VII

Regine di carta

Matilde Serao, la prima

Quando Matilde Serao irruppe nei salotti della Roma bene, le signore la irrisero di sottecchi. Era una donna massiccia con lo sguardo limpido e dolce, il naso importante ma simpatico, la fronte completamente sommersa dai nerissimi capelli a caschetto. Tuttavia la sua voce risuonava troppo forte e sgraziata in quei saloni abituati a ipocriti bisbigli, le risate troppo rumorose, la franchezza di linguaggio eccessiva. Lei capì di essere mal sopportata e promise vendetta: «Quelle damine eleganti non sanno che le conosco da cima a fondo, che le metterò nelle mie opere; non hanno coscienza del mio valore, della mia potenza…».

D’altra parte, Matilde si era fatta da sola. Nella prima giovinezza era passata, in un soffio, dal totale analfabetismo di cui soffriva ancora a 8 anni alla frequenza (a 15) di una scuola superiore come uditrice sprovvista di un qualunque titolo di studio, al diploma magistrale preso a 18 anni, sino a una fulminante carriera giornalistica e letteraria.

A poco le erano servite le premure di una madre nobildonna greca decaduta, colta e poliglotta, che morì di tisi a 44 anni. E solo più tardi avrebbe seguito l’esempio del padre, avvocato (di scarsa fortuna) e giornalista (modesto). Il fatto è che Matilde è sempre stata testarda: quando non voleva toccare libro e quando entrò come un ciclone nel mondo dei giornali.

Nata nel 1856 a Patrasso, in Grecia, dove il padre si era autoesiliato come antiborbonico, rientrata a Napoli da bambina alla caduta di re Franceschiello, dopo il diploma vinse un concorso come ausiliaria telegrafica: sette ore di lavoro al giorno, nessun riposo festivo, nemmeno a turno, niente ferie, una domenica di riposo ogni quattro mesi a discrezione della direttrice, e niente paga nei giorni di malattia. («Io me ne rammento una povera, povera» avrebbe scritto Matilde in un articolo «che nella febbre spalancava gli occhi deliranti e non sapeva dire altro: perdo la giornata, perdo la giornata.») Chi si sposava perdeva il posto. Quando non avevano telegrammi da spedire, alle ragazze era fatto divieto di leggere e scrivere e, a un certo punto, anche di lavorare all’uncinetto. Una lira di multa per ogni parola sbagliata, sei per ogni numero errato. («Alla fine delle sette ore non è stanco soltanto il braccio, ma una lassezza infinita colpisce il cervello» annotò.) Al termine dell’anno, le due telegrafiste che avevano trasmesso più telegrammi ricevevano una mensilità di gratifica.

Matilde si buttò nel giornalismo senza alcuna prospettiva concreta. Ma a 16 anni aveva scritto il suo primo articolo e a 22 la sua prima novella. D’altra parte, lei non aveva dubbi: «Scrivere, scrivere, scrivere. Questo è il mio mestiere, questo è il mio destino. Scrivere fino alla morte». A 26 anni lasciò Napoli per Roma e, quando entrò al «Capitan Fracassa», diventò la prima giornalista professionista italiana. L’anno successivo scrisse il libro che segnò il suo destino, Fantasia, guadagnandosi un grande successo di pubblico ma anche una stroncatura da parte del giovane critico Edoardo Scarfoglio («Una minestra fatta di avanzi»), che fu però all’origine di un amore travolgente tra i due. («Questa donna tanto convenzionale e pettegola e falsa tra la gente» scrisse Scarfoglio a un’amica «e tanto semplice, tanto affettuosa, tanto schietta nell’intimità, tanto vanitosa con gli altri e tanto umile meco, tanto brutta nella vita comune e tanto bella nei momenti dell’amore, tanto incorreggibile e arruffona e tanto docile agli insegnamenti, mi piace troppo, troppo, troppo.»)

Si sposarono due anni dopo la stroncatura letteraria, nel 1885, ed ebbero quattro figli maschi, a riprova che, se una donna vuole ed è testarda come Matilde, non rinuncia a essere madre. Eppure – i calcoli sono di Giovanni Artieri in Napoli nobilissima – scriveva in media tremila parole al giorno e lavorava tredici ore, dimostrando una straordinaria versatilità: passava con disinvoltura dal costume al reportage, dalla cronaca politica a quella mondana, dal commento di poche righe al romanzo. Il matrimonio con Scarfoglio e l’intensa vita professionale comune non le tolsero mai la più assoluta indipendenza: «Assicurare alla donna il diritto sacrosanto di vivere,» disse in un’intervista nel 1904 «darle i mezzi per esercitarlo, sottraendola alla necessità di un controllo o d’un appoggio maschile, questo, se accetto la parola, è femminismo. … Il diritto sacrosanto al lavoro; di occuparsi di ciò che l’attrae, di essere degnamente ricompensata».

La coppia Scarfoglio-Serao («due giornalisti nati» li definì Antonio Gramsci) fondò, uno dopo l’altro, tre importanti quotidiani: il «Corriere di Roma», il «Corriere di Napoli» (al quale Matilde chiamò a collaborare Giosue Carducci e Gabriele d’Annunzio) e, nel 1892 (lui aveva 32 anni, lei 36), «Il Mattino», che diventò subito – ed è tuttora – il principale giornale del Mezzogiorno. Scarfoglio era il direttore, la Serao condirettore. Ma proprio in quell’anno il legame tra i due coniugi entrò in crisi. Lui avviò una relazione a Roma con la cantante francese Gabrielle Bessard, che due anni dopo rimase incinta. Però non volle abbandonare la moglie Matilde, e la storia finì tragicamente: Gabrielle si presentò in casa dei coniugi Scarfoglio a Napoli, lasciò la neonata e si sparò un colpo di pistola. Tremendo il biglietto di commiato da Edoardo: «Perdonami se vengo a uccidermi sulla tua porta come un cane fedele. Ti amo sempre». Compiendo un errore fatale, «Il Mattino» non pubblicò la notizia e ottenne che nemmeno il concorrente «Corriere di Napoli» la mettesse in pagina. Ma il segreto non poteva durare, e qualche giorno dopo il «Corriere» diede la notizia e attaccò la celebre coppia di giornalisti. Scarfoglio rispose per le rime, ma lo scandalo fu enorme. Matilde adottò la figlia della Bessard e la chiamò Paolina, come sua madre.

Per staccare dal lavoro quotidiano al «Mattino», la Serao fondò e diresse «Mattino Supplemento», un domenicale, antenato di grandissima qualità degli allegati di oggi: tra i collaboratori, Carducci, d’Annunzio, Salvatore Di Giacomo, Ugo Ojetti, Cesare Pascarella e molte firme femminili.

Nel 1902 donna Matilde uscì definitivamente dal «Mattino» e dalla vita di Scarfoglio. Ma la sua energia non ammetteva pause e già l’anno dopo si unì al cronista giudiziario Giuseppe Natale con cui fondò un nuovo giornale, «Il Giorno», di cui fu direttrice, prima donna in Italia a guidare un quotidiano. Concorrente feroce del «Mattino», ma più pacato nella polemica politica, il nuovo giornale ebbe fortuna. I «Mosconi» – brevi e raffinati commenti di cronaca e mondanità cittadina scritti dalla Serao, che portò in eredità dal «Mattino» – riscossero grande successo. Di lì a poco, a 48 anni Matilde diventò mamma per la quinta volta dell’unica figlia femmina, che battezzò con il nome di Eleonora, come l’amica Duse.

Come ricorda Donatella Trotta nel suo ritratto della giornalista napoletana contenuto nel volume collettaneo Le italiane, «Il Giorno» della Serao fu l’unico giornale, insieme al «Mondo» di Giovanni Amendola, a individuare il pericolo imminente del fascismo dopo la scissione socialista di Livorno del 1921. Noi giornalisti odierni dovremmo essere imbarazzati per la nostra pochezza dinanzi alla vivacità intellettuale e culturale, alla capacità imprenditoriale e alla passione civile di Matilde Serao. Leggere oggi le sue denunce dei mali di Napoli e il suo invito alla parte migliore della borghesia di riscattare l’arretratezza del Mezzogiorno umiliano chi, un secolo dopo, potrebbe pubblicare lo stesso articolo cambiandovi soltanto la data: «Il pane non basta al nostro popolo: bisogna dare ad esso il pane dell’anima che gli crei una volontà austera e salda, una energia pacata ed efficace, una virtù quietamente eroica; bisogna creare in questo popolo tutto un mondo interiore di dignità, di giustizia, di bellezza. Ciò, è vero, oltrepassa i limiti del giornalismo e anche della politica, diventa vasta funzione sociale, diventa, forse, sogno immenso di bene. Ma nel sogno di oggi si contiene la realtà del domani».

Matilde Serao morì nel 1927, dieci anni dopo Edoardo Scarfoglio. Morì come aveva desiderato: un infarto mentre scriveva. «Questo è il mio mestiere. Questo è il mio destino. Scrivere fino alla morte.» E i suoi funerali in piazza Vittoria vengono ricordati come una delle più imponenti manifestazioni di popolo mai viste a Napoli.

