V
«Le donne, il Cavallier, l’arme, gli amori…»
Berlusconi: «Ecco il governo con Salvini e Meloni»
Ho perso il conto di quante vite politiche abbia vissuto Silvio Berlusconi, da vent’anni dato per morto e, poi, regolarmente risorto. Certo, gli 80 anni si avvicinano. Ma a 90, per esempio, il suo «nemico» Giorgio Napolitano è un grillo. In ogni caso, quando vado a trovarlo nell’ottobre 2015 nella quiete di un finesettimana a villa San Martino di Arcore, Silvio Berlusconi ha davanti a sé un grande taccuino bianco, brandisce un pennarello per scrivere cifre e percentuali, e un programma per il nuovo centrodestra da concordare con Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Cominciamo da qui.
«Meno tasse. Via le tasse sulla casa, via l’Imu agricola…»
L’ha fatto Renzi. «L’ha fatto copiandomi e, se davvero lo farà, noi voteremo a favore, ovviamente. Ancora. Imposte sulle persone fisiche. Fino a 12.000 euro non si paga niente. Via l’Irap alle imprese. Riduzione della pressione fiscale sotto il 40 per cento. E poi “flat tax” al 22 per cento.»
Bello, ma costerebbe una bella paccata di miliardi. «I nostri esperti dicono che si può fare. E poi Renzi ha buttato via tanti miliardi con le sue mance clientelari, si pensi agli 80 euro, che non hanno avuto nessun effetto. Almeno, con la “flat tax” si rivoluziona davvero il paese. Gli 80 euro cosa ci hanno lasciato? Niente. La “flat tax” cambia l’Italia. Per la gente potrebbe essere anche l’unico punto del programma, ci voterebbe solo per questo. L’unica strada che ci è davvero rimasta per ripartire. Con i soldi che ha speso Renzi in un anno e mezzo, avrebbe fatto la “flat tax” già tre volte.»
Forza Italia si propone di ridurre il peso dello Stato sui cittadini con un programma iperliberista. «Riforma della macchina dello Stato, privatizzazione degli enti pubblici, taglio degli sprechi con riduzione della spesa pubblica di almeno il 2 per cento all’anno [sarebbero 16 miliardi]. No alle autorizzazioni preventive [ovvero è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato]. Riforma del fisco. Chiusura di Equitalia. Aumento del limite del contante a 8000 euro. Vincolo di mandato per gli eletti dal popolo.» (Nei primi venti mesi della legislatura, trecento parlamentari hanno lasciato il partito in cui sono stati eletti.)
Berlusconi, che nel 2001 portò le pensioni minime a 1 milione di lire, adesso ritiene possibile portarle a 1000 euro per tredici mensilità. «Inoltre, pensiamo di assegnare una pensione alle mamme, assegni di emergenza alle famiglie senza alcun introito, crediti regionali alle piccole e medie imprese.»
E per la sicurezza? «Rilancio del carabiniere e del poliziotto di quartiere, massiccia presenza dei militari nelle città, contenimento e controllo dell’immigrazione, riorganizzazione dei centri per nomadi. A questo proposito, secondo Salvini occorre sistemarne 40.000 e non a colpi di ruspe. Mi ha detto: “Hai fatto in pochi mesi le case per 30.000 abruzzesi, non sarà difficile farle per 40.000 nomadi”.»
Infine, ovviamente, la riforma della giustizia. «L’emergenza giudiziaria che stiamo subendo è frutto della paura reciproca di De Gasperi e di Togliatti che temevano che, se l’altro avesse vinto le elezioni, avrebbe utilizzato la magistratura per far fuori l’avversario. Ma con l’abolizione dell’articolo 68 della Costituzione è venuto meno il bilanciamento fra i poteri. [Sull’onda di Tangentopoli, nel 2003 fu cassato il principio per cui i magistrati, per procedere contro un parlamentare, dovevano chiedere l’autorizzazione al Parlamento.] Il risultato è che da moltissimi anni il Parlamento non riesce a fare una legge che sia sgradita ai magistrati. La nostra proposta è di differenziare la carriera dei giudici da quella dei pubblici ministeri, disciplinare la custodia cautelare, introdurre l’istituto della libertà su cauzione. Chiediamo una nuova disciplina delle intercettazioni, che in Gran Bretagna, per esempio, non sono utilizzabili in giudizio né da parte dell’accusa né da parte della difesa. Non vogliamo né processi politici, né processi infiniti. Vorremmo che le sentenze di assoluzione non fossero appellabili. Su tutto questo c’è pieno accordo nel centrodestra.»
Il Cavaliere è convinto, sondaggi alla mano, che oltre la metà degli elettori italiani rifiutino l’idea stessa di voto. «Badi, non si tratta di elettori di sinistra, in genere molto disciplinati. E se proprio sono molto arrabbiati, votano Grillo. E non sono elettori di destra che, quando s’incavolano, votano Salvini. Sono elettori moderati sfiduciati, che hanno un disprezzo enorme per questa politica e per questi politici, e pensano che il loro voto non serva a nulla. Sono rassegnati. Se riusciremo a recuperarne appena un 20 per cento, cioè 5 milioni, prevarremo sulla sinistra.»
Il presidente di Forza Italia, come è noto, nel 1993-94 ha introdotto l’uso dei sondaggi e dei focus group nella politica italiana. E i focus dell’autunno 2015, che ha analizzato personalmente per ore, gli hanno detto che parlare a questi italiani che non votano, di qualunque partito, è tempo perso. «Ma se si riuscisse a far venir fuori un’istituzione non politica,» mi dice «se il candidato alla presidenza del Consiglio non fossi io, che molti di loro percepiscono ormai come un politico professionista? Se agisse una fondazione composta da imprenditori e professionisti e il candidato premier fosse una persona che ha dimostrato nella vita di saper fare molto bene e ha saputo conquistarsi la fiducia di un pubblico vasto con la sua attività fuori della politica? Se si impegnasse a realizzare un programma come quello che le ho appena esposto? Bene, i focus group dicono che molti di quei 24-26 milioni di elettori sfiduciati andrebbero a votare. A noi basterebbe il 20 per cento per superare di gran lunga la sinistra.»
Nasce qui l’idea di rilanciare la Fondazione Luigi Einaudi, che ha sedi a Roma e a Torino, ed è stata fondata su una piattaforma liberale nel 1962, poco dopo la scomparsa del grande economista piemontese che fu governatore della Banca d’Italia e presidente della Repubblica. Berlusconi auspica che nella Fondazione possano convergere le eccellenze dei diversi campi: «Un Draghi, o un Marchionne, o gente di quel livello all’Economia, o il generale Gallitelli, già grande comandante dei carabinieri, al ministero degli Interni, o uno come Moretti, che ha realizzato con me l’alta velocità, alle Infrastrutture e ai Trasporti. A chi non piacerebbe affidare la Ricerca a Samantha Cristoforetti? In ogni caso, l’ideale sarebbe che venissero coinvolti in questa Fondazione anche i rappresentanti di tutte le associazioni professionali».
Il problema è che i politici non amano cedere il posto a professionisti di altro tipo. «Ma se il governo avesse 18 componenti, 12 potrebbero essere espressi dalla società civile e 6 dai partiti della coalizione di centrodestra.»
Come pensa che possano essere convinti i milioni di elettori «dormienti»? «Ci sono due anni di tempo per lanciare questa Crociata della Democrazia, questa Catena di Sant’Antonio della Libertà. Forza Italia e gli altri partiti di centrodestra cercheranno di recuperare quanti ci hanno lasciato. La Fondazione agirà autonomamente. Come? Noi punteremo sui nostri sindaci, sui nostri assessori, sui nostri consiglieri, sui club, che si faranno carico delle esigenze degli anziani e delle famiglie. Ciascuno ha un parente, un amico, un conoscente che non è andato a votare. Con questo programma in mano, dovrà cercare di convincerlo.»
Berlusconi crede fermamente nell’accordo con Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Ma né la Lega né Fratelli d’Italia, a livello continentale, fanno parte del Partito popolare europeo al quale è iscritta Forza Italia. Pensa di restarci o di cambiare bandiera? «È stato il Partito popolare europeo a consegnare l’Italia alla sinistra. Ha sostenuto Mario Monti e gli ha consentito di presentarsi da solo, nonostante proprio io, al summit del Ppe a Bruxelles, gli avessi offerto la candidatura alla presidenza del Consiglio se si fosse presentato con la nostra coalizione di centrodestra. Nella sua decisione, Monti fu sostenuto dall’ex presidente del Ppe, Wilfried Martens. Come tutti sanno, Scelta civica ha sottratto quasi il 10 per cento dei voti al centrodestra, consegnando così l’Italia alla sinistra. Il nuovo presidente del Ppe, il francese Joseph Daul, ha riconosciuto il grave errore del suo predecessore e i rapporti ora sono tornati a essere quelli di prima. Il nostro gruppo al Parlamento europeo è stato sempre disciplinato. Qualche volta riusciamo a portare gli altri gruppi del Ppe sulle nostre posizioni, com’è avvenuto sull’incremento del quantitative easing della Banca centrale europea. Qualche volta siamo in dissenso, come nel caso delle sanzioni alla Russia, che riteniamo siano un errore epocale perché, dopo tutti gli sforzi che abbiamo sostenuto per includere la Federazione russa nell’Occidente, culminati nel trattato di Pratica di Mare nel 2002 che ha posto fine a decine di anni di guerra fredda, rischiamo di respingerla nelle braccia della Cina e dell’India. Una guerra commerciale assurda, un masochismo assoluto.»
