II
Da Roma antica al Risorgimento, storie di eroine e seduttrici
Il salotto di Cornelia, madre dei Gracchi
Chi ha detto che i liberali e i democratici sono un’invenzione dei tempi moderni, quelli per intenderci di Silvio Berlusconi e Matteo Renzi? Parliamo di signore e signori quasi sempre colti e un po’ radical-chic, pronti a paventare la dittatura quando l’avversario politico diventa troppo forte, ma attentissimi a occupare il potere ogni volta che ne hanno l’opportunità. Bene, il Cavaliere e il Sindaco degli italiani si rilassino. Roba del genere si è vista a Roma già 2100 anni fa in una storia di amori, intrighi e omicidi ruotata intorno a Cornelia, così fiera di essere «figlia di uno Scipione, suocera di un altro e madre dei Gracchi» che, secondo Plutarco, da vedova rifiutò di sposare un erede al trono d’Egitto, poi divenuto re con il nome di Tolomeo VIII.
Dai nostri insegnanti abbiamo appreso che, dinanzi a un’invadente matrona campana che vantava gioielli da far girare la testa, Cornelia tirò a lungo il discorso per aspettare che i figli tornassero da scuola e poi glieli presentò dicendo: «Questi sono i miei gioielli». Ma il ritratto della modesta massaia tutta-casa-e-famiglia è molto riduttivo per la madre dei Gracchi, che è stata, probabilmente, la prima donna di potere d’Italia.
Cornelia nasce bene. Figlia di Scipione Africano, che sconfisse Annibale, riceve dal padre una dote cospicua e, soprattutto, una formazione di primissimo ordine. Bella, intelligente, colta, scrive e parla un latino superbo, rimasto leggendario ancora ai tempi di Cicerone; conosce bene il greco e ammira la civiltà ellenica, che giudica superiore a quella romana. Sposa il tribuno Tiberio Sempronio Gracco, d’origine plebea, e questa dimensione interclassista, invece che un elemento di debolezza, diventa un formidabile fattore di potenza trasversale del quale beneficeranno i suoi due celebri figli, Tiberio e Gaio, i soli superstiti con la sorella Sempronia Cornelia (all’epoca era molto comune chiamare i figli come i genitori) di una nidiata di dodici marmocchi, per tre quarti morti in tenera età. E se Cornelia madre, rimasta vedova assai giovane, rifiuta nuovi importanti matrimoni, Cornelia figlia, pur minorata fisicamente, sposa un buon partito: Scipione Emiliano, celebre per aver completato l’opera del «nonno», distruggendo Cartagine.
Indro Montanelli, nella sua Storia di Roma, annota che Cornelia madre è la prima donna della nostra storia che può essere considerata un’«intellettuale» e una squisita «maîtresse de maison», oltre che la prima a essere ritenuta un punto di riferimento dagli uomini più potenti dell’epoca. Il suo salotto, infatti, riunisce il meglio dell’Urbe: i suoi ospiti sono colti, fanno il bagno tutti i giorni, tengono molto all’abbigliamento, ammirano la Grecia e la sua civiltà. Insomma, è il momento in cui la ruvidezza soldatesca e contadina della Roma arcaica evolve in qualcosa di assai più raffinato, gettando le fondamenta di una cultura destinata a durare per secoli.
I giovani Gracchi respirano questo nuovo clima e crescono secondo idee radicali. Tiberio, eletto tribuno nel 133 a.C., è un oratore eccellente e spregiudicato, che sposa la causa dei più poveri (ma rivela un’ambizione sfrenata che lo perderà). Così affronta con la giusta energia una situazione intollerabile: il grano prodotto nelle province siciliane, sarde e spagnole – frutto del lavoro degli schiavi – arriva sul mercato di Roma a un prezzo troppo competitivo per l’Italia dei piccoli e medi agricoltori, che costituivano il pilastro dell’economia romana. Più di duemila anni fa accadeva esattamente quel che si vede ai giorni nostri: una manodopera estera a basso costo mette in ginocchio le piccole aziende italiane, portandole spesso al fallimento. I proprietari, infatti, sono costretti a svendere le loro fattorie ai grossi possidenti, impinguando così il latifondo e ingrossando le file di un proletariato passivo e avido solo di sussidi.
La riforma agraria di Tiberio è un modello di equità davvero rivoluzionario per i tempi: nessuna persona può possedere più di 125 ettari (raddoppiabili nel caso abbia almeno due figli). Il resto viene distribuito alla plebe, garantendo a ogni piccolo agricoltore 7 ettari e mezzo. Il popolo impazzisce di gioia, i latifondisti giurano vendetta, gli italici e altre genti alleate di Roma che hanno le terre in affitto temono di perdere tutto, anche il miraggio della cittadinanza romana, all’epoca legata alla proprietà fondiaria. E qui Tiberio commette due errori fatali: anziché cercare la mediazione politica (lui oligarca patrizio, figlio di plebeo) incita all’odio di classe contro i «padroni». «Voi non avete nulla» grida alla folla dai rostri. «Voi combattete e morite solo per procurare lusso e ricchezza agli altri.» Gli «altri» si arrabbiano e gli mettono contro il giovane Ottavio, tribuno della plebe che si oppone alla legge. Allora Tiberio lo fa destituire e allontanare fisicamente dall’aula dai suoi sostenitori, riuscendo a far approvare la legge a furor di popolo, ma a questo punto compie un altro errore che la dice lunga sulle sue ambizioni. Per la distribuzione della terra nomina un comitato composto da tre persone: se stesso, il fratello ventenne Gaio e il di lui suocero, Appio Claudio.
Nel 133 Tiberio si candida al tribunato per l’anno successivo, violando la norma che lo impedisce, e i suoi avversari reagiscono con un tumulto. Viene abbattuto nel tempio della Fede con una bastonata alla testa e stramazza ai piedi delle statue dei sette re. Trecento dei suoi seguaci vengono trucidati allo stesso modo. Il corpo del tribuno è gettato nel Tevere, e al fratello Gaio è fatto divieto di raccoglierlo.
Alla madre fu negato il lutto
Nella sua celebre Storia di Roma antica, Theodor Mommsen giudica Tiberio Gracco un «uomo di modesto ingegno e di buone intenzioni», ignaro di quello che stava facendo, al punto di trovarsi sulla soglia della tirannide quasi senza accorgersene: insomma, «un inetto congiuratore». Opinione condivisa nella stessa famiglia del defunto. Suo cognato Scipione Emiliano ne commenta l’assassinio citando Omero: «Così perisca chiunque commetta simili azioni».
Migliore il giudizio dello storico tedesco sul fratello Gaio, che si lascia contagiare dalla passione politica e viene eletto tribuno della plebe nel 123 a.C., dieci anni dopo la morte di Tiberio. La saggia Cornelia, che aveva cercato invano di contrastare gli eccessi demagogici del primogenito, gli scrive disperata: «La demenza non finirà dunque nella nostra casa? Dove s’arresterà? Non ci siamo coperti abbastanza di vergogna per aver messo sottosopra lo Stato?». Anche Gaio è un grande oratore, un trascinatore di folle così professionale – racconta Aulo Gellio – da affidare a un suonatore di flauto il compito di segnalargli i passaggi troppo concitati dei suoi discorsi o, al contrario, una caduta di interesse negli spettatori.
Gaio è un riformista convinto, che conduce coraggiose battaglie senza avere peraltro la capacità di mediare proficuamente tra interessi in conflitto. Cornelia vigila su tutto, anche se spesso inascoltata. E quando i latini, penalizzati dalla riforma agraria di Tiberio, affidano la loro difesa a un campione dell’aristocrazia come Scipione Emiliano, il condottiero cinquantenne viene trovato morto nel suo letto poche ore prima di pronunciare l’arringa. Il suo corpo è scortato sul rogo con il volto coperto, senza che i magistrati battano ciglio (oggi diremmo che fu evitata l’autopsia).
Chi ha ucciso Scipione? Mommsen sostiene che la storia non si abbassa a raccogliere i pettegolezzi. Noi, che storici non siamo, li riferiamo: né la moglie né la suocera sarebbero estranee ai fatti. La ragion di Stato (e di potere) prevalse sui vincoli familiari.
Quando, contro il suo parere, Gaio diventa tribuno per vendicare il fratello, Cornelia lo ammonisce: «Anche a me nulla sembra più bello e più magnifico che vendicarsi del nemico, purché lo si possa fare senza rovina della patria. Ma se ciò non è possibile, rimangano i nostri nemici le mille volte ciò che sono, piuttosto che la patria perisca». Gaio non segue i consigli della madre e promuove riforme moderne e coraggiose, pur sapendo che avrebbero scatenato una rivolta: una legge per vendere alla plebe frumento a metà prezzo, l’ampliamento del diritto di cittadinanza romana, l’allargamento delle colonie e la ricostruzione (impopolarissima) di Cartagine, la progressiva abolizione dei poteri del Senato in favore dei propri. (Il punto è questo. Mommsen, che pure lo ammira, accusa Gaio di mirare alla rielezione perpetua, cioè alla monarchia.)
Il Senato, ovviamente, si ribella e il console Lucio Opimio ordina dapprima il presidio delle sedi del governo, poi offre a chi gli porterà la testa di Gaio una quantità di oro equivalente al peso. Gaio non ha scampo e tenta di fuggire, ma dopo uno spettacolare inseguimento viene assassinato insieme allo schiavo al quale aveva chiesto di dargli la morte precedendo i sicari. Si disse che, subito dopo, tremila sostenitori del tribuno furono impiccati in carcere o uccisi in altri modi.
