I
Renzi, le donne e tutto il resto
«Una grande squadra per far rinascere Roma»
Il lungo tavolo da pranzo al secondo piano di palazzo Chigi è coperto da una tovaglia candida e apparecchiato per la prima colazione di due persone. Sono le 8 del mattino di venerdì 30 ottobre 2015. Matteo Renzi è tornato da poche ore dal lungo viaggio in Sud America al servizio, soprattutto, degli imprenditori italiani («Ma lo sa che la Merkel va in Cina per l’ottava volta? Dobbiamo muoverci. Muoverci…»). Indossa una delle sue impeccabili camicie bianche. «Quante ne cambio in viaggio? Anche tre. Rappresentano il mio solo momento di relax. Vuole una giornata tipo dell’ultimo viaggio? Osservatorio del Paranal in Cile, trasferimento ad Antofagasta sul mare, passaggio in elicottero a Lima, Perú, sempre a livello del mare, trasferimento con un aereo dell’Aermacchi, venduto al governo peruviano, fino ai 3400 metri di Cusco, discesa con l’elicottero presidenziale fino ai 2500 metri del Machu Picchu, sosta di 27 minuti con tutti che ci dicevano: siete arrivati fin qui, perché non vi fermate? Autobus, elicottero, rientro a Lima. Almeno il relax di cambiarsi una camicia…»
Visto che il libro parla di cento donne d’Italia, partiamo da qui, dal suo governo, che della parità femminile ha fatto un dogma. «La storia comincia lontano, quando ero presidente della provincia di Firenze. Avevo una giunta di dodici persone, dieci uomini e due donne. Ebbi un problema con i Ds (io ero della Margherita) e con un assessore donna. Tolsi quella donna e mi accusarono di sessismo. Il movimento femminista di Firenze mi contestò per mesi. Io, per provocazione, mi autoattribuii la delega alle Pari opportunità, dicendo che il femminismo ideologico doveva lasciare spazio a una visione diversa. E poi dissi: sapete che faccio? Sarò il primo presidente a fare una giunta paritaria: sei uomini e sei donne. Stessa soluzione quando diventai sindaco di Firenze: cinque uomini e cinque donne in giunta. Questa esperienza mi è servita quando sono arrivato a palazzo Chigi. Il contributo delle donne è fondamentale, ma devi dare loro responsabilità vere. In passato, quasi sempre alle donne (poche) venivano assegnati ministeri senza portafoglio. Le mettevano come riempitivo. Come si fa a dare a una brava e preparata come Anna Finocchiaro solo il ministero delle Pari opportunità? Puoi darle l’Interno, la Giustizia, la Difesa. No, allora solo le Pari opportunità, o poco altro. Nel mio governo hanno avuto gli Esteri, hanno la Difesa, lo Sviluppo economico, la Sanità, l’Istruzione, e due ragazze come la Boschi e la Madia hanno in mano le riforme più decisive per il Paese.»
Che cosa hanno le donne in più e in meno degli uomini? Renzi beve un sorso del suo frullato di frutta (in più mangerà soltanto qualche fettina di mela) e sorride: «In meno, niente. In più, sono… tenaci. Diciamo tenaci… Non mollano mai l’osso». Un momento di pausa e poi la staffilata ai giornali. «Leggo commenti preoccupati sulla situazione femminile italiana, eppure sui giornali che li pubblicano faccio fatica a trovare il nome di un direttore donna o un editoriale firmato da una donna. Forse i grandi commentatori hanno difficoltà a riconoscere i meriti del governo anche in questo campo perché nelle loro redazioni non hanno trovato lo stesso coraggio. Eppure, senza donne nei posti di responsabilità il grande rinnovamento italiano non ci sarà mai.»
Rientrando a Roma, Renzi sperava di trovare risolta la «questione romana», con le dimissioni definitive del sindaco Ignazio Marino. E, invece, ha dovuto aspettare questa giornata e le dimissioni della maggioranza dei consiglieri comunali per far decadere il Consiglio e chiudere la questione. «Marino non è vittima di una congiura di palazzo,» mi dice «ma un sindaco che ha perso contatto con la sua città, con la sua gente. Al Pd interessa Roma, non le ambizioni di un singolo, anche se sindaco. E per questo faremo di tutto per fare del Giubileo con Roma ciò che è stata l’Expo per Milano. Questa pagina è chiusa, ora basta polemiche.»
E aggiunge un attacco pesante: «Quando vedo certi addii scenografici mi rendo conto di quanto possa essere falsa la politica. Chi fallisce la prova dell’amministrazione si rifugia nella cerimonia di addio, vibrante denuncia di un presunto complotto, con tono finto nobile e vero patetico. Non mi riferisco solo a Marino, certo. Mi riferisco a quelli che cercano di far credere ai media che sono vittime di congiure di palazzo. Quando uno se ne va dovrebbe spiegare cosa ha fatto, quali risultati ha ottenuto, perché ha perso la maggioranza. I politici si dividono in capaci e incapaci. Non c’è disonestà intellettuale più grande di chi inventa congiure di palazzo per nascondere i propri fallimenti. Se la maggioranza dei tuoi consiglieri ti manda a casa, non si chiama congiura: è la democrazia, bellezza». Ho la sensazione che Renzi alluda anche al suo predecessore, Enrico Letta, con il quale i rapporti sono interrotti dal momento del gelido scambio di consegne a palazzo Chigi.
«Expo è stata la sfida più difficile» mi dice il presidente del Consiglio con un moto d’orgoglio. «Sono arrivato e non ci credeva davvero nessuno. Mi suggerivano di non visitare il cantiere, cosa che ho fatto invece regolarmente ogni tre mesi. Mi suggerivano di non metterci la faccia, perché stavano arrestando tutti, e abbiamo scelto una struttura di controllo fantastica di cui devo dire grazie a magistrati, prefettura e autorità anticorruzione: un senso delle istituzioni da parte di tutti che fa onore all’Italia. Abbiamo gestito la sicurezza con una professionalità dei militari e delle forze dell’ordine di cui essere orgogliosi. Mi suggerivano di non parlarne all’estero e ho insistito con tutti, da Putin alla signora Obama, dalla Merkel a Hollande, dai sudamericani agli africani agli asiatici, da Ban Ki-moon fino al videomessaggio del papa: è diventato un evento internazionale per i principali leader. E le famiglie hanno dato vita a un arrembaggio crescente, sorprendendo anche i gufi più polemici. Adesso che è una sfida vinta posso dire che è un successo per l’Italia, non per il governo. L’Italia fa le cose e le fa bene. E le fa belle. Questo è il nostro Dna. Basta con il piagnisteo!»
Renzi pensa a una squadra per far ripartire la capitale prima delle elezioni di primavera. «Il prefetto Gabrielli è una sicurezza e sta facendo un ottimo lavoro. Sul fronte della città il commissario che dovrà gestire i poteri di sindaco, giunta e consiglio sarà il prefetto Tronca, che a Milano ha fatto un lavoro sotterraneo e straordinario nella gestione di una squadra delicata ed efficace come quella che ha portato al trionfo dell’Expo. Anche a Roma occorrerà una squadra, un dream team. Persone di primo livello su tutto, dalla cultura allo sport, dai trasporti all’istruzione. Non ho il chiodo fisso di fare una bella figura per vincere le elezioni: ho il chiodo fisso di far ripartire Roma. La priorità assoluta è la città. Prima viene Roma. Nel frattempo riorganizzeremo il partito che è dilaniato da correnti interne, incomprensibili ai romani: sono più divisi delle contrade del palio di Siena. Ma almeno lì a Siena c’è una tradizione, una storia e uno spettacolo unico. La rivalità tra democratici di Roma è incomprensibile. Lavoreremo per ricucire e alla fine sceglieremo il candidato. Ma prima, prima di tutto, vengono i bus, le buche, l’aeroporto, le scuole, i giardini, l’illuminazione, la pulizia della città. Ho fatto il sindaco. La gente chiede questo, non filosofie esoteriche.»
Potrebbe essere anche un candidato estraneo al Pd? All’interno del partito si fa il nome di Marianna Madia, all’esterno di Beatrice Lorenzin. «È troppo presto per parlarne» taglia corto Renzi.
«Meglio perdere le amministrative che il referendum»
La conversazione si sposta fatalmente sulle elezioni della primavera 2016 in alcune grandi città italiane: Roma, appunto, ma anche Milano. E più d’uno ritiene che il Pd rischi, appannando l’immagine del presidente del Consiglio. Lui è di diverso parere: «Una città si può anche perdere, ma l’appuntamento chiave per il governo è il referendum dell’autunno 2016 sulle riforme istituzionali. Il risultato favorevole non è scontato, ma una sconfitta sarebbe il vero spartiacque della legislatura. Per evitarla, batteremo l’Italia comune per comune».
Elezioni significa primarie. L’esperienza Marino dimostra che le primarie possono rivelarsi una trappola micidiale. Farle, dunque, o non farle? «Io sono figlio delle primarie. Si può decidere di farle – e allora non possono farsi finte – o di lasciare che il partito rivendichi la scelta dei candidati.»
La sua opzione preferita in questo momento sono sempre le primarie? «Per me sì, sempre: per sindaci, presidenti di regione e segretario-candidato premier. Per le cariche apicali, insomma. Però, con regole chiare. Si ricorda Cofferati? Ha corso, ha perso, è scappato come quei bambini che non rispettano le regole e portano via il pallone. La prima regola è la lealtà: chi perde aiuta chi vince. Altrimenti si possono vincere le primarie, ma si perdono le secondarie.»
E aggiunge: «Mi sembra in ogni caso stravagante che la parte del Pd che le ha sempre esaltate metta in conto alla segreteria sconfitte (il comune di Venezia, la Liguria) dove pure le primarie si erano tenute. Felice Casson, per fare un solo esempio, era frutto delle primarie o no?».