Le donne crescono, ma non dirigono

Per ottant’anni, dopo la morte della Serao, nessuna donna ha più guidato un grande quotidiano italiano. Nell’estate del 2015 i giornalisti professionisti uomini erano nel nostro paese 17.978, le donne 11.544. Nel 2004, undici anni prima, le donne professioniste erano quasi la metà degli uomini (7241 contro 13.607). Nel 1994, poco più di un terzo (3479 contro 9110). Quindi, una crescita esponenziale in questa come in altre professioni considerate a lungo «maschili». Un’indagine dell’Osservatorio di Pavia ha verificato, tuttavia, che soltanto 14 giornaliste su 100 raggiungono una posizione di vertice (direttore o redattore capo), mentre tra i colleghi maschi la cifra sale al 27 per cento, nonostante essi abbiano spesso titoli di studio inferiori. Le donne della carta stampata non sono valorizzate più di tanto nemmeno all’estero. Un’indagine statunitense ha registrato che è scritto da donne soltanto un articolo su sette di quelli destinati dai grandi giornali («New York Times» in testa) agli argomenti di maggiore interesse pubblico. In Italia, quando una donna diventa direttore di un giornale, quasi sempre si tratta di un periodico femminile.

È un fatto che nel dopoguerra una sola donna, Concita De Gregorio, ha diretto un quotidiano politico nazionale, «l’Unità», per tre anni, dal 2008 al 2011, all’epoca in cui editore del tormentato giornale fondato da Antonio Gramsci era Renato Soru, patron di Tiscali e presidente della regione Sardegna per conto del Partito democratico. Aveva avuto l’investitura dal segretario del Pd, Walter Veltroni: «Sarebbe bello un direttore donna» aveva detto ad Aldo Cazzullo del «Corriere della Sera» nel maggio 2008. E, tre mesi dopo, Concita fu. «Veltroni l’aveva fermamente voluta» scrisse nel marzo 2009 sul «Riformista» Giampaolo Pansa, che le aveva fatto da chioccia alla «Repubblica», «soprattutto perché era una donna e per di più bella, elegante e spigliata.» Antonio Padellaro, che reggeva il giornale, seppe che sarebbe stato sostituito dall’intervista di Veltroni.

Concita De Gregorio (Pisa, 1963) era una brillante inviata della «Repubblica», dove era approdata dopo cinque anni di esperienza in cronaca al «Tirreno». Abituata agli agi radical-chic nel quotidiano di Eugenio Scalfari, fu accolta con molta diffidenza nella ruvida trincea di un giornale di partito. Tornò alla «Repubblica», con qualche livido e con una quarantina di condanne per diffamazione addosso gravide di risarcimenti, come capita talvolta ai direttori di testata. «Mi aspettavo che intervenissero Renato Soru, l’editore che mi assunse, e il Pd, che di fatto controllava il quotidiano. Ma Soru è sparito, mentre il Pd renziano sostiene che il partito non c’entra» disse a Sebastiano Messina della «Repubblica» (6 maggio 2015). Alla fine, invece, il Pd è intervenuto con una ciambella di salvataggio: un provvidenziale emendamento del partito alla legge sulla diffamazione – in attesa di approvazione definitiva al Senato – accollerebbe all’erario i risarcimenti dovuti da direttori e redattori di giornali falliti. «Legge ad compagnam» la chiamò Vittorio Feltri sul «Giornale» dell’11 giugno 2015. «Quando, dopo la mia uscita, l’“Indipendente” sbaraccò [nel ’94]» protestò «dovetti sganciare la bellezza di 864 milioni di lire. Nessuno mi sostenne. Non una parola di solidarietà.»

Oggi Concita è tornata agli agi radical-chic. Nanni Moretti si confida solo con lei. E quando sostituisce Corrado Augias su Raitre nella striscia di mezzogiorno, ha osservato Aldo Grasso sul «Corriere della Sera» (4 ottobre 2013), «è la perfetta incarnazione della professoressa democratica, regina dolente del ceto medio riflessivo e della correttezza politica, Madame Bovary del progressismo finto sexy».

Per la verità, c’è stata un’altra donna alla direzione di un giornale di grande tradizione, «Il Tempo», Sarina Biraghi (Roma, 1957), che ha avuto un interim di nove mesi. La Biraghi ha svolto tutta la sua carriera all’interno del quotidiano partendo dalla redazione di Latina e guidandolo nella transizione tra Mario Sechi, tentato da una sfortunata avventura elettorale con la lista Monti, e Gian Marco Chiocci, attuale direttore, di cui ora è la vice.

E dal 1º ottobre 2015 Nunzia Vallini (Bione, Brescia, 1965) è stata chiamata alla direzione del «Giornale di Brescia». Già conduttrice e poi direttrice di «Teletutto», giunta alla guida del quotidiano si è occupata immediatamente e con gran piglio del giallo della fonderia Bozzoli di Marcheno.

In assenza di direttori donne di quotidiani nazionali, Barbara Stefanelli (Milano, 1965) è la più alta in grado, avendo conquistato a 50 anni la poltrona di vicedirettore vicario del più importante giornale italiano. «Il direttore del “Corriere”, Stefano Folli, mi nominò caporedattore centrale nel giugno 2003» mi racconta Barbara. «Dopo tre mesi ho scoperto di essere incinta. Era una gravidanza non programmata, avevo 39 anni, l’età in cui magari, in modo non cosciente, cominci a sentire che non ti succederà più di aspettare un bambino. Provai una gioia pazzesca, stetti via dal giornale i cinque mesi canonici e, quando tornai, non ero sicura di riuscire a fare quel che facevo prima. Ero la prima donna alle prese con quel lavoro: un ruolo tosto, in cui devi decidere, controllare, farti seguire. Ci furono delle scommesse su quanto avrei resistito: chi diceva tre mesi, chi sei… Ero una donna ed ero più giovane di tutti i capi servizio. Volli allattare la bambina e per un anno feci avanti e indietro fra casa e giornale. Ma è stata la fortuna della mia vita, mi sono sentita più serena sul lavoro, più tranquilla, più in equilibrio. I miei colleghi furono molto solidali: alcuni di loro sarebbero diventati padri più tardi e fanno parte di una generazione più collaborativa e consapevole. Nella testa di molte donne e di moltissimi uomini si radica l’idea che la maternità abbia conseguenze pesanti sul lavoro. Vorrei che passasse il messaggio che puoi fare un mestiere ad alta intensità e avere una vita familiare serena.»

Laureata in lingue (ne parla quattro), con specializzazione in germanistica, Barbara ha scartato la carriera universitaria («un cammino lungo e lento»), frequentato la scuola di giornalismo dell’ordine della Lombardia ed è entrata al «Corriere» come stagista nel 1990. Voleva fare giornalismo sportivo («il mio sogno di bambina»), ma le dissero che in quella redazione non c’era posto. Scoppiò la prima guerra del Golfo e lei lavorò moltissimo alla redazione Esteri, dove è rimasta fino a diventarne redattore capo.

La Stefanelli è l’unico caso al «Corriere» di una carriera senza salti: stagista, praticante, redattore, vice caposervizio, caposervizio, vice caporedattore, caporedattore, vicedirettore, vicedirettore vicario, nominata dal nuovo direttore del quotidiano, Luciano Fontana. Come a dire, le donne devono guadagnarsi ogni passo. «Un capo donna» mi spiega «tende ad ascoltare moltissimo, ad acquisire le informazioni in senso orizzontale, magari a decidere più lentamente. All’inizio la rottura di un codice decisionista e verticale fu scambiata per minore incisività, magari qualcuno avrà pensato che non ci sapevo fare.» E invece…

La Stefanelli ha sviluppato il supplemento letterario «la Lettura», nato da un’idea di Ferruccio de Bortoli, e fondato il blog di grande successo «La 27esima ora» («La giornata delle donne è più lunga di tre ore»): «Senza soldi e senza redazione,» mi racconta «invitai le colleghe a vederci ogni mercoledì. Non ero sicura che funzionasse, e invece è stato una bomba: dal blog sono nate inchieste, la nostra radio, una collana di libri, eventi. Si è trasformato, insomma, in un centro di produzione».

Barbara riesce a gestire una vita familiare non facile. Il marito, Davide Frattini, conosciuto alla scuola di giornalismo, è corrispondente del «Corriere» dal Medio Oriente. Assente, ma presente: condivide tutte le scelte, dalla scuola alle attività sportive della figlia. Lei si alza presto al mattino, guarda subito se il concorrente «la Repubblica» ha dato «buchi» (cioè notizie importanti in esclusiva) al «Corriere» o ne ha presi, prepara la bambina per la scuola e la rivede la sera a giorni alterni, quando rincasa a un’ora più ragionevole.

Va detto che una donna ai vertici dei grandi quotidiani non è sempre ben tollerata. È stato, quindi, un successo personale della Stefanelli se la sua nomina ha avuto, invece, il gradimento di oltre due terzi dei colleghi.

Due giornaliste hanno diretto settimanali importanti. Daniela Hamaui (Il Cairo, 1954), laurea in lettere alla Statale di Milano, ha fondato e diretto tra il 1996 e il 2002 «D - la Repubblica delle donne», di cui è tornata alla guida nel 2012. La ricordiamo in queste pagine per la sua lunga direzione dell’«Espresso» (2002-2010), dove tolse le foto osé dalle copertine e si distinse per una battaglia ininterrotta – numero dopo numero – contro Berlusconi. E Maria Luisa Agnese (Genova, 1947), laurea in filosofia. Figlia dell’amministratore delegato dell’Italsider, dopo una lunga attività professionale a «Panorama» (1972-1989) ha assunto nel 1998 la guida di «Sette», il magazine del «Corriere della Sera», mantenendola fino al 2004.