Dopo la scomparsa di Gaio, viene distrutto il tempio della Concordia e bandita la memoria dei Gracchi. Cornelia, alla quale viene impedito di mettere il lutto, si ritira a Miseno, tra Pozzuoli e Procida. Plutarco la racconta circondata da letterati e intellettuali, spesso greci. Ama parlare del grande padre, Scipione Africano, ma se qualcuno le chiede delle sventure dei figli, le riferisce con freddezza e senza lacrime «come se si trattasse di personaggi delle età antiche». Più tardi, quando si spegne l’eco della guerra civile, Cornelia è la prima donna a vedersi erigere una statua di bronzo nel Foro Romano, con questa epigrafe: «Cornelia, figlia dell’Africano, madre dei Gracchi».
La sua fama è destinata a durare nel tempo. Quattordici secoli dopo, Dante Alighieri la collocherà nel Limbo degli «spiriti magni» con il nome di Corniglia: «Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino, / Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia» (Inferno, canto IV, vv. 127-128).
Quando Cleopatra cambiò la storia di Roma
Nel millennio che va dalla Roma di Giulio Cesare al Medioevo, le due donne che condizionarono maggiormente la politica italiana erano straniere: Cleopatra e Galla Placidia. Cleopatra è un personaggio straordinario. Il suo biografo Joachim Brambach afferma che nessuna donna della Roma antica ha esercitato sui contemporanei e sui posteri un fascino così potente come Cleopatra VII la Grande, figlia del faraone Tolomeo XII. Sarà stata pure una meretrix regina (Properzio) e un fatale monstrum (Orazio), ma era bellissima (nonostante il naso), ricchissima, coltissima (conosceva sette lingue e, all’epoca, l’egizia Alessandria era molto più raffinata di Roma), con una voce dalla sensualità irresistibile e un’indiscussa capacità di comando. Ne parliamo in queste pagine perché il suo potere sulle vicende italiane si manifestò con l’enorme e nefasta influenza che ebbe prima su Cesare e poi su Antonio.
Quando Cesare la conobbe, nel 48 a.C., aveva 54 anni ben portati, Cleopatra 21. Per rendere omaggio al condottiero romano, appena sbarcato in Egitto, il mercante Apollodoro Siculo gli portò in dono un prezioso tappeto persiano, lo srotolò dinanzi a lui e ne venne fuori una ragazza seminuda, con un corpo mozzafiato. Si ignora dopo quante ore i due giacquero insieme, ma furono certamente pochissime. La loro luna di miele sul Nilo, a bordo di un panfilo-museo, durò due mesi e fu interrotta solo dall’ammutinamento dei soldati romani, che volevano tornare a casa.
Per rafforzare l’alleanza politica con Roma, Cleopatra si fece mettere subito incinta (nacque Cesarione). Fu il penultimo schiaffo di Cesare alla moglie Calpurnia, sterile, che gli perdonava le molte amanti (e i molti amanti, essendo il grande condottiero perfettamente bisex) ma che si ribellò dinanzi al pubblico clamore suscitato dalla nuova conquista. L’ultimo schiaffo fu il trionfo di Cleopatra a Roma: la fantastica residenza che le fu messa a disposizione ai piedi del Gianicolo diventò un salotto di lettere e potere, affollato di questuanti di ogni classe sociale, come accade puntualmente da secoli per la preferita del principe. (Cicerone chiese una raccomandazione, non la ottenne e si vendicò, secondo le sue abitudini.) E siccome Cesare aveva perso la testa per lei, compì un gesto senza precedenti: nel suo Cleopatra, Michael Grant ricorda che il condottiero fece erigere nel Foro Giulio una statua d’oro della regina egizia accanto a quella di Venere Genitrice, alla quale doveva sciogliere un voto dopo la vittoria di Farsalo.
Quando, però, nel 44 a.C. Cesare cadde sotto il pugnale dei congiurati, Cleopatra se la svignò subito, tornando a casa. Ma l’Egitto restava un alleato fondamentale per Roma, e così Ottaviano, erede e successore di Cesare, spedì in Oriente Marco Antonio, il quale la convocò a Tarso, capitale della Cilicia (l’odierna Turchia meridionale). Plutarco e Shakespeare si contendono il primo posto nella classifica di chi ha descritto meglio l’incontro tra i due. Cleopatra si presentò come una Venere circondata da amorini su un vascello dalla poppa d’oro e una fanciulla «simile a una sirena» al timone. E Antonio, che era più avvenente e più giovane di Cesare (aveva 39 anni), rimase letteralmente stordito dalla sua bellezza e dal suo fascino, nonché dal fasto della corte, ancora sconosciuto a Roma dove solo con l’impero ci si sarebbe lasciati andare a certe mollezze.
I due diventarono subito amanti, facendo infuriare Fulvia, legittima sposa del generale, che in casa lo comandava a bacchetta. Ma Fulvia morì poco dopo, e Ottaviano ne approfittò per imporre in moglie ad Antonio la sorella Ottavia, un fiore di ragazza, bella, colta, docile e innamorata. Si sposarono nell’autunno del 40, proprio mentre Antonio diventava padre di due gemelli avuti da Cleopatra, che aveva utilizzato con lui la stessa tecnica adottata con Cesare.
Non sappiamo come si sarebbe conclusa la storia della regina egizia con il conquistatore della Gallia se questi non fosse stato ucciso dai congiurati, di sicuro quella con Antonio finì malissimo. Lui, che era uno dei più valorosi condottieri romani, aveva perso completamente la testa per Cleopatra, al punto non solo di farsi sconfiggere rovinosamente dai Parti, ma di regalarle interi Stati, sottraendoli all’impero romano e intestandoli ai figli dell’amante: quello che aveva avuto da Cesare e i gemelli che aveva avuto da lui.
Nel frattempo, Antonio aveva bloccato in Siria la moglie Ottavia, che era corsa verso l’Egitto con il proposito di riconquistarlo, e poi la ripudiò, imponendole persino di lasciare la casa coniugale. E poiché era ormai diventato un pericolo per Roma, dove l’opinione pubblica si era rivoltata contro di lui, il suo ripudio di Ottavia costituì un’offesa personale che Ottaviano doveva lavare con il sangue. Lo fece ad Azio, nella Grecia ionica, il 2 settembre del 31 a.C. Se Antonio avesse combattuto sulla terraferma, probabilmente avrebbe vinto, ma Cleopatra lo indusse ad affrontare Ottaviano sul mare, e fu un disastro. Anche perché il vantaggio della flotta romana diventò incolmabile quando, ancor prima dell’inizio della battaglia, la regina ordinò ai suoi sessanta vascelli di ritirarsi. Vista la malaparata, molti marinai romani alzarono i remi in segno di resa e Antonio fu costretto a fuggire. Allora Ottaviano mosse verso Alessandria e meno di un anno dopo, ai primi cenni dello scontro finale, gli uomini di Antonio si arresero in massa. Rimasto solo, il condottiero romano si suicidò.
Sull’incontro tra Ottaviano e Cleopatra ci sono due versioni opposte: la prima descrive la regina pronta a sedurlo, ma senza riuscirvi (lui evitò persino di guardarla negli occhi); la seconda racconta di una donna umiliata e disfatta, nonostante avesse soltanto 39 anni. Il sensuale morso a un capezzolo da parte di un aspide nascosto in un cesto di fichi fece uscire di scena, con grande dignità, una donna la cui memoria sarebbe sopravvissuta alla polvere dei millenni.
Messalina e Agrippina, la lussuria al potere
Nella Roma imperiale, due donne ebbero uno straordinario potere, Messalina e Agrippina, mogli entrambe dell’imperatore Claudio. Siamo negli anni Quaranta dell’era cristiana, ottantacinque anni dopo la morte di Giulio Cesare. Claudio, zio di Caligola, diventò imperatore all’età di 50 anni e non gli fu difficile far meglio del folle e sanguinario nipote. Ma per Ottaviano era solo un «poveretto», come era solito chiamarlo, e non molto più lusinghiero è il giudizio degli storici a lui contemporanei, secondo i quali era vittima delle terribili mogli e dei liberti, che promosse a cariche importanti. Viceversa, gli storici moderni, alla luce di documenti dell’epoca, l’hanno largamente riabilitato. Claudio, infatti, estese i confini dell’impero e ne potenziò la struttura istituzionale, fece costruire nella capitale un grande acquedotto, perfezionò la gestione del grano e restituì al Senato un po’ di quella libertà che gli era stata sottratta da Caligola.
Pronipote per linea diretta di Ottaviano, Messalina era uno schianto già a 14 anni, quando sposò Claudio, che ne aveva trentacinque in più, a cui diede due figli, Ottavia e Britannico. Quando lui fece rientrare dall’esilio di Ponza, dove erano state confinate da Caligola, le due sue giovani e splendide nipoti Agrippina e Giulia Livilla, non la prese affatto bene. Messalina era padrona assoluta della corte, ma invece di tenersi stretto il marito con l’intelligente virtù di una Cornelia, fu vittima di una malattia inesorabile: il sesso estremo.
Giovenale, che coniò per lei l’appellativo di «meretrix Augusta», racconta nelle Satire che la sera, appena Claudio si era addormentato, usciva dal palazzo Palatino con una parrucca bionda in testa e, accompagnata da un’ancella, si recava al postribolo. Qui, con il nome d’arte Licisca, si accoppiava a pagamento con quanti più uomini poteva finché, esausta ma non ancora sazia, rincasava portando nel letto imperiale «il puzzo del bordello». Nel libro X della sua Naturalis historia Plinio il Vecchio, che non era certo una malalingua, racconta che Messalina sfidò a una gara di «resistenza» la più nota prostituta di Roma. E vinse, giacendo con venticinque uomini in una notte: quattro all’ora, più o meno, per sei ore, o cinque per cinque ore, qualora la prudenza l’avesse richiamata al tepore del letto nuziale prima dell’alba.