Il discorso sulle città porta a un ripensamento generale anche sul ruolo delle amministrazioni. «Ne parlo spesso con Piero Fassino, il sindaco di Torino e presidente dell’Anci, che è l’interlocutore più preparato» mi dice Renzi. «I comuni sono spesso bloccati dalla rivendicazione dei propri spazi. Per la prima volta, dopo nove anni, non abbiamo toccato i loro bilanci. Adesso mi aspetto da loro un’indicazione strategica sul ruolo delle città. Meno rivendicazioni burocratiche e più visione strategica. Perché sul tema delle infrastrutture ancora non ci siamo. E le infrastrutture non sono tanto le grandi opere, ma il frutto del disegno strategico delle città metropolitane. Diciamolo con franchezza: l’edilizia non è ripartita. E, con essa, è bloccato da mezzo punto a 1 punto di Pil [da 8 a 16 miliardi di euro]. Ripartire non significa saccheggiare nuovi spazi di verde, ma abbattere palazzi e ricostruire anche verso l’alto. Certo, in alcune città storiche non puoi modificare lo skyline, ma c’è moltissimo da fare. La riforma che stiamo completando sulla pubblica amministrazione serve proprio a evitare che ogni progetto resti impantanato tra conferenze di servizi e ricorsi al Tar.»
Il problema, gli faccio notare, è che da voi non si discute soltanto di primarie. Ho la sensazione che una parte della minoranza interna abbia come obiettivo principale quello di far cadere il governo. «Non credo che sia questa l’intenzione. Il desiderio di alcuni esponenti della minoranza è di trovare ogni giorno un elemento di contrasto, immaginando di potermi logorare. Si alzano al mattino e pensano come attaccarmi, quasi a giustificare la loro esistenza in funzione della distanza che li separa da me. È un autogol, un errore che però non mi tocca: fa più male a loro che a me.»
Non credo che non le venga il sangue amaro quando apre certi giornali e legge certe dichiarazioni. «E invece no. Mi sono imposto di non cambiare mai d’umore per una dichiarazione fuori posto o un articolo ostile. Mi lascio scorrere addosso sia la piaggeria sia le critiche. Stiamo ai fatti. Dire che il Jobs Act avrebbe distrutto i diritti dei lavoratori è una sonora sciocchezza, come dire che è un provvedimento di destra. È, invece, la riforma più di sinistra della storia d’Italia. Nell’autunno del 2014 tutti i sindacati mi saltarono addosso, dicendo che quest’anno sarebbe esplosa la cassa integrazione. Invece le ore di cassa sono scese e le aziende stanno assumendo. Il 91 per cento di mutui in più significa qualcosa o no? Io non dico che gli oppositori al Jobs Act dovrebbero scusarsi, chiedo solo un po’ di onestà intellettuale. Il Jobs Act ha restituito credibilità internazionale all’Italia, assieme alla riforma elettorale, a quella costituzionale, all’elezione di Mattarella, alla riduzione delle tasse, alla stabilità di questo governo, ma ha anche creato posti di lavoro, più numerosi e più stabili che in passato.»
E invece la accusano di aver copiato le riforme di Berlusconi. Alcuni provvedimenti, in effetti, li aveva proposti lui. «I nostri sono provvedimenti di buonsenso. Ma se vogliamo stare al gioco destra-sinistra, aver evitato l’aumento dell’Iva, aver investito sull’università e la ricerca, aver stanziato soldi per i poveri e le persone non autosufficienti è di sinistra o no? Berlusconi, le riforme, non le ha fatte. Ci ha provato, ma non le ha fatte. Eppure ha avuto le maggioranze più schiaccianti di sempre.»
Molto divise al loro interno, però… «Ma se aveva Forza Italia completamente a sua disposizione!» ribatte il premier. «Berlusconi è fantastico, è il campione mondiale di alibi. Se non riesce in una cosa, la colpa è sempre degli altri, mentre qui, se non riesco a fare qualcosa, la colpa è mia, com’è giusto. Comunque, le riforme non le ha fatte. Se le avesse fatte, potremmo confrontare le nostre con le sue. Confronto, purtroppo, impossibile. La cosa divertente è che la sinistra italiana lo critica per quello che ha fatto, mentre io penso che la storia lo giudicherà per quello che non ha fatto.»
A proposito di Berlusconi, quali sono i vostri rapporti? «Inesistenti. L’ultima volta che l’ho visto è stato al giuramento del presidente Mattarella.»
Un altro elemento di divisione tra voi. Il Cavaliere sostiene che sull’elezione del capo dello Stato lei è venuto meno agli accordi… «Credo che la costruzione del consenso intorno a Sergio Mattarella sia una scelta di cui il Parlamento deve essere orgoglioso. Berlusconi – e lo dicono anche i suoi amici – in questa vicenda ha sbagliato tutto, mentre il mio comportamento è stato lineare, tenendo sempre al centro l’interesse dell’Italia.»
«Basta parlar male l’uno dell’altro»
Veniamo ora alla sinistra. C’è spazio per un’altra sinistra in Italia? «No. All’interno del Pd c’è un grande spazio ideologico e culturale per la sinistra, ma gli esponenti della minoranza devono liberarsi della logica di parlar male l’uno dell’altro. Fuori di qui non vedo spazi. Pensi alla Grecia, per esempio. Volevano la rivoluzione, adesso sono campioni di riformismo: il governo di Alexis Tsipras è il secondo governo più riformista d’Europa, dopo il nostro. In Polonia si sono confrontati al ballottaggio la destra e l’estrema destra. Nel Regno Unito, i laburisti di Ed Miliband non hanno toccato palla. E non credo che la musica cambierà con Corbyn. In Francia, nei sondaggi i socialisti sono al terzo posto, quindi fuori anche dai ballottaggi. In Germania, Angela Merkel è contestata da destra, certo non impaurita dai socialdemocratici che per il momento risultano non pervenuti. Se fossi un dirigente della sinistra italiana, mi preoccuperei di costruire bene il Pd, non di minacciare scissioni. Farlo significa non aver letto un giornale europeo da almeno un anno. Trovo, per esempio, in Gianni Cuperlo un ragionamento serio su qual è lo spazio per una sinistra che voglia mantenere gli ideali della giovinezza in un mondo che cambia. Meno serio è l’atteggiamento di chi ogni giorno cerca un’agenzia di stampa per una chiosa contro il governo.»
Però, qualcuno se ne sta andando. «Corradino Mineo? Un anno fa annunciò le dimissioni da senatore dopo aver offeso in modo squallido i bambini autistici. Disse: ho sbagliato, me ne vado. È sempre lì, a spiegare come va il mondo. Al massimo si dimette dal Pd, ma la poltrona non la lascia, per carità. Chi va a raggiungere Landini, Camusso, Vendola, Fassina faccia pure. Io non seguo la logica del vecchio Pci: mai nemici a sinistra. Se si vuole militare in una sinistra di testimonianza, d’accordo. Ma, con questa sinistra, certo non si può governare. Guardi dove stanno andando tanti socialisti europei: Robert Fico, leader socialista slovacco, ha sull’immigrazione posizioni più simili a quelle della Lega o di Orbán che alle nostre…»
A proposito, non trova sgradevole e ingiusto che la Merkel si veda a quattr’occhi con Hollande per discutere non solo di Ucraina, ma anche di cose che ci toccano molto da vicino, come appunto l’immigrazione? «Lo hanno sempre fatto seguendo un meccanismo che, a mio giudizio, non produce risultati positivi per la credibilità delle istituzioni europee. Ma era anche frutto di un’Italia in crisi di reputazione e autorevolezza. Per anni loro hanno corso su pista e noi abbiamo dovuto scalare il passo del Mortirolo. Adesso le cose cambiano. L’accordo tra Francia e Germania è positivo, ma un grande problema ce l’ha l’Unione europea, come ci dimostrano le elezioni polacche.»
Torniamo alle riforme: anche quella sulla scuola è di buonsenso. Eppure c’è stata una rivolta che, forse, lei non si aspettava. «Mi aspettavo le contestazioni, ma mi ha colpito a livello personale il fatto che mie amiche insegnanti abbiano fatto sciopero senza conoscere la riforma. Non ce l’avevamo con te, mi hanno detto, ma protestavamo per la scarsa attenzione alla scuola. Scarsa attenzione? Più soldi alla scuola, più soldi ai professori, maggiore partecipazione. Noi dobbiamo ribaltare il senso di stanchezza dei nostri insegnanti, che quasi sempre sono davvero bravi. Certo, se un giorno vado in una scuola di Siracusa e succede l’inferno perché i bambini cantano una canzoncina… Da allora ho smesso di andare nelle scuole per una forma di rispetto istituzionale. Ma è stato un errore, perché il rapporto diretto con questo mondo è indispensabile.»