A fine ottobre 2015 Berlusconi ha partecipato, dopo quattro anni, all’assemblea del Partito popolare europeo a Madrid e ha rivisto Angela Merkel dopo il gelido commiato del 2011.
Ecco com’è fallito il patto sul Quirinale
Il «Cavallier» (così avrebbe scritto l’Ariosto) indossa da questo momento l’«arme» della rivincita. Indignato per il complotto nazionale e internazionale ai suoi danni, rivelato nel 2014 da Alan Friedman (Ammazziamo il Gattopardo) e confermato quest’anno dallo stesso autore nella sua biografia di Berlusconi, My Way. Ancora ferito per quello che giudica il tranello tesogli da Matteo Renzi nell’elezione del nuovo capo dello Stato. Ma, al tempo stesso, di nuovo in palla e pronto a rilanciare il centrodestra per le cruciali elezioni amministrative della primavera 2016 e per le politiche del 2018.
Il rapporto con Napolitano, rotto nella sostanza nella primavera del 2014, quando uscì il primo libro di Friedman, si è frantumato anche nella forma il 13 ottobre 2015 – giorno dell’approvazione della riforma del Senato – quando il gruppo di Forza Italia ha abbandonato l’aula di palazzo Madama durante l’intervento dell’ex presidente della Repubblica. Berlusconi, in una riunione a porte chiuse con i suoi parlamentari, l’aveva definito «un golpista» e Napolitano ha scritto una lettera al presidente dei senatori azzurri Paolo Romani: «Parole ignobili, che dovrebbero indurmi a querelarlo, se non volessi evitare di affidare alla magistratura giudizi storico-politici».
Forza Italia non ha risposto direttamente a queste parole, ma ha depositato sia alla Camera sia al Senato una proposta di legge per l’istituzione di una Commissione d’inchiesta bicamerale sui fatti che portarono alla caduta del governo Berlusconi nel novembre 2011. La proposta era sottoscritta da tutti i suoi parlamentari, e accompagnata da una relazione – definita «puntigliosa e dettagliatissima» dal Cavaliere – che denuncia un «tentativo di far cadere il governo Berlusconi, eletto dal popolo nel 2008, già nel 2010 attraverso un accordo di Napolitano con Gianfranco Fini, che avrebbe comportato il passaggio all’opposizione di tutti gli ex appartenenti ad An in cambio della sua designazione a capo del nuovo governo». Ma il disegno non riuscì e, il 14 dicembre 2010, la mozione di sfiducia contro il governo Berlusconi fu bocciata dalla Camera.
Per quanto riguarda il 2011, il capo dello Stato forse avrebbe avuto il diritto, tra l’estate e l’autunno, di preoccuparsi della debolezza dell’esecutivo guidato da Berlusconi. Ma affidare un preincarico a Monti alcuni mesi prima della crisi, discutere di un piano di governo predisposto dall’amministratore delegato di Banca Intesa, Corrado Passera, che del nuovo governo sarebbe stato poi il superministro, è certamente fuori della prassi costituzionale. Se si aggiungono le frequenti telefonate Merkel-Napolitano, gli accordi Merkel-Sarkozy in danno dell’Italia, la richiesta espressa al ministro del Tesoro americano Tim Geithner di partecipare al complotto («Non possiamo avere le mani sporche del sangue di quest’uomo» disse il ministro al presidente Obama), ciascun lettore può usare la parola che crede, ma una lingua sia pur ricca come l’italiano non offre molte alternative.
Assai più controversa la questione della rottura del patto che ha portato all’elezione di Sergio Mattarella, sulla quale siamo in grado di fornire retroscena inediti. Il «patto del Nazareno» sulle riforme fu concordato nell’ufficio di Matteo Renzi, nella sede del Partito democratico, il 18 gennaio 2014 e, secondo la versione di Verdini, Letta e Berlusconi – mai confermata da Renzi – al primo punto ci fu proprio l’accordo sul fatto che il nuovo capo dello Stato avrebbe dovuto avere l’approvazione di Forza Italia. Sergio Mattarella è stato eletto il 31 gennaio 2015. In un anno esatto di trattative il tema del successore di Napolitano fu sempre rinviato. Tutte le riunioni finivano con «Poi c’è il capo dello Stato…». Nonostante il passare dei mesi, però, Renzi aveva sempre rassicurato i suoi interlocutori.
Avvicinandosi la data dell’elezione, Berlusconi, Letta e Verdini (trio fisso agli incontri con Renzi) insistevano: «Facciamo dei nomi». Il Cavaliere, che aveva commissionato dei sondaggi di popolarità, disse al presidente del Consiglio: «Inventiamoci una sorpresa». Gli propose due nomi: quello di una persona totalmente estranea al mondo della politica e quello del generale dei carabinieri Leonardo Gallitelli, che nel gennaio 2015 avrebbe lasciato il comando dell’Arma dopo cinque anni e mezzo di servizio. Renzi non si lasciò persuadere. Allora Berlusconi propose Giuliano Amato e l’altro rispose che era una scelta possibile.
Trascorsero le vacanze di Natale e, in un incontro all’inizio di gennaio, il Cavaliere ribadì a Renzi che la prima scelta di Forza Italia era Amato. Vennero prese in esame anche le candidature apparse sui giornali: Anna Finocchiaro, Walter Veltroni, Piero Fassino, Romano Prodi. Fu esaminata, poi, la candidatura di Paola Severino, ministro della Giustizia del governo Monti e avvocato di grido. Ma Verdini e Letta fecero notare che Forza Italia non avrebbe potuto votare una persona che aveva dato il nome alla legge che aveva escluso Berlusconi dal Senato.
Letta s’incaricò di comunicarlo anche a Francesco Gaetano Caltagirone, importante imprenditore romano, vecchio amico della Severino, il quale obiettò che l’ex ministro della Giustizia non aveva particolari responsabilità su quella legge, partorita soprattutto dal ministero dell’Interno. Lo so, replicò Letta: purtroppo, però, il nome che porta è il suo.
In ogni caso, Renzi chiese di non partecipare al gioco dei giornali per non dare una qualche credibilità a quelle che erano soltanto ipotesi in libertà.
Prima di interessarsi della Severino, Caltagirone si era speso anche per Pier Ferdinando Casini, marito di sua figlia Azzurra, uno dei candidati di punta del centrodestra. E Letta lo sponsorizzò in uno degli incontri con Renzi, che replicò: «Certo, per me è un candidato possibile. Il problema è che i miei non lo votano». Quando Letta lo riferì a Casini, lui gli rispose: «So che Renzi è su posizioni più morbide nei miei confronti e Bersani su posizioni più drastiche. Ma se non c’è un veto esplicito di Renzi su di me e da parte vostra c’è un sostegno, i voti me li trovo io visto che in Parlamento ho una certa popolarità». (Forse non ricordava un simile scambio di battute tra Andreotti e Fanfani alle elezioni per il Quirinale del 1971. Andreotti, presidente dei deputati dc, avvertì Fanfani che i comunisti non l’avrebbero votato. Fanfani rispose: «Tu portami i voti democristiani. Agli altri ci penso io». Fu eletto Giovanni Leone…)
Incontro segreto alla prefettura di Milano
Il nome di Giuliano Amato venne inopinatamente fuori da una battuta di Berlusconi al «Corriere della Sera». Renzi se l’era presa: «Non potete darmi un nome secco,» disse al Cavaliere e a Letta «perché, semmai, questo dovrei farlo io…» Berlusconi precisò di essersi limitato a tracciare un identikit dell’ideale presidente della Repubblica, senza menzionare e sponsorizzare esplicitamente alcuna candidatura. Preso atto del chiarimento, il premier tornò sul nome di Casini per ribadire che, pur non ponendo alcun veto, era scettico sul fatto che potesse spuntarla. Casini, al contrario, era convinto che la sponsorizzazione di Berlusconi fosse la carta vincente. Per rafforzare la simpatia del Cavaliere nei suoi confronti, cominciò a lavorare sul proprio partito, l’Unione di centro, alleandosi con il Nuovo centrodestra, perché la sua candidatura fosse la chiave per un riavvicinamento tra Alfano e Berlusconi, dopo la traumatica scissione successiva alla nascita del governo Letta. Anche Giovanni Toti, consigliere politico del Cavaliere, stava lavorando a un riavvicinamento. Così il 19 gennaio fu organizzato un incontro riservato alla prefettura di Milano, a cui parteciparono in sette: Berlusconi, Toti e Niccolò Ghedini per Forza Italia; Angelino Alfano, Maurizio Lupi e Gaetano Quagliariello per il Nuovo centrodestra; Lorenzo Cesa per l’Udc.
