’interno del sindacato, molti vorrebbero essere rappresentati da un uomo e, all’esterno, molti vorrebbero un uomo come interlocutore. Consentire la carriera a una donna è ancora una gentile concessione. Io, questo conflitto, l’ho vissuto.»
Il primo conflitto sindacale, la Camusso l’ha vissuto in famiglia, quando se ne andò di casa non ancora ventenne, grazie alla legge Fanfani che abbassò da 21 a 18 il limite della maggiore età. «Mio padre la prese malissimo. Per fortuna, la passione per la vela ci ha tenuti profondamente uniti. Ero la minore di quattro sorelle. Lui era beato tra le donne. Aveva lavorato a Ivrea con Adriano Olivetti, veniva dall’esperienza culturale e politica di “Comunità”, era un illuminista di grande spessore culturale. Per noi figlie, un mito. Con lui preparai il mio esame di maturità, con grandi discussioni sulla storia e la filosofia. In famiglia era previsto che le donne lavorassero e si mantenessero. Potevamo leggere qualunque cosa, mentre su alcuni libri altre ragazze subivano la censura.»
La Camusso s’iscrisse a lettere classiche, ma abbandonò l’università a 20 anni per un contratto a termine come coordinatrice di un corso delle 150 ore, i primi permessi retribuiti per i lavoratori che volevano studiare. «Gli anni Settanta furono la grande stagione di rialfabetizzazione di larga parte della classe operaia italiana. Poi entrai in Fiom, il sindacato metalmeccanici della Cgil, e ci sono rimasta ventitré anni.»
Era socialista lombardiana, come il padre. Quindi in minoranza in un sindacato con una forte presenza comunista. «Sì, ma nella Cgil non era un problema la convivenza di queste due culture, e nelle fabbriche si condividevano idee e lotte con lavoratori e militanti democristiani. C’erano vecchi capipopolo che venivano dalla Resistenza e cattolici che portavano avanti la Pastorale del lavoro. La presenza dei partiti nei luoghi di lavoro era molto forte e animava i dibattiti sull’autonomia del sindacato. Io l’ho vista scomparire progressivamente.»
Erano gli anni della grande industria italiana. «Le grosse fabbriche erano tante. A Milano, quando alla Pirelli e alla Breda suonava la fine del turno, uscivano su viale Sarca 15.000 operai. A Sesto San Giovanni gli iscritti alla Flm erano 100.000. Chi vede oggi Sesto, dove pure la riconversione è stata positiva, non può immaginare che cosa fosse quando veniva chiamata la “Stalingrado d’Italia”.»
Rimpiange quei tempi? «No, bisogna interpretare quel che accade. Negli ultimi venti-trent’anni la classe dirigente di questo paese ha fatto un disastro. L’Italia ha disperso tanta parte del suo patrimonio industriale, la qualità del lavoro, il saper fare cose di alto livello. Abbiamo purtroppo inseguito l’onda del “piccolo è bello”, non mantenendo la nostra capacità progettuale e innovativa.»
Eppure siamo ancora il secondo paese industriale d’Europa. «Sì, ma la distanza dal primo, la Germania, è grande, per capacità di innovazione e per dimensione. La dimensione conta. Il tema, oggi, è come recuperarla e come recuperare la nostra grande capacità industriale del passato. Il terziario sostitutivo non ha funzionato sempre. Il tessuto solidale del lavoro produttivo non può essere rimpiazzato dalla commercializzazione di massa.»
Nel 1977 Susanna Camusso si sposò per la prima volta. «Un compagno della Fiom di Milano. Poi lui si trasferì a Roma per un altro lavoro. Gli anni veri in cui siamo stati insieme furono sette. Nel 1986 rividi un vecchio amico. Era giornalista all’Ansa, mi telefonò durante una trattativa tra la Magneti Marelli e l’Assolombarda. Allora si usava consultare chi stava al tavolo. Ci mettemmo insieme, nel 1988 nacque nostra figlia Alice, nel 1998 ci sposammo, nel 2001 il matrimonio finì.»