Da destra ai 5 Stelle, tutti l’hanno accusata di fare la legge di stabilità in deficit. «Ma de che?, come dicono a Roma. Ma se è la prima che riduce il rapporto del debito con il prodotto interno lordo? Non abbiamo fatto la spending review? Spending è un nome figo per dire tagli. Dove? Noi paghiamo ogni anno 250 miliardi di euro di pensioni. Tagliamo lì? Io penso sia un errore. Alcuni correttivi proposti dall’Inps di Tito Boeri avevano un valore di equità: si sarebbe chiesto un contributo a chi ha avuto più di quanto versato. Non mi è sembrato il momento: dobbiamo dare fiducia agli italiani. Se metti le mani sulle pensioni di gente che prende 2000 euro al mese, non è una manovra che dà serenità e fiducia. Per carità, magari è pure giusto a livello teorico. Ma la linea di questa legge è la fiducia, la fiducia, la fiducia. E, dunque, non si tagliano le pensioni. Abbiamo aumentato i soldi per la sanità da 110 a 111 miliardi. Il punto, adesso, è costringere le regioni a spendere meglio i soldi che hanno, anziché lamentarsi per quelli che vorrebbero. Sono tutti commissari alla spending con i soldi degli altri. Le prime tre voci sono: pensioni, sanità, personale. La prima non si tocca, la seconda si aumenta, quanto alla terza puoi solo ridurre il turnover, certo non licenziare la gente. Abbiamo fatto una manovra sugli acquisti, molto seria, e sui tagli alla politica. Ma poi basta con questa retorica del “Fate poca spending e troppi tagli”: la spending in italiano si traduce “tagli”. Non puoi avere botte piena e moglie ubriaca.»
«Faremo il ponte sullo stretto di Messina»
A proposito di investimenti, Renzi rilancia il ponte sullo stretto di Messina. «Certo che si farà, il problema è quando. A Messina abbiamo mandato l’esercito con le autobotti perché mancava l’acqua e le autorità locali non riuscivano a risolvere il problema. Ora, prima di discutere del ponte, sistemiamo l’acqua di Messina, i depuratori e le bonifiche. Investiamo 2 miliardi nei prossimi cinque anni in Sicilia per le strade e le ferrovie. E poi faremo anche il ponte, portando l’alta velocità finalmente anche in Sicilia e investendo su Reggio Calabria, che è una città chiave per il Sud. Dall’altra parte dobbiamo finire la Salerno - Reggio Calabria. Quando avremo chiuso questi dossier, sarà evidente che la storia, la tecnologia, l’ingegneria andranno nella direzione del ponte, che diventerà un altro bellissimo simbolo dell’Italia. Ma primum vivere, avrebbero detto i latini. Ora abbiamo le autobotti per Messina. Poi penseremo al resto. Con un’avvertenza. Noi, i soldi per la Sicilia, non li facciamo spendere ai soliti. Facciamo pulito. Abbiamo già iniziato, del resto. Non sono solito guardare dal buco della serratura delle intercettazioni. Ma scoprire che i dirigenti dell’Anas corrotti si dicono “Sbrighiamoci, perché Renzi qui vuole cambiare tutto” mi conferma in ciò che stiamo facendo con il nuovo presidente Armani. In certe strutture la rottamazione è ancora poco: occorre disintegrare e disinfettare.»
I suoi avversari, da Forza Italia alla minoranza del Pd, le contestano anche una brutta legge elettorale. «Be’, detto anche da quelli che hanno fatto il Porcellum…» ironizza Renzi. «Questa legge, grazie ai ballottaggi, garantisce la certezza della vittoria. I candidati nei collegi dovranno tornare a guardare in faccia gli elettori, mentre prima veniva eletto il numero 27 di una lista che nessuno, magari, aveva mai visto. A dimostrazione che prima di oggi il sistema non ha mai funzionato, ci sono 63 governi e 27 presidenti del Consiglio in meno di settant’anni.»
La legge premia una lista che può vincere anche con pochi voti. È vero che state ripensando alla possibilità che il ballottaggio si faccia tra coalizioni? «Non ci sto ripensando. Io preferisco il premio alla lista. È più logico, è in linea con il partito a vocazione maggioritaria, che è la natura del Pd. Poi è ovvio che non abbiamo totem ideologici. Nessuna legge da sola garantisce la governabilità. È il sistema politico che deve farlo.»
Continua a pensare che la politica non sarà la sua professione per sempre? «Per carità.» Renzi scruta con lo sguardo i damaschi dorati alle pareti e aggiunge: «A Berlusconi tutto questo giallo piaceva tanto. Boh… Sperare di stare qua dentro a tempo indeterminato? No, farò il mio lavoro con molta decisione fino al 2018. Quella sarà la mia ultima campagna elettorale. Se dovessi vincere, arriverei fino al 2023. Poi basta. È la cosa che mi dà più serenità. Spero davvero di cambiare questo paese per poi occuparmi d’altro. È la grande lezione delle democrazie anglosassoni. Thatcher, Blair, Reagan, Obama… Sa che con Obama abbiamo parlato più di una volta di quello che farà dopo il 2017? La sua Fondazione, viaggi, vacanze…».
Quando vede i suoi figli?, gli chiedo prima di congedarmi. «Li vedo poco. Quando ci sono, nei finesettimana. Ormai sono grandi: Francesco 14 anni, Emanuele 12, Ester 9. Abbiamo scelto con Agnese – che fa un lavoro straordinario – di non portarli a Roma. Avrebbero più contraccolpi che benefici. Fanno la vita di sempre, almeno loro…» Accarezza l’iPhone: i giochini a distanza aiutano…
Maria Elena Boschi, la nuova Merkel disegnata da Botticelli?
E se fosse la nuova Thatcher? E se fosse la nuova Merkel? Con il vantaggio di essere molto più giovane e molto più bella? E perché persino l’«Economist», sempre arcigno con i politici italiani, dopo il voto sulla riforma del Senato ha scritto che lei ha saputo far meglio di Wonder Woman, la supereroina dei fumetti anni Quaranta?
Mentre, alle 7 del mattino, attraverso i corridoi deserti del ministero delle Riforme a largo Chigi per raggiungere il suo ufficio, penso che Maria Elena Boschi (Montevarchi, Arezzo, 1981) è di gran lunga la donna più potente dell’intera storia italiana. In passato le Riforme e l’Attuazione del programma di governo venivano assegnati a un notabile che non si sapeva bene dove altro collocare, trattandosi di due ministeri storicamente inutili. E i Rapporti con il Parlamento erano destinati in genere a un vecchio marpione di fiducia del capo del governo, abituato da decenni a svernare sui divani di pelle del Transatlantico di Montecitorio, di cui conosceva ogni piega polverosa. E invece, un bel giorno, a palazzo Chigi arriva con un blitz il ragazzone di Rignano sull’Arno, il dottor Matteo Renzi – come sta scritto nel «sottopancia» governativo, visto che non è né deputato né senatore –, assegna i tre ministeri a una ragazza di Laterina alla prima legislatura, e lei trasforma in un battibaleno, proprio come nella favola di Cenerentola, la vecchia zucca nella carrozza alata della Politica. L’unica con la quale, allo stato attuale, Maria Elena risulti fidanzata.
Ecco, deve essere lei. Alle 7 e un quarto, l’ora del nostro appuntamento, sento nel corridoio un passo svelto scandito da un tacco dodici. E, infatti, è la ministra. Abito rosso Valentino (anche se a quest’ora non può essere un Valentino), scarpe in tinta, capelli biondi sciolti genere Botticelli, ovale Primavera, i famosi occhi mare-di-Ponza che, anche per lei, sono il semaforo dello stato d’animo: in genere dolci e seduttivi, ma, se serve, duri e affilati.
So bene che parlare con lei di Potere è tempo perso, ma ci provo. «Io non sono potente. Sono soltanto una persona che cerca di lavorare molto, di impegnarsi per quanto può. Seguo tanti tavoli, dentro questo ministero e fuori: stiamo tenendo ritmi incredibili per portare a casa i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Do il mio contributo, seguendo quello che è un atteggiamento coerente della mia vita. Ma io non gestisco niente, a parte il mio lavoro. Il potere è un’altra cosa…»
Quale, se è lecito? «Le vere donne di potere sono quelle che hanno un ruolo chiave nella finanza e nell’impresa, un peso a livello internazionale.»
Abbia pazienza, mi faccia il nome di una donna che ha, o ha avuto, un’incidenza politica come la sua. «Le donne dell’Assemblea costituente, per esempio. Donne come Nilde Iotti, che hanno scritto la Carta fondamentale. Noi siamo riusciti a cambiarla, ma le basi le hanno poste loro. O come Tina Anselmi, il primo ministro donna, e le sue colleghe presenti nei primi governi con una componente femminile. Persone che hanno lasciato un segno profondo nella battaglia per i diritti delle donne nel lavoro, nella valorizzazione della dimensione personale, nella scelta di una vita autonoma, nella dignità fisica. In uno scenario in cui esisteva ancora il matrimonio riparatore.»
È incontestabile che lei abbia voce, di dritto e di rovescio, su tutte le riforme del governo Renzi: «Dipende dal fatto che le mie deleghe mi danno competenze più trasversali. Il governo è come un ospedale con molti capireparto. Io sto al pronto soccorso, devo guardare un po’ di tutto e sono il capo della squadra di pronto intervento».
Ed è incontestabile che il presidente del Consiglio si fidi soprattutto di lei. «Io so come la pensa lui. Riesco a immaginare più di altri quel che farebbe lui su certi temi. Ma questo dipende dal fatto che, nel governo, sono la persona che ha con Renzi il rapporto di collaborazione di più lunga durata. C’è un rapporto di fiducia che funziona secondo meccanismi ormai molto collaudati. Quando fai insieme le campagne elettorali, condividi ogni scelta, e ogni passaggio diventa fatalmente molto rapido. Questo accade anche con Luca Lotti e, via via, con Graziano Delrio, con Paolo Gentiloni…»
Ci siamo incontrati in questo ufficio un anno fa, nell’autunno del 2014. Sembra passato un secolo… «La verità è che in venti mesi di governo abbiamo fatto molto, una prima legge di stabilità che ha favorito l’occupazione e una seconda – quella sul 2016 – espansiva, per far ripartire i consumi. La riforma del mercato del lavoro, della scuola e della pubblica amministrazione, la legge elettorale, la riforma del Senato. Abbiamo introdotto per la prima volta gli ecoreati, rivisto il falso in bilancio e l’autoriciclaggio, introdotto il divorzio breve. Dai governi Monti e Letta abbiamo ereditato 889 decreti attuativi e ce ne restano 270, mentre abbiamo già varato il 63 per cento di quelli che attuano le nostre leggi. Adesso stiamo provvedendo a una certa “ripulitura legislativa”. Decreti vecchi ormai non servono più, e quindi è inutile perdere tempo a adottarli.»