Se di notte si abbandonava ai piaceri della carne, di giorno teneva gli occhi bene aperti. Appena notò che il marito si era invaghito della bellissima Giulia Livilla, la tolse letteralmente di scena. Claudio ci provò anche con Agrippina, ma la nipote, pensando al futuro del figlio Nerone, lo respinse e aspettò pazientemente il suo turno, che venne forse ancor prima del previsto. La voglia insaziabile di sesso spingeva infatti Messalina, oltre che a frequentare nottetempo i postriboli romani, ad accoppiarsi alla luce del giorno con tutti gli uomini più eminenti della corte. E chi la rifiutava era morto. Come capitò al potentissimo Valerio Asiatico, amante di Poppea, la donna più bella di Roma, fatto ammazzare dalla meretrix Augusta dopo un processo farsa istruito per due ragioni: la gelosia per Poppea e il desiderio di impossessarsi dei giardini di Asiatico, i famosi Orti di Lucullo.
A perdere Messalina fu la sua megalomania. Innamoratasi di Gaio Silio, che faceva strage di cuori fra le matrone romane, lo obbligò a divorziare, lo presentò in pubblico come prossimo imperatore e, giura Tacito, mentre Claudio era lontano da Roma lo sposò addirittura davanti al Senato: insomma, un colpo di Stato in piena regola. Al ritorno, ovviamente, l’augusto imperatore li fece ammazzare entrambi come se niente fosse. E la sera a cena, racconta Svetonio, non vedendola al suo posto chiese ai servi: «Perché l’imperatrice non viene a tavola?».
Agrippina non aspettava altro. Alla soglia dei 60 anni, Claudio non aveva nessuna intenzione di risposarsi, ma lei lo circuì e lo costrinse al matrimonio, di cui l’imperatore si pentirà amaramente. Perché la nuova moglie non amava né il marito né il ruolo imperiale, ma solo il potere. Fece infatti sposare il proprio figlio Nerone con la figlia di Claudio, elevandolo così nella scala dinastica al di sopra del più giovane Britannico. Claudio cominciò ben presto, però, a seccarsi dei traffici della moglie, e probabilmente l’avrebbe eliminata come aveva fatto con Messalina se lei non l’avesse preceduto avvelenandolo, chi dice con un piatto di funghi malsani, chi addirittura con una sorta di penna alla James Bond che un medico complice gli avrebbe messo in bocca iniettandogli un veleno potentissimo.
Purtroppo per lei (e per i romani) Agrippina non era stata quella che si direbbe una madre esemplare. Nerone era di una crudeltà leggendaria, pari solo alla libidine patologica che lo portò ad accoppiamenti di ogni genere, perfino con l’augusta madre. Così, almeno, assicura Svetonio. La donna capì di aver partorito un mostro e, in un accesso d’ira, gli disse che avrebbe favorito l’ascesa imperiale di Britannico. Lui non batté ciglio e fece avvelenare il concorrente nel bel mezzo di un banchetto, senza nemmeno alzarsi da tavola alla vista del cadavere. E, per evitare il rischio di seccature ulteriori, decise di eliminare anche la madre. Ma Agrippina aveva la scorza dura e sopravvisse a ben tre attentati venefici. Emarginata dalla corte, si ritirò ad Anzio, aspettando il giorno fatale.
Come ci hanno insegnato i film di spionaggio, il cattivo di turno non si limita a voler uccidere le sue vittime, ma architetta messe in scena spettacolari per il proprio godimento e per prolungare l’agonia degli sventurati. Così Nerone invitò la madre a un banchetto di riconciliazione a Baia, in Campania, e per rimandarla a casa la imbarcò su una nave imperiale con la cabina manomessa: appena raggiunto il largo, il soffitto imbottito di piombo sarebbe crollato addosso all’imperatrice o, comunque, avrebbe provocato l’affondamento dell’imbarcazione. Lei non solo sopravvisse al crollo ma, gettatasi in acqua, sfuggì pure ai colpi di remo dei marinai che avevano l’ordine di ucciderla.
L’anima nera delle varie congiure contro Agrippina era Seneca, uno dei miti dei nostri studi classici (l’altro era Cicerone, genio e un po’ mascalzone anche lui). Fu il filosofo a mettere Nerone con le spalle al muro: o ammazzi tua madre o ti rassegni a governare con lei. La prima che hai detto, fu la risposta dell’imperatore. Stanco di veleni e attentati falliti, le spedì a casa un bel gruppo di sicari armati di pugnali, che la finirono. Si vuole che, vistasi perduta, la donna – ancora procace a 44 anni – si sia denudata e, indicando l’addome, abbia detto al capo dei sicari, che poi era il pedagogo del figlio: «Colpisci questo, che ha generato Nerone». Ma l’altro non si intenerì.
Galla Placidia, regina romana e imperatrice dei visigoti
Galla Placidia, sorella dell’imperatore romano d’Occidente Onorio, fu molto meno straniera di Cleopatra. Nata a Costantinopoli (l’odierna Istanbul), si trasferì ben presto a Roma perché non le piaceva né l’aria che si respirava nella corte turca, né quella di Ravenna, diventata capitale dell’impero nel 402. (All’epoca la città era circondata da acquitrini, fonte di malaria, ma Onorio vi si era trasferito da Milano perché la giudicava meno esposta all’attacco dei visigoti di Alarico e meglio difendibile, e comunque era pur sempre dotata del principale porto dell’Adriatico.)
Galla aveva 20 anni quando nel 410, durante uno dei tanti sacchi di Roma, i visigoti di Alarico la presero prigioniera. (Il re barbaro avrebbe preferito allearsi con l’imperatore romano anziché sottometterlo. Ma Onorio, che non era un grand’uomo, rispose picche, si asserragliò a Ravenna e lasciò Roma assediata senza rinforzi, fino allo scontato epilogo.) Donna affascinante, come testimonia un mosaico che la raffigura, fu trattata dai barbari con gran rispetto, cosicché non ebbe problemi a ricambiare l’amore di Ataulfo, fratello e successore di Alarico, quando quest’ultimo morì di malaria durante la conquista dell’Italia meridionale.
Jordanes, autore bizantino di una Storia dei goti, racconta che Onorio non diede il consenso al matrimonio finché il condottiero visigoto non gli ebbe mostrato un concreto riguardo quando, risalendo l’Italia e penetrando in Francia attraverso le Alpi, lo lasciò indisturbato a Ravenna. Indro Montanelli e Roberto Gervaso, nel loro L’Italia dei secoli bui, si divertono a descrivere la cerimonia nuziale avvenuta nel gennaio 414 nella città francese di Narbona (Narbonne): cinquanta bellissimi adolescenti, destinati a Galla Placidia come schiavi, recavano altrettanti vassoi ricolmi di tutti gli ori e pietre preziose saccheggiati a Roma. Giorni e notti di baldoria sancirono la distensione tra germani e latini. L’anno successivo il saggio Ataulfo rimase vittima di un attentato mentre combatteva in Spagna, ma prima di morire fece in tempo a dire ai suoi: «Vivete in amicizia con Roma e restituite Placidia all’imperatore».
Tornata a Ravenna e ormai vedova, Galla dovette arrendersi alla ragion di Stato sposando Costanzo, un maturo generale buontempone che il fratello imperatore avrebbe voluto rifilarle come marito ben prima di Ataulfo, e poiché Costanzo fu associato al trono, lei fu proclamata Augusta.
Galla ebbe due bambini, Onoria e Valentiniano, che diventò principe ereditario. Alla morte prematura di Costanzo, per sottrarsi alle insidie incestuose di un fratello Galla scappò a Costantinopoli dal nipote Teodosio II, imperatore romano d’Oriente, che la fece riaccompagnare in Italia da un adeguato corpo di spedizione. Sotto la forte tutela materna, nel 425 Valentiniano compì la marcia trionfale da Ravenna a Roma, dove venne proclamato in Campidoglio imperatore con tanto di porpora e di diadema. Ma siccome aveva soltanto 6 anni, in attesa della sua maggiore età la reggenza fu assunta dalla madre, la quale esercitò comunque l’effettivo potere imperiale fino alla morte.
Resta ancora da stabilire se Galla Placidia abbia tenuto l’impero con pugno di ferro, considerando il figlio un eterno bamboccione, oppure se si sia occupata più di problemi religiosi che di strategie politiche, ma sarà ricordata per sempre per lo straordinario mausoleo che ne porta il nome a Ravenna, città che le deve molto: lo commissionò lei stessa nel 425 come monumento funebre, non si sa se per la propria famiglia o per altri. Morì sessantenne a Roma nel 450, poco prima della definitiva liquidazione dell’impero romano d’Occidente, e resta un mistero dove siano custodite le sue spoglie.
Matilde di Canossa, la bella guerriera amica del papa
Con tutto il rispetto per le donne politiche contemporanee, nessuna di loro raggiungerà mai il carisma di Matilde di Canossa (nata nel 1046, forse a Mantova), la donna più potente dell’intera storia d’Italia, di cui l’autore di questo libro si è devotamente innamorato. Non tutti sanno che Gian Lorenzo Bernini, prima di essere un grande scultore, era un imprenditore della scultura: riceveva tante e tali commissioni da respingerne molte («Non ho tempo, rivolgetevi all’Algardi» diceva con disprezzo verso il collega bolognese). Tra quelle che accettava, riservava per sé solo i capolavori, affidando il resto alla nutrita bottega. Bene, nel monumento funebre a Matilde, commissionatogli nel 1633 da Urbano VIII per la basilica di San Pietro, il corpo a figura intera della contessa è frutto esclusivo delle sue mani. Giovane, bella, alta, fiera, lo scettro nella destra, il triregno pontificio e le chiavi di san Pietro nella sinistra. Il corpo è fasciato da un abito morbido, perché Matilde fu grande condottiera e donna di Stato, ma ancora a 40 anni era uno schianto, pur rinunciando – a quanto è dato sapere – ai tanti amori possibili per non tradire la sua missione.