Oriana Fallaci, la più grande

«Perché costringe le donne a nascondersi come fagotti sotto un indumento [il chador] scomodo e assurdo con cui non si può lavorare né muoversi? Eppure anche qui le donne hanno dimostrato d’essere uguali agli uomini. Come gli uomini si sono battute, sono state imprigionate, torturate, come gli uomini hanno fatto la Rivoluzione…» Era il settembre 1979 e Oriana Fallaci stava intervistando per il «Corriere della Sera» l’ayatollah Khomeini (l’intervista sarebbe uscita poi anche sul «Times» di Londra). Il traduttore dovette sudare freddo, e chissà se magari avrà addolcito la domanda… «Le donne che hanno fatto la Rivoluzione erano e sono donne con la veste islamica, non donne eleganti e truccate come lei che se ne vanno in giro tutte scoperte trascinandosi dietro un codazzo di uomini» rispose Khomeini. «Come si fa a nuotare con il “chador”?» insisté Oriana. E lui, spazientito: «Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non vi riguardano. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla». Lei non aspettava altro: «Molto gentile. E, visto che mi dice così, mi tolgo subito questo stupido cencio da medioevo». Sono sicuro che a questo punto il traduttore abbia censurato la frase, ma non poteva evitare il gesto: la Fallaci si scoprì e nella sala scoppiò il finimondo. (Lei stessa, poi, avrebbe raccontato di essersi tolta il chador per il caldo…) Ma l’intervista fu portata a casa, comprese le domande sulla pena di morte per le donne adultere, le prostitute e gli omosessuali.

Questa era Oriana Fallaci: la donna più libera, geniale e insolente del giornalismo italiano. Insieme a Indro Montanelli, la più grande in assoluto. E la numero uno al mondo, tra le giornaliste. La più adorata e la più detestata. Un carattere infernale, che non ha mai consentito a nessuno dei suoi infiniti corteggiatori di fare il passo decisivo. Anche in amore era lei a scegliere. E quando sceglieva, si donava in modo totale, assoluto, soffocante. Tanto soffocante da costringere l’amato a tagliare la corda.

Come ha rivelato in una biografia postuma Cristina De Stefano (Oriana, una donna), un suo grandissimo amore fu nel 1958 Alfredo Pieroni, bello e raffinato corrispondente da Londra della «Settimana Incom Illustrata» (e poi del «Corriere della Sera»). Oriana aveva 29 anni, i capelli chiari, begli occhi e il profilo non ancora indurito da una vita vissuta in prima linea. Quando la loro storia era all’apice, lei gli scriveva: «Continua ti prego a permettermi di volerti bene… Darei venti anni (ammesso che me ne restino tanti) per mandare al diavolo il mondo ed essere ora a Princes Gate a pulirti le scarpe…». Oriana voleva una famiglia, Pieroni no. Quando scoprì di essere incinta, gli scrisse, pensando di abortire: «So, con sicurezza, che devo farlo; perché se non lo facessi, rovinerei e turberei, almeno, la tua vita». Abortì spontaneamente a Parigi, cadde in depressione, tentò il suicidio, come raccontò più tardi in un articolo sull’arte di vivere in hotel («Seconda regola: non suicidatevi in albergo, si infastidiscono molto»). Un secondo aborto spontaneo avvenne nel 1965 (ignoto il padre).

Una storia travolgente fu anche quella con François Pelou, corrispondente di guerra francese dal Vietnam, dove Oriana seguì l’intero conflitto, in uno spasmodico andirivieni. Ancora una volta, lei si concesse completamente: «Sono una cosa tua. Sono finalmente qualcosa». Pelou la definiva «romantica, tragica, assoluta». Finì perché lui non volle lasciare moglie e figli per la grande giornalista italiana. Lei, perfida, si vendicò spedendo la corrispondenza alla moglie, come racconta la De Stefano.

L’amore più celebre – e l’unico noto, fino alla morte della Fallaci – fu quello per Alekos Panagulis, l’intellettuale che aveva cercato di uccidere il dittatore greco Georgios Papadopoulos dopo il golpe dei «colonnelli» del 1967. Era sottoposto a un regime di carcere duro, in isolamento assoluto. Nemmeno la madre poteva abbracciarlo. «Voglio vederlo» disse Oriana. Lo aspettò all’uscita della prigione, nel 1973, dopo aver fatto da battistrada a una campagna internazionale in suo favore. La Fallaci se ne impossessò fisicamente fin dal primo istante, quando lui le regalò un fascio di rose in una stanza d’albergo. E lo isolò nella sua villa in Toscana. Panagulis tornò in Grecia nel 1974 quando cadde il regime militare, si concesse avventure che lei gli perdonò e morì due anni dopo in un incidente stradale rimasto misterioso: Oriana ha sempre creduto a un delitto mascherato. Scrisse di sé nel 1975: «Non sono sposata. Non ho mai pensato a sposarmi. Anche se mi considero sposatissima con l’uomo che amo da anni». Era lui, Alekos. Nel 1975 scrisse Lettera a un bambino mai nato (2 milioni di copie vendute in Italia e 2 milioni e mezzo in altri venti paesi), e questo ha autorizzato qualcuno a immaginare un terzo aborto spontaneo della Fallaci, in seguito a una lite con Panagulis (come racconterà nel libro a lui dedicato, Un uomo, pubblicato nel 1979 e diventato un altro dei suoi best seller). Il rapporto tra i due fu certamente tempestoso: lui la tradiva, lei sostenne di averlo messo un giorno alla porta perché le aveva chiesto di lavargli i calzini.

L’ultimo amore importante fu per Paolo Nespoli, che aveva 28 anni meno di lei: le fece da autista nel 1983 come militare del corpo di spedizione italiano in Libano, lei lo convinse a non lasciare l’addestramento da astronauta. Vissero insieme cinque anni a New York («Avevo giurato che non avrei mai più toccato un uomo» gli scrisse. «Poi ho incontrato te.») e la storia finì quando lui andò in Germania per un incarico all’Agenzia spaziale europea.

Non so se Oriana (Firenze, 1929) abbia mai avuto il tempo di giocare con le bambole. («La mia infanzia non è stata allegra» ha raccontato in un articolo autobiografico del 1975 «i miei genitori erano abbastanza poveri…») Suo padre Edoardo, artigiano, era «comandante militare» del Partito d’Azione in città e fin da preadolescente, camuffata da bambina («portavo ancora le trecce»), Oriana consegnava armi, giornali clandestini, messaggi ai compagni nascosti o riuniti in formazioni partigiane. Dopo l’8 settembre accompagnò in bicicletta, verso le linee alleate, i prigionieri inglesi e americani fuggiti dai campi di concentramento italiani. Custodiva i nomi degli antifascisti in una zucca appesa nel giardino del convento in cui era nascosta con la madre e le sorelle e, quando papà Edoardo fu arrestato e torturato, Oriana mangiò tutti i foglietti. A 16 anni e mezzo cominciò a scrivere sul «Mattino dell’Italia Centrale». Raccontò di esserne stata licenziata perché il giornale era democristiano. Poi su «Epoca» e, finalmente, sull’«Europeo», il giornale che la lanciò.

Fisicamente era uno scricciolo. «Tutti i miei libri sono scritti in prima persona, generalmente, e hanno comunque uno sfondo biografico» raccontò. «Non dicono solo la mia altezza (un metro e 56 scarsi) e il mio peso che oscilla tra i 42 e i 43 chili. La gente, quando mi conosce rimane sorpresa da tanta pochezza. E io allargo le braccia e dico: “È tutto qui”.» A 25 anni, nel 1954, «misi poche cose dentro un’unica valigia e, senza avere la minima idea di dove sarei andata ad abitare, presi il treno per Roma». Si stabilì in una cameretta in affitto e visse un anno raccontando la Roma della «dolce vita», «ma sempre con un sopracciglio rialzato». Poi otto anni a Milano, interrotti da molti viaggi.

«Erano gli anni Cinquanta, cominciavano appena a socchiudersi per le più impazienti le porte delle professioni cosiddette maschili» scrisse sulla «Repubblica» Natalia Aspesi alla morte della Fallaci. «Era una guerra nuova, tra donne, non per assicurarsi un marito di pregio ma quel poco di spazio che veniva concesso nella scalata al successo professionale. In ogni campo due donne erano già troppe, ne bastava una, che diventava subito per la sua unicità una star.» All’«Europeo», un’altra donna aveva un ruolo di primo piano, Camilla Cederna, di cui parleremo più avanti. La Aspesi ricorda i due partiti: «I cederniani che amavano l’ironia colta e mondana di Camilla e sostennero poi il suo impegno politico all’“Espresso”, i fallaciani che singhiozzavano adoranti per la visceralità della scrittura di Oriana, per gli schiaffeggiamenti morali cui sottoponeva i suoi ipnotizzati celebri intervistati e che oggi apprezzano le sue invettive apocalittiche e pericolose sull’Islam».

L’intervista di cui Kissinger si pentì amaramente

Ma l’Italia stava stretta a Oriana. Che approdò finalmente a New York, Upper East Side, la zona più esclusiva di Manhattan, in un appartamento prima piccolo, poi diventato via via gigantesco. Questo scricciolo, nato per fare rumore, non si arrendeva dinanzi a nessun ostacolo. In otto anni andò dodici volte in Vietnam. Ha scritto Bernardo Valli («la Repubblica», 16 settembre 2006), uno dei maggiori inviati di guerra italiani: «Amava saltare da un elicottero all’altro, sguazzare nel fango, anzi friggere sotto un elmetto arroventato o rinchiusa in un autoblindo. Ho visto raramente qualcuno lavorare con tanta passione e trasferire questa passione nei propri scritti e riuscire a imprimere su ogni frase tante sequenze di immagini significative».