Già, ma lei interviene spesso in aula anche su materie che non sono sue. «È il lavoro di pronto soccorso di cui le parlavo prima. A volte capita di dover sostituire qualche collega che ha altri impegni istituzionali. E quando devo parlare di temi non miei, me li studio. Quando? Alzandomi un’ora prima la mattina.»
A che ora si sveglia, in genere? «Non prestissimo, verso le 6 e mezzo. Ma se devo studiare, anche alle 5.»
E quando va a letto? «Quasi mai prima dell’una. Ma l’una mia sono le 10 e mezzo di una persona che fa un lavoro normale…» Poi sorridendo: «Esco davvero poco».
«Bisogna essere allegri, senza prendersi troppo sul serio»
«Mi piacerebbe andare al cinema o a teatro, ma come si fa? Mi muovo un pochino di più dell’anno scorso. Durante la settimana le giornate sono davvero pesanti» mi racconta la Boschi. «Una serata, però, me la prendo. I miei amici storici di Firenze, quelli con i quali ho fatto l’università o cominciato l’avvocatura, vengono a trovarmi una volta alla settimana e ceniamo insieme. Chi sono? Francesco Bonifazi, Federico Lovadina, che continua a fare l’avvocato a Firenze, Enrico Mugnai, anche lui avvocato, e Gaia Nardone, che fa il notaio. Incontro le altre amiche storiche nei finesettimana a Firenze.»
È la stessa cerchia con cui trascorre le vacanze? «Sì, questa estate siamo andati alcuni giorni a Formentera. Da anni facciamo vacanze insieme, ma stavolta i paparazzi ci hanno beccato.»
Sempre single, vero? «Sìììì. Adesso le racconto una cosa. Ho due fratelli: Emanuele, che vive tra Arezzo e Firenze, e Pier Francesco, che abita in Sicilia. Ogni tanto uno dei due viene a trovarmi. Entriamo in un ristorante e il proprietario mi dice sottovoce, con aria complice: abbiamo preparato una saletta. E io: guardi che è mio fratello. La stessa cosa alla sfilata del 2 giugno 2015. Nessuno conosceva l’uomo che mi stava a fianco. Giornalisti e fotografi scatenati. Anche stavolta era mio fratello.»
Vabbè, ma prima o poi, con la legione di corteggiatori che ha… «Ma no, non è così. E poi, guardi, anche per essere corteggiate ci vuole tempo.»
Eppure, nonostante anche questa mattina si sia alzata all’alba, non ha certo l’aria stanca e trasandata. Trucco perfetto («Ma quale trucco?» si schermisce), abbigliamento sobrio ma elegante. A proposito, oggi ha scelto il rosso, ma si parla addirittura di un «blu Boschi»… «Il blu mi piace davvero tanto, in tutti i suoi toni. Ma mi piace anche il rosso. Bisogna essere allegri, senza prendersi troppo sul serio…»
Se è vero che i corteggiatori scappano, lo fanno perché mi dicono che la sua faccia d’angelo nasconde un carattere di ferro. «Così amabile nei modi, così dura nelle risposte» ha detto il deputato Alfredo D’Attorre, suo compagno di partito. «Io non sono dura. Le pare che, se lo fossi, avremmo accettato 140 modifiche al testo iniziale della riforma del Senato? Posso dirle che non condivido tutte le scelte alle quali ci hanno portato le mediazioni? Io non sono per l’accordo a prescindere, non bisogna abbassare l’asticella più di tanto. Comunque, sono soddisfatta, perché non sono state svilite le linee guida della riforma. D’altra parte, come diceva l’ex presidente della Consulta Paolo Rossi, toscano come me, la Carta non è un blocco di granito e nemmeno un giunco, ma è fatta di un acciaio duttile.»
Sulla riforma del Titolo V della Costituzione, che nel 2001 assegnò poteri giganteschi alle regioni, avrei sperato in un ritorno più massiccio di poteri allo Stato. «Anch’io sono più statalista che regionalista, ma abbiamo dovuto trovare un punto d’incontro. Non è facile agire quando i parlamentari sono regionalisti su tutti gli argomenti, tranne quelli trattati dalla commissione in cui stanno. In ogni caso, nonostante le mediazioni, abbiamo tolto alle regioni competenze su energia, infrastrutture, ambiente, concorrenza…»
Avrebbe tolto ancora qualcosa? «La formazione professionale, e poi, con la competenza regionale sul turismo, lo Stato fa fatica a portare avanti una propria strategia.»
Sbaglio, o se le regioni sono carenti su certi temi, il governo può sostituirsi a loro? «Sì, ma deve motivare bene l’interesse nazionale che è chiamato a tutelare.»
Nella riforma del Senato, visto che i senatori scendono da 315 a 100, non sarebbe stato meglio eleggerli? «In Senato devono esserci sindaci e consiglieri regionali, perché non puoi togliere alle regioni poteri legislativi tornati allo Stato con la riforma del Titolo V della Costituzione e non dargli rappresentatività al Senato.»
Di mediazione in mediazione, però, andrà a finire che eleggeremo noi i senatori-consiglieri. «In sede di attuazione, bisognerà scegliere tra opzioni diverse. Quando si elegge il consiglio regionale, si possono indicare i consiglieri da mandare in Senato, o ci può essere una lista che già individua i candidati senatori di un certo partito, oppure mandare in Senato chi ha avuto più preferenze. A me non piace il listino bloccato, e nemmeno l’idea che vadano al Senato i più votati. Preferirei una seconda colonna in cui poter scegliere con un pallino il mio consigliere-senatore. Ma, per ora, è soltanto una mia idea.»
Quando useremo il nuovo sistema elettorale? «Nel 2018 saranno i consigli regionali, già eletti, a scegliere i senatori al proprio interno. D’altra parte, la prima volta nella storia repubblicana fu il presidente della Repubblica a nominare i senatori. Poi, via via, il nuovo sistema entrerà in funzione.»
Maria Elena Boschi viene da una famiglia cattolica di Laterina, in provincia di Arezzo. I genitori hanno militato entrambi nella Dc, e lei è stata chierichetta in parrocchia e la Madonna nel presepe vivente del paese.
Bene, le dico, come le è venuto di cantare Bella ciao ai funerali di Pietro Ingrao? «Perché quel canto è ormai un patrimonio comune di tutti gli italiani, fa parte della storia del nostro paese legata alla liberazione dal fascismo e a una fase nuova della nostra democrazia. Capisco che a molti ricorda anche momenti di sofferenza e di dolore, ma ho ben radicati valori repubblicani e democratici anche di sinistra, nonostante io venga da una tradizione più moderata.»
Qual è il futuro della bella ministra? Anche gli avversari le riconoscono capacità personali e solidità politica non comuni. Tra i suoi ammiratori c’è persino Berlusconi, e non solo perché è una bella ragazza. Se il Pd vincesse le elezioni del 2018, qualcuno ne parla come della prossima presidente di una Camera dotata di poteri assai maggiori degli attuali. Lei scuote la testa. «Ho ancora molto da fare e da dimostrare. Sono al mio debutto parlamentare e governativo, e fino a due anni fa non avevo mai fatto politica, nemmeno a livello locale.»
Però, l’esperienza le piace… «Molto, non la vivo affatto come un sacrificio. Ora bisogna completare le riforme, vincere il referendum confermativo, e ho la grande fortuna di vivere queste esperienze da giovane.»
Quando Renzi dovesse lasciare, potrebbe essere lei la candidata a palazzo Chigi. «Finché c’è Renzi – e ci sarà per lungo tempo – il problema non si pone. È la persona più brava su piazza e mi fa piacere che mi abbia chiamato a condividere il suo progetto politico. Poi, quando lui avrà finito, si vedrà. Ma, in politica, un mese è un’era geologica…»
Marianna Madia e la riforma dello «Stato introvabile»
Prima di scegliere le ministre del suo primo governo, Matteo Renzi deve aver visitato, per un ultimo ripasso, l’ala rinascimentale degli Uffizi. Perché, oltre a Maria Elena Boschi, anche Marianna Madia (Roma, 1980) sembra uscita da un dipinto di Botticelli.
Nata cinque mesi prima della collega, Marianna è invece sposata e ha due bambini. Il primo ha 4 anni, la seconda è nata poco dopo la sua nomina a ministro. «Il passaggio da un figlio a due mi sembra come da uno a venti. Ho diviso la mia vita a metà. Durante la settimana mi sveglio all’alba» mi dice «e rientro quando loro, purtroppo, già dormono. Per fortuna, supplisce mia madre. In compenso, difendo fermamente il finesettimana, sacrificando la parte politica del mio lavoro: sto con loro e con mio marito.»
Figlia del giornalista Stefano Madia, nostro collega di «Porta a porta» morto a 49 anni, collaboratrice di Enrico Letta all’Arel (l’Agenzia di ricerche e legislazione fondata da Nino Andreatta), svezzata politicamente da Walter Veltroni, che la mandò alla Camera già nel 2008, Marianna ha ricevuto da Renzi la «missione impossibile» di riformare la pubblica amministrazione.