Per la verità, quando aveva 23 anni, papa Gregorio VII le impose un marito. La contea posseduta dalla famiglia di Matilde, che aveva come capitale Canossa, una rocca fortificata dell’Appennino reggiano, era di grande rilevanza non solo dal punto di vista territoriale, comprendendo una parte della Lombardia, l’Emilia, la Romagna e una porzione della Toscana, ma anche da quello strategico, dal momento che costituiva un passaggio obbligato per chi scendeva dalla Germania a Roma. La ragazza era rimasta sola con la madre, perché il padre, un tipaccio, era stato ucciso da una freccia avvelenata durante una partita di caccia, e il fratello e la sorella eliminati dall’imperatore tedesco Enrico III, che aveva messo gli occhi sulla contea. Per unire alla contea di Toscana il ducato di Lorena – entrambi ostili all’imperatore – papa Gregorio le ordinò di sposare il fratellastro Goffredo, figlio di secondo letto della madre e di un duca tedesco, che era piccoletto e anche un po’ gobbo. I sogni di una bella ventenne vennero traumaticamente frustrati.
Si ignora per quanto tempo Matilde abbia fatto accostare il marito al talamo nuziale, il fatto certo è che lo cacciò di casa. La ragazza si accusò di «viziosi rapporti» con il marito davanti al papa, che le ingiunse di interromperli: del matrimonio d’interesse, ormai, non gli importava più nulla, visto che in assenza di eredi la contea sarebbe passata alla Chiesa. Costretto a tornarsene in Germania, Goffredo si vendicò dicendo che l’ex moglie se la spassava con il pontefice, ma nessuno gli diede retta. Morì nei pressi di Anversa in maniera ben poco eroica: mentre stava facendo i suoi bisogni in aperta campagna, un sicario gli piantò un pugnale tra le natiche, lasciandovelo infilzato. Non c’è evidenza di un delitto su commissione da parte della terribile ragazza.
Matilde annegò in visioni, estasi e scabrosi esercizi spirituali gli appetiti sessuali repressi, ma non perse mai il controllo di sé e, alla morte della madre, prese energicamente e saldamente nelle sue mani le briglie del potere per non lasciarle più. Oltre a essere bella, era anche colta: parlava fluentemente il tedesco e il francese. Essendo cugina dell’imperatore Enrico IV e fedelissima del papa, era la persona ideale per fare da mediatrice tra i due. Vari signori d’Europa fecero a gara per conoscerla e corteggiarla, ma lei li respinse uno dopo l’altro, votata ormai soltanto alla sua missione.
Siamo nel 1077, in pieno Medioevo. L’imperatore del Sacro Romano Impero e il pontefice erano in guerra: il primo nominava vescovi dichiarando deposto il papa, il secondo lo scomunicava, liberando i suoi feudatari dal vincolo di obbedienza. Così, Enrico si trovò politicamente sconfitto e fu costretto a cercare un accordo con Gregorio VII, poiché nel Medioevo l’esercizio dell’autorità e del potere al di fuori della cristianità era semplicemente inconcepibile. L’imperatore, dunque, si rassegnò a chiedere perdono al papa: valicò le Alpi lacero come un mendicante, accompagnato soltanto dalla moglie e da pochi servitori, senza alcuna scorta militare. Tuttavia, giunto al castello di Bianello, a un passo da Canossa, scoprì che il papa non aveva alcuna intenzione di riceverlo. A quel punto fu Matilde a convincere il riluttante Gregorio VII con un sottile distinguo: perdoni il peccatore, non il politico. A sistemare l’imperatore ci avrebbe pensato la Dieta tedesca, al cristiano pentito non si neghi l’abbraccio papale. Il pontefice accettò, ma a patto che l’imperatore si umiliasse pubblicamente.
Allora Enrico si spogliò degli abiti regali, indossò un saio, s’inginocchiò a piedi nudi dinanzi allo spiazzo innevato sul quale si apriva la porta del castello e cominciò a battersi il petto. Il primo giorno trascorse così. All’alba del secondo – covando dentro di sé un formidabile desiderio di vendetta – Enrico si presentò di nuovo. Era il 26 gennaio 1077. Ma la porta restò chiusa per l’intera giornata. E così il 27. Matilde perse la pazienza e accusò il papa di comportarsi non secondo «il rigore della severità apostolica», quanto piuttosto con una «crudeltà di tirannica fierezza». Finalmente, la mattina del 28 gennaio le porte del castello di Canossa si aprirono ed Enrico IV attraversò con i piedi nudi e assiderati il cortile per arrivare di fronte al pontefice, seduto in trono accanto alla padrona di casa e a dignitari di mezza Europa.
Il pranzo preparato per festeggiare l’evento fu uno dei più memorabili di tutto il Medioevo, non tanto per il numero di portate (una ventina) quanto per la raffinatezza dei cibi. Oltre ai piatti più noti del tempo, come gli spiedi di capriolo, fagiano e pernici, vennero proposti cibi veneti dai sapori orientali, come la bramagere, prima lessata e poi fritta (una specie di «biancomangiare» con pollo, farina di riso, latte di pecora, acqua di rose, mandorle, chiodi di garofano…). Quando arrivò in tavola candida, in quanto interamente ricoperta di zucchero, i commensali proruppero in un «ohhhhh» di meraviglia e di compiacimento. Fu servita anche la coratella d’agnello, la cui preparazione aveva richiesto due intere giornate, mentre Enrico IV si assiderava fuori della porta. E poi la zuppa di ceci, il vitello ripieno di selvaggina e, infine, le composte a base di frutta esotica…
Rifiutò il bello e sposò il brutto
Pace fatta? Nemmeno per idea. Enrico se ne tornò in Germania con il solo proposito di arrostire a fuoco lento il papa e la «cara cugina» Matilde. Sconfisse i principi tedeschi, nominò un antipapa e nel 1083 scese in Italia per fare sfracelli. Ma aveva sottovalutato – e di molto – la bella contessa, che in questa occasione mostrò tutto il suo genio militare. Non potendo affrontare Enrico in campo aperto data l’esiguità del proprio esercito, Matilde decise di farlo impazzire con la guerriglia. Per l’esercito imperiale, che puntava su Roma, il passaggio dell’Appennino si rivelò un vero e proprio incubo, tali e tanti furono gli agguati, le mosse a sorpresa, le prese alle spalle, le riconquiste di castelli perduti ai suoi danni.
Queste notizie erano musica per le orecchie di papa Gregorio, asserragliatosi nell’imprendibile fortezza di Castel Sant’Angelo, mentre Enrico s’illudeva di aver vinto la partita entrando in San Pietro, nominando un altro antipapa di comodo, Clemente III, e facendosi incoronare. Bloccato a Roma, l’imperatore doveva chiudere la partita di Canossa: mandò all’assalto di Matilde il migliore dei suoi generali, il marchese Oberto d’Este, che però la contessa fermò a Sorbara, dove nel frattempo il suo esercito si era rafforzato. Ma l’astuta Matilde continuò a rifiutare la battaglia in campo aperto. Mentre Oberto era convinto che fosse ansiosamente rinchiusa a Canossa, lei di notte, in gran segreto, si mise alla testa di un reparto speciale, diremmo oggi, forte di duemila uomini, che circondò l’accampamento dove i soldati nemici dormivano esausti. Fu lei a lanciare il grido: «San Pietro, a noi!», ripetuto da duemila bocche con una forza che – unita a quella della sorpresa notturna – diede a Oberto la sensazione di essere assaltato da un’armata invincibile. Il marchese fu ucciso subito e Matilde non risparmiò i pochi dei suoi che non erano riusciti a fuggire in tempo.
Lasciando l’antipapa a Roma per correre in Germania dove i principi sassoni si erano nominati un altro re, Enrico non assistette alla ritirata delle sue truppe, sconfitte il 27 maggio 1084 da Roberto il Guiscardo, che il papa titolare, Gregorio VII, aveva chiamato in soccorso dalla Sicilia. Purtroppo il Guiscardo non era andato troppo per il sottile nell’allestire il suo esercito. I saraceni, che ne costituivano la maggioranza, uccisero, violentarono, deportarono migliaia di romani (al confronto i lanzichenecchi di Enrico si erano comportati da gentiluomini), alimentando così un comprensibile odio del popolo verso papa Gregorio che, liberato da Castel Sant’Angelo, dovette riparare a Salerno, dove morì nel 1085.
Il successore al soglio pontificio, Vittore III, provò a entrare in Vaticano, ma l’antipapa Clemente III, protetto dalla soldataglia tedesca, non aveva nessuna voglia di sloggiare. A Vittore non parve vero tornarsene a Montecassino, dov’era stato abate, per morirvi rapidamente in pace, ancorché Matilde l’avesse preso per la tonaca e riportato a Roma ogni volta che aveva tentato la fuga. Infine, nel 1088, arrivò un papa contento di esserlo, il francese Urbano II, che provò anche a trovare un marito alla contessa.
Matilde aveva 42 anni ed era ancora bella. Un giorno le si presentò un cavaliere degno del Principe azzurro delle fiabe: Roberto Cosciacorta, duca di Normandia e figlio del re d’Inghilterra Guglielmo il Conquistatore, che, a dispetto di un nome che non lasciava presagire niente di buono, era invece un uomo affascinante, valoroso e gaudente. Insomma, il marito ideale per una donna che, mistica quanto si vuole, cavalcava con gli speroni d’oro e aveva una corte da regina. In una settimana lui s’innamorò di Matilde e la chiese in moglie. Lei rifiutò, ma poco dopo fu costretta suo malgrado ad accettare la proposta del papa che, per giochi di alleanza e di potere, le impose di sposare Guelfo di Baviera, un sedicenne detto (purtroppo a proposito) il Pingue. La corte canossiana, che era letteralmente impazzita per il bel Roberto di Normandia, dovette festeggiare le nozze forzate della contessa. Nemmeno due anni dopo, anche Guelfo fu congedato.