La prima guerra del Golfo, nel 1990, la fece impazzire perché non c’era un fronte da agguantare. Chiamava i colleghi dispersi (inutilmente) per il Medio Oriente, li insultava sostenendo che si trovassero nel posto sbagliato, ma nemmeno lei riuscì a individuare quello giusto, visto che gli americani facevano una guerra aerea e non c’era una Baghdad da conquistare. In quegli anni ero direttore del Tg1 e mi era capitato di essere l’unico giornalista italiano a intervistare Saddam Hussein. A Oriana non sarebbe dispiaciuto trovarsi al mio posto e la capisco: un uomo carismatico come Saddam sarebbe stato una pietra preziosa nella sua raccolta di gioielli professionali. Incurante del fuso orario, mi chiamava in piena notte. («Pronto? Sono l’Oriana…») Trattammo, alla fine, un servizio speciale su di lei, che fu realizzato da Gino Nebiolo.

Valli riconosce che la diffusione in tutto il mondo dei due libri più personali e drammatici (Un uomo e Lettera a un bambino mai nato) «le avevano procurato una notorietà mai conosciuta da un giornalista italiano». I suoi articoli sull’«Europeo» venivano venduti in trenta paesi. I giornalisti più bravi mettono in fila le pedine più preziose sulle quali puntare. L’intervista a un grande personaggio internazionale farà da referenza per la grande intervista successiva. Si aggiunga, per la Fallaci, la componente femminile e la leggenda su una tigre da domare.

Oriana ha intervistato Khomeini e Indira Gandhi, Willy Brandt e Golda Meir, il re di Giordania e lo scià di Persia, il capo della Cia, William Colby, e il vescovo brasiliano Hélder Camara, che combatteva la dittatura, oltre a molte personalità che al pubblico di oggi dicono poco, ma negli anni Sessanta e Settanta erano importantissime. Inoltre avvicinò in maniera fortunosa, mischiandosi in una delegazione di militanti italiane del Psiup, il personaggio più leggendario del Vietnam del Nord, dopo Ho Chi Minh. Vo Nguyen Giap, ministro della Difesa di Hanoi, era l’uomo che nel 1954 aveva cacciato i francesi dal Vietnam con la memorabile vittoria di Dien Bien Phu e, vent’anni dopo, avrebbe replicato con gli americani.

Giap, morto a 102 anni nel 2013, era un uomo basso e tozzo, «con un cortissimo collo che affogava dentro la giacchetta», ma era anche un intellettuale raffinatissimo, con le divise ben stirate, una bella casa arredata con mobili francesi, una moglie giovane. Stregò l’italiana con lo sguardo («Gli occhi! Gli occhi erano gli occhi più intelligenti, forse, che avessi mai visto…»). E Oriana trasformò una conversazione informale in un’intervista importante.

I nordvietnamiti – che le consegnarono per la pubblicazione un testo censurato e farlocco – se la presero molto, ma l’incontro con Giap fu la chiave per ottenere l’eccezionale intervista con Henry Kissinger: «La cosa più stupida della mia vita» ammise poi lui, che ne uscì massacrato. In quel colloquio si rivela la straordinaria capacità giornalistica della Fallaci, ma anche il suo cinismo, l’abilità nel cambiare le carte in tavola, il gioco di prestigio nel trasformare, sulla pagina scritta, in schiaffi su schiaffi domande che, in realtà, saranno state inevitabilmente franche, dure, ma nella forma abbastanza educate, quasi che l’intervistato di gran lignaggio fosse un punching-ball appeso a un gancio per il divertimento dell’intervistatrice.

Indro Montanelli resta il campione assoluto del verosimile. Gran parte delle cose da lui scritte erano, diciamo così, un po’ gonfiate. Ma il suo genio era tale che il verosimile sembrava più vero del vero. In Oriana accade il contrario: è palesemente inverosimile la sua aggressività in ogni passaggio, ma il colloquio è costruito così abilmente da mettere in primo piano l’intervistatrice, non l’intervistato. È la Fallaci a essersi tolta il velo davanti a Khomeini, è la Fallaci ad aver ridicolizzato Kissinger con la storia del cowboy solitario. Lì fu, in effetti, il potentissimo segretario di Stato americano a infilare la testa nel cappio, quando spiegò all’italiana, con queste parole, la ragione del suo successo: «È che ho sempre agito da solo. Agli americani ciò piace immensamente. Agli americani piace il cowboy che guida la carovana andando avanti da solo sul suo cavallo, il cowboy che entra tutto solo nella città, nel villaggio, col suo cavallo e basta». Scoppiò l’inferno: Nixon ne fece una malattia (per breve tempo), la stampa accusò Kissinger di arroganza.

Per evitare, tuttavia, che qualche mia giovane collega pensi che basti essere aggressiva per diventare una Fallaci, devo chiarire che un grande intervistatore deve essere all’altezza del grande intervistato. Prima di accettare il colloquio dinanzi a un registratore (che smentì ogni maldestra smentita di Kissinger), fu il segretario di Stato a intervistare a lungo la Fallaci sul Vietnam e sulla sua già prestigiosa galleria di personaggi. La conversazione si mosse su un piano di altissima parità. La Fallaci non era una semplice Christiane Amanpour, per citare la star del giornalismo televisivo angloamericano di oggi, che gira portandosi dietro un esercito di assistenti che la coccolano, la allenano e la preparano. Oriana era una grande artigiana fiorentina che cuciva le scarpe a mano, facendo turare le orecchie a tutti i santi del paradiso se qualche nodo non le riusciva a pennello.

Il suo carattere tremendo, le sue urla da strega di Biancaneve non sono un’invenzione. Scriveva su una portatile Olivetti Lettera 32, correggeva con il bianchetto, non voleva saperne di computer e di altri aggeggi simili. Diceva di non conoscere quell’araba fenice che si chiama «ispirazione». Si definiva un’impiegata della scrittura, più o meno come Alberto Moravia, che stava al tavolino dalle 9 alle 13 e dopopranzo andava a spasso. Ma, per Oriana, questo autoritratto è falso. Quando le prendeva la furia dello scrivere, non c’era il giorno e non c’era la notte. Molti la ricordano blindarsi per giorni in camicia da notte in una stanza d’albergo con la sigaretta sempre appesa alle labbra, uscendo solo per berciare nel corridoio se le mancava qualcosa.

Per dieci anni stette zitta, mentre il cancro («l’Alieno», lo chiamava) la divorava con implacabile calma. Poi ci fu l’11 settembre e Oriana esplose in La Rabbia e l’Orgoglio. Lei non voleva scriverlo, voleva semmai raccontarlo al direttore del «Corriere della Sera» Ferruccio de Bortoli. Il quale, non amando gli scontri cruenti, aspettò che a chiamarlo fosse lei. Poi volò a New York, una città surreale, con l’anima segnata per sempre dal crollo delle Torri Gemelle. La Fallaci adorava lo champagne, de Bortoli comprò una bottiglia di Cristal da uno stralunato barista. Si annusarono, lei gli sfuggì, poi lo esaminò con diffidenza, concordò ogni dettaglio dell’impaginazione, come del resto faceva sempre (seminava il terrore anche in tipografia). Infine il titolo: Il massacro e l’orgoglio, suggerì lui. Lei accese la centesima sigaretta, si alzò di scatto dalla poltrona e ruggì: La Rabbia e l’Orgoglio.

Quando l’articolo fu pubblicato il 29 settembre 2001, l’Italia si spaccò in due come una mela. Quasi tutta l’intelligencija si schierò contro Oriana. Il «Corriere» pubblicò interventi di due fiorentini come Dacia Maraini e Tiziano Terzani, nettamente contrari. La Fallaci s’infuriò e insultò de Bortoli da par suo. Le venne in soccorso un terzo fiorentino, Giovanni Sartori, e il quarto, Indro Montanelli, che non l’amava perché difficilmente una primadonna ama un’altra primadonna, certamente l’avrebbe difesa, se non fosse morto da poco. In Italia, mettersi contro la cultura radical-chic è molto, molto pericoloso. Oriana Fallaci fu trattata come un’appestata, la sua città osò negarle il «fiorino d’oro», che si attribuisce ai fiorentini illustri. Ma, contro di lei, «quel grumo risentito e antipatizzante per partito preso datava da molto» ricorderà giustamente Pierluigi Battista sul «Corriere» l’indomani della morte di Oriana. Firenze rimediò tardivamente. Riccardo Nencini, presidente del Consiglio regionale toscano, le portò una medaglia a domicilio a New York.

Oriana Fallaci morì all’una del mattino di venerdì 15 settembre 2006 nella clinica Santa Chiara di Firenze. Era tornata dieci giorni prima nella sua città per morirvi a bordo dell’aereo privato messole a disposizione da Silvio Berlusconi, con il quale – pure – si era duramente confrontata. Le era accanto il vescovo romano Rino Fisichella: «Mi tenga la mano fino all’ultimo» gli disse «ma è inutile provare a convertirmi». Fisichella l’aveva accompagnata in segreto da papa Ratzinger, di cui era devota ammiratrice perché vedeva in lui l’ultimo bastione di salvezza per la civiltà giudaico-cristiana.