Quando la incontrai per la prima volta a palazzo Vidoni nell’autunno del 2014, le dissi che generazioni di ministri si erano impegnati inutilmente nel compito, a cominciare da quel Roberto Lucifredi al quale, nel 1951, De Gasperi affidò tale incarico. Un anno dopo la Madia mi parla della riforma approvata: entrerà completamente in vigore entro il febbraio 2017, con la scadenza dell’ultima delega sul riordino del pubblico impiego, ma ha già un primo passaggio operativo. Dal 28 agosto c’è il silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche, compresi i gestori di pubblici servizi. «Entro trenta giorni» mi spiega il ministro «l’amministrazione è obbligata ad assumersi una responsabilità. Se non risponde, il procedimento si forma come se l’amministrazione l’avesse approvato, con le responsabilità che ne conseguono. Ha altri trenta giorni di tempo per chiedere chiarimenti, che salgono a sessanta per questioni che riguardano l’ambiente e la salute. Ma, entro un massimo di novanta giorni complessivi, il ciclo si esaurisce.»
Un esempio sui novanta giorni? «Un cittadino chiede al comune di poter fare un intervento che comporta il parere della soprintendenza. Finora il soprintendente poteva non rispondere, e il provvedimento restava bloccato. Adesso, se entro tre mesi non risponde, il comune potrà considerarlo un assenso, attribuendone al soprintendente la responsabilità. C’è il rischio che crescano i no, ma il ricorso alla giustizia amministrativa è diventato più celere da quando abbiamo dato ai Tar tempi certi per rispondere ai ricorsi negli appalti.»
Le chiedo di farmi un altro esempio nei rapporti tra amministrazioni. «La maglia nera dei ritardi finora era del ministero dell’Economia, perché deve dare pareri su moltissimi argomenti. Per gestire le risorse serve il “concerto” tra diversi ministeri e, se l’Economia non ti dà il suo, il provvedimento è incagliato. Adesso deve rispondere entro un mese e, se non risponde, è come se avesse detto sì.»
Sembra tutto facile, ma le amministrazioni possono ricorrere all’autotutela, parola incomprensibile per noi cittadini, ma che significa buttare la palla fuori campo per guadagnare tempo. «L’autotutela è la possibilità riconosciuta a ogni amministrazione pubblica di revocare un proprio atto, ma soltanto se scopre che è illegittimo. Finora l’annullamento era possibile entro “un tempo ragionevole”. Adesso il termine è fissato in diciotto mesi.»
Insomma, il comune che voglia revocare un permesso edilizio ha un anno e mezzo per ripensarci. Giro al ministro una storia incredibile, segnalata dal presidente di Confindustria Ravenna, Guido Ottolenghi, a Michele Brambilla della «Stampa» il 9 ottobre 2015. La famiglia Ottolenghi ha comprato nel 1983 villa Pliniana, uno dei gioielli del lago di Como. Ha potuto metterci piede trentadue anni dopo, il 5 settembre 2015, al termine di una lotta contro la burocrazia che avrebbe scoraggiato chiunque. Regione, comune, provincia, comunità montana, unione dei comuni, soprintendenza, vigili del fuoco, magistrato alle acque, magistrato del Po, navigazione del lago di Como. «Ogni volta che qualcuno modificava qualcosa» racconta Ottolenghi «tutto tornava indietro agli altri. La soprintendenza, poi, aveva l’ultima parola su tutto.»
Con le nuove norme cosa accadrebbe? «Nel primo quindicennio, a quanto pare,» risponde la Madia «il blocco è stato determinato da questioni ideologiche, per cui era meglio far andare in rovina un monumento che recuperarlo secondo quella che, per ciascuna amministrazione, sarebbe la soluzione ottimale. Per il resto ci sono troppe procedure connesse, troppe amministrazioni coinvolte e nessuno strumento per costringerle a coordinarsi. Con la nuova legge si semplifica sia il quadro degli attori coinvolti, riconducendo i diversi uffici statali alle prefetture (non dovrebbe essere più possibile che prima la soprintendenza dica una cosa e poi i vigili del fuoco un’altra), sia la conferenza dei servizi, per cui nessuno, nemmeno le soprintendenze, avrà poteri di blocco, e le amministrazioni dovranno parlare con una voce sola. Infine, mentre oggi il privato deve chiedere permessi alle diverse amministrazioni, da domani la domanda sarà unica, e l’amministrazione che la riceve dovrà acquisire tutti i permessi necessari.»
I 32 anni spesi dalla famiglia Ottolenghi a quanto si ridurrebbero? «In un caso del genere si farebbe certamente la conferenza dei servizi. Nell’ipotesi peggiore, dovrebbero trascorrere 170 giorni (70 al massimo per la “non simultanea”, 60 al massimo per la “simultanea”, 40 al massimo per la fase di eventuali ricorsi).»
Secondo il governo, il miracolo di questa drastica riduzione dei tempi sarà possibile al più tardi dal 28 agosto 2016, la data in cui scade il termine per l’approvazione dei decreti attuativi che riguardano l’ennesima riforma delle conferenze dei servizi per le opere pubbliche. Il ministro ha appena detto che i diversi uffici statali saranno ricondotti alle prefetture. I soprintendenti hanno protestato, sostenendo che i prefetti non capiscono niente di questioni ambientali. «Infatti devono coordinare gli uffici territoriali, che saranno accorpati per non parlare cento lingue diverse. Sabino Cassese dice che lo Stato è introvabile. Il nostro obiettivo è di mettere il cittadino nelle condizioni di trovarlo.»
Resta il pasticcio delle province. Ne avete abolito i consigli, ma non le funzioni, e il personale resta nel limbo… «Le province resteranno a occuparsi di scuole e di strade, in attesa che la riforma costituzionale le cancelli. I dipendenti sono in tutto 39.000. La metà si occuperà delle funzioni residue, gli altri saranno trasferiti. I primi 1000 sono passati il 15 ottobre 2015 a rinforzare le cancellerie dei tribunali, sempre a corto di personale.»
E il ruolo unico dei dirigenti? «È la parte finale della delega che completeremo nel 2016. I bravi faranno carriera all’interno del ruolo unico [potranno, cioè, essere trasferiti da un’amministrazione all’altra], quelli che non lavorano bene potranno essere sanzionati o anche licenziati.»
Non ci aveva già pensato Renato Brunetta? «Le norme di Brunetta sullo scarso rendimento restano. Ma il suo processo sanzionatorio era troppo complesso, noi lo abbiamo semplificato. In definitiva,» conclude con aria soddisfatta la Madia «credo che la nostra sia la prima riforma della pubblica amministrazione concepita per il paese, come motore della ripresa.»
Federica Mogherini, l’Alto commissario volante
Dunque, Lady Pesc… «No, per carità. Semmai, meglio Alto commissario e vicepresidente…» A Federica Mogherini (Roma, 1973) l’acronimo di capo della Politica Estera e Sicurezza Comune (Pesc, appunto) dell’Unione europea proprio non piace. Ma il ruolo sì. E ha ragione. Aver raggiunto a 41 anni l’incarico di ministro degli Esteri europeo, dopo essere stata negli otto mesi alla Farnesina il più giovane ministro degli Esteri d’Europa, era un traguardo impensabile per una ragazza che ha cominciato la sua carriera politica nella sezione del Pci di Ponte Milvio, a Roma, la stessa frequentata da Enrico Berlinguer quando lei non era ancora nata. «Mio padre Flavio, regista, non s’interessava di politica e certamente non era di sinistra. Mia madre, come interessi politici, non andava al di là della lettura della “Repubblica”. Ho incrociato la politica come rappresentante d’istituto del liceo classico Lucrezio Caro, ai Parioli, una scuola anch’essa certo non di sinistra. Erano gli anni della prima guerra del Golfo e in Italia, nel 1989, c’era stato il primo drammatico approccio con l’immigrazione con lo sfruttamento nella raccolta dei pomodori a Villa Literno. Venni, perciò, in contatto con la società multiculturale, l’assistenza agli immigrati. A 16-17 anni si resta quel che si fa…» mi racconta la Mogherini.
A 16 anni s’iscrisse alla Federazione giovanile del Pci, «ma nel 1990 – un anno e mezzo dopo averlo fatto – lasciai l’attività di partito perché la campagna antirazzista si trasferì nei circoli dell’Arci». Cinque anni di volontariato durante l’università (laurea a pieni voti in scienze politiche alla Sapienza) e, poi, il ritorno alla politica nel 1996, a 23 anni, seguendo i problemi dell’integrazione razziale e del Medio Oriente. «Volevo fare la giornalista. Mi interessava raccontare il mondo e l’attualità politica. Non avrei mai pensato che diventasse la mia professione. È accaduto tutto in modo così naturale…»
Assistente di Veltroni quando era sindaco di Roma, ha fatto carriera nel partito, guadagnandosi nel 2008, a 35 anni, il seggio da deputata, confermato da Bersani nel 2013. In quel momento Federica era nettamente antirenziana. Le leggo alcuni dei tweet dell’autunno 2012, quando Renzi era in competizione con Bersani e perse le primarie. Per esempio: «@matteorenzi un po’ troppo sul passato per essere l’uomo del futuro» oppure «#terzaelementare. Ok, Renzi ha bisogno di studiare un bel po’ di politica estera… non arriva alla sufficienza, temo».
Il presidente del Consiglio l’ha perdonata, evidentemente. Lei ride: «Ma no, non c’era bisogno… Ci conosciamo da diversi anni e ci siamo subito riconosciuti come persone franche, che si comunicano apertamente quel che pensano. Nella vita di partito ci si dicono tante cose…».