Intanto la guerra con Enrico IV continuava imperterrita. Nel 1092 l’imperatore puntò su Canossa per chiudere definitivamente la partita, ma la contessa – ormai sulla soglia dei 50 anni – lo attaccò alle spalle con un’altra guarnigione nascosta a Bianello e ne sgominò l’esercito. Tirò, inoltre, al «caro cugino» il più atroce degli scherzi: chiamò a Canossa il figlio primogenito di Enrico, Corrado, e lo fece proclamare re d’Italia nel duomo di Monza dall’arcivescovo, che gli pose sul capo la corona di ferro che era stata di Teodorico. Un’autentica carnevalata, visto che il solo Corrado credeva ai poteri regali da lui detenuti.
Intollerante con i mariti, e visto che doveva pur avere un maschio in casa, nel 1099 Matilde adottò il giovane conte Guido Guerra, cittadino di Firenze, la città più fedele ai Canossa, che peraltro scomparve da ogni documento appena nove anni dopo. Ma ormai era tempo di fare la pace con la Germania.
Già nel 1093 le principali città lombarde avevano stipulato un patto ventennale con Matilde, facendo nascere di fatto l’Italia dei Comuni: il suo potere si era consolidato, mentre Enrico IV morì nel 1106, sconfitto su tutta la linea. Suo successore fu il terzogenito, Enrico V, con il quale Matilde venne finalmente a patti: chiariti i confini dei feudi e rispettivi poteri, fu nominata regina d’Italia e Vicaria imperiale. La contessa morì a 70 anni di gotta (quanta carne si mangiava a Canossa e nelle corti europee…). Lasciò alla Chiesa tutti i suoi beni personali e fu venerata per secoli, come meritava.
Isabella d’Este, regina del Rinascimento
Bisogna aspettare quattro secoli per trovare una donna di potere all’altezza di Matilde. Isabella d’Este (Ferrara, 1474) sposò a 16 anni Francesco Gonzaga, rampollo dei signori di Mantova, dopo dieci anni di fidanzamento. Ed Ercole, padre di Isabella, non badò a spese per la festa nuziale, prosciugando le finanze ducali. Tanto che, dovendo la secondogenita Beatrice andare in sposa a Ludovico il Moro, duca di Milano, si vide costretto a chiedere ai sudditi un contributo volontario per non sfigurare con il potentissimo vicino.
Francesco non era un modello di fedeltà, ma fece onore al letto coniugale, ricevendo dalla moglie nove figli in quattordici anni. Tuttavia, il meglio di sé lo diede all’amante Teodora Suardi, che lo seguiva ovunque, onorata secondo un rango che non aveva. La marchesa era bella, colta, elegante, ammirata dagli ambasciatori, che ne riferivano meraviglie. Sopportò con levità i tradimenti del marito, come d’uso al tempo. Sopportò quelli con le varie Teodore e perfino quello con Lucrezia Borgia, sua cognata per averne sposato il fratello Alfonso. Ma, al contrario delle «colleghe», lo fece senza alcun rimpianto, essendo la cultura e non il sesso il primo dei suoi pensieri.
Quando Francesco, consumato dalla sifilide, la lasciò reggente a 45 anni, Isabella diventò la vera regina del Rinascimento. Immaginate una corte frequentata, fra gli altri, da Raffaello, Tiziano, Leonardo, Bellini e Mantegna, Ariosto e Bembo. Ora, su un punto i coniugi Gonzaga erano andati sempre d’accordo: il braccino corto nel pagare gli artisti. Parsimonia (o tirchieria) di cui la marchesa fece un’arte quando prese il potere. La leggenda vuole che abbia sempre pagato poco o niente i capolavori che commissionava o che le venivano proposti. La cosa certa è che, quando dovette sborsare 115 ducati per il Passaggio del Mar Rosso di van Eyck, si dichiarò rovinata.
La diceria riportata da Indro Montanelli e Roberto Gervaso in L’Italia della Controriforma secondo cui Leonardo e Bellini se ne sarebbero andati indignati dopo che era stato loro rifiutato un anticipo, si è rivelata infondata, almeno per quel che riguarda Leonardo. Il genio di Vinci sembrava essersi fermato dopo lo schizzo (un delizioso profilo di Isabella) di un dipinto mai fatto. In realtà, portò a termine il lavoro, come dimostra il dipinto a olio sequestrato dalla guardia di finanza in Svizzera nel 2013. (Alla devozione di Mantegna per casa Gonzaga si deve anche la meravigliosa Camera degli sposi in palazzo Ducale, uno dei capolavori assoluti del Rinascimento, realizzata tra il 1465 e il 1474.)
Isabella era legatissima alla sorella Beatrice, moglie del Moro, e alla cognata Elisabetta Gonzaga. Eppure, quando questa fu cacciata dal ducato di Urbino da Cesare Borgia insieme al marito Guidobaldo da Montefeltro, con raffinato sadismo chiese al Borgia di regalarle un Cupido di Michelangelo dimenticato da Elisabetta nella fretta del trasloco.
Grande giocatrice di scacchi, lo fu anche in politica. Ma, come si sa, i figli crescono, e quando il primogenito Federico raggiunse la maggiore età, iniziò a soffrire dell’invadenza materna, fino a costringerla a traslocare a Roma. Qui Isabella assistette al sacco del 1527 e diede generosa ospitalità a duemila rifugiati nel suo palazzo, protetta da un altro figlio, Ferrante, schierato con l’imperatore tedesco.
Non sappiamo se in politica Federico fu bravo quanto la madre. Non lo fu certamente con le donne, visto che Isabella fu richiamata di gran carriera a Mantova per mettere ordine nella vita sentimentale (si fa per dire) del giovanotto, che per insipienza e/o giochi di alleanze ebbe tre mogli, una delle quali – Maria Paleologa – sposata due volte.
La morte (a 65 anni) di Isabella è circondata dal mistero. Fu sepolta nella chiesa di Santa Paola a Mantova, ma le sue ossa sono scomparse dal sarcofago, pare insieme a quelle del marito. Nel suo Chi ha ammazzato Isabella d’Este? Giancarlo Malacarne non esclude fin dal titolo le ipotesi più inquietanti.
Le due italiane sovrane di Francia
Due donne, entrambe della famiglia fiorentina dei Medici, ebbero uno straordinario potere nel tardo Rinascimento. E non in casa loro, ma in Francia. Caterina, nata nel 1519, orfana dei genitori quasi nella culla e protetta dall’autorevole zio Clemente VII (Giulio de’ Medici), dimostrò la sua tempra già all’età di 11 anni, quando i rivoltosi fiorentini – furibondi con i Medici che erano fuggiti dalla città per timore dei lanzichenecchi – andarono a prenderla in ostaggio in un convento. La bambina li pregò di aspettare sino al giorno dopo e l’indomani si fece trovare vestita da suora, fingendo una vocazione tanto improvvisa quanto sincera. Chiamata a Roma dallo zio pontefice, appena quattordicenne Caterina flirtò con un bel cugino, il giovanissimo cardinale Ippolito de’ Medici, ma Clemente VII preferì darla in sposa a Enrico di Valois, figlio di Francesco I, re di Francia. Di qui il trasferimento a Parigi e l’inizio di una vita in cui il potere ebbe subito la meglio sull’amore.
A 17 anni, infatti, il marito era diventato amante di Diane de Poitiers, che, vedova del Gran Siniscalco di Normandia, a 37 anni era ancora «una donna bellissima, bianca, delicata e freschissima». Questo il ritratto che riportò a Caterina un testimone inviato a spiare gli amanti, il quale volle aggiungere che la signora «faceva al suo amante mille carezze, moine e cosucce gradevoli», debitamente ricambiate. Quando Enrico diventò re di Francia nel 1547, consacrò Diane «amante di Stato». La favorita non insidiò mai il ruolo ufficiale di Caterina, ma a corte contava moltissimo. La regina era rassegnata: «Era la volontà del re» confesserà molto più tardi «benché non gli nascondessi che vi acconsentivo mio malgrado: perché mai nessuna donna che ha amato il proprio marito ha amato la sua puttana».
Le venne in soccorso la Provvidenza: il marito morì dopo dodici anni di regno, trafitto da una lancia amica in un torneo cavalleresco. E Caterina, approfittando prima della reggenza e poi della debolezza dei figli, si dimostrò subito una formidabile donna di potere. Liquidò Diane in quattro e quattr’otto e conquistò con gran piglio una corte che aveva già sedotto con profumi e leccornie. Secondo Marcello Vannucci, autore di Caterina e Maria de’ Medici, regine di Francia, probabilmente fu proprio l’italiana a introdurre a Parigi il profumo, importando dalla Germania l’acqua di Colonia. In cucina fece anche di meglio. Portò dall’Italia olio d’oliva, spinaci, carciofi, fagioli e piselli. Insegnò l’uso delle crespelle, esportò la ricetta dell’anatra all’arancia e tanti piatti entrati poi nei menu internazionali come francesi, ma che in realtà furono frutto dell’inventiva della grande fiorentina.