Visti i precedenti, Alfano – padrone di casa come ministro dell’Interno – aveva paura di andare a quell’incontro. Ma dovette ricredersi subito, perché Berlusconi l’abbracciò («Facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»: Luca 15,24). Poi il Cavaliere abbracciò e baciò persino Quagliariello, che accusava di essere nelle grazie di Napolitano e di avergli portato via Alfano con la complicità del presidente della Repubblica. Nelle sale austere della prefettura milanese, il centrodestra trovò l’accordo sul nome di Casini al Quirinale. I convenuti si dissero che quell’incontro sarebbe stato il primo di una serie destinata a ricostituire il fronte moderato anche alle elezioni amministrative della primavera 2015. Nessuno sembrò dar peso al fatto che, se Alfano fosse tornato alla casa del Padre, il governo sarebbe entrato in crisi. Ma la festa era troppo grande per guastarla con un dettaglio.
Dettaglio che allarmò invece Matteo Renzi, tenuto all’oscuro dell’incontro milanese. Il mattino del 20 gennaio il presidente del Consiglio telefonò a Denis Verdini, fidato ufficiale di collegamento per i rapporti più discreti con il Cavaliere: «Berlusconi» gli chiese a bruciapelo «sta trattando con Alfano per far cadere il governo?». Verdini negò, in assoluta buonafede: non sapeva nulla di quanto era accaduto alla prefettura di Milano. «Alfano ha incontrato Berlusconi?» insistette Renzi. Ma l’altro continuò a negare.
Quel giorno era prevista una colazione a palazzo Chigi. Questa volta i commensali erano sei. Renzi era affiancato dal sottosegretario Luca Lotti e dal vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini; Berlusconi da Letta e Verdini. Tutti si accorsero subito che il presidente del Consiglio era di cattivo umore. «Caro Silvio,» attaccò «io ho grandissima stima per Angelino, ma tu vuoi ricostituire con lui il centrodestra e, se pensate di fregarmi, ti sbagli. Allora mettiamola così: o tu fai l’accordo con me sulla legge elettorale, e io sono disposto ad accogliere alcuni vostri emendamenti, compreso quello sui capilista bloccati che è indigeribile per il Pd, e a trovare un accordo anche sul capo dello Stato. Oppure, se tu tratti con Alfano, io ricompatto il mio partito e il capo dello Stato me lo eleggo da solo.»
L’indomani, 21 gennaio, il Cavaliere disse a Renzi che accettava l’accordo sulla legge elettorale, approvata il 27 gennaio al Senato con il voto determinante di Forza Italia, che compensò la dissidenza della sinistra pd. Sulla legge elettorale Berlusconi aveva ottenuto i capilista bloccati, e quindi, di fatto, il via libera alla nomina dei propri deputati. Per converso, impedendo ai partiti di coalizzarsi tra loro, le nuove norme erano considerate un suicidio per Forza Italia.
«Concessi obtorto collo anche quest’ultima prova d’amore» mi dice oggi il Cavaliere «proprio in considerazione dell’imminente elezione del capo dello Stato.» Era felice del ritrovato accordo con Alfano, convinto di portare Casini al Quirinale e di far cadere il governo. È davvero straordinario vedere come, nei momenti decisivi, anche gli uomini più smaliziati possano peccare di ingenuità. Ma tant’è.
E Renzi fece saltare il patto Berlusconi-D’Alema
Per fare il colpo, però, il Cavaliere aveva bisogno di un accordo con la sinistra alle spalle di Renzi. Prese perciò contatto con Francesco Boccia, giovane deputato pugliese amico di Enrico Letta e marito di Nunzia De Girolamo, che fino al gennaio 2014 era stata ministro dell’Agricoltura per il PdL (e in seguito per il Ncd) e aveva poi dovuto dimettersi in seguito a uno scandalo sulle nomine alla Asl di Benevento, la sua città.
Boccia, che mal digeriva la leadership di Renzi, rivelò a Berlusconi che l’area del dissenso nel Pd verso il presidente segretario era molto più ampia di quanto si potesse immaginare e che, con una strategia congiunta destra-sinistra, si poteva davvero pensare di far cadere il governo. Al tempo stesso, Casini rincuorava Berlusconi: se vado io al Quirinale, tutto cambierà. Sia Boccia sia Casini erano in buona fede e sarebbe quindi improprio paragonarli al Gatto e alla Volpe della favola di Collodi. Ma è un fatto che il Cavaliere andò a sotterrare nel Campo dei Miracoli le monete d’oro delle sue illusioni, sperando che ne nascesse il vero tesoro inseguito ormai da vent’anni: un presidente della Repubblica non ostile ma amico. A proposito di Casini, Boccia disse che sarebbe stato difficile eleggere un «papa straniero». «Ma su Amato» aggiunse «si può andare.»
Il deputato pugliese chiese pertanto al Cavaliere, che acconsentì, di rispondere a una telefonata di Massimo D’Alema, il quale voleva avere in diretta da lui la conferma della disponibilità di Forza Italia a votare Amato. (Vent’anni prima D’Alema – pronubo Gianni Letta – aveva partorito con Berlusconi la famosa Bicamerale per le riforme.)
D’Alema è il più acceso avversario di Renzi. Non gli perdona la «rottamazione», che gli ha impedito l’ingresso in Parlamento nell’ultima legislatura. E non gli perdona, soprattutto, di non aver speso una parola in suo favore al momento della nomina dell’alto commissario per la politica estera, incarico poi affidato a Federica Mogherini. (Lui aveva tutti i titoli per occupare quel posto, ma se Renzi non avrebbe certo gradito un vero alter ego alla sua politica estera, la Germania e i paesi baltici mai avrebbero voluto farsi rappresentare da un ex dirigente del Pci.)
Lavorando a tempo pieno per far cadere il presidente del Consiglio, D’Alema era furioso con il Cavaliere per il voto sulla legge elettorale. Ragion per cui, quando Boccia gli disse che era necessario parlargli, lui era molto sospettoso: che gioco sta facendo il Cavaliere? I due, comunque, si sentirono, e quando Berlusconi rilanciò il nome di Amato, D’Alema acconsentì: «Per me va benissimo. Può diventare presidente anche se Renzi si oppone».
L’inizio delle votazioni per il nuovo capo dello Stato era fissato per il 29 gennaio. Il 28 la delegazione ristretta di Forza Italia guidata da Berlusconi andò a pranzo a palazzo Chigi, convinta di dover scegliere finalmente fra Amato e Casini. (Quest’ultimo era certo che Amato sarebbe stato bruciato dai franchi tiratori e che, poi, sarebbe toccato a lui.) Quella stessa mattina Renzi, furioso, aveva telefonato a Gianni Letta. «Non mi faccio prendere per i fondelli da voi» si lamentò il presidente del Consiglio. «Berlusconi sta trattando alle mie spalle con la sinistra del Pd. Io ero pronto a portare al Quirinale Amato come candidato mio e di Berlusconi, ma se è il candidato di Berlusconi e di D’Alema, non ci sto.» Letta rispose che non c’era nessuna trattativa, nessuna trappola, che avrebbe parlato con il Cavaliere e tutto si sarebbe chiarito a colazione. Renzi fece la stessa telefonata a Verdini che, non sapendo nulla, negò anche lui. Letta avvertì Berlusconi: «Silvio, troverai un Renzi preoccupato. Preparati alla contestazione che ti farà».
Il Cavaliere, Letta e Verdini salirono al piano nobile di palazzo Chigi e si accomodarono nel salotto del presidente del Consiglio. Quando Renzi entrò, Berlusconi gli disse: «Guarda che con D’Alema non c’è stato alcun incontro. Ho semplicemente risposto a una sua telefonata in cui mi chiedeva se fosse vero che avremmo votato per Amato. Gli ho detto di sì e la telefonata si è conclusa in pochi secondi». Il presidente del Consiglio sbiancò, e non fu il solo. Allora, pensò, tutto quello che mi è stato riferito è vero. Fece accomodare gli ospiti in sala da pranzo e disse asciutto: «Il mio candidato è Sergio Mattarella». Berlusconi ribatté: «Non ci sto». Ma Renzi insistette: «Votate Mattarella. È una buona scelta anche per voi».
Alla fine del pasto frugale, come d’uso in simili occasioni, Renzi accompagnò Berlusconi all’ascensore: «Ripensaci» gli disse. «Devi ripensarci tu,» ribatté duro lui «i patti si devono rispettare.» «Domani alle 13, prima dell’inizio delle votazioni,» aggiunse Renzi «riunisco la direzione del Pd per la decisione finale. Chiamami prima di quell’ora.» Il discorso, peraltro, fu troncato a metà perché a un passo c’era un agente della sicurezza e nessuno dei due voleva che un discorso così delicato fosse ascoltato da estranei.