All’asilo, Alice manifestò qualche sofferenza. «La maestra chiese di disegnare qualcosa sul lavoro che i bambini avrebbero voluto fare e lei disse: mai la sindacalista. Perché? Perché abbandonano i bambini. Più tardi, alle elementari, mi disse: dei miei compagni, sono alcuni papà che vanno fuori per lavoro, da noi è la mamma. Iniziai a convivere con i sensi di colpa. Nel 1993 ero entrata nella segreteria generale della Fiom, che ha sede a Roma. Il patto che sarei stata via da Milano soltanto due giorni alla settimana non funzionò e Alice ne soffrì. Il padre fu straordinario e non ha mai innescato una polemica su questo punto. Alice si è laureata in antichistica, dopo aver vinto un concorso alla Normale di Pisa, e sta finendo un dottorato in storia con una tesi sulla salvaguardia delle opere d’arte durante la seconda guerra mondiale.»
Un altro cervello in fuga? «Lei non vorrebbe, ma il rischio c’è. Dice: l’Italia ha investito su di me e non si capisce perché questo investimento debba essere trasferito all’estero. Ma qui non vede nessuna prospettiva di lavoro, dopo la conclusione del dottorato.»
Negli anni Novanta il ruolo della Camusso nella Fiom crebbe e lei ebbe la delega alle trattative più rilevanti, quelle con il mondo Fiat. «Il baricentro delle politiche sindacali è sempre stato deciso dalla federazione più importante. Con Di Vittorio era la Federbraccianti. Con l’industrializzazione ne ha preso il posto la Federazione metalmeccanica. Negli anni Settanta e Ottanta la figura dell’operaio di catena era emblematica e determinava in gran parte la linea sindacale. Il senso di appartenenza alla Fiom era fortissimo, il rapporto dialettico con la segreteria generale del sindacato era anche molto teso, ma l’idea di sentirsi altro rispetto alla Cgil non apparteneva alla nostra cultura.»
La differenza tra la Fiom di allora e quella di Maurizio Landini? «È questa. Il senso di appartenenza all’organizzazione. L’idea di essere parte della stessa organizzazione è mutata negli anni e sarebbe arbitrario immaginare come si sarebbero comportati i dirigenti di ieri nel mondo attuale. Ma…»
Ma Landini è diventato un soggetto politico. «Non c’è dubbio, interpreta il suo ruolo in modo anomalo rispetto alla storia della Cgil. Tenta di coprire il vuoto politico che si è creato sostituendosi alla politica, facendo entrambi i mestieri: il politico e il sindacalista. Il rischio di fare pasticci e procurare danni ai lavoratori è molto alto, però. Ci sono volute generazioni di dirigenti per arrivare all’autonomia completa del sindacato dal partito. Con Luciano Lama uscimmo dalla Federazione sindacale mondiale perché in Europa c’era l’ostracismo verso i sindacati in cui la componente comunista era prevalente. Bruno Trentin, il successore, sciolse le componenti di partito dentro il sindacato: un tempo molti sindacalisti erano deputati.»
Nel 1997 il segretario della Fiom, Claudio Sabattini, chiese l’allontanamento della Camusso dalla segreteria generale. «Il pretesto fu un accordo che feci all’Alfa Romeo. C’era un processo di mobilità, che fu approvato dai delegati. Sabattini sosteneva che quella decisione non bastava: occorreva un referendum. Risposi che non aveva senso far votare la maggioranza su un problema che riguardava una minoranza che si era già espressa. Persi. Tornai in Lombardia a occuparmi di agroalimentare e scoprii che c’era un altro mondo, e che non era più vero che i metalmeccanici rappresentassero un punto di sintesi del mondo del lavoro.»
Nel 2001 Sergio Cofferati la promosse segretario generale della Cgil lombarda, nel 2008 Guglielmo Epifani la portò nella segreteria nazionale e nel giugno 2010 la fece nominare vicesegretario generale, aprendole la strada alla successione come segretario generale nel novembre dello stesso anno. La Camusso è stata poi confermata nel 2014 per un altro mandato quadriennale.
Il confronto con l’ultimo governo Berlusconi fu quanto mai aspro. «Il ministro Sacconi patrocinò nel 2009 un accordo separato con Cisl e Uil, interferendo moltissimo nel nostro processo unitario di autonomia dall’esecutivo. Sacconi teorizzava la preminenza della legge rispetto agli accordi tra le parti.»