Caterina non ebbe buoni rapporti con Maria Stuarda, moglie del figlio primogenito Francesco, che salì sul trono a 15 anni e morì giovanissimo, e non riuscì a impedire che il terzogenito Carlo IX, incoronato a 10 anni, prima di morire di sifilide e tubercolosi a 24 ordinasse il 23 agosto 1572 il massacro degli ugonotti nella «notte di San Bartolomeo». Sulla parte avuta da Caterina in questo tragico evento, i pareri sono discordi. Se la storiografia tradizionale accredita l’idea che sia stata proprio la madre ad armare la mano del figlio per ristabilire il potere dei cattolici, la storiografia moderna attribuisce alla nobiltà cattolica la trama della strage, che portò a una guerra di religione lunga vent’anni durante la quale Caterina indossò sempre l’abito nero. Comunque sia, nel 1588 Enrico III, suo quarto figlio maschio e re di Francia, fece assassinare Enrico di Guisa, capo della Lega cattolica, e spostò l’asse del potere in favore dei protestanti. Caterina, che da vera donna di Stato era riuscita a garantire un pur precario equilibrio religioso, morì amareggiata tredici giorni dopo l’uccisione di Guisa.
Nel 1572 Caterina aveva dato in sposa la figlia Margherita a Enrico di Borbone, prima Delfino e poi re di Navarra, protestante, che prima delle nozze dovette convertirsi al cattolicesimo, salvo rinnegare l’abiura poco dopo mantenendosi fedele al protestantesimo ugonotto. La guerra di religione portò il Navarra a combattere contro il cognato e a sconfiggerlo, prima di raggiungere l’accordo per una fragile pace. Quando Enrico III, che non aveva eredi, morì ucciso da un domenicano che lo accusava di cedimenti verso la Riforma, il regno di Francia andò al Borbone, che prese il nome di Enrico IV. La questione religiosa fu risolta con una nuova abiura del re verso il cattolicesimo e una pace consacrata con l’editto di Nantes. Di qui la celebre frase «Parigi val bene una messa», destinata a essere ripetuta nella storia per tanti e tanti compromessi, più o meno storici.
Salito al trono, Enrico IV sposò in seconde nozze Maria de’ Medici, figlia di Francesco, signore di Firenze, una parente della prima moglie. Nessuno dei due brillava per avvenenza, tanto che la regina fu soprannominata «la grassa banchiera». Ciò non toglie che anche Enrico avesse un’amante, la quale, secondo Benedetta Craveri, biografa di Maria, avrebbe avuto in pugno un impegno scritto del re a sposarla, per cui si considerò sempre la «regina morale», e fin dal primo istante fece la guerra a quella legittima. Il re era un farfallone: seccato per l’inferno in cui viveva a corte, a 56 anni pensò bene di mettersi con Charlotte, una bellissima ragazza di 15, intravista mentre provava un balletto a corte. C’era, però, un problema protocollare da superare: al re era proibito avere un’amante così giovane nubile. Fu allora cercato d’urgenza un marito che, secondo il costume del tempo, portasse con disinvoltura le corna regali. Si pensò che il principe di Condé fosse l’uomo giusto: aveva 21 anni e un interesse per le donne non proprio spiccato. Ma Charlotte era così bella da risvegliare nel principe la sopita virilità. I due scapparono in Belgio e il sovrano francese minacciò di muovere guerra al paese confinante se la giovane non fosse tornata. Ancora una volta fu il destino a risolvere il problema: il 14 maggio 1610 un estremista cattolico pugnalò a morte il re, risolvendo d’un colpo la guerra sentimentale a corte.
Maria era sposata da dieci anni e aveva un figlio, Luigi XIII, di 9. Il regno, perciò, era suo. La regina si conquistò immediatamente la simpatia della Francia e del resto d’Europa per la propria intelligenza e, soprattutto, per l’abilità diplomatica del proprio ministro degli Esteri e della Guerra, Armand-Jean du Plessis de Richelieu, un abilissimo e intrigante prelato passato alla storia per la sua geniale intraprendenza. La sovrana, però, non aveva fatto i conti con il carattere del figlio, assai più legato al ricordo di un padre giocoso che a una madre arida e prescrittiva. Che, appena possibile, spedì insieme a Richelieu agli arresti domiciliari nel castello di Blois.
Maria resistette tre anni, poi si fece calare con una fune nel fossato del castello e scappò, decisa a dichiarare guerra al figlio. La clamorosa lite, però, si compose per l’abilità diplomatica di Richelieu, che convinse Luigi a riammettere la madre a corte con tutti gli onori, e per questo ricevette come compenso la berretta cardinalizia. Fiutando il mutar del vento, Richelieu passò dal partito della madre a quello del figlio. La regina non lo perdonò e ne chiese la testa a Luigi. E forse l’avrebbe ottenuta se il cardinale, durante il colloquio decisivo tra i due nella camera da letto di Maria, non fosse riuscito a infilarvisi di soppiatto. La regina lo coprì d’insulti, ma Richelieu la spuntò, prostrandosi a terra per baciare l’orlo della veste reale. («Se non avessi lasciato un catenaccio aperto» commentò la regina madre «il cardinale sarebbe stato perduto.»)
Luigi mantenne il cardinale come consigliere e Maria perse la guerra in famiglia. Compiuti i 29 anni, il re la spedì definitivamente in esilio. Lei scappò di nuovo, ma ormai non c’era più spazio per possibili mediazioni. La «grassa banchiera» girò per le corti europee, ottenne asilo dai nemici della Francia e morì in Germania nel 1642 a 69 anni, sola e indebitata. Il figlio ne richiese la salma e le diede adeguata sepoltura.
Il destino volle che anche Richelieu se ne andasse pochi mesi dopo e, l’anno successivo, scomparve lo stesso Luigi, che lasciò il trono a un bimbo di 5 anni, Luigi XIV, il Re Sole.
Vittoria e Cristina, regine della cultura
I lettori incontreranno in questo libro numerose figure femminili che hanno esercitato il loro potere sulla cultura italiana. Perciò, vale la pena ricordare ora due grandi donne del passato che, senza titoli di comando, sono state protagoniste della scena culturale del proprio tempo.
Il ritratto di Vittoria Colonna che ci ha tramandato Sebastiano del Piombo è quello di una nobildonna misteriosa e avvenente, occhi penetranti, labbra sensuali, di indiscutibile fascino. A cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento i Colonna erano alleati dei d’Avalos, la famiglia spagnola venuta nel regno di Napoli al seguito degli aragonesi, e Vittoria, nata nel 1490, andò in sposa a 19 anni a un membro della casata, Ferdinando Francesco. Il matrimonio «politico» si trasformò ben presto in uno straordinario matrimonio d’amore, come provano le Rime sentimentali che lei, poetessa, dedicò al marito. La coppia si stabilì nel castello aragonese di Ischia e il primo quindicennio di vita coniugale fu meraviglioso, allietato dalle visite di Ludovico Ariosto, Giovanni Pontano, Jacopo Sannazzaro, Annibal Caro, Pietro Aretino e tanti altri letterati.
Poi, sulla loro felicità calò il sipario. Nel 1525 Ferdinando Francesco, ufficiale nell’esercito di Carlo V impegnato nella guerra contro la Francia, restò gravemente ferito nella battaglia di Pavia. Vittoria corse ad assisterlo, ma durante il viaggio fu fermata dalla notizia della morte dell’amatissimo marito. Amato al punto che gli amici s’impegnarono non poco per evitare che lei si suicidasse.
Dopo essersi ritirata in convento, nel 1539 Vittoria si trasferì a Roma, dove era già stata in periodi diversi della sua vita e dove strinse una profonda amicizia con Michelangelo Buonarroti, testimoniata da una fitta corrispondenza di tono assai elevato. Non si fraintenda: Michelangelo era e rimase omosessuale, amante di un ragazzo bello, colto e di ottima famiglia, Tommaso de’ Cavalieri. Ma l’influenza, anche religiosa, esercitata su di lui da Vittoria fu davvero notevole, e le lettere che ci sono pervenute sono illuminanti per capire la crisi storica della fine del Rinascimento. Michelangelo fece dono all’amica poetessa, per la sua cappella privata, di un dipinto in cui comparivano il Cristo crocifisso, la Vergine e la Maddalena. Quando Vittoria morì, nel 1547, l’artista ritoccò l’opera, raffigurandola in Maria Maddalena. Se la morte non l’avesse colta in tempo, la tempesta controriformista non l’avrebbe sicuramente risparmiata.
Un secolo più tardi, la vita culturale romana fu dominata dalla figura, affascinante e stravagante al tempo stesso, di Cristina di Svezia. I paesi nordici avevano risolto molto prima del resto d’Europa il problema della parità di genere ai vertici dello Stato. Così il 6 novembre 1632, alla morte di Gustavo II Adolfo, il trono svedese passò alla figlia Cristina, che non aveva ancora 6 anni. Ci fu, ovviamente, una lunga e rigida reggenza, e Cristina venne educata come si conviene a un principe e non a una principessa. Il rigore maschile della formazione non dovette essere, però, un gran sacrificio per la ragazza, che aveva manifestato da subito una certa ambiguità sessuale e che si attenne al motto: «Amore e matrimonio sono incompatibili». Si ignora se a Stoccolma abbia avuto amanti maschi, di certo ne ebbe una femmina, Ebba Sparre, dama di corte di stupefacente bellezza.
Cristina fu una pessima donna di Stato, nel senso che l’arte di governo non la interessava affatto, ma fu una straordinaria mecenate. Il suo sogno era di trasformare Stoccolma nell’Atene del Nord: Cartesio le credette e si precipitò a corte per insegnarvi filosofia. Qui trovò un grande fermento culturale, ma uno stile di vita del tutto incompatibile con il suo. Abituato ad alzarsi non prima delle 11, come si conveniva a ogni intellettuale dabbene, fu costretto ad affrontare i rigori dell’inverno scandinavo per presentarsi al posto di lavoro entro le 5 del mattino. (La causa più probabile della sua morte fu una polmonite fulminante, ma si è fatta strada anche un’altra ipotesi più suggestiva: Cristina era orientata a convertirsi al cattolicesimo e i preti che frequentavano la corte temevano che il razionalismo cartesiano potesse essere un ostacolo. Di qui la leggenda di un avvelenamento del filosofo tramite un’ostia eucaristica imbevuta di arsenico.)