Berlusconi e i suoi tornarono a palazzo Grazioli per riflettere, mentre a palazzo Chigi Renzi doveva affrontare i candidati delusi. A Piero Fassino, sindaco di Torino, che si era mosso da tempo sperando nella propria candidatura, il premier disse: «Se porti i voti del centrodestra, da parte mia non c’è nessun veto». E a Casini, al telefono: «Pier, non ce la fai, anche se per me la tua candidatura andrebbe bene».
«Non voteremo Mattarella» disse Casini. E invece…
Intorno al lungo tavolo rettangolare della sala da pranzo di palazzo Grazioli, la sera del 28 gennaio 2015, il clima era molto vicino a quello delle cene funebri in uso nell’antica Grecia. Berlusconi consumò il consueto, raffinato pasto dietetico, risparmiato agli altri ospiti e per lui vanificato dalla generosa porzione finale di gelato. Alle 22 un cameriere consegnò al Cavaliere un dispaccio dell’agenzia Ansa. Guerini aveva dichiarato: «Si parte e si arriva con Mattarella». Successe il finimondo. Verdini chiamò Lotti, braccio destro di Renzi, e poi lo stesso presidente del Consiglio. «Allora avete già deciso?» chiese con l’enfasi di un toscano che litiga con due toscani. «Vi perdete Berlusconi: è furioso…» Guerini fu pregato di smentire. E infatti uscì un altro dispaccio: «La partita è ancora lunga, aperta, ed è tutt’altro che definita su questo o quel nominativo».
La mattina del 29 Renzi telefonò prima a Gianni Letta e poi a Berlusconi: «Vado alla direzione del partito. Proporrò Mattarella». Col suo consolidato realismo, Letta aveva capito che ogni altra partita era perduta e aveva chiamato Mattarella. Poi aveva cominciato a lavorare Berlusconi ai fianchi: «Silvio, io lo conosco bene». E ricordò che dopo le elezioni del 2013 e dopo il clamoroso affondamento di Prodi, e prima che Napolitano fosse costretto a prolungare il suo mandato, Bersani aveva proposto al Cavaliere il nome di Mattarella, perché anche allora Amato non aveva i voti.
Fino a quel momento Berlusconi non aveva mai incontrato Mattarella, ma nella sua mente era rimasto scolpito l’affronto subìto nell’agosto 1990, quando Craxi e Andreotti avevano dato il via libera alla legge sull’emittenza del ministro repubblicano delle Poste Oscar Mammì, che riconosceva a Fininvest il diritto di trasmettere su tre reti, e cinque ministri della sinistra dc si erano dimessi per protesta. Mattarella era uno dei cinque.
Ventitré anni dopo Mattarella era giudice costituzionale e Letta, dopo il segnale di Bersani, aveva convinto il Cavaliere a incontrarlo. «Mi è sembrato un galantuomo…» aveva osservato lui dopo averlo conosciuto di persona e si era detto perfino pronto a votarlo. Poi il clima si era intorbidito e dovette restare Napolitano. «La persona che due anni fa eri disposto a votare» obiettò Letta a Berlusconi «non può essere diventato il diavolo. Ormai il Pd ha fatto la sua scelta. Andiamo a incontrare Mattarella e ad assicurargli il tuo voto.»
Non aveva ancora posato il ricevitore, che dal Nuovo centrodestra si alzarono in volo i bombardieri. Letta informò Casini che Renzi aveva deciso per Mattarella e bisognava dargli una risposta sull’atteggiamento che avrebbe tenuto Forza Italia. Casini, che era nello studio di Alfano al ministero dell’Interno per una riunione con tutto lo Stato maggiore del Ncd – c’erano Maurizio Lupi, Gaetano Quagliariello, Fabrizio Cicchitto e il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa – lo invitò a raggiungerli con Berlusconi e Verdini.
Quando i tre entrarono nello studio, lo trovarono che li aspettava in piedi. «Noi abbiamo ricostituito il centrodestra» disse con una certa solennità. «Tra noi si è stabilito un patto di ferro. Non dobbiamo votare Mattarella.» Qualcuno dei presenti aggiunse: «Dobbiamo vendicare Casini votando scheda bianca e vedremo se Mattarella passa o non passa. Anche il Pd voterà scheda bianca alle prime tre chiamate [quelle in cui serve la maggioranza dei due terzi]. Se alla quarta, quando basta la maggioranza assoluta, Mattarella non ce la fa, torneremo a riunirci». Le due delegazioni si salutarono di nuovo con abbracci e baci, com’era avvenuto alla prefettura di Milano, e festeggiarono la ricostituita unità del centrodestra sul no all’inconsapevole Mattarella.
Berlusconi tirò dritto per Ciampino, dove s’imbarcò sul suo Hawker 4000 per rientrare ad Arcore prima di sera: alle 23 i carabinieri avrebbero bussato a villa San Martino per sapere se lui fosse in casa. (Le regole dei servizi sociali non fanno eccezione nemmeno per l’elezione del capo dello Stato.) Ma il cruccio per il forzato rientro era attenuato da una certezza: tutto il centrodestra avrebbe votato scheda bianca. Se, dopo il quarto voto, Mattarella si fosse ritirato, i giochi si sarebbero riaperti.
Mentre Letta e Verdini salivano in automobile, quest’ultimo, chiudendo la portiera, aveva detto: «Questi, fra tre ore si rimangiano tutto…». Letta rabbrividì nel freddo di gennaio ripensando a un passo del Vangelo di Marco: «Prima che il gallo canti…».
L’Hawker di Berlusconi non era ancora atterrato a Milano che Casini chiamò Letta: «Renzi ha detto ad Alfano che il ministro dell’Interno non può non votare il presidente della Repubblica. Se lo facesse, dovrebbe dimettersi dall’incarico. E io stesso, Gianni, mi trovo in difficoltà». Tutta la delegazione del Ncd, tranne Alfano, era riunita nello studio di Casini, presidente della commissione Esteri del Senato, nell’ala tardorinascimentale di palazzo Giustiniani. Letta, proprio come Verdini, si aspettava la mossa, eppure disse d’istinto: «Ma tutti sanno che avreste votato scheda bianca…». I centristi erano in grande difficoltà: da un lato, non volevano votare Mattarella per protesta contro il no a Casini, dall’altro non volevano la crisi di governo. Decisero di aspettare «un fatto nuovo».
Atterrato a Linate, Berlusconi fu informato della novità. L’indomani fu giornata di frenetiche trattative. Un «messo» andò a trovare Sergio Mattarella nel suo studio di giudice costituzionale alla Consulta per verificarne la disponibilità a un appello. Lui rifiutò con una motivazione ineccepibile: «Non mi sono candidato, dunque non faccio appelli». Allora si fece ricorso a Matteo Renzi, che se la cavò con il minimo sindacale: «Auspico un’ampia convergenza su Mattarella». Letta si recò a palazzo Giustiniani, dov’era riunito lo Stato maggiore dei centristi, e si sentì dire che la dichiarazione di Renzi era giudicata sufficiente a far cambiare opinione al Nuovo centrodestra, che avrebbe votato in favore di Mattarella. Forza Italia, resistendo alla tentazione di abbandonare l’aula al momento del voto, votò scheda bianca. Ma una cinquantina di parlamentari si espressero a favore di Mattarella. Berlusconi sostiene di averli lasciati liberi di farlo. In realtà, Verdini voleva ricostituire il rapporto con Renzi, che lo aveva accusato di tacergli incontri segreti, di cui peraltro lui non sapeva niente. E Raffaele Fitto segnò la prima forte rottura con il Cavaliere: «Non può decidere» disse ai suoi «chi finora ha sbagliato tutto». Il Movimento 5 Stelle votò per l’ex magistrato Ferdinando Imposimato; la Lega Nord per il giornalista Vittorio Feltri. Mattarella fu eletto al quarto scrutinio, con 665 voti.
Berlusconi: «Jobs Act, un’occasione sprecata»
Silvio Berlusconi ha con Sergio Mattarella un rapporto di cortese distacco. Dopo l’elezione lo ha incontrato una sola volta durante la cerimonia di insediamento al Quirinale, ma lo stile manifestato finora dal nuovo presidente farebbe escludere un interventismo come quello di Scalfaro e di Napolitano. «Si ricorderà che nel novembre 1994 la Procura di Milano mi mandò un invito a comparire mentre presiedevo a Napoli un convegno dell’Onu sulla criminalità organizzata,» mi dice il Cavaliere «reato da cui fui completamente scagionato anni dopo. Bene, Scalfaro chiamò Bossi e gli disse: “Berlusconi è nel burrone. Se non ti stacchi da lui e fai cadere il governo, ci finisci anche tu”. Bossi gli credette e un governo eletto dal popolo fu fatto cadere per un’azione congiunta della magistratura e del Quirinale.»