Il loro rapporto è migliorato, al punto che si è sentita proporre uno dei più alti incarichi di governo. «Avevamo parlato della possibilità che entrassi nel governo, ma vai a sapere… Poi, un pomeriggio, mi arriva la comunicazione per sms e WhatsApp…»
Ministro degli Esteri. La Bonino ci restò malissimo, si aspettava la conferma. «È vero, e capisco la sua amarezza. Io stessa avevo espresso il parere che confermarla sarebbe stata una buona scelta. Avevamo lavorato bene insieme. Ma lei fu una delle prime persone a rallegrarsi con me. Ci siamo viste il giorno stesso del mio insediamento alla Farnesina, ci fu un lungo scambio di consegne e lei è stata sempre estremamente leale. Il nostro lavoro comune è continuato in modo costruttivo. Resto convinta che, quando si porta a casa qualche risultato, certe cose alle donne riescono meglio.»
Come si spiega la durissima battaglia che Renzi ha condotto per portarla a guidare l’Alto commissariato? «Con la sua scelta di investire molto in politica estera e di investire sulle donne. Noi siamo il governo più giovane d’Europa e abbiamo giocato sulla parità femminile. Oggi io sono il più giovane commissario europeo.»
Qualcuno allora contestò a Renzi la rinuncia a un ministero europeo più vicino agli interessi dell’Italia. Lei è vicepresidente, ma stando sempre in giro ha poco tempo da dedicare ai dossier… «Non è vero. Lady Ashton, che mi ha preceduto in questo incarico, non aveva i poteri e le competenze che al mio ufficio sono assegnate oggi. La vera forza del mio ruolo sta nel fatto che io sono stata votata due volte, al contrario degli altri: dal Parlamento e dal Consiglio europeo. Questa doppia legittimazione è unica e, se usata bene, ha un’enorme potenzialità, sia in politica estera sia nel lavoro di vicepresidente. Io ho quattro uffici, ma non è un caso se ho messo quello principale nel palazzo della Commissione. Coordino cinque commissari sulla cooperazione, il commercio, l’energia, il cambiamento climatico, l’immigrazione. E si sa quanto l’immigrazione sia importante per l’Italia.»
Non trova frustrante che tutte le decisioni più importanti vengano prese da Francia e Germania, anche in un settore, come l’emigrazione, che ci riguarda da vicino? «È vero, ci sono alcuni paesi come Francia e Germania che per esperienze coloniali, posizione geografica e ragioni belliche sono abituati a gestire insieme fenomeni complessi. Non a caso il Parlamento europeo si trova a Strasburgo, al confine tra i due paesi. L’Italia ha scoperto la tragedia dell’immigrazione negli anni Novanta, altri a est stanno vivendo soltanto adesso questa esperienza, subendo un forte shock culturale e politico. Ma il lavoro comunitario è stato eccezionale: un anno e mezzo fa sarebbe stato impensabile arrivare alla condivisione di oggi.»
Gli accordi di Dublino prevedono che il paese in cui sbarcano gli immigrati debba tenerseli. Per l’Italia è stato un disastro. «Quel protocollo non ha retto all’urto. È in corso una seria revisione.»
È un fatto, però, che solo l’invasione da est abbia toccato nervi che, prima di allora, erano scoperti unicamente per noi. «Abbiamo avuto due ondate emotive. Per gli italiani, un risveglio collettivo molto crudo avvenne con la tragedia di Lampedusa del 2013. Il richiamo di quel vaccino emotivo è avvenuto nell’estate del 2015 con la rottura dell’argine orientale. Se si fossero ascoltati prima gli avvertimenti dell’Italia, la gestione di questa ondata sarebbe stata più ordinata.»
Non trova, in ogni caso, sgradevole che Angela Merkel e François Hollande si vedano da soli anche quando parlano di Libia, che dovrebbe essere un affare soprattutto nostro? «Quando si parla di Libia, siamo sempre in 28, e il ruolo guida dell’Italia sulla vicenda libica è universalmente riconosciuto. Il fatto che sia toccato a me, italiana, uno dei tre incarichi di vertice dell’Unione è la conferma che non ci sia, né debba esserci, un direttorio. Quando sono arrivata qui a Bruxelles nel 2014, il format dei negoziati sui rapporti tra Russia e Ucraina prevedeva la sola presenza di Francia e Germania. Adesso ci sono anch’io, e la consultazione su questo e sugli altri temi più delicati è quotidiana.»
La Mogherini è stata accusata di essere filorussa. «Appena nominata ministro degli Esteri italiano, ho fatto tre viaggi per segnare l’attenzione del nostro paese ai temi fondamentali» tiene a precisare. «Il primo a Mosca e in Ucraina. Il secondo in Israele, per incontrare il premier Netanyahu e il leader palestinese Abu Mazen. Il terzo nei Balcani occidentali, che sono la porta orientale di casa nostra. I risultati si vedono. Nell’autunno del 2015, all’Assemblea generale dell’Onu a New York, Netanyahu mi ha detto di essere favorevole alla creazione di uno Stato palestinese.»
Russia e Ucraina si metteranno finalmente d’accordo? E quando? «Sono stati fatti passi avanti molto importanti rispetto all’inizio del 2015. Spero che ci sia presto una conclusione positiva.»
Quando le chiedo come si immagina il suo futuro, la Mogherini mi risponde con grande franchezza: «Non lo immagino. Mi restano quattro anni di mandato. Saranno impegnativi e difficili, ma anche bellissimi. Il mio mestiere mi piace, anche se mi prende molto. In sei giorni a New York all’Assemblea dell’Onu ho avuto 58 incontri. Faccio in media quattro viaggi a settimana…».
Federica Mogherini ha un marito e due figlie. Dimenticati? «Li vedo troppo poco. Le bambine sono rimaste a Roma fino a giugno 2015 per finire l’anno scolastico. Poi si sono trasferiti tutti a Bruxelles. Le vedo la mattina presto e, quando ci sono, la sera per metterle a letto. Cerco di darmi una regola consigliatami dalla ministra della Difesa tedesca, che ha sette figli. Al primo Consiglio europeo mi ha preso da parte e mi ha detto: ogni settimana prendi l’impegno di passare con i tuoi almeno 48 ore. Poi, magari, diventeranno 24, ma intanto provaci.»
E suo marito che ne pensa? «Ci siamo conosciuti a Strasburgo nel 1997 al congresso dell’organizzazione giovanile del Partito socialista europeo. Lui lavorava al Parlamento europeo. Ci siamo messi insieme nel 1999 e sposati nel 2004. Per seguirmi, ha preso un’aspettativa, ma adesso riprenderà…»
Roberta Pinotti, la pacifista innamorata della Difesa
Il sogno (nascosto) di Roberta Pinotti (Genova, 1961) era di cambiare posto sulla Flaminia presidenziale che il 2 giugno passa in rassegna i reparti per la festa della Repubblica. «Da quando mi occupo di difesa» mi disse nel 2014 per Italiani voltagabbana «sognavo di fare il ministro. Salire sulla Flaminia scoperta con Giorgio Napolitano è stato il coronamento di un percorso.» La particolare attenzione di Matteo Renzi per le donne in ambito politico e istituzionale per un po’ aveva lasciato immaginare che stesse pensando a un Quirinale al femminile. Se ne parlava ormai da molti anni, ma alla fine era sempre stato eletto un uomo.
Sino all’autunno del 2014, sembrava verosimile che la Pinotti, primo ministro della Difesa donna della nostra storia, fosse la prescelta: avrebbe così occupato il posto d’onore nella sfilata, a fianco del nuovo ministro della Difesa. Per la verità, già nel colloquio con Renzi per lo stesso libro ebbi la sensazione di un raffreddamento di questa ipotesi, e i retroscena dell’elezione del nuovo presidente contenuti in queste pagine dimostrano che le donne entrarono solo marginalmente nella trattativa tra maggioranza e opposizione, e che il nome della Pinotti non comparve mai. Così, il 2 giugno 2015, lei scortò nella sfilata Sergio Mattarella, occupando sulla Flaminia lo stesso posto dell’anno precedente.
Laureata in lettere moderne e insegnante di italiano nei licei, la Pinotti è stata capo scout, ha sposato un medico e ha due figlie. Alla sua formazione cattolica ha affiancato una sicura convinzione antimilitarista. Salvo poi modificare la sua opinione quando ha visto l’altra faccia della luna, cioè quando è entrata in contatto con il mondo militare e ha capito che i primi a non desiderare la guerra sono proprio gli uomini con le stellette.
La Pinotti è arrivata a occuparsi di difesa quasi per caso e dopo una lunga gavetta politica. Alla fine degli anni Ottanta era consigliere di circoscrizione del Pci a Sampierdarena, poi ha fatto carriera come assessore comunale e provinciale alla Scuola e alle Politiche giovanili, fino a diventare segretario provinciale dei Ds nel 1999, raccogliendo un partito a pezzi. Il rapporto con i comunisti e i postcomunisti della sua città è sempre stato pessimo. «Mi hanno fatto eleggere deputato nel 2001 per togliermi di mezzo» mi disse nel 2014. La misero nella commissione Bilancio, che lei trovava noiosissima. «Nessuno dei miei compagni, tradizionalmente, voleva andare alla Difesa, così mandarono me.» Fece esperienza e nel 2006, quando il centrosinistra vinse le elezioni, la nominarono presidente della commissione, ruolo strategico per i rapporti con i vertici delle forze armate.
Ma lo shock politico più forte lo subì nel 2012, quando si tennero le elezioni per il comune di Genova. Siccome era stata fin dall’inizio del decennio precedente una delle «clienti» più assidue di «Porta a porta», le facemmo gli auguri, convinti che sarebbe diventata il «nostro» sindaco. Ma il partito si mise di traverso, e lei non superò nemmeno l’esame delle primarie. Sospettò che qualcuno della segreteria Bersani ci avesse messo lo zampino e se la legò al dito. Quando, nel settembre 2013, incontrò Renzi per la prima volta, gli chiese di dare maggiore potere alle donne. «Ci siamo piaciuti» mi disse. E la nomina a ministro della Difesa ne fu la diretta conseguenza.