Ma, con il governo Monti e il ministro Fornero, cadeste dalla padella nella brace… «Il nostro paese fu messo sotto tutela. Quel governo non riuscì ad avere né un profilo autonomo dall’Europa né a giocare insieme con l’Europa. Soltanto il panico generalizzato spiega la riforma Fornero sulle pensioni. Ricordo il gelo anche intorno a noi nei luoghi di lavoro: c’era la convinzione collettiva che fossimo sull’orlo del baratro. Quando segnalammo il problema degli esodati, ci risposero che la Fornero sapeva tutto sulle pensioni e non poteva sbagliare…»
Nel campo delle relazioni industriali, gli scontri più duri li avete avuti con Sergio Marchionne, che ha portato la Fiat fuori da Confindustria. «Marchionne è stato un pessimo ambasciatore dell’Italia nel mondo: in questi anni ha descritto il nostro paese come un disastro. Lui ha un’idea fortemente gerarchica dell’impresa, con una contraddizione: a Melfi è stata elevata la scolarità dei lavoratori (anche gli operai, come minimo, hanno un diploma di scuola superiore) e poi lui deprime questa professionalità evitandone ogni coinvolgimento. Anche i ritmi di lavoro sono molto più intensivi rispetto agli altri produttori di auto.»
Al tempo delle primarie nel Pd, nel 2012, la Camusso si schierò con Pierluigi Bersani, dicendo apertamente di temere una vittoria di Matteo Renzi. Per voi, Renzi è una calamità? «Non lo definirei così, perché sono rispettosa dei processi democratici. Ma rappresenta un altro mondo. La sua idea che non si debba investire sul lavoro è profondamente sbagliata e ha determinato un grande conflitto politico. Nel suo primo anno e mezzo di vita il governo Renzi, invece di riforme, ha compiuto delle sottrazioni: diritti al lavoro, equilibrio al sistema costituzionale, competenze ai livelli istituzionali, partecipazione al sistema politico. Tutto in un’idea accentratrice del proprio ruolo, abdicando al dovere di indirizzo e coesione proprio di un presidente del Consiglio e di un capo di partito.»
Perché è contraria al Jobs Act che, bene o male, ha stabilizzato, almeno per tre anni, tanti precari storici? «Non ho capito perché bisogna rendere legittimi comportamenti illegittimi. È un vulnus sulla parte più debole dell’impresa. Renzi non ha voluto investire sul lavoro, mentre in tutto il mondo sono i lavoratori, le loro conoscenze, la loro esperienza la vera ricchezza delle aziende e delle nazioni. Lui, sul lavoro, è riuscito a fare peggio di Sacconi e del governo Berlusconi. Ha lasciato mano libera alle imprese, sperando che queste, grate, innescassero la ripresa. All’inizio fece un annuncio di straordinaria efficacia: sono di fronte a un mercato del lavoro diviso, lo riunificherò. Ha sottratto diritti al tempo indeterminato e non ha riunificato niente. Tuttora i contratti a tempo determinato sono prevalenti.»
Negli Stati Uniti i lavoratori hanno meno diritti che da noi, ma la disoccupazione è crollata. «Lei mi chiede se è meglio lavorare con pochi diritti che non lavorare con tanti diritti. Già, ma dove mettiamo l’asticella dei diritti? Renzi interpreta la crisi attuale come crisi del welfare, invece siamo di fronte a una crisi del capitale. È il mondo dell’assenza di mediazioni e del profitto infinito. Renzi dice: mettiamo in libertà le imprese e avremo un meraviglioso futuro. Io non sono affatto d’accordo.»
In quasi due ore di conversazione, il cellulare di Susanna Camusso era in modalità silenzioso. Non ho potuto sentire, perciò, la suoneria di Blowin’ in the Wind di Bob Dylan. «È del 1963. Ciascuno di noi ha una sua canzone…»
A proposito, perché a molti il suo abbigliamento non piace? «Per questo c’è chi ha da ridire anche sui miei capelli. Ma il tema è: esiste un abbigliamento femminile particolare per il segretario generale della Cgil?»
Annamaria Furlan, la Postina che ammira Marchionne
«Be’, certo, essere donna mi ha comportato il triplo salto mortale con spaccata finale. Perché ho deciso fin dall’inizio di tenere insieme lavoro e famiglia, anzi famiglia e lavoro.»