Su Napolitano il discorso è più lungo: Berlusconi vede in lui il regista della manovra combinata, interna e internazionale, rivelata nel 2014 da Ammazziamo il Gattopardo di Alan Friedman. «Fin dal 2010 [Napolitano] aveva deciso far cadere il nostro governo. Nel 2010 gli andò male perché Fini non riuscì a ottenere l’abbandono della maggioranza da parte di tutti gli ex An. Quando, nel novembre 2011, otto miei deputati lasciarono la maggioranza, Napolitano mi chiese in maniera forte di dimettermi. Alle mie resistenze, mi consigliò di farlo perché altri deputati stavano per lasciarmi e un voto di sfiducia sarebbe passato. Non furono dimissioni volontarie.»
Da quelle sue dimissioni sono trascorsi quattro anni, nei quali ci sono stati la condanna per frode fiscale che ha portato il Cavaliere fuori dal Senato, l’assoluzione nel processo Ruby e tre nuovi governi «non votati dal popolo», ricorda sempre lui: Monti, Letta, Renzi. Dopo la rottura del «patto del Nazareno», Forza Italia è passata all’opposizione. Con qualche fatica, sia perché, vigente il patto, aveva approvato alla Camera alcune riforme contro cui ha poi votato al Senato, sia perché Renzi ha attuato riforme e provvedimenti che fanno parte integrante del bagaglio politico del centrodestra.
A cominciare dal Jobs Act: assunzioni a tempo indeterminato senza il vincolo dell’articolo 18 e senza contribuzione per i primi tre anni. «È un’occasione sprecata» sostiene il Cavaliere «perché, per come è fatta la legge, non ha comportato una vera liberalizzazione del mercato, ma si è fermata a un incentivo per la trasformazione a tempo indeterminato dei contratti a termine, lucrando un intervento economico dello Stato. Abbiamo notizia di accordi tra imprenditori e dipendenti per cui il primo incassa l’incentivo e ottiene una lettera di dimissioni dal secondo per il momento in cui l’incentivo scadrà. Anche la riforma della scuola era partita bene, ma è stata fortemente depotenziata dagli emendamenti imposti dalla sinistra del Pd.»
Negli ultimi due anni ci sono stati anche abbandoni importanti in Forza Italia. Nel 2013 Angelino Alfano e nel 2015, fra metà maggio e metà luglio, prima Raffaele Fitto e poi Denis Verdini. Berlusconi sostiene di non aver fatto alcun tentativo per trattenerli, e anzi si è detto contento per l’uscita da Forza Italia di professionisti della politica.
«Ma quale cerchio magico…» sorride il Cavaliere
Si apre qui, tuttavia, il capitolo sull’influenza che il «cerchio magico» avrebbe avuto sul distacco da Forza Italia di tre dirigenti storici (e dei parlamentari che li hanno seguiti). E si apre anche il capitolo sul potere delle donne nel centrodestra.
La leggenda vuole che il «cerchio magico» – cioè il gruppo di persone che sono a più stretto contatto con Berlusconi – sia presieduto dalla compagna, Francesca Pascale, e composto da Mariarosaria Rossi (Piedimonte Matese, Caserta, 1972), senatrice, amministratrice del partito e capo dello staff del presidente, e da Alessia Ardesi (Manerbio, Brescia, 1977), giornalista, oggi assistente di Berlusconi. «Scusate, ma ormai ho tre badanti, e come sapete le donne sono sempre in ritardo» ironizzò il Cavaliere nel marzo 2014, intervenendo a una manifestazione già iniziata e alludendo alle tre signore. Alle quali si è aggiunta Deborah Bergamini (Viareggio, Lucca, 1967), deputata, portavoce e responsabile comunicazione di Forza Italia. L’unico uomo accreditato come membro del «cerchio magico» è Giovanni Toti (Viareggio, 1968), consigliere politico di Berlusconi, oggi fisicamente più lontano in quanto presidente della Liguria.
Abbiamo già raccontato in Italiani voltagabbana l’innamoramento della Pascale (Napoli, 1985) per il Cavaliere, dal quale lo separano quasi cinquant’anni di età, fin da quando lei era adolescente. La loro relazione da clandestina diventò ufficiosa il 13 dicembre 2009, dopo l’attentato subìto da Berlusconi in piazza del Duomo a Milano. Lo stesso anno lei era diventata consigliere provinciale di Napoli, incarico da cui si sarebbe dimessa nel luglio 2012. Nel dicembre successivo il Cavaliere rivelò in televisione a Barbara D’Urso: «Francesca è la mia fidanzata».
Nell’estate del 2015, per i trent’anni di Francesca, le ha regalato una collana che era di sua madre e ha acquistato per lei una villa in Brianza con un bellissimo parco, affidandone in autunno il restauro all’architetto Gianni Gamondi. Francesca si trasferirà appena possibile (con Dudù) nella nuova residenza. Ma quella pronunciata da Berlusconi la sera del 29 ottobre alla festa per i 40 anni di Nunzia Di Girolamo («Sono tornato single») aveva l’aria di essere una battuta.
Quando ha seguito Berlusconi nella campagna elettorale per le elezioni regionali del 2015, la Pascale – elegantissima – si è mossa sempre con molta discrezione.
Quando gli accenno al «cerchio magico», il Cavaliere ride di gusto e parla di un’invenzione della stampa. «Ma quale cerchio magico: di magico, qui, ci sono solo io! Sono tutte stupidaggini. Non c’è mai stato e non ci potrà mai essere nessun cerchio magico che possa influire sulle mie decisioni. Io ho sempre condiviso le decisioni politiche più importanti con i miei collaboratori più stretti e con i vertici di Forza Italia, donne o uomini che fossero. Nient’altro. Francesca ha smesso da un pezzo di far politica, e se qualcuno pensa di attribuire a lei delle prese di posizione che riguardano la politica, lo fa indebitamente e in malafede. La senatrice Rossi si è assunta la responsabilità difficile e dolorosa dei costi e dei debiti del partito. Forza Italia contava su 120 dipendenti: sono stati ridotti a 40, di cui molti sono in cassa integrazione. Quando è arrivata, la Rossi ha trovato, diciamo così, un’eccessiva propensione alla spesa. Prima che fosse approvata la legge che limita a 100.000 euro le donazioni private a un partito, ho versato a Forza Italia gli ultimi 18 milioni di euro e ho assunto a mio carico tutti i debiti per 123 milioni…»
Le funzioni della Rossi non si limitano all’amministrazione. Ha anche la responsabilità della firma sulle candidature. Ed è un potere che è stato prima di Sandro Bondi, poi di Denis Verdini. «È una responsabilità solo formale. Le candidature sono sempre state gestite da me. Con una sola eccezione. Quando, alla fine del 2011, sono stato costretto a dimettermi da presidente del Consiglio, mi sono anche allontanato dal partito, la cui gestione restò nelle mani di Alfano, di Verdini e di Bondi. Il risultato fu che dal 37,8 per cento del 2008 Forza Italia scese all’11,7. Prima delle elezioni del 2013 tutti mi supplicarono di ritornare in campo e di impegnarmi di nuovo nella campagna elettorale. Ancora una volta prevalse il mio senso di responsabilità, ma fu anche l’unica volta che non mi interessai delle liste, che furono affidate dai tre coordinatori ai personaggi più importanti di ogni regione. Alfano e Schifani in Sicilia, Gentile in Calabria, Fitto in Puglia, Verdini in Toscana e così via. Quando mi fu sottoposto il loro lavoro due giorni prima della scadenza della consegna delle liste, mi ritrovai con una ventina di parlamentari assolutamente meritevoli di una riconferma che erano stati esclusi. Dovetti fare delle vere e proprie acrobazie per rimetterli in lista. Questo non succederà mai più.»
I nemici del «cerchio magico» sostengono che ha avuto un ruolo sia nell’allontanamento di Alfano sia in quelli successivi di Fitto e di Verdini. Il Cavaliere lo nega in modo deciso. «Alfano e i suoi se ne sono andati ritenendo, a torto, che nel partito avessero assunto un ruolo dominante Verdini, Fitto e Daniela Santanchè. Fitto se ne è andato perché non è riuscito a imporsi nel partito come mio successore. Nell’ultima votazione del Comitato di presidenza una sua mozione fu bocciata con 93 voti contro 2. La vicenda Verdini è più complessa. C’è stato un conflitto sulla Toscana, una voglia di innovazione che ha avuto la sua punta nella Bergamini e che ha penalizzato persone vicine a Verdini. Ma non è stato questo l’elemento decisivo del suo allontanamento. È che abbiamo scelto due politiche diverse. Lui ritiene giusto continuare l’alleanza con Renzi, io e la grande maggioranza del partito siamo di parere opposto. Ma non è accaduto nulla di sgradevole sul piano personale. Dopo tre lunghi incontri aventi a oggetto il nostro posizionamento politico, con la maggioranza o all’opposizione, ci siamo lasciati con l’accordo che entro una settimana ci avrebbe comunicato la sua decisione. E una settimana dopo è venuto da me a dirmi che aveva scelto l’alleanza con Renzi.»