«Faccio il ministro della Difesa, non della Guerra» precisò in una delle prime interviste. Appena arrivata, si trovò la grana degli F35, gli aerei da caccia multiruolo sul cui acquisto l’Italia si era impegnata con la Nato in un programma trentennale. Di fronte a chi chiedeva che l’accordo fosse cancellato con un tratto di penna, ricordò che prima occorre stabilire qual è il nostro programma di difesa e poi assegnare le risorse. Da allora la polemica si è molto sopita.
Nel 2015 – al contrario di altri ministeri – la Difesa non era chiamata a grandi riforme, ma Roberta Pinotti ha sostenuto con energia sia la decisione del governo di prolungare la permanenza dei nostri 750 uomini in Afghanistan, sia quella – presa anch’essa in ottobre – di rafforzare la partecipazione alla guerra contro l’Isis in Iraq, armando i nostri Tornado già presenti nell’area con compiti di ricognizione.
C’è, poi, la grande incognita del comando italiano della coalizione internazionale nelle operazioni di pace in Libia. Renzi lo caldeggia. La Pinotti lo annunciò, ma tra il dire e il poter fare…
Federica Guidi, il mondo visto dall’emisfero opposto
«Com’è il mondo visto dall’emisfero opposto? Be’, credo che dovrei pagare Matteo Renzi per avermi dato l’opportunità così eccitante di vedere la vera rivoluzione culturale di questo paese in una prospettiva completamente diversa.»
Federica Guidi (Modena, 1969) ha bevuto cultura industriale nel biberon. Suo padre Guidalberto, notissimo industriale meccanico ed economista, è stato per dieci anni vicepresidente di Confindustria, cioè sempre «dall’altra parte», dalla parte degli imprenditori italiani – anche quelli illuminati – in eterno conflitto con i sindacati e con il governo. Lei, dopo la laurea in legge e un paio d’anni d’attività come analista finanziaria, è entrata nell’azienda di famiglia, la Ducati Energia (oltre 100 milioni di fatturato, con diversi stabilimenti all’estero). Ma proprio in fabbrica, nei reparti, come è giusto che sia se il figlio del padrone vuole capire come funziona la macchina. E gli operai a dire: «Oh Signore, ci mancava anche questa. L’unico figlio di Guidi è femmina e ci tocca anche spiegarle come funziona un condensatore…». Poi è salita, salita, fino a diventarne vicepresidente, incarico da cui ovviamente si è dimessa nel momento della nomina a ministro dello Sviluppo economico. Anche lei, come papà, ha scalato i gradini di Confindustria: prima vicepresidente dei Giovani con Matteo Colaninno, e poi, fra il 2008 e il 2012, presidente junior, mentre Emma Marcegaglia era presidente senior.
Giunta nel bellissimo palazzo Piacentini di via Veneto (fatto costruire da Mussolini per ospitarvi le Corporazioni), la Guidi ha avuto un primo ripensamento: «Devo correggere il giudizio ingeneroso corrente sulla pubblica amministrazione. Lavoro con grandi servitori dello Stato, dotati di una competenza incredibile. Abbiamo eccellenze valutate male».
Il giudizio sul sindacato – al di là della cortesia dettata dal ruolo istituzionale – non mi pare invece cambiato («È lento, appartiene al Vecchio Mondo» aveva detto prima della nomina). «Abbiamo risolto insieme gravissime crisi produttive, da Termini Imerese alla Whirlpool. Ma vedo ancora un ancoraggio eccessivo a logiche passate. Il mondo è cambiato e, anche quando alla fine troviamo un accordo, ci arriviamo per vie farraginose. Certe logiche non hanno più senso.»
Il giudizio del ministro è un po’ mutato anche verso il suo mondo di riferimento. «Basta licenziamenti!» ha gridato una volta. E oggi tiene a precisarmi: «Lo dicevo anche da imprenditore. Sono fiera di far parte di quella categoria che considera insostituibile il ruolo sociale dell’impresa e dell’imprenditore. Se il governo gli mette a disposizione una “cassetta degli attrezzi”, l’imprenditore ha il dovere di utilizzarli facendo al meglio il proprio mestiere».
E quali sarebbero gli attrezzi? «Aver tolto il monte salari dal calcolo dell’Irap viene incontro a un’esigenza storica di Confindustria. E poi il credito d’imposta sulla ricerca, i superammortamenti. I dati ci confermano che è la strada giusta.»
Possiamo davvero parlare di ripresa economica? Quando torneremo alla situazione del 2008, anno d’inizio della crisi? «L’Istat di fine ottobre 2015» mi risponde «ci dice che la fiducia delle imprese è tornata a quei livelli. Ma c’è molto da recuperare. In questi sette anni non abbiamo avuto una crisi, ma una guerra.»
Abbiamo perso 11 punti di Pil… «Un punto lo riprendiamo nel 2015, uno e mezzo nel 2016. Ma la scalata non può funzionare se non si cambia modo di fare impresa in un mondo profondamente diverso da quello di sette anni fa.»
Ammetta, però, che anche la «sua» Confindustria è invecchiata… «Vale in parte lo stesso discorso fatto per il sindacato. Le regole del gioco sono cambiate per tutti, si viaggia a una velocità completamente diversa, e le logiche delle rappresentanze intermedie – datori di lavoro e lavoratori – devono aggiornarsi.»
In attesa dell’aggiornamento, le faccio notare, la Fiat di Marchionne se n’è andata. Ha fatto bene? Il ministro glissa: «È una scelta aziendale».
Sbaglio, o il concetto stesso di contratto nazionale sta morendo? «Una cornice nazionale non è sbagliata, perché la realtà imprenditoriale è fatta anche di piccole aziende che non sono pronte a gestire soltanto contratti integrativi. Ma il contratto nazionale dovrebbe essere semplificato. Alleggerito e focalizzato su pochi punti, perché il vero valore aggiunto sta nei contratti di secondo livello.»
E i disoccupati? Ce ne saranno ancora tanti per parecchio tempo? «Non vedo altro modo per far ripartire l’occupazione se non far ripartire l’industria. I posti di lavoro sono una conseguenza degli investimenti. Per fortuna, i segnali ci danno ragione.»
Anche per i consumi interni, la nostra maggiore incognita? «Sì, ce lo conferma pure la grande distribuzione.»
E suo padre, le dà qualche consiglio? «Non lo vedo quasi mai e, quando lo vedo, parliamo di mio figlio, che ha 4 anni ed è la vera cosa meravigliosa della mia vita.»
A proposito, come concilia il suo impegno istituzionale con la famiglia? «Sono stabilmente accasata, da decenni, con il papà del nostro bambino. La casa? Non so più quale sia. La base è in campagna, a Modena, il mio compagno è siciliano e, quindi, un altro pezzo di casa è là. In più, da quando sono ministro ne ho affittata una a Roma…»
Beatrice Lorenzin, renziana dai tempi di Berlusconi
È Lavinia, di 4 mesi, a stabilire che il mio colloquio con il ministro della Salute è finito. Piagnucola perché è l’ora della poppata pomeridiana e il signor ministro deve allattarla. Il fratello gemello, Francesco, sembra meno esigente, ma la madre dice che mi sbaglio: «È più capriccioso». L’allattamento costringe felicemente Beatrice Lorenzin (Roma, 1971) a tirarsi dietro i gemelli ovunque vada. «A 44 anni la mia vita è cambiata completamente. Sono stata travolta da un’inondazione d’amore che mi ha portato a vedere ogni cosa in una prospettiva diversa. Si guarda più agli altri che a se stessi. Se mai sono stata egoista, oggi lo sono ancor meno.» Il compagno della Lorenzin, Alessandro Picardi – manager oggi alla Rai – «collabora, così come è impossibile non fare quando si hanno due gemelli».
«Borgatara» per autodefinizione, dopo il diploma di liceo classico la Lorenzin ha fatto la gavetta vera fin dall’alba di Forza Italia: circoscrizione, consiglio comunale, vita di partito. Portata per mano da Antonio Tajani, si è fatta benvolere per preparazione e grinta, addolcita dai capelli biondi che le hanno valso l’appellativo «Meg Ryan del PdL». Si dice che l’infatuazione politica per Berlusconi sia stata immediata, dopo una trasmissione televisiva. Diventò coordinatrice del movimento giovanile di Forza Italia nel Lazio, poi capo della segreteria del portavoce Paolo Bonaiuti quando il Cavaliere era a palazzo Chigi, infine parlamentare dal 2008.
Insieme ad Angelino Alfano, Beatrice Lorenzin è il ministro con maggiore anzianità di servizio. Assegnata alla Salute dopo le elezioni del 2013 nel governo Letta, un anno dopo è stata confermata da Renzi. E allorché Berlusconi ha deciso di passare all’opposizione, lei e gli altri ministri di Forza Italia sono rimasti al loro posto sotto la bandiera del Nuovo centrodestra. Ora la Lorenzin è fortemente sospettata dai suoi di essere pronta a farsi traghettare nelle file del Pd.
Quando le ricordo il suo entusiasmo per il Cavaliere, mi dice: «Sono stata una vera berlusconiana in tutta la mia vita di partito. Ho creduto in un progetto che adesso, paradossalmente, sto realizzando in un governo postideologico, che rappresenta la cifra di questo momento storico».
È la ragione per cui ha mollato il centrodestra? «È il centrodestra ad aver mollato me e milioni di elettori che avevano creduto in una visione che non c’è più. Io sono rimasta dove stavo, sono una moderata popolare. Forza Italia non è più quella delle origini ed è andata a spiaggiarsi su Salvini, mentre Renzi ha impresso alla sinistra un cambiamento molto forte, portandola verso le posizioni di centro. Appena qualche anno fa non avrei mai immaginato niente di simile.»