Nessuno osa immaginare come avrebbe commentato la nascita e lo sviluppo dell’Isis, il trionfo mediatico dei tagliagole, la frantumazione della Libia, l’invasione dell’Europa da parte dei migranti. È morta a 77 anni. Troppo presto. O forse no…

Camilla Cederna, la gran borghese che amava la rivoluzione

«La detesto da sempre» diceva Camilla Cederna di Oriana Fallaci. La descrisse come uno sciacallo, un’arrogante, un’isterica che aveva successo solo perché «rompeva i coglioni». Cercò di smontarne il mito pezzo per pezzo con un memorabile articolo del 1990 sulla raffinata rivista «Wimbledon»: ne svilì l’amore per Panagulis, le ribaltò contro l’intervista a Kissinger, spettegolò sui suoi rapporti con l’astronauta Buzz Aldrin (uno dei tre conquistatori della Luna). Oriana la portò in tribunale. Se avessero potuto, si sarebbero strappate i capelli, che entrambe portavano lunghi.

Oriana era nata nel 1929, Camilla nel 1911. Diciotto anni di differenza per i giornalisti (e non solo) fanno una generazione. Camilla era la regina dell’«Europeo», quando vi irruppe l’insolente toscana. Insolente, sgradevole, ma bravissima. Più brava di Camilla, anche se le due pure nello scrivere erano diverse che più non si potrebbe. Oriana uccideva con il pugnale, Camilla con il veleno. Oriana arrivò all’«Europeo» a 25 anni, quando Camilla ne aveva già 43. Insopportabile abisso. La Cederna se ne andò all’«Espresso» nel 1956, prima che anche la Fallaci vi emigrasse, ma le due continuarono a odiarsi, e Camilla non accettò mai l’immenso successo internazionale della collega. La competizione tra le giornaliste di oggi è spietata, ma quella tra le due star del secolo scorso – inimitate e inimitabili, nel bene e nel male – rende inadeguato ogni confronto.

Camilla veniva da una solida famiglia borghese – nell’accezione milanesissima delle famiglie bene – e borghese restò fino alla morte, anche quando indossò i panni della rivoluzionaria. Nacque a Milano («Era la bella Milano dei navigli, con i ponti, i barconi, i quartieri pieni di vita…»), in un palazzo di Brera di fronte all’Accademia, semidistrutto dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, e tutto il suo cursus giovanile fu quello che doveva essere: il liceo Parini, la laurea in lettere con la tesi «Prediche contro il lusso delle donne dai filosofi greci ai Padri della Chiesa», la divisa bianca da crocerossina.

Alla vigilia dell’8 settembre 1943 – a 32 anni – pubblicò, forse grazie ad amicizie redazionali, il suo primo articolo sul «Corriere della Sera» diretto da Ettore Janni, dopo il ribaltone del 25 luglio. S’intitolava Moda nera e aveva come bersaglio lo stile delle donne del regime, a cominciare da Claretta Petacci per finire a Donna Rachele. I repubblichini risposero con un articolo intitolato Viltà di una strega, affibbiandole un appellativo che molti nemici avrebbero ripreso nei decenni successivi. Condannata a sette anni per aver «offeso il Timoniere della Patria» e «dileggiato la Madre dei Martiri», le fecero scontare un mese di prigione. Nel dopoguerra, il prorompente desiderio di novità indusse Arrigo Benedetti, grande direttore dell’«Europeo», a volere assolutamente una donna in redazione: arrivò Camilla e si fece strada massacrando – da borghese non pentita – i simboli della borghesia con uno stile ironico e inimitabile che le procurò moltissimi nemici, ma anche legioni di ammiratori. Fu però sull’«Espresso», dove sarebbe rimasta ventitré anni prima di passare a «Panorama», che inaugurò la sua rubrica più celebre – «Il lato debole» –, che debole non era affatto: nelle note di costume e di bon ton si nascondevano le raffinatissime staffilate che la resero celebre.

Non si sposò mai e, se ebbe legami sentimentali, li nascose benissimo. Si seppe soltanto di una sua lunga infatuazione per Dino Buzzati. Se ne innamorò – raccontò Laura Laurenzi nel commemorarla sulla «Repubblica» nel novembre 1997 – ancora prima di conoscerlo, dopo aver letto Il deserto dei tartari. Bello, mite, introverso e misterioso, Buzzati era un dipinto di Magritte vivente. A Camilla, che faceva di tutto per incontrarlo e intrattenersi con lui sperando invano nell’apertura di un qualche spiraglio sentimentale, Dino spiegò implacabile che non avrebbe mai potuto innamorarsi di una ragazza come lei. «Gli avevano inculcato» riporta la Laurenzi «che il sesso era peccato mortale e lo si poteva fare soltanto con le peccatrici.» (Lo scrittore fu, in effetti, per sua stessa ammissione un convinto frequentatore di bordelli.) A Camilla non restò che sognare, ospitando con la madre Ersilia il suo amore mancato nel salotto di via Brera 17.

A Lietta Tornabuoni, altra raffinata giornalista, che la intervistava per «La Stampa» (21 novembre 1980), sintetizzò così i suoi problemi sentimentali: «Quelli che volevano sposarmi io non li volevo, anzi capitava una cosa strana: al minimo contatto fisico, subito mi veniva il palato secco. A me piacevano magari altri, che non volevano o potevano sposarmi». «Del resto» scrisse Natalia Aspesi, nel suo coccodrillo sulla «Repubblica», «lei era cresciuta in una famiglia felice, dominata dalle donne, la madre e le due sorelle, e pervasa da una spietatezza femminile che impediva di sognare troppo attorno agli uomini.»

La svolta professionale avvenne nel 1969, con la strage di piazza Fontana, in cui la Cederna vide – come altri giornalisti – il timbro della strage di Stato. La sera dei funerali delle vittime, due amici e colleghi – Corrado Stajano e Giampaolo Pansa – la tirarono giù dal letto: «Un uomo si è buttato da una finestra della questura, non farci aspettare, andiamo a dare un’occhiata…». L’uomo era Giuseppe Pinelli, che sarebbe diventato il protagonista di una drammatica battaglia condotta dalla Cederna contro un giovane commissario di polizia, Luigi Calabresi. Camilla arrivò in questura con stilografica e taccuino (mai la volgare biro dei cronisti) e si convinse che l’anarchico fosse stato buttato giù (Pinelli. Una finestra sulla strage è il titolo di un suo libro).

Con la stessa pervicacia con cui nel «Lato debole» stabiliva se una cosa fosse di buono o di cattivo gusto, anche trattando di terrorismo sembrava non avere dubbi: le sue certezze si muovevano soltanto in una direzione, quella cara al mondo anarchico e alla sinistra estrema.

Nel 1970 il quotidiano «Lotta Continua» iniziò una tremenda campagna contro Calabresi, che era stato costretto a querelare il giornale. Durante il processo, «Lotta Continua» rincarò la dose: «Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati. Ma è questa, sicuramente, una tappa fondamentale dell’assalto dei proletari contro lo Stato assassino».

L’avvocato di Calabresi, Michele Lener, ottenne la ricusazione di uno dei giudici del processo, Carlo Biotti, suo amico da quarant’anni che, in un colloquio confidenziale, prima gli avrebbe parlato dei suoi problemi di carriera, poi gli avrebbe confidato che sia lui sia gli altri due giudici erano convinti che Pinelli fosse stato ucciso da un colpo di karate che gli avrebbe leso il bulbo spinale, e infine di aver ricevuto molte pressioni per assolvere Pio Baldelli, direttore di «Lotta Continua». Dopo la ricusazione, nel giugno 1971 la Cederna scrisse sull’«Espresso» un articolo intitolato Colpi di scena e colpi di karatè e pubblicò il documento di dieci intellettuali in cui si leggeva, fra l’altro: Pinelli è «un ferroviere ucciso senza colpa», «Calabresi porta la responsabilità della sua fine», e «Vanno allontanati dai loro uffici commissari torturatori, magistrati persecutori, giudici indegni». Poi promosse la raccolta di firme e alle iniziali dei dieci intellettuali se ne aggiunsero altre 747: c’era quasi tutto il meglio dell’intelligencija italiana.

Da «regina della dinamite» ad accusatrice di Leone

Nel Revisionista Giampaolo Pansa, allora inviato della «Stampa», racconta delle pressioni subite dai colleghi «democratici» perché firmasse anche lui l’appello, pena l’accusa di «schierarsi con i fascisti», di «cercare i favori della polizia» e così via. «Le loro certezze erano tre» scrive Pansa. «Prima certezza: la strage alla Banca dell’Agricoltura era stata compiuta dai fascisti per distruggere quel poco di democrazia che c’era in Italia. Seconda certezza: d’accordo con i neri, la polizia voleva addossare la colpa del massacro agli anarchici. Terza certezza: nell’ambito di questo complotto, Calabresi aveva ucciso Pinelli con un colpo di karate al collo e poi l’aveva scaraventato dalla finestra. Per far pensare a un suicidio e avvalorare la pista anarchica.» E aggiunge che la storia del karate è una bufala smentita dall’autopsia, come è una bufala il fatto che Calabresi fosse un agente della Cia addestrato in America, dove non aveva mai messo piede. E a proposito dei 757 firmatari, ai quali rifiutò di unirsi, Pansa chiosa: «Senza rendersene conto e di certo senza volerlo, con le loro firme quei personaggi diedero un avallo al successivo assassinio di Calabresi». Che fu ucciso a colpi di pistola la mattina del 17 maggio 1972, appena uscito di casa. (Il 27 ottobre 1975 il commissario sarebbe stato assolto dall’accusa di aver gettato Pinelli dalla finestra. La sentenza del giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio fu depositata tre anni e mezzo dopo la morte dell’imputato. Ma non servì a chetare Camilla.)