Il padre di Cristina, Gustavo II, era stato un fermo sostenitore del protestantesimo durante la guerra dei Trent’anni. Perciò è facile immaginare lo scandalo che scoppiò nel 1654 quando la giovane sovrana comunicò la sua definitiva decisione di abbracciare il cattolicesimo. Allora, per evitare di rimetterci la pelle, Cristina abdicò in favore del cugino Carlo X Gustavo e fuggì a Roma, dove diventò finalmente la regina che non era stata in patria.
Cristina di Svezia fu la figura centrale della cultura barocca. Fu amica di Gian Lorenzo Bernini, Alessandro Scarlatti, Arcangelo Corelli, e le sue residenze di palazzo Farnese e di palazzo Corsini alla Lungara diventarono la culla di intrighi, viaggi diplomatici, feste, avventure galanti e relazioni intellettuali che portarono alla nascita di un’Accademia di Fisica, di Storia naturale e di Matematica, e poi, alla sua morte, dell’Accademia dell’Arcadia. Nella Città Eterna, anche gli interessi sentimentali per il mondo maschile, che a Stoccolma sembravano sopiti, si risvegliarono, ancorché in maniera quantomeno impropria. Cristina si legò, infatti, al cardinale Decio Azzolino, e papa Alessandro VII dovette intervenire a tutela della rispettabilità di entrambi. Lo strano rapporto fra i due era diventato quello di due disperati amanti, separati dalle rispettive condizioni prima ancora che dalle convenzioni dell’epoca. Così la focosa Cristina giunse a un gesto estremo: poiché il cardinale – per non rimetterci la berretta – aveva disertato un appuntamento a villa Medici sul Pincio, lei, furibonda, si precipitò sui bastioni di Castel Sant’Angelo, sul lato opposto del Tevere, e con uno dei cannoni della fortezza sparò una palla contro il cancello della villa. Dove il visitatore attento ne troverà tuttora i segni.
Anita Garibaldi, moglie, madre, guerriera
Anita Garibaldi ebbe una vita breve (nata nel 1821, morì a 28 anni), nettamente divisa in due parti. Nei suoi ultimi dieci anni fu l’eroina dell’epopea garibaldina, nei primi diciotto una ragazza intelligente e spregiudicata, sessualmente libera appena la natura glielo consentì, alla quale stava stretta la vita a Laguna, nello Stato brasiliano di Santa Catarina, dove viveva con la sua famiglia di mandriani. Destò scandalo fin da adolescente (fece il bagno nuda nel mare davanti ai compaesani sbigottiti e ammirati), al punto che, per evitare il crollo della sua già incerta reputazione, la madre la diede in moglie a un calzolaio del paese, quando aveva appena 14 anni. Il povero artigiano si accorse presto del guaio in cui si era cacciato…
Lungi dal rassegnarsi a un ruolo domestico, Ana o Aninha – come veniva chiamata, finché Garibaldi non la ribattezzò Anita – correva dove sentiva aria di tempesta. Così, a 18 anni, si unì ai diseredati nella rivolta del Rio Grande contro l’impero del Brasile. E poiché i ribelli avevano il loro idolo in Garibaldi, la ragazza fece di tutto per incontrarlo e conquistarlo, anche se lui amava raccontare di averla vista da lontano con un binocolo, di averla raggiunta e agguantata dicendole: «Vergine, devi essere mia». Comunque siano andate le cose, quando Garibaldi s’imbarcò sul vascello Rio Pardo per lasciare la provincia in rivolta, Anita fuggì con lui, lasciando il povero marito calzolaio a leccarsi le ferite sentimentali in divisa da soldato imperiale.
Nessun uomo sarà mai amato come Garibaldi da Anita, e nessuna donna sarà mai amata come Anita da Garibaldi. Per un decennio, lei fu sempre al suo fianco, sia nei pochi momenti di tranquillità sia, più spesso, sul campo di battaglia. Tanto temeraria da salutare con la mano le granate nemiche che le piovevano accanto, tanto risoluta da cavalcare per chilometri e chilometri per portare un ordine, tanto coraggiosa da incitare i compagni più scoraggiati nei momenti cruciali del combattimento.
Anita diventò ben presto l’eroina dell’epopea garibaldina, ma trovò il tempo, nel 1840, di dare al generale il primo figlio, chiamato Menotti in onore di Ciro, il patriota italiano ucciso nel 1831. Dodici giorni dopo il parto, il suo rifugio fu preso d’assalto dalle truppe imperiali, le guardie garibaldine vennero uccise, ma lei riuscì a fuggire con il neonato e si nascose per quattro giorni, prima che Giuseppe la trovasse. La rivoluzione del Rio Grande, comunque, era fallita.
Nel luglio 1841, quando Garibaldi e i suoi lasciarono il Brasile e ripararono in Uruguay, il «Jornal do comércio» di Rio scrisse che il generale era arrivato a Montevideo «accompagnato dalla moglie nativa di Santa Catarina, che, secondo quanto si dice, nel pericolo impugna la spada e lotta al fianco del marito quando questi entra in combattimento» (Alfonso Scirocco, Giuseppe Garibaldi). In realtà, i due si sposarono soltanto l’anno successivo, nel 1842, con un rito religioso celebrato nella capitale uruguaiana.
Nel gennaio 1848 Garibaldi imbarcò per Nizza moglie e figli (che nel frattempo erano diventati tre, una quarta era morta a 2 anni), mentre lui rientrava in Italia, invocato da Giuseppe Mazzini e da Camillo Benso conte di Cavour che stavano accendendo le micce del Risorgimento. L’Eroe dei Due Mondi, richiamato dai moti di Milano, se ne andò a occupare Varese, ma il generale austriaco Radetzky gli mosse contro un esercito e lui prese prudentemente la via della Svizzera. Tuttavia, nel 1849, quando Pio IX scappò da Roma e dai rivoluzionari guidati da Mazzini che vi avevano insediato una repubblica, Garibaldi vi si precipitò e fu raggiunto da Anita. Il generale era tormentato (e lusingato) da folle di ammiratrici adoranti, e la moglie era pazza di gelosia: quando seppe che alcune donne gli avevano chiesto di concedere, se non il suo corpo, almeno una ciocca dei suoi capelli biondi, gli impose di tagliarseli. Un’altra volta gli si presentò con due pistole in pugno: se l’avesse tradita, disse, con una avrebbe ucciso lui, con l’altra l’amante.
Mentre il pontefice aveva chiamato il francese Napoleone III a vendicarlo e a proteggerlo, Garibaldi e Anita si spostarono a Rieti, in vista degli assalti finali. In Giuseppe e Anita Garibaldi, Claudio Modena racconta un curioso episodio avvenuto nella città laziale il Venerdì Santo del 1849, durante la processione del Cristo morto: Giuseppe scese da cavallo e si tolse il cappello, mentre Anita, orgogliosamente, restò impassibile in sella. Non si sa con certezza se non fosse credente, ma Modena sostiene che il suo fu un atto di protesta nei confronti del potere temporale del papa, contro il quale lei e il marito stavano combattendo.
La guerra contro le forze francesi, che erano il triplo delle italiane, fu combattuta per due mesi. Il 2 luglio 1849 Roma si arrese. Ma non Garibaldi, il quale, prima di lasciare la città, riunì in piazza San Pietro i 4000 combattenti superstiti e lanciò il celebre proclama: «Ciò che io offro a quanti vogliono seguitarmi, eccolo: fame, freddo, sole. Non paga, non caserma, non munizioni, ma avvisaglie continue, marce forzate e fazioni alla baionetta. Chi ama la patria e la gloria, mi seguiti». Poi Giuseppe e Anita lasciarono Roma diretti a Venezia, che nel frattempo si era ribellata all’Austria.
Il generale aveva ormai con sé poche centinaia di uomini, e decine di migliaia di francesi alle calcagna. Al suo fianco, però, c’era sempre la moglie, che aveva tagliato i lunghi capelli neri ed era vestita in abiti maschili: soltanto da vicino dimostrava ancora tutto il suo fascino. Da cinque mesi era incinta del quinto figlio e aveva nascosto la gravidanza al marito finché aveva potuto. Nell’impervio viaggio verso nord, la coppia a volte era ricevuta con tutti gli onori, a volte respinta e costretta alla fuga. A San Marino, Garibaldi cercò invano di convincere Anita, che aveva la febbre alta, a fermarsi. S’imbarcarono a Cesenatico, ma a poche decine di chilometri da Venezia vennero attaccati e quasi tutti i garibaldini furono catturati. E poiché la barca si era arenata, Garibaldi proseguì a piedi, portando la moglie in braccio per centinaia di metri, mentre l’acqua del Po gli lambiva i fianchi. Trovò rifugio in un casolare sul fiume: Anita stava morendo. «Nel posare la mia donna in letto» avrebbe scritto nelle Memorie «mi sembrò di scoprire sul suo volto la fisionomia della morte. Le presi il polso … più non batteva! Avevo davanti a me la madre dei miei figli, ch’io tanto amavo! Cadavere!»
Il generale scoppiò in un pianto irrefrenabile. Il funerale solenne che avrebbe desiderato non fu possibile. Anita fu sepolta in gran fretta e di nascosto in un piccolo cimitero, per timore delle rappresaglie austriache. Dieci anni dopo, nel 1859, Garibaldi andò a riprendersi le spoglie dell’amatissima moglie per inumarle a Nizza, accanto a quelle della madre. Nel 1932 la salma di Anita verrà nuovamente riesumata e traslata a Roma, dove tuttora riposa nel monumento-tomba al Gianicolo.