Del resto, anche Berlusconi riconosce a Renzi notevoli capacità. «È un grande comunicatore. Ha quella cattiveria che in politica è necessaria e che io non ho mai avuto. Ma vuole comandare su tutto e su tutti. Lasciamo da parte l’episodio più grave, e cioè il mancato rispetto degli accordi sul capo dello Stato. Forse la gente non ha la consapevolezza di quel che può fare il presidente della Repubblica. Me ne sono accorto io, che ho dovuto fare i conti con tre presidenti ostili, uno consecutivo all’altro. Il presidente interviene su tutti gli atti del governo, decide se autorizzare o meno con la sua firma i decreti legge, è il presidente del Consiglio superiore della magistratura, è il presidente del Consiglio superiore di difesa, nomina cinque giudici della Corte costituzionale, può interferire su tutte le decisioni della Corte… Ma torniamo a Renzi. Noi avevamo concordato di riformare il Senato e di diminuirne le funzioni, in modo da superare il cosiddetto “bicameralismo perfetto”. Bene, lui, improvvisamente, fece approvare dal Consiglio dei ministri, senza consultarci minimamente, quella riforma pasticciata che poi ha portato all’approvazione del Parlamento… Per non parlare delle altre 17 modifiche che ci ha fatto accettare controvoglia, sempre sulla riforma del Senato e sulla legge elettorale.»
Infine, il Cavaliere mi concede alcune brevi digressioni. «Marina in politica? Se glielo chiedessi io, scenderebbe in campo, ma non glielo chiederò mai per non esporla a quel che è successo a me. Lo sviluppo internazionale di Mediaset? È necessario che avvenga. È già in Spagna, dovrà essere presente in altri paesi. I libri Rizzoli? Se non li avesse acquistati la Mondadori, sarebbero finiti a Hachette. Il Milan e Mister Bee? Più che l’acquisto del 48 per cento della società, è importante l’accordo per la commercializzazione del marchio Milan in Estremo Oriente, a partire dalla Cina dove il Milan conta 240 milioni di simpatizzanti…»
Qui gli occhi di Berlusconi s’illuminano, prende il pennarello e disegna una serie complicata di conti dai quali risulta che, quando il programma sarà andato in porto, il valore della società sarà molto più alto perché ingloberà il valore del brand Milan, che assicura essere in assoluto il brand più conosciuto nel mondo del calcio.
Adriana Poli Bortone, la prima donna ministro del Cavaliere
E ora è arrivato il momento di parlare del ruolo delle «sue» donne in politica. Il primo governo Berlusconi (1994) ebbe un solo ministro donna, Adriana Poli Bortone (Msi-Dn), all’Agricoltura. «Bella donna, alta, capigliosa e viso etrusco, parlantina sciolta, comiziante nata, vezzeggiatissima dai colleghi della Camera»: questo il ritratto che ne fece Giancarlo Perna nel 2010 per «il Giornale».
Adriana Poli Bortone (Lecce, 1943), docente di latino e greco prima al liceo e poi di latino all’università, è nata missina. Fu il marito, delle sue stesse idee, a spingerla alla carriera politica, che la portò alla Camera a 40 anni, quando per un missino la prospettiva di diventare ministro era praticamente inferiore allo zero. Carattere indocile, non ebbe sempre rapporti facili con il tutore politico di Gianfranco Fini, Pinuccio Tatarella, pugliese come lei. E nemmeno con Giorgio Almirante, al quale non andava giù la sua spiccata simpatia per il maturo deputato comunista Franco Ferri, che la ricambiava. Come tutti i ministri del primo governo Berlusconi, nei pochi mesi in cui fu in carica fece solo in tempo ad annusare le stanze del potere, che al Msi erano state sempre rigorosamente precluse.
Eletta al Parlamento europeo nel 1999 e nel 2004, è stata sindaco della sua città per un decennio (1998-2007). «È proprio fascista,» disse di lei Gino Paoli, che ha idee politiche opposte alle sue, «ma ha fatto di Lecce un fiore.» Si aspettava di tornare ministro nel 2008, ma Fini le preferì Andrea Ronchi. Lei prese cappello e se ne andò prima all’Udc e poi, dal 2014, a Fratelli d’Italia.
Stefania Prestigiacomo, l’anima in pena di Forza Italia
Nel secondo e terzo governo Berlusconi (2001-2006, incluso il rimpasto conseguente alle liti tra Fini e Tremonti) il numero di donne salì a due: Stefania Prestigiacomo alle Pari opportunità e Letizia Moratti all’Istruzione. (Della Moratti si è detto nel capitolo precedente.)
Stefania Prestigiacomo (Siracusa, 1966) è stata il ministro con il più lungo stato di servizio (otto anni) nei governi del Cavaliere ed è deputato di Forza Italia ininterrottamente dal 1994. Nonostante la fedeltà al partito, è stata spesso un’anima in pena. Dopo il suo ingresso in politica, ma anche prima, ricorda Aldo Cazzullo tracciandone un ritratto per il «Corriere della Sera» nel novembre 2004: «Da ragazza votava Dc, ma simpatizzava per i radicali. … Iscritta al collegio delle Orsoline [entrò in seconda elementare a cinque anni] ne è fuggita perché non ne sopportava la divisa (da allora però è sempre in tailleur) … Non è una femminista, è favorevole alla vendita dei profilattici nelle scuole … Non condivide le idee della sinistra, ma le studia: si è spinta a consigliare la lettura della Storia dell’Italia repubblicana di Paul Ginsborg, l’intellettuale anglofiorentino che definisce Berlusconi “disgusting”».
Nel nostro incontro per Questo amore Stefania mi raccontò di avere avuto da ragazzina il complesso dell’altezza: «Alta alta, magra magra, i capelli lunghi, la faccia da bambina, un “manico di scopa” ancora senza forme travestito da maschiaccio». Aveva 13 anni, s’innamorò di un coetaneo già fidanzato, prese a schiaffi una rivale della sua scuola. Figlia di un imprenditore (settore tubi e guarnizioni), è ormai da oltre vent’anni professionista della politica. «Quando Stefania Prestigiacomo, bella, alta, bionda, elegante come una normanna di Sicilia, arrivò in Parlamento» ha scritto Mario Ajello sul «Messaggero» nel gennaio 2014 «un deputato del Pds sentenziò: “Grazie a Berlusconi, è finita la bruttocrazia”.»
Da ministro delle Pari opportunità litigò con il Cavaliere sulla questione delle «quote rosa». («Mi disse: “Stefania, non fare la bambina”. Ma ero pur sempre un ministro della Repubblica.»). E quando, nel 2014, si discusse ancora sulla quantità di presenze nelle liste elettorali, sbottò: «I nostri maschietti sono retrogradi solo se c’è il rischio che qualcuno gli porti via la poltrona». (In una telefonata intercettata con il suo confidente Luigi Bisignani definì Berlusconi «poco intelligente», ma il Cavaliere la perdonò.)
La Prestigiacomo sostiene che, in politica, le donne sono meno prudenti degli uomini perché più coraggiose, e se qualche volta piangono (come la Fornero), non vuol dire che siano fragili. Da ministro dell’Ambiente litigò con Tremonti, che le tagliava senza pietà i fondi. «Te lo spiego dopo» le disse con sufficienza in Consiglio dei ministri, quando lei gli chiese conto di un mancato trasferimento di soldi al suo ministero. E lei, senza batter ciglio, replicò: «State cancellando il mio ministero». Litigò con Alfano perché lei parteggiava per Gianfranco Miccichè, che ha sempre contrastato la leadership in Sicilia dell’attuale ministro dell’Interno. E con tanti altri compagni di partito, quando la sua influenza su Gianfranco Fini lo portò nel 2005 a cambiare improvvisamente opinione e a votare sì sulla fecondazione assistita, contro la linea di tutta An.
Si parlò a lungo di un legame sentimentale tra i due – sempre risolutamente smentito – e un giorno la Prestigiacomo mi disse che quanto avevo scritto in La Signora dei segreti a proposito di un suo ingresso con Fini in casa Angiolillo usando un ascensore riservato non era assolutamente vero. Raccontò nel 2006 a Stefania Rossini dell’«Espresso»: «Dopo aver sentito il consiglio di mio marito e dei miei genitori, smentii tutto con decisione, ma forse proprio per questo detti più forza ai pettegolezzi».
Stefania è sposata con il notaio Angelo Bellucci, che ha sedici anni più di lei, e ha un figlio, Gianmaria.