Annamaria Furlan (Genova, 1958), prima donna segretario generale della Cisl (dall’ottobre 2014), ha conosciuto suo marito da ragazza. «Quando ci siamo messi insieme, io avevo 17 anni, lui 20. Io militavo nella gioventù democristiana, lui in quella comunista. Erano gli anni Settanta e c’era molta tensione. La Federazione metalmeccanici aveva organizzato un incontro per farsi conoscere meglio. Quando mi sposai avevo 20 anni, poi nacque nostro figlio, che oggi ha 36 anni, organizza eventi e fa il dj. Ho provato a scoraggiarlo in ogni modo, poi mi sono arresa alla sua passione. Mio marito è un tecnico di automazione navale. Ed è ancora “il mio ragazzo”.»
La Furlan ha molti punti in comune con Susanna Camusso. È una bella donna, ha un linguaggio curato e una dialettica sicura (niente a che vedere con la simpatica, approssimativa ruvidezza del suo predecessore Raffaele Bonanni). Ha trascorso anche lei tutta la vita nel sindacato: Camusso tra i metalmeccanici, Furlan nei servizi. «Diventare mamma a 21 anni e mezzo» mi racconta «impone drastiche scelte di vita. Avevo fatto le magistrali e l’anno integrativo per iscrivermi a giurisprudenza. Abbandonai l’università dopo due anni, feci tre concorsi, li vinsi, scelsi le Poste. Avevo fatto fin da ragazzina tanta attività politica, a 23 anni dovetti scegliere tra politica e sindacato, e scelsi il sindacato.»
È stata la prima donna a salire tutti i gradini della carriera: a 27 anni segretario genovese della Cisl Poste, a 32 segretario della Cisl Poste Liguria, quindi segretario della Confederazione, prima a Genova e poi per l’intera regione. Nel 2001 il passaggio a Roma come segretario di tutte le categorie di servizi. Quindi vicesegretario generale e, dall’8 ottobre 2014, segretario generale (194 voti su 200) su indicazione dell’uscente Bonanni.
Se la scalata della Furlan al potere nella Cisl è in qualche modo parallela a quella della Camusso nella Cgil, la strategia sindacale è opposta. Il fatto che l’una si sia formata tra i metalmeccanici e l’altra nei servizi ha lasciato un segno nel Dna di entrambe. «Siamo un sindacato di proposta, più che conflittuale» precisa la Furlan. Che approva il Jobs Act di Renzi, criminalizzato dalla sua collega della Cgil. «Valorizza la trasformazione di tanti contratti atipici in contratti a tempo indeterminato. Gli va riconosciuto di aver eliminato un po’ di precariato attraverso la decontribuzione. È innovativo sulle politiche attive del lavoro. Vedremo se il governo le finanzierà.»
E come giudica Sergio Marchionne? «Ha portato la Fiat a essere un’impresa globale, risalendo una china molto pericolosa. È diventato un vero competitore. Mantiene i suoi siti produttivi in Italia, sta assumendo.»
È un ritratto opposto a quello della Camusso, che lo considera l’incarnazione del demonio. «Su molte cose noi due abbiamo un parere diverso. I risultati di un’impresa si giudicano da fatturato, capacità innovativa, occupazione. Se pensiamo a che cosa era la Fiat cinque o sei anni fa, come facciamo a non dare un giudizio positivo su Marchionne? Però…»
Però? «Marchionne ha un difetto: non punta sulla partecipazione dei lavoratori, non vuole coinvolgerli nelle scelte e nelle politiche dell’impresa. Nessun rappresentante nei consigli d’amministrazione e nemmeno, come in Germania, nel comitato di vigilanza e controllo. Una scelta di questo genere garantirebbe un salto di qualità a tutte le imprese italiane. E qui, nemmeno il governo ha fatto passi significativi.»
Se la segretaria della Cisl approva la politica del governo sul lavoro, boccia invece quella sulla scuola. «Sarebbe bastato un migliore dialogo con il sindacato per evitare tanta mobilità. Anche sulla valutazione degli insegnanti sento molte parole inutili.»
Finora la valutazione era mancata… «Noi abbiamo chiesto che per valutare il lavoro dei docenti ci fossero garanzie professionali. I genitori e gli studenti non la possiedono.»
Scusi, ma il panel dei valutatori è stato ampliato perché si è gridato contro il presunto autoritarismo dei presidi. «Sull’istituto va dato un giudizio complessivo. La professionalità di un singolo insegnante va valutata dal preside, dagli altri insegnanti e dagli ispettori ministeriali.»