Cristina di Belgioioso e Virginia di Castiglione, alcova e tricolore
Cristina Trivulzio di Belgioioso e Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, pur diversissime per formazione e personalità, ebbero in comune due caratteristiche: piena libertà sessuale e grande amore per l’Italia.
Leggendo in chiaroscuro la sua storia, è difficile concordare con il titolo che il «Corriere della Sera» del 6 novembre 2010 diede al ritratto della Belgioioso tracciato da Mauro Chiabrando: Cristina, la stella del Risorgimento. In realtà, la marchesa Trivulzio (Milano, 1808) fu la generosa finanziatrice di movimenti irredentisti, ma quando si presentava fasciata di tricolore sul campo di battaglia o nelle più importanti sedi politiche, tutti quanti – dai generali ai sovrani – non vedevano l’ora che la scocciatrice si togliesse dai piedi.
Era talmente ricca che, quando gli austriaci le inflissero una multa di 800.000 lire (più o meno 3 milioni di euro di oggi), lei soavemente non batté ciglio. Sposò a 16 anni il giovane patriota Emilio Barbiano, principe di Belgioioso, ma poiché il marito se la spassava con le belle donne, ottenne immediatamente da lui uguale libertà in cambio dell’estinzione dei debiti. La libertà arrivò al punto che diversi anni dopo il principe diede volentieri il suo nome a una bambina frutto di una delle tante relazioni extraconiugali di Cristina.
A merito della giovin signora – marchesa di nascita, sposa di un principe in prime nozze – va ascritta la campagna per istruire i contadini, cosa che, racconta Chiabrando, scandalizzò Alessandro Manzoni, il quale si chiedeva chi poi avrebbe lavorato le terre dei nobili. A suo disdoro, invece, una frivolezza congenita, un atteggiamento che oggi definiremmo radical-chic (in piazza con i poveri, in casa con i ricchi) manifestato nei suoi salotti di Parigi e di Milano, dov’era venerata da Vincenzo Bellini e Niccolò Tommaseo, anche se le bastava un gesto del mento per far alzare di tavola lo scrittore che, per caso, aveva occupato un posto troppo importante per il suo livello. Altissime, comunque, le frequentazioni parigine: Hugo, Chateaubriand, Rossini, Liszt, Chopin.
Due sono gli episodi patriottici che la videro scendere direttamente in campo: le Cinque Giornate di Milano del 1848 e la Repubblica Romana del 1849. Quando seppe della rivolta milanese, Cristina era a Napoli: reclutò immediatamente un manipolo di volontari e si presentò fasciata di tricolore sfilando da Porta Romana a palazzo Marino. La battaglia era finita, ma il presidente del Consiglio del Regno di Sardegna, Gabrio Casati, la ricevette con ogni onore, anche se non si sa con quanta convinzione, visto che un ministro scrisse al re Carlo Alberto: «È arrivata la principessa Belgioioso con una truppa di 150 avventurieri. Temo che m’abbia fatto un cattivo regalo…».
L’anno dopo replicò a Roma senza maggior fortuna e, per consolarsi, s’imbarcò per un lungo viaggio in Oriente. Nel frattempo la polizia andò a perquisirle la villa, ma non doveva prenderla molto sul serio se in un rapporto si legge: «È una pazzerella che farebbe meglio se rimanesse in casa sua a Milano anziché andare sempre in giro all’estero per farsi deridere, per compromettersi forse e compromettere gli altri». Antonietta Drago, sua biografa e denigratrice, ne riproduce volentieri il ritratto fatto dalla nemica contessa d’Agoult: «Pallida, magra, ossuta, con gli occhi fiammeggianti, che si compiaceva a improvvisare effetti di spettro o di fantasma…».
I suoi scatti d’umore, tremendi per chiunque le stesse attorno, la portarono a licenziare su due piedi un suo segretario orientale. Questo, meno tollerante di un europeo, la prese a coltellate sfregiandola e compromettendone «la fiera bellezza». Cristina se ne andò a 63 anni, aspettando la morte in poltrona fumando un narghilè.
Un ruolo e un potere ben maggiore ebbe Virginia Oldoini (Firenze, 1837), passata alla storia come contessa di Castiglione. Lei nasceva marchesa e il titolo di contessa le venne dal povero marito, Francesco di Castiglione, che si può compiangere solo fino a un certo punto perché fu perfettamente consapevole di portare le corna dal giorno in cui la sposò non ancora diciassettenne a quello in cui la seguì in Francia per la fantastica missione diplomatica che le procurò, da parte di Urbano Rattazzi, il memorabile appellativo di «vulva d’oro del Risorgimento».
Bellissima fin dalla prima adolescenza, appena tredicenne Virginia cominciò a trastullare i ragazzi. Ne abbiamo la prova documentale, perché lei stessa annotava sul diario i dettagli cifrati di ogni prestazione. (I tre figli del marchese Giacomo Doria ne godettero tutti, prima e dopo le nozze.) Così, il suo precoce matrimonio con il conte di Castiglione fu ordito d’urgenza dal padre della vivace fanciulla per coprire, almeno in parte, gli scandali sempre più clamorosi.
Virginia era cugina di Cavour, che non l’aveva affatto in simpatia – non si sa se per sincera disistima o perché spasimante respinto –, ma con il suo santo cinismo ne approfittò fino in fondo per compiere il passo decisivo che portò Napoleone III a dare al Piemonte il contributo determinante per la vittoria nella seconda guerra d’indipendenza.
L’idea di infilare la contessa tra le lenzuola dell’imperatore fu di Costantino Nigra, ambasciatore di re Vittorio Emanuele II a Parigi. Lei accolse con entusiasmo la promozione ad agente segreto e Cavour la benedisse: «Riuscite, cara cugina. Usate tutti i mezzi che vi pare, ma riuscite». Virginia s’installò nella capitale francese all’inizio del 1856, qualche settimana prima che si aprisse la conferenza di Parigi. Aveva 19 anni e una bellezza folgorante. Il conte Albert de Maugny raccontò così la sua apparizione al ballo delle Tuileries, in cui fece il suo ingresso a corte: «Fu una rivelazione. Era come una romana della decadenza. La folta chioma di seta le ricadeva sciolta sulle spalle lussureggianti, la gonna aperta sul fianco lasciava intravedere una gamba modellata da una calzamaglia di seta e un piede inverosimilmente perfetto, con una gemma infilata in ogni dito e protetto da un microscopico calzare. … Tutti i presenti sgomitavano e spingevano per poterla ammirare più da vicino. Le dame, eccitatissime, dimenticarono le regole dell’etichetta e salirono sulle poltrone e sui divani per poterla osservare meglio. Quanto agli uomini, erano tutti letteralmente ipnotizzati». Da quel momento, ogni gesto della contessa italiana fu pilotato da Nigra e da un vecchio amante residente a Parigi, Giuseppe Poniatowski, che le scriveva: «Vieni a infuocare il gran bastardo di Francia», proseguendo con vividi ricordi erotici dei loro passati incontri.
Napoleone III era sposato con l’imperatrice Eugenia, donna bellissima ma incapace di soddisfarne gli insaziabili appetiti sessuali. L’arrivo di Virginia la rese furiosa. Una sera l’italiana si presentò a un ballo con un vestito trasparente e un cuore di velluto rosso ricamato sull’inguine. Eugenia l’aveva fulminata: «Il vostro cuore è troppo in basso, contessa». Pronta la risposta di Virginia: «Il mio cuore pulsa ovunque, maestà». È inutile aggiungere che Virginia finì subito a letto con l’imperatore, e che tra loro nacque una relazione profonda. Napoleone III regalò all’amante un anello di brillanti con i loro nomi anagrammati: risultato, un illeggibile «Nvaiproglie-Noina».
Nella primavera del 1857 il patriota italiano Paolo Tibaldi cercò di colpire l’imperatore all’uscita di un palazzo dove si era incontrato con Virginia. Si disse – a sproposito – che l’imperatrice Eugenia avesse a che fare con quel gesto, non per eliminare il marito ma per creare scandalo e allontanare la contessa. Il suo desiderio sarebbe stato esaudito l’anno successivo, quando il 14 gennaio 1858 un gruppo di irredentisti italiani guidati da Felice Orsini, un segretario di Mazzini, lanciò alcune bombe contro il corteo imperiale all’uscita dall’Opéra. I sovrani rimasero illesi, ma ci furono 8 morti. Orsini finì alla ghigliottina e Virginia dovette cambiare aria, ma in due anni aveva scavato patriotticamente nell’animo dell’imperatore che, nel luglio successivo, strinse con Cavour il patto decisivo durante una passeggiata in calesse alla stazione termale di Plombières.
La contessa di Castiglione visse ancora quarant’anni, dividendosi tra la villa di famiglia a La Spezia e un appartamento a Parigi, dove tornò una volta calmate le acque. Non rivide più Napoleone III e subì uno strano furto: i ladri non si interessarono dei gioielli, bensì delle lettere compromettenti scrittele dall’imperatore. (I potenti, come è noto, non amano lasciare tracce delle loro debolezze.)
Virginia non accettò mai che il tempo cancellasse la propria bellezza, e si dice che i suoi appartamenti fossero sprovvisti di specchi e pieni di ritratti dell’età dell’oro. Morì a Parigi a 62 anni, nel 1899. Avrebbe voluto essere sepolta con la camicia da notte trasparente color verde acqua, «leggera come una nuvola», con la quale aveva sedotto Napoleone. Per nostra fortuna non fu accontentata, cosicché possiamo ammirare ancor oggi il prezioso cimelio nel museo cavouriano di Santena (Torino).