Mariastella Gelmini e la rivoluzione della scuola
Se Stefania Prestigiacomo ha finito, prima o poi, per litigare con tutti, Mariastella Gelmini ha dichiarato: «Andare d’accordo con tutti non è un delitto». Eppure, mai fidarsi delle acque chete. Ha scritto Marianna Rizzini sul «Foglio»: «Da ragazza del lago qual è, si difende con la serena forza dell’acqua che non si vede, ma poi ti sommerge». E due lingue lunghe come Massimo Gramellini e Mattia Feltri sulla «Stampa» nel 2008: «La neoministra dell’Istruzione ha lo sguardo della supplente che ti frega, rivelandosi poi più tosta della prof che era chiamata a sostituire (nella fattispecie Letizia Moratti)».
Perché, certamente, la vita politica di Mariastella o Maristella Gelmini (Leno, Brescia, 1973) è stata segnata dai tre anni trascorsi nella trincea del palazzone di viale Trastevere a Roma: deposito di esplosivi più che sede ministeriale, come ha constatato a sue spese Stefania Giannini, ministro dell’Istruzione nel governo Renzi. La Gelmini c’era arrivata facendo tutta la trafila di partito. Figlia di un sindaco democristiano e assidua frequentatrice dell’oratorio, s’iscrisse a Forza Italia fin dalla prima ora, sfidando la preoccupazione della madre che avrebbe preferito vederla dedicata all’avvocatura piuttosto che militante di quello che allora veniva chiamato «partito di plastica». Dopo aver lasciato le scarpette da ballerina (ha studiato danza per sei anni), Mariastella fece la gavetta di consigliere comunale, provinciale e regionale di Forza Italia, prima di essere presentata a Berlusconi da Giacomo Tiraboschi, produttore della trasmissione Mediaset «Melaverde» e curatore dei giardini di Arcore, e di approdare in Parlamento nel 2006.
Sposata dal 2010 con l’immobiliarista Giorgio Patelli, la Gelmini si è separata nell’estate del 2015. Dal loro matrimonio è nata Emma.
La sua riforma dell’istruzione tentò di riportare la scuola sui binari del buonsenso. Con una serie di leggi varate tra l’estate del 2008 e l’autunno del 2010, la struttura dell’insegnamento e dell’organizzazione scolastica italiana si avvicinarono molto alla media europea. «Voglio restituire agli insegnanti quel prestigio e quell’autorevolezza che, in parte, hanno perso» mi disse la Gelmini nel 2008 per Viaggio in un’Italia diversa. E mi rovesciò sul tavolo una sfilza di tabelle che dimostravano che – a parità d’investimento con i maggiori paesi europei – avevamo il più alto rapporto insegnanti per alunno e la qualità media più bassa: il Nord persino sopra la media Ocse, il Sud disastrosamente sotto. «Le sembra possibile che in Italia ci siano più bidelli che carabinieri?» mi domandò scandalizzata. In effetti, erano 167.000 contro 118.000, uno ogni due classi, 4 miliardi di spesa all’anno.
La Gelmini riportò nelle elementari il vecchio, caro maestro unico e tentò di ripristinare l’uso del grembiule – rivolta simbolica contro la differenza di classe sociale tra i bambini – e i voti in decimali, al posto di giudizi spesso anodini e incomprensibili, aumentò le ore di studio dell’inglese e ridusse gli orari complessivi di insegnamento allineandoli a quelli europei, intervenne con la mannaia sulla folle selva di corsi sperimentali (800 più 200 corsi assistiti), rese più organica la struttura dei licei e gli istituti tecnici più adeguati al mercato del lavoro, aprì le università alle fondazioni private. Fallì, invece, nell’obiettivo di affiancare alla riduzione degli insegnanti (87.000) il premio economico ai migliori: la proposta di dotarli di un assegno di 7000 euro lordi cadde con la legge finanziaria del 2010.
Il mondo della scuola e dell’università insorsero come un sol uomo. All’apertura dell’anno scolastico 2008 molti insegnanti si presentarono con la fascia del lutto al braccio. L’ambiente scolastico confermò di essere il più corporativo e il più impermeabile alle riforme, come avrebbero capito nel 2015 a proprie spese Matteo Renzi e Stefania Giannini.
Mara Carfagna, «il ministro più bello del mondo»
Quando Mara Carfagna fu nominata ministro per le Pari opportunità del terzo governo Berlusconi nel 2008, i giornali internazionali scrissero che era «il ministro più bello del mondo». Quel che si è scoperto più tardi – e le hanno riconosciuto anche gli avversari – è che si trattò anche di un ministro competente e preparato. Quando giurò al Quirinale, la Carfagna (Salerno, 1975) aveva 33 anni. Adesso che ne ha 40, il fisico resta statuario e la preparazione politica si è consolidata.
Per Mara non è stato facile scalare una montagna di pregiudizi. Dieci anni di conservatorio e un diploma di danza classica furono azzerati da un corpo mozzafiato, dalla fascia di Miss Cinema al concorso di Miss Italia del 1997, dalla partecipazione ai «Cervelloni» di Paolo Bonolis, a «Domenica in» con Fabrizio Frizzi, a «Piazza Grande» con Giancarlo Magalli, dove lavorò fino al momento della sua elezione a deputato nel 2006.
Un vecchio ritaglio di «Tv Sorrisi e Canzoni» del 2001 la mostra sul set di «La Domenica del Villaggio», il programma di Davide Mengacci andato in onda su Rete 4 per dieci anni, fino al 2005. Si era appena laureata in legge (110 e lode) con una tesi sul diritto all’informazione nel servizio radiotelevisivo. La fatica più grande?, le chiesero. «Convincere mio padre, un severo preside, ad accettare questo lavoro.» Il sogno? «Uno show tutto mio, ma non so se sono pronta.» E anche l’ipotesi di una fuga all’estero.
Pronubo il padre, da sempre uomo di centrodestra, che la presentò a Berlusconi, nel 2004 è stata responsabile campana delle donne di Forza Italia, di cui sarebbe diventata responsabile nazionale nel 2007. Nello stesso anno, incontrandola alla serata dei «Telegatti» di Canale 5, il Cavaliere le disse: «Se non fossi già sposato, ti sposerei subito». E lei rispose: «Le direi di sì senza esitazioni, se fossimo coetanei e lei non fosse già sposato». Veronica Lario, allora legittima sposa di Berlusconi, non apprezzò affatto e portò alla luce una crisi matrimoniale in incubatrice da tempo, che sarebbe esplosa nel 2009 ponendo le premesse per il divorzio. Alla Carfagna fu attribuito un flirt con l’allora presidente del Consiglio, da entrambi smentito con sdegno quando il gossip dilagò dopo la sua nomina a ministro. Il Cavaliere, come al solito, si allargò e disse che mai avrebbe insidiato una Maria Goretti. Sabina Guzzanti, che nell’occasione era andata giù pesante, con allusioni più che esplicite, perse la causa di diffamazione intentatagli dalla Carfagna, alla quale dovette versare 40.000 euro di risarcimento. «Confido molto nella mia volontà e testardaggine» replicò quando «la Repubblica» riprodusse un vecchio calendario in cui appariva senza veli. «Penso che avere un aspetto fisico gradevole non sia un reato, una colpa e che non debba necessariamente precludere il dedicarsi alla politica, alla società, alle istituzioni» («La Stampa», maggio 2008).
La Carfagna fu un ministro apprezzato. A lei si deve la legge sullo stalking (approvata) e la proposta (arenatasi) di vietare la prostituzione stradale, ma non quella in appartamento. Nel 2008 si rifiutò di patrocinare il Gay Pride, ma l’anno successivo promosse con alcune deputate gay di sinistra iniziative contro l’omofobia.
Movimentata la sua vita sentimentale. Dopo una relazione di tre anni con l’imprenditore Marco Carboni, strinse un legame con Italo Bocchino, deputato di An, rivelato da una dichiarazione della di lui moglie. (Lui si separò e chiese scusa alla moglie in televisione.) Il matrimonio contratto nel 2011 con il costruttore Marco Mezzaroma (testimone Silvio Berlusconi) si è interrotto dopo poco più di un anno. Oggi Mara è fidanzata con Alessandro Ruben, membro influente della comunità ebraica romana e già deputato del PdL, confluito poi nel Fli di Gianfranco Fini.
E il futuro? Mara Carfagna oggi è in primissima fila nel gruppo di persone sulle quali Berlusconi punta per il rilancio di Forza Italia.
Michela Vittoria Brambilla, la pasdaran con le autoreggenti
Confesso di non aver mai visto le famose calze autoreggenti di Michela Vittoria Brambilla. Sebbene, lo ammetto, sono il conduttore di «Porta a porta», la trasmissione in cui le sue calze incendiarono i maschi d’Italia, aprendole le porte della politica. Ma lei era seduta in una delle poltrone alla mia sinistra e veniva inquadrata frontalmente. Gli spettatori vedevano – accidenti, se vedevano –, io no.