A Enzo Biagi, che la intervistava per «La Stampa» (23 novembre 1972), la Cederna disse: «Davvero qualcuno pensa che Pinelli … si sia gettato dalla finestra?». «Non lo so» le rispose il collega. «C’è, in ogn caso, chi, come me, fa fatica a credere che l’abbiano buttato giù. E non avrei neppure sottoscritto quella dichiarazione che dà per scontato Feltrinelli vittima di una congiura. … Era, a mio parere, un dilettante della rivoluzione e anche della vita. Pelliccia di astrakan per posare per “Vogue”, e blue-jeans per sfilare in corteo. Capisco i cartelli che sventolavano i suoi operai in sciopero: “Giangiacomo, la Bolivia è qui”…»

Il 14 marzo 1972 l’editore Giangiacomo Feltrinelli si era inerpicato su un traliccio dell’alta tensione di Segrate con delle cariche di esplosivo: voleva oscurare Milano con un blackout dimostrativo, ma l’inesperienza gli fu fatale, e saltò in aria mentre tentava l’innesco delle cariche. Alla Cederna la verità parve incredibile e si affrettò a sottoscrivere un manifesto di intellettuali in cui si affermava seccamente: «Feltrinelli è stato assassinato. … La criminale provocazione, il mostruoso assassinio sono la risposta della reazione internazionale allo smascheramento della strage di Stato…». Nello stesso documento si esprimeva la certezza che «Feltrinelli è stato assassinato da questurini e portato ad arte sul luogo del presunto attentato che non c’è stato». Camilla poi s’indignò – anche in tribunale, dove fu trascinata per aver diffuso notizie false e tendenziose – che a condurre le indagini fossero «i manipolatori della strage di piazza Fontana» e gli «assassini di Pinelli»: l’ufficio politico della questura di Milano e il commissario Calabresi.

Con un po’ di spericolato sadismo, il nuovo direttore del «Corriere della Sera», Piero Ottone, chiese a Montanelli un ritratto della Cederna, che – star contro star – il giornalista non aveva mai amato, perfettamente ricambiato. «Dovunque in Italia scoppi una bomba» scrisse Montanelli il 21 marzo 1972 nella sua Lettera a Camilla, pubblicata sulla terza pagina del quotidiano milanese, «la gente non si chiede più col cuore in gola cosa dice la polizia: ma cosa dice Camilla. È una domanda del tutto pleonastica perché Camilla dice sempre che la bomba l’ha messa o l’ha fatta mettere la polizia. Ma la sua autorità è tale che la risposta sembra sempre nuova e produce effetti più sconvolgenti di quelli della bomba: i questori tremano, i magistrati sussultano, i parlamentari interpellano, i giornali si dividono, i salotti si arroventano. … C’è chi dice che, più delle bombe, ti sei innamorata dei bombaroli, e questo, conoscendo i tuoi rigorosi e severi costumi, posso accettarlo solo se alla parola “amore” si dia il suo significato cristiano di fratellanza. … Deve essere inebriante, per una che lo fu della mondanità, ritrovarsi regina della dinamite e sentirsi investita del suo alto patronato. Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse, tu abbia optato per quello degli anarchici, o meglio abbia cercato di miscelarli, facendo anche del povero Pinelli un personaggio della café society, non mi stupisce: gli anarchici perlomeno odorano d’uomo, anche se forse un po’ troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci. Una droga…»

Montanelli definiva Camilla una «snob», parola madre della corrente espressione «radical-chic». A Enzo Biagi che, sempre nell’intervista per «La Stampa», le chiese un commento, la Cederna non resistette alla snobissima tentazione di fornire quattro versioni attinte da dizionari e/o autori di altrettanti paesi, per concludere: «Non mi pare che in queste definizioni rientri il mio caso, anche se non ho niente contro lo snobismo. Che cos’è, poi, in definitiva?». «Magari far tutte queste ricerche» sbottò Biagi «per rispondere a una battuta…»

Lei preferiva definirsi «una moralista, una scoccia balle», e qualche giorno dopo rispose a Montanelli sull’«Espresso» in maniera seriosa: «Il problema è di essere coerenti con le proprie convinzioni e di difendere i valori morali in cui si crede, cercare di dare alla giustizia un contenuto diverso da quello a cui siamo abituati, cioè la continua incarcerazione degli innocenti. Può darsi che rispetto a te abbia perso credibilità, ma l’importante è combattere una battaglia giusta e non avere la stima dei soliti benpensanti».

L’infortunio più drammatico e clamoroso di Camilla Cederna avvenne nel marzo 1978 quando il suo libro Giovanni Leone. La carriera di un presidente costrinse alle dimissioni il capo dello Stato. Eletto al Quirinale nel 1971, Leone beneficiò a lungo dell’affettuosa attenzione di alcuni dei principali giornalisti italiani. Ritratti di Oriana Fallaci e di Vittorio Gorresio ne fecero un’autentica apologia. Nel 1976 ebbe inizio, però, una massiccia campagna diffamatoria lanciata dai settimanali «L’Espresso» e «Tempo», che inserirono pesantemente Leone in un sospetto giro di tangenti pagato in Italia dalla fabbrica aeronautica statunitense Lockeed. Una denuncia contro il presidente fu archiviata con 19 voti contro 1 dalla commissione parlamentare inquirente, ma questo non fermò la Cederna: agli articoli sull’«Espresso» fece seguire il libro, che suscitò enorme scalpore e vendette 800.000 copie. Leone, raccontò sulla «Stampa» Gorresio subito dopo l’uscita del libro, veniva presentato come un affarista mal circondato, coinvolto in gravi speculazioni edilizie e dedito, con il fratello Carlo, a esercitare un autentico mercato delle grazie.

Il presidente replicò ricordando che i figli e il fratello avevano querelato la Cederna con ampia facoltà di prova, mentre il capo dello Stato non può agire direttamente, essendo tutelato dal reato di vilipendio perseguibile d’ufficio.

Questo scambio di accuse e controaccuse avveniva nell’aprile 1978. In giugno «L’Espresso» tornò all’attacco con nuove rivelazioni di presunti affari con l’Arabia Saudita e di speculazioni edilizie, e il presidente decise di rispondere il 15 giugno con un’intervista all’Ansa, che fu bloccata dal governo. Il presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, e il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, si accordarono per chiedere subito le dimissioni del capo dello Stato, che le annunciò la sera stessa in un drammatico messaggio televisivo al paese.

Un anno dopo Camilla Cederna fu costretta ad ammettere in una pubblica dichiarazione che le affermazioni fatte nel libro a proposito dei figli di Leone (Mauro, Paolo e Giancarlo)non erano frutto di verifiche dirette, ma erano state prese dai giornali e fondate su «smentite non fatte, querele non date». Carlo Leone vinse la causa di diffamazione, ottenne un cospicuo risarcimento e la distruzione delle copie residue del libro, che non poté essere più ristampato. Nel 1998 – in occasione dei suoi 90 anni – Giovanni Leone fu completamente riabilitato con le scuse di Marco Pannella ed Emma Bonino, due dei più duri accusatori nel 1978. Ma, per lui, la qualità della vita – fisica e morale – era radicalmente cambiata dopo le dimissioni.

Camilla Cederna morì il 9 novembre 1997, a 86 anni. I grandi giornali le scolpirono un monumento. Assenti o trascurabili i riferimenti ai casi Feltrinelli, Pinelli-Calabresi e Leone.

Rossana Rossanda, la ragazza del secolo sbagliato

Francesco Cossiga imbiancò all’improvviso durante il sequestro Moro e sul corpo gli esplosero le macchie della vitiligine; Rossana Rossanda imbiancò durante la rivoluzione d’Ungheria del 1956. L’elemento scatenante fu una fotografia: «Un funzionario [comunista] appeso a un fanale davanti alla Csepel, il collo spezzato e il volto scomposto dell’impiccato, mentre sotto di lui ridono due operai della fabbrica in rivolta» racconta nel libro autobiografico La ragazza del secolo scorso. «Fu la prima volta che mi dissi: ci odiano. Non i padroni, loro, i nostri ci odiano. Ma i comunisti che si fanno odiare hanno sempre torto. E quello era un odio massiccio, sedimentato, non si arriva a queste enormità senza un’offesa lungamente patita. Quei giorni mi vennero i capelli bianchi. È proprio vero che succede, avevo trentadue anni.»

Non era la prima volta che la Rossanda incontrava le miserie del comunismo. Le aveva viste nel 1949, alla sua prima visita in Russia, ma pensava che la rivoluzione meritasse un pedaggio. («Ma lei perché nel ’49 venne ad aiutare Stalin?» l’avrebbe rimproverata quarant’anni dopo una donna che gli orrori del regime li aveva vissuti sulla propria pelle.) Le aveva viste con gli occhi di Anna Maria Ortese, la scrittrice alla quale aveva fatto avere il permesso di entrare in Urss ed era tornata traumatizzata. Edmondo Berselli, in un articolo scritto per «L’Espresso» nel dicembre 2005 all’uscita dell’autobiografia della Rossanda («un santino per una quantità di orfani e orfane della sinistra più fremente»), ricorda che K.S. Karol, l’intellettuale francese «antistalinista, ma non anticomunista» che diventò il compagno della Rossanda alla separazione dal marito Rodolfo Banfi, le chiedeva incredulo: «Ma davvero eravate ciechi, non vedevate, non sapevate?». La risposta venne formulata secondo uno schema «autoassolutorio e ineluttabile che seppellisce le obiezioni: abbiamo sbagliato tutto, ma avevamo ragione. … Errori su errori, ma per le ragioni giuste».