Una sera dell’autunno 2015 la Lorenzin disse a «Porta a porta» che alle elezioni amministrative del 2016 il Ncd avrebbe dovuto allearsi con il Pd, e la cosa fece un certo rumore. «Sarebbe incoerente fare un’alleanza di governo diversa da quella nelle città» mi spiega. «A patto che i nostri candidati sindaci rispondano alle caratteristiche del nostro governo. Se invece fossero marcatamente di sinistra, andremmo da soli.»
Alla domanda se è pronta a entrare nel Partito democratico, lei risponde risolutamente di no. E nel Partito della Nazione di cui si favoleggia? «Del PdN, oggi non si parla. Parlerei piuttosto di Coalizione della Nazione, con le regole che ci sono ora.»
Da quando il 30 ottobre è decaduto Ignazio Marino con l’intero consiglio comunale, il nome della Lorenzin è tra i possibili candidati di Renzi e Alfano a sindaco di Roma. Anche se lei mi risponde terrorizzata: «E come farei con due gemelli?».
Nei primi due anni e mezzo di mandato come ministro della Salute, la Lorenzin non si è fatta mancare niente: Stamina, fecondazione eterologa, carni rosse cancerogene… «E poi le polemiche sulle vaccinazioni, un caso di aviaria e tre di Ebola… È un ministero in cui non ci si può distrarre, ma anche un’esperienza molto bella, perché puoi realmente incidere sulle cose.»
La sanità italiana costa 111 miliardi. Ogni anno si parla di tagli o di mancati aumenti, le regioni strillano, i nordisti virtuosi accusano i sudisti spreconi. Un film che ha più repliche di Pretty Woman. «Noi siamo bravissimi» ribatte il ministro con un filo di provocazione «perché, pur avendo uno dei servizi sanitari migliori del mondo, spendiamo meno di Francia, Germania e Gran Bretagna. Il problema è di rendere più produttivo il sistema, risparmiando una trentina di miliardi nel giro di qualche anno e reinvestendoli nell’efficienza interna.»
Come si può risparmiare una cifra simile, se tutte le regioni dicono di essere alla canna del gas? «Nelle piccole cose. Con le centrali uniche d’acquisto regionali o anche nazionali, come nel caso dei vaccini. Sa quanto si spreca con l’eccesso di prestazioni autorizzato dai medici che hanno paura di essere denunciati e si mettono al riparo anche con esami e ricette non necessari? 13 miliardi all’anno.»
Ma è una follia! «Appunto. E allora stiamo riscrivendo le norme per evitare che si possa abusare nelle denunce e per tutelare meglio i medici. Un medico di talento, in certi interventi delicatissimi, deve avere la libertà di poter uscire da quanto previsto strettamente dai protocolli. E noi dobbiamo intervenire per proteggere le sue capacità. E poi abbiamo stabilito nuove norme sul personale. In Italia abbiamo oltre 100.000 medici ospedalieri e un numero ancora superiore di infermieri. Bene, i 111 miliardi vengono spesi da poco più di 200 manager [139 Asl e 89 aziende ospedaliere e universitarie]. L’Ocse conferma che abbiamo uno dei servizi sanitari migliori del mondo e che le nostre aree critiche sono la frammentazione regionale e una classe di manager inadeguata.»
E allora? «A parità di valore dei medici, se una Asl ha un bravo manager funziona, se ne ha uno pessimo va a rotoli. Abbiamo deciso, perciò, di istituire un albo nazionale, obbligando i candidati a direttore generale e a direttore sanitario delle aziende a frequentare un master di management sanitario presso la Scuola di alta formazione della pubblica amministrazione. Se l’assessore vuole il suo direttore generale, deve bandire un concorso e attingerlo da lì. Se il manager non rispetta gli obiettivi per i quali è stato assunto, decade automaticamente.»
Finiranno mai le liste d’attesa? «Se tutti faranno il loro lavoro, finiranno in due anni. Stiamo realizzando la cartella clinica elettronica, con un sistema di tracciabilità di tutti gli esami. Sarà più facile vedere se qualcuno ne abusa e spiegargli quali sono i termini corretti per ripetere un esame.»
Adesso, anche Francesco si mette in lista d’attesa. E questo significa che il colloquio è davvero finito.
Stefania Giannini, san Sebastiano col sorriso
Serve matematica? C’è il prof di musica. Così giovedì 29 ottobre il «Corriere della Sera» ha dato il buongiorno a Stefania Giannini, terzo ministro dell’Istruzione ad aver avuto nella vita precedente l’incarico di rettore universitario. Aggiungeva il quotidiano: «I 55.000 docenti in più non hanno le competenze per migliorare la scuola. Così le materie scientifiche restano ancora scoperte».
«Abbiamo insegnanti di musica perché servono» replica il ministro. «Mancano gli insegnanti di matematica per un difetto strutturale del paese. I laureati in questa materia sono pochi e, in genere, scelgono altre opzioni. Il lavoro va fatto in radice fin dalle iscrizioni all’università. In compenso abbiamo avuto una bella sorpresa nel settore linguistico. Ci sono molti insegnanti che hanno una certificazione nell’apprendimento dell’inglese e, pur essendo specializzati in altre discipline, dopo un corso di formazione potranno tenere in inglese le loro lezioni.»
La riforma della scuola – come abbiamo visto nell’incontro con il presidente del Consiglio – è stata quella in cui il governo ha incontrato maggiori difficoltà. Più avanti, in queste pagine, incontreremo Letizia Moratti e Mariastella Gelmini, i due ministri ai quali Silvio Berlusconi aveva assegnato il compito di riformare l’insegnamento e l’organizzazione scolastica. Entrambe, bene o male, hanno portato a casa i loro progetti, ma hanno sudato sangue. E se Renzi se l’è cavata con forti contestazioni politiche, la Giannini – costretta ad affrontare de visu gli insegnanti – ha avuto più frecce in corpo di san Sebastiano, perdendo peraltro raramente il sorriso. «Ci vuole molta forza per mantenere il necessario distacco» mi dice. «La riforma agisce profondamente sul sistema. Mi aspettavo, perciò, forti contestazioni politiche. Non che si scendesse a offese personali gratuite.»
Il mondo della scuola è, in effetti, il più sindacalizzato, corporativo, autoreferenziale. L’idea che equilibri secolari siano stati sconvolti è insopportabile. La filosofia della «buona scuola» in due parole è questa: gli insegnanti non sono tutti uguali, quelli meritevoli vanno premiati. In futuro l’anzianità conterà soltanto per il 30 per cento, il merito per il 70. I presidi non sono più burocrati passacarte, ma manager che si assumono la responsabilità di scegliere e di giudicare (anche se, nei passaggi parlamentari, la loro autonomia è stata ridotta e saranno, com’è giusto, a loro volta giudicati). Ci sarà una maggiore alternanza scuola lavoro, si potenzierà l’insegnamento dell’inglese alle elementari e verrà effettuato un investimento di 4 miliardi di euro in due anni. L’aspetto più vistoso è stata l’assunzione di 100.000 precari (ma altri 50.000 restano ancora fuori). Di questi, 38.000 sono in ruolo dall’inizio dell’anno scolastico, di cui 7000 trasferiti dal Sud al Nord, dove c’è maggiore richiesta e meno personale. Gli altri vengono assunti nel corso dell’anno.
Come abbiamo visto poco fa con la denuncia del «Corriere», i contraccolpi non mancano. Ma se bisogna guardare la luna piuttosto che il dito, la riforma va nella direzione giusta. Con un governo Berlusconi avremmo avuto i blindati della polizia nelle strade, con il governo Renzi il Pd ha perso consensi alle elezioni regionali e amministrative di primavera. Ma il dado è tratto. Nei momenti più difficili la Giannini è stata sostenuta dal panzer del governo, la dolce (in apparenza) Maria Elena Boschi, e dallo stesso presidente del Consiglio, ma in trincea c’è lei, l’ex rettore dell’università per stranieri di Perugia.
Stefania Giannini (Lucca, 1960) ha avuto fin da giovane la passione per le lingue e la glottologia. Professore associato a 31 anni, ordinario a Perugia a 39, rettore a 44: lo è stata dal 2004 al 2013, quando diventa coordinatore politico di Scelta civica e viene eletta al Senato. Per premiare un alleato, all’inizio del 2014 Renzi le affida l’Istruzione nel suo governo. Ma il partito di Mario Monti via via si prosciuga, ottiene un pessimo risultato alle elezioni europee del 2014 che, invece, premiano il Pd, ed è difficile che possa mantenere un posto così rilevante, e la Giannini – che si definisce «moderata ma di sinistra» – il 6 febbraio 2015 passa al Pd.
Perché?, le chiedo. «Perché è finito un progetto riformista in cui ho creduto tre anni fa. Tre anni che, oggi, sembrano trenta. E perché il Pd di Matteo Renzi è l’interpretazione più efficace della politica di cui ha bisogno l’Europa.»
La Giannini, va detto, ha mantenuto sempre un rapporto corretto con l’opposizione, al punto da dichiarare nel 2013 che un «grande leader politico come Berlusconi» non sarebbe dovuto uscire di scena così male.
La vita familiare del ministro dell’Istruzione è molto tranquilla. È sposata da ventisette anni con il manager lucchese Luca Rossello, che sente la moglie al telefono una volta al giorno e trascorre con lei i finesettimana. Hanno due figli, uno che fa un master di ingegneria gestionale e l’altro che sta laureandosi a Milano nella stessa materia. «Abbiamo creato un WhatsApp familiare e ci sentiamo così» mi dice con candore il san Sebastiano sorridente.