Cambiamo argomento. La Furlan è favorevole a un’imposta sui patrimoni più rilevanti. «Diamo atto al governo di aver fatto una cosa buona abolendo Imu e Tasi sulla prima casa. Ma per estendere i benefici degli 80 euro anche ai pensionati e agli incapienti chiediamo al 5 per cento delle famiglie italiane – le più ricche – di pagare qualcosa.»
Il benchmark è una rendita catastale di 500.000 euro. «Mi riferisco a chi ha tante case e, soprattutto, ai grandi patrimoni immobiliari di banche e istituzioni finanziarie.»
Grande freddezza sulla riforma della pubblica amministrazione. «Anche qui, per il mancato coinvolgimento dei lavoratori. Per rendere efficiente la burocrazia e tagliare gli sprechi, che sono parenti stretti delle ruberie, non si può prescindere dalla collaborazione di chi sta dentro. La contrattazione decentrata nei comuni e nelle regioni può garantire flessibilità e produttività.»
La stessa soluzione che voi proponete anche nel settore privato. «Esattamente.»
Quando le chiedo se l’idea che pure nel settore pubblico si possa licenziare è sempre traumatica, mi risponde con finto stupore: «In molti casi si può licenziare anche adesso. Ma non è meglio porsi il problema di come rendere produttivo un lavoratore? Se non è coinvolto in quello che fa, subisce, non partecipa e lavora male».
Renzi dice che avete più tessere che idee… Annamaria Furlan si irrigidisce. «Dietro le tessere ci sono persone, donne e uomini in carne e ossa. Ci sono storie di idee e di coraggio. Renzi stia attento alle proposte che hanno caratterizzato la storia della Cisl. Siamo noi ad aver appena prodotto la contrattazione di secondo livello [quella locale e aziendale] per recuperare la produttività.»
Ma intanto il sindacato perde colpi: tra i vostri iscritti, le faccio notare, i pensionati prevalgono sui lavoratori attivi. «Su un punto Renzi ha ragione: è cambiato il modo di produrre e, nei rapporti di lavoro, occorre tenerne conto. È evidente che il sindacato deve cambiare. E dove negli ultimi due anni ci siamo misurati con l’innovazione, abbiamo avuto più iscritti. Grazie a questo, mentre perdevamo tra i pensionati, guadagnavamo tra gli attivi.»
Sbaglio, o anche sui contratti decentrati la pensa diversamente dalla Camusso? «Certo, c’è anche questo. Le nostre analisi sono diverse.»
Mai più unità sindacale, dunque? «Resta sempre un obiettivo importante, ma per parlare di unità bisogna fare insieme le cose.»
Per ora la Camusso proclama scioperi ai quali la Cisl non aderisce. Voi avete proposto che il sindacato che proclama lo sciopero deve rappresentare almeno il 5 per cento dei lavoratori. «Certo, visto che oggi basta lo 0,1 per bloccare un servizio. L’accordo sulla rappresentanza [sottoscritto anche dalla Cgil, ma contestato dalla sinistra radicale e dai sindacati di base] costituisce un buon modello anche per regolamentare questi aspetti.»
Condivide la decisione del governo di considerare l’accesso ai musei e ai siti archeologici un servizio pubblico essenziale, con una restrizione del diritto di sciopero? «Si tratta di un patrimonio formidabile. Ma non bastano provvedimenti spot. Ragioniamo insieme su come tutelare i cittadini e i lavoratori.»
La Cisl, osservo, sui quattrini ha un punto debole. Chiede equità per gli altri, e poi si scopre che i suoi dirigenti hanno stipendi che arrivano anche a 300.000 euro all’anno, quindici volte quelli della maggior parte dei lavoratori dipendenti. «Abbiamo deciso di non consentire più la cumulabilità di stipendi diversi, frutto di diversi incarichi. Tutte le somme incassate per la partecipazione alle diverse commissioni saranno versate alla Cisl. Inoltre pubblicheremo online il quadro C delle nostre denunce dei redditi, in modo che sia accessibile a chiunque.»
Quando un vostro collega, Fausto Scandola, denunciò gli abusi, voi, però, lo espelleste. «Non è stato espulso perché ha denunciato tre casi anomali, ma perché ha animato un battage mediatico che ha dato una versione distorta di tutta l’organizzazione e ha insultato il gruppo dirigente. È stata diffusa un’immagine della Cisl falsa e molto brutta. E ingiusta, perché fondata sui redditi alti di tre dirigenti.»
La Postina ha le idee chiare. Vedremo dove arriverà.