È questo l’aspetto stupefacente di una generazione sconfitta dalla storia che si è sempre comportata come se avesse vinto. E l’ha fatto non solo con quel «delirio di onnipotenza» di cui la Rossanda si dichiara onestamente talvolta colpevole, ma anche assumendo atteggiamenti iper-iper-altoborghesi, in imbarazzante contrasto con le lotte proletarie propugnate. Rossanda ricorda la madre del primo marito, una «piccola contessa» erede di Ludovico Ariosto «dalla capigliatura e dal carattere fiammeggianti», che nel suo salotto milanese con un bicchiere di champagne in mano invitava il grande banchiere Raffaele Mattioli a gioire con lei per l’avanzata di Mao nella Lunga Marcia, le cui tappe fissava con bandierine su una grande carta della Cina appesa tra i dipinti di due raffinati pittori settecenteschi, Rosalba Carriera e Hubert Robert.

E che dire del poeta e scrittore Louis Aragon, iscritto al Partito comunista francese, che rimproverò la Rossanda di aver dato a «Le Monde» invece che a lui un memorandum di Togliatti? Dove abitava Aragon? «Una casa stupenda in rue Varenne. I ritratti di Matisse e di Picasso che lo omaggiavano come un principe rinascimentale. Che dire? Provavo sgomento. E fastidio» avrebbe raccontato lei nel 2015 ad Antonio Gnoli della «Repubblica».

Istriana di Pola (1924), la Rossanda passò dal compiacimento per la divisa da giovane fascista («il primo tailleur con camicetta e cravatta») all’antifascismo militante nel 1943. Il suo docente di filosofia all’università, Antonio Banfi, padre di quello che sarebbe diventato suo marito, la condusse per mano nel comunismo, dove lei ha militato per tutta la sua lunga vita. Fu la prima donna a dirigere la sezione culturale del Pci (Luigi Longo, tirchio dichiarato, dovette offrirle una cena per trasmetterle gli ordini del partito). Nella lotta all’interno della segreteria fra le correnti di Giorgio Amendola e Pietro Ingrao, fu testimone nel febbraio 1969 della designazione a sorpresa come vicesegretario del partito del giovane Enrico Berlinguer. Lei, ingraiana (sinistra del partito), subì lo «sterminio», come tutti quelli della sua corrente. Nel 1968 aveva trovato «insopportabilmente ipocrita» che la direzione del Pci si fosse limitata a definire un «tragico errore» l’invio dei carri armati a Praga. Voleva portare aria nuova nel partito e decise di fare una «rivista di ricerca» con Luigi Pintor, Aldo Natoli e Lucio Magri, ai quali si sarebbero aggiunti più tardi Luciana Castellina e Valentino Parlato. Nacque «il manifesto», trasformatosi poi in quotidiano, di cui Rossana Rossanda è stata più a lungo degli altri l’anima prevalente fino al 2012, quando l’ha lasciato, non riconoscendovisi più. Questa lunghissima militanza giornalistica, nettamente predominante su quella di funzionaria di partito, spiega perché Rossana Rossanda sia presente in questo capitolo.

Quando, nella primavera del 1969, Berlinguer lesse le bozze del primo numero del periodico, la chiamò subito: «E questa sarebbe una rivista di ricerca? È tutta di intervento politico». «Sono la stessa cosa» rispose lei. «Il manifesto» uscì: credo di avere ancora da qualche parte i primi numeri, che emozionarono anche chi la pensava molto diversamente. Formato quaderno, elegante rigore nella grafica e nell’impaginazione, e poi tanto scritto, come usava a quel tempo, soprattutto a sinistra (per leggere un intero numero di «Rinascita», la rivista ideologica del Pci fondata da Togliatti, occorreva mettersi in ferie). Simpatizzammo per gli eretici. Negli altri partiti le correnti si ammazzavano, anche nel Pci le lotte interne erano formidabili, ma ogni contrasto veniva inumato nella sacralità del centralismo democratico. (Del resto, nel partito c’era un «perbenismo di facciata», scrive la Rossanda, mentre «nel vertice imperava il gallismo, le donne si laceravano come sempre per lo stesso uomo, non c’era una coppia regolare eccezion fatta per il giovane Amendola e il giovane Ingrao».)

Il 24 novembre 1969, prima che cominciasse la riunione del comitato centrale convocato per espellere i dissidenti, Berlinguer chiese alla Rossanda un «gesto di fedeltà» al partito. Non ci fu, e i quattro fondatori furono radiati. («Per smuovere un paese occorreva un grande partito» commentò lei. «Non era, o non era più il Pci.») Da allora – e per più di quarant’anni – Rossana Rossanda fu «l’eterna madre della sinistra». Da figlia politica, nel 1969, era stata uccisa dal padre. Da madre, nel 2012 – l’anno del commiato –, fu «uccisa dai figli». «Non siamo noi a essercene andati» disse nel 2013 a Simonetta Fiori della «Repubblica». «È stato “il manifesto” ad averci cacciato.»

Natoli e Pintor sono morti da un pezzo. Lucio Magri, il più colpito dal fallimento politico, ha voluto andare a morire in Svizzera nel 2011 e le ha chiesto di accompagnarlo. Anche K.S. Karol, suo compagno per decenni, è morto. Vivevano separati, lei a Roma, lui a Parigi. Poi, quando si è ammalato, l’ha raggiunto. Ora, superati ormai i 90 anni, anche lei si è fermata nella capitale francese. L’immagine, pure scalfita dagli anni, è rimasta la stessa. I capelli candidi, il tratto aristocratico, il sorriso assente. Una grande sconfitta dalla storia, consapevole di esserlo, che rifarebbe tutto quello che ha fatto.

Miriam Mafai e la gabbia delle scimmie

«Come Camilla Cederna era folgorante nella battuta, caustica col potere, ma più e prima di tutte le altre ironica e leggera, anche, sebbene nel solco della tradizione politica più severa e per le donne più dura che ci sia, quella del Pci: “alle compagne si dava la parola, ma poi non si ascoltava”, rideva. Lei si era fatta ascoltare, lo aveva fatto abbassando la voce anziché alzarla…» Così Concita De Gregorio per la morte di Miriam Mafai («la Repubblica», 10 aprile 2012). «Era fatta col fil di ferro» scrisse in quell’occasione Ezio Mauro, direttore del quotidiano. Ha avuto potere la Mafai? Sì, lo ha avuto, se per potere – come accade a un numero non elevato di giornalisti – si intende la capacità di influenzare una parte consistente di opinione pubblica. E lei l’ha avuta. Sia quando è stata una dirigente politica del Pci, sia soprattutto, per quasi un trentennio, come più autorevole firma femminile della «Repubblica».

Nata a Firenze nel 1926, Miriam Mafai si è sempre sentita romana. D’altra parte, suo padre Mario, cattolico, e sua madre Antonietta Raphaël, ebrea, pittori affermatissimi, furono i fondatori della cosiddetta «Scuola romana», attiva soprattutto tra il 1927 e il 1945, detta anche «Scuola di via Cavour» perché lì abitava la coppia. Negli anni Trenta la famiglia Mafai si trasferì a Parigi, un po’ per sfuggire alla pesantezza del regime fascista, un po’ – ricorda Laura Lilli («la Repubblica», 12 maggio 2005) – per raggiungere «les italiens de Paris», come venivano chiamati Giorgio De Chirico, Alberto Savinio, Gino Severini e Massimo Campigli. E lì Mario Mafai dovette accontentarsi di un lavoro da pittore di insegne, ma era troppo lento, e fu licenziato.

Al rientro in Italia, Miriam fu esclusa dal liceo in base alle leggi razziali del 1938, che colpirono sua madre. Partecipò alla Resistenza diffondendo stampa clandestina. Nel 1946 sposò Umberto Scalia, segretario del Pci dell’Aquila, dal quale ebbe due figli, e quando nel 1957 il marito fu inviato dal partito in Francia, lo seguì, diventando corrispondente per i giornali comunisti italiani. Ritornata in Italia, continuò il lavoro per «l’Unità» e «Paese Sera», finché divenne editorialista della «Repubblica», il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari nel 1976.

Intanto, nel 1962, la Mafai aveva iniziato la sua relazione con Giancarlo Pajetta, uno dei più popolari dirigenti comunisti, che lei chiamava Nullo, il suo nome di battaglia durante la Resistenza, alla quale aderì dopo aver trascorso dieci anni nelle carceri fasciste. Entrambi erano ancora sposati, con figli, e allora l’ipocrisia comunista non gradiva questo tipo di unioni. Però con i caratteri che si ritrovavano, ci voleva ben altro per dividerli. «Tra un weekend con Pajetta e un’inchiesta sceglierò sempre l’inchiesta» era solita ripetere Miriam. Ma Pajetta, più vecchio di lei di quindici anni, fu davvero il suo grande amore. Due caratteri fortissimi, in pubblico (e verosimilmente anche in privato) manifestavano appieno la loro personalità. Quando nel 1990 Pajetta morì, a 79 anni, lei disse: «Se n’è andata metà della mia vita». Lui se n’era andato di notte, senza far rumore. Reduce da una serata alla Festa dell’Unità, Nullo si ritirò nella stanza da letto gemella di quella di Miriam. Lo trovò lei al mattino, ancora vestito.

«Miriam Mafai era una donna molto libera ed era una donna molto militante» ha scritto alla sua morte Pierluigi Battista. Negli anni duri della guerra fredda, dopo un viaggio collettivo e rigorosamente programmato in Unione Sovietica, si lamentò che «per motivi per me misteriosi non avrei potuto telefonare, né spedire una lettera o una cartolina». In realtà, la rimproverò con garbo Mario Cervi, la Mafai conosceva perfettamente le ragioni di quella anomalia, come i suoi più importanti compagni di partito. Ma erano tempi in cui queste cose andavano viste e taciute. («Nei nostri comizi» avrebbe ammesso più tardi nella sua autobiografia Una vita, quasi due, uscita postuma, «spesso parlavamo dell’Urss come del paese nel quale tutti avevano un impiego, tutti i bambini andavano a scuola, tutte le donne lavoravano, dove insomma non esistevano né disuguaglianze né miseria né disoccupazione. … Chi legge oggi quelle dichiarazioni o quelle testimonianze, quei resoconti di viaggio, quelle descrizioni della vita sovietica non può che restarne sconvolto, tanto contrastano con quella che noi sappiamo oggi essere stata la realtà.»)

Pur non avendo mai rinnegato il proprio passato politico e quello del Pci, in Dimenticare Berlinguer la Mafai fece l’analisi spietata di una sinistra incapace di liberarsi dei fantasmi del passato e di allearsi in tempo utile con i socialisti anziché criminalizzarli. Capì prima di altri la portata rivoluzionaria del «miracolo economico». E nel suo libro Il sorpasso scrisse: «La cambiale con cui si acquista una Seicento è la bandiera bianca che sventola sul ponte della resistenza operaia». Nel 1994 fu eletta deputata del Pds, ma lasciò la politica alla caduta della breve legislatura: «Una cosa è dare le noccioline alle scimmie [era stata un’eccellente cronista parlamentare] e una cosa è trovarti dentro la gabbia delle scimmie».

Gianna Preda, «fascistissima» per civetteria

Quante mie colleghe sognano di diventare una Oriana Fallaci? Moltissime. Quante hanno sognato di diventare una Camilla Cederna? Molte. Quante una Rossana Rossanda? Abbastanza. Quante una Gianna Preda? Gianna chi? Giurerei nessuna. Eppure, negli anni Sessanta e Settanta, Maria Giovanna Pazzagli Predassi, romagnola di Coriano (Rimini), morta per un tumore nel 1981 a 60 anni, è stata una giornalista potente e temuta. La più importante giornalista di destra, così controcorrente da far sembrare perfino Montanelli un mansueto pollo d’allevamento. («Indro Montanelli ha quasi sessant’anni,» scrisse nel 1968 sul «Borghese» «ma è sempre l’enfant gâté dei miliardari e, ormai, anche dei grossi borghesi, di fresca data e dei freschi conti in banca. … L’età non ha maturato l’eterno fanciullo prodigio di Fucecchio. Lo ha reso soltanto più stucchevole e spregiudicato nell’arte di barare, mescolando le carte di mezze verità e delle fandonie.»)

Nata nel 1921, amava dire di non aver mai fatto parte durante il fascismo dei «milioni del consenso. Preferivo leggere, scolpire, disegnare, ascoltare musica e fare l’amore con il mio ragazzo». Fedele al suo carattere controcorrente, diventò fascistissima alla caduta del fascismo. Perché? «L’ho fatto per una forma di civetteria selvaggia.» Dopo aver lavorato al «Carlino» e al settimanale «Cronache», diretto da Enzo Biagi, a «Epoca» e al «Giornale d’Italia», fu chiamata nel 1954 da Leo Longanesi al «Borghese», fondato quattro anni prima. Con lui morì Maria Giovanna Predassi e nacque Gianna Preda.

«Il Borghese» era un giornale colto (32 pagine senza foto, secondo lo stile dell’«Economist» del tempo, carta giallina di qualità) al quale l’editore – che disegnava di persona la vignetta di copertina – aveva chiamato a collaborare i suoi amici di sempre, da Montanelli a Giuseppe Prezzolini, da Alberto Savinio a Giovanni Ansaldo. Nel 1957, con la prematura scomparsa di Longanesi, il giornale passò da un’impostazione conservatrice a una apertamente di destra. E qui Gianna Preda – prima redattore capo di Mario Tedeschi, poi vicedirettore – si scatenò nella guerra al «regime» democristiano, facendo tremare gli uomini più potenti, che venivano puntualmente massacrati nel nuovo inserto fotografico sistemato a metà giornale con immagini molto osé per quegli anni, pubblicate in parallelo con quelle di ministri e segretari di partito, e condite con didascalie pesantemente allusive.

Il capolavoro della Preda fu una clamorosa intervista del 1965 a Giorgio La Pira, l’ex sindaco di Firenze che si occupava di missioni impossibili per conto del suo grande amico Amintore Fanfani. La Pira parlò a ruota libera, probabilmente senza rendersi conto di chi aveva davvero di fronte. Pacifista fin nel midollo, era reduce da una visita al leader del Vietnam del Nord, Ho Chi Minh, allora in guerra con gli Stati Uniti. Chiamava «compagni» i comunisti nordvietnamiti e cinesi, sosteneva che il presidente americano Lyndon B. Johnson avrebbe dovuto fare presto la pace perché pressato dalla grande finanza americana, bollò di incompetenza il segretario di Stato americano Dean Rusk e si disse sicuro che la Cina non sarebbe mai stata un pericolo militare, disponendo soltanto di «otto milioni di biciclette». Con riferimento all’Italia, La Pira disse che Pietro Nenni era ormai «estinto» e che il governo Moro sarebbe durato poco. Meglio un governo di unità nazionale, che vedesse presenti sia il Pci sia il Msi.

L’intervista, ovviamente, fece molto rumore, ma diventò esplosiva quando la Preda rivelò di aver incontrato La Pira in casa di Fanfani, con il patrocinio della prima moglie dell’allora ministro degli Esteri, Bianca Rosa. Fanfani fu sorpreso dallo scoop a New York, dove presiedeva la XX sessione dell’Assemblea generale dell’Onu. Rampognò pubblicamente l’ingenua consorte, ma dovette dimettersi da ministro degli Esteri, anche perché molte delle cose dette da La Pira rispecchiavano il pensiero (riservato) di Fanfani, la cui politica era molto più aperta nei confronti dei paesi comunisti di quanto lo fosse il governo di cui faceva parte.

Memorabile anche la campagna della Preda contro il ministro dei Lavori pubblici, il democristiano Fiorentino Sullo, accusato (ingiustamente) di omosessualità in tempi in cui questa era una macchia indelebile. In realtà, il potere di Sullo era insidiato dai democristiani della nuova generazione, come Ciriaco De Mita, e la Preda capì tardi di essersi prestata a un gioco diverso dal suo. Ma ne uscì con una frase che univa al flebile pentimento un forte sarcasmo: «Poveretto, l’ho pure costretto a sposarsi».

Grande sostenitrice di Giorgio Almirante, restituì la tessera del Msi quando il segretario, pur essendo personalmente favorevole alla legge sul divorzio, schierò il partito su una posizione antidivorzista. Nel tracciarne un ritratto per Le italiane, Maria Latella osserva giustamente che negli Stati Uniti la Preda sarebbe diventata una celebrità nazionale, una Elsa Maxwell della politica, che avrebbe fatto passare notti insonni agli inquilini della Casa Bianca. In Italia, invece, stare a destra (e che destra!) la consegnò al silenzio e all’oblio, anche se gli uomini più potenti sfogliavano ogni settimana «Il Borghese» con il batticuore.

Non essere bella aiutò Gianna Preda a non sollevare invidie, ma chi la conosceva la trovava sorprendentemente affascinante. La Latella racconta che tra questi ci fu Antonio Ghirelli, il grande giornalista napoletano che fu anche portavoce di Sandro Pertini al Quirinale. All’inizio si meravigliò che Mario Tedeschi, direttore del «Borghese», ne fosse innamorato, perché «aveva poco di femminile», ma poi cambiò idea: «Quando diventai suo amico, capii che ero stato un imbecille a meravigliarmi. Tutta la bellezza e la femminilità che il padreterno le aveva negato esteriormente Gianna ce l’aveva dentro. Era una donna tenera, una creatura sensibile e vulnerabile che nascondeva la sua dolcezza dietro la foga e, talora, la volgarità della scrittura». Ghirelli era colpito anche dalla collera della Preda, capace di atterrare i potenti «quando le parevano inetti o corrotti, indegni dei loro privilegi, incapaci di affrontare la tremenda responsabilità di governare il Paese». Non osiamo immaginare che cosa avrebbe scritto durante Tangentopoli o oggi su Mafia Capitale.

La sua rubrica di posta era assai popolare. E dai suoi lettori Gianna Preda si congedò con un ultimo pezzo intitolato Per fatto personale, in cui annunciava il tumore che di lì a poco l’avrebbe portata via.