Michela Vittoria Brambilla (Lecco, 1967) deve la sua fortuna al fatto che l’ormai storico presidente di Confcommercio, Carluccio Sangalli, non ama andare in televisione. E siccome ci dissero che il Gruppo giovani imprenditori aveva una bella e focosa presidente, il 4 febbraio 2004 la invitammo in trasmissione, dove rappresentò la sua categoria molto meglio di come l’avrebbe fatto qualunque politico. Berlusconi – che l’aveva conosciuta come imprenditrice nel 2001 a una cena di finanziamento promossa da Bernardo Caprotti, patron di Esselunga – la notò e decise di lanciarla.
La Brambilla è nata ricca. Suo padre, imprenditore dell’acciaio, aveva una grande casa di famiglia con un ettaro di parco e tanti animali. «Ho imparato a camminare» ha raccontato all’«Espresso» nel maggio 2007 «attaccandomi al collare di uno schnauzer», un cane molto simpatico che assomiglia a uno scienziato con la barba. A 9 anni le regalarono una leonessa. Nacque così un amore irreversibile per gli animali, che l’ha portata (e la porta) a essere un’animalista militante, spesso scatenata. Le ultime notizie sul suo zoo parlano di 3 cani, 24 gatti, 2 asini (uno regalatole da Vittorio Feltri, che sostiene di averlo salvato da una Festa dell’Unità), 200 piccioni, 3 galline e 4 caprette. Insomma, con lei Noè si troverebbe perfettamente a suo agio.
A 19 anni, come Miss Romagna, partecipò alle finali di Miss Italia. I produttori di calze Omsa notarono le sue gambe e le offrirono il ruolo di testimonial. Laureata in filosofia, sposata con Eros Maggioni, un odontotecnico con cui ha aperto il Centro medico lombardo di Cernusco Lombardone (Lecco), e madre di Vittorio Edoardo e Stella Sofia, si è avvicinata al mondo del commercio alimentare nel 1994, quando il padre le affidò la prestigiosa salumeria di via Montenapoleone a Milano. Ha fondato, successivamente, due compagnie per il commercio all’ingrosso di prodotti ittici, tra cui magnifici salmoni affumicati. Di qui il soprannome di «Rossa salmonata». (Per inciso, le origini del colore dei suoi capelli sono un segreto di Stato.) Michela, insomma, è più che benestante, e questo in politica aiuta a essere indipendenti.
La Brambilla mancò l’elezione alla Camera nel 2006, che ottenne nelle due legislature successive. È stata sottosegretario e poi, tra il 2009 e il 2011, ministro per il Turismo, dove non ha combinato granché, come peraltro tutti i suoi predecessori e successori: purtroppo, le competenze del settore sono regionali, e questo impedisce qualunque programmazione nazionale. Abbiamo il patrimonio naturalistico e artistico più prezioso del mondo, ma non riusciamo a venderlo.
L’attività politica principale della Brambilla si è svolta all’interno del partito. Il 20 novembre 2006 fu lei la madrina dei Circoli della Libertà, assai cari a Berlusconi. E nel marzo 2007 fu lei a organizzare una memorabile serata all’hotel Principe di Savoia di Milano, tanto che nell’estate dello stesso anno «La Stampa» arrivò a titolare: Berlusconi spiazza il centrodestra: «Io presidente, la Brambilla segretaria». In Forza Italia scoppiò il finimondo. Il Cavaliere tranquillizzò i suoi, ma continuò a lavorare nella convinzione che il governo Prodi sarebbe caduto presto e che, nel 2008, si sarebbe tornati al voto. E la Brambilla non lo mollava un momento.
Il problema era che il centrodestra non esisteva più. Casini aveva abbandonato Berlusconi dopo la sconfitta del 2006 e Fini, nell’autunno, lo attaccò con una durezza inusitata. Così, dopo aver subìto un uno-due al mento dalla coppia di ex alleati, il 18 novembre 2007 il Cavaliere accettò l’invito di Mariastella Gelmini a fare un comizio in piazza San Babila a Milano e chiese alla Brambilla di accompagnarlo. Arrivato sulla piazza, la folla era tale che dovette salire sul predellino di una Mercedes per farsi vedere da tutti. Annunciò lo scioglimento di Forza Italia e la nascita del Popolo della Libertà. Chi ci sta ci sta. («Siamo alle comiche finali» commentò Fini che, due mesi dopo, andò a Canossa da Berlusconi e vinse le elezioni del 2008 con lui, dopo aver mollato Casini con cui pure aveva preparato la tomba del Cavaliere.) E la Brambilla? Quella sera, in piazza San Babila, fu inquadratissima insieme alla Gelmini, ma in televisione i suoi capelli rossi si notarono di più. Da allora, a parte l’esperienza ministeriale, è stata sempre attivissima nel partito. Berlusconi ha perso un sacco di soldi affidandole la direzione del «Giornale della Libertà» e dell’omonima televisione, ma lei, che nel 2010 fondò i Promotori della Libertà, in vista della rottura con Fini, aspetta solo di tornare al più presto a indossare la divisa della pasdaran.
Giorgia Meloni, il volto nuovo della destra
Giorgia Meloni (Roma, 1977) è stata il più giovane ministro della storia italiana, avendo assunto nel 2008, a soli 31 anni, l’incarico di titolare del ministero delle Politiche giovanili, trasformandolo subito in ministero della Gioventù («Ricordava politiche assistenzialiste,» disse «come se i giovani fossero statali…»). Restò in carica tre anni, fino alla caduta del governo Berlusconi, ma non ha mai avuto la popolarità televisiva che gode da quando, nel 2014, al primo congresso di Fratelli d’Italia ne è stata nominata presidente.
Nata nel quartiere residenziale della Camilluccia, è stata incendiaria fin dalla più tenera età: «A tre anni insieme con mia sorella demmo fuoco alla casa e ci dovemmo trasferire alla Garbatella, quartiere popolare di Roma» raccontò. Il padre, commercialista, aveva abbandonato la famiglia per andarsene alle Canarie su una barca chiamata Cavallo pazzo. Non vide più le figlie da quando Giorgia aveva 12 anni. Ha detto a Maria Corbi della «Stampa» nel maggio 2008: «Non mi si dipinga come la piccola fiammiferaia che è diventata di destra dopo l’abbandono da parte del padre comunista. Ho avuto comunque un’infanzia bellissima e non mi è mancato niente».
Iscritta al Fronte della Gioventù, a 15 anni fondò il movimento giovanile Gli Antenati, che protestava contro la politica del ministro della Pubblica istruzione Rosa Russo Iervolino. Dopo il diploma di maturità linguistica, nel 1996 diventò a sorpresa leader di Azione studentesca, il movimento giovanile di An sostenuto dalla componente di Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri. Eletta deputato nel 2006, a 29 anni diventò il più giovane vicepresidente della Camera della storia italiana, record battuto nel 2013 da Luigi Di Maio del Movimento 5 Stelle, che ne aveva 26. Poi i tre anni al governo, in cui occupò la poltrona che era stata di Giovanna Melandri. Della sua attività ministeriale si ricorda un pacchetto da 300 milioni di euro per prestiti agli studenti meritevoli e agevolazioni ai giovani imprenditori.
Tuttavia, nella Meloni (romanista e proprietaria di una spettacolare collezione di angeli), la funzione politica ha sempre prevalso – anche caratterialmente – su quella istituzionale. Nell’estate del 2008 invitò gli atleti azzurri a boicottare la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Pechino, in segno di protesta per la politica cinese verso il Tibet, ma restò isolata sia nel governo sia nel mondo sportivo. E nell’autunno dello stesso anno, troncò una polemica interna al suo partito su fascismo-antifascismo: «Basta con questa storia. Siamo nati a ridosso degli anni Ottanta e Novanta, siamo tutti protesi nel nuovo millennio. Difenderemo i valori sui quali si fonda la Costituzione e che sono propri anche di chi ha combattuto il fascismo». L’Unione dei giovani ebrei apprezzò.
Nel 2009 diventò presidente della Giovane Italia, movimento giovanile del Popolo della Libertà. Quando, dopo la caduta del governo Berlusconi, il centrodestra si frantumò, nel 2012 fece nascere con La Russa e Guido Crosetto il partito Fratelli d’Italia. (Lei stentava ad arrivare alle spalle dell’altissimo e massiccio Crosetto e i due furono chiamati «il gigante e la bambina».) La Russa, politicamente più esperto e autorevole della Meloni (era stato ministro della Difesa nel terzo governo Berlusconi), capì che lei aveva più appeal elettorale e fece perciò un passo indietro, rinunciando in suo favore alle amatissime apparizioni televisive.
Il nuovo partito rifiutò di entrare nel Ppe, con cui non aveva in effetti la più pallida parentela, e si avvicinò invece alla destra di Marine Le Pen. È nata così la forte convergenza politica con la Lega di Matteo Salvini, di cui Fratelli d’Italia è alleata in ogni occasione, e con il leader del Carroccio la Meloni condivide un notevole appeal televisivo. Quasi sempre preparata, talvolta un po’ piena di sé, spesso pirotecnica, favorita dal ruolo di oppositrice, appare regolarmente nei talk show. E negli studi Mediaset di Cologno Monzese ha incontrato l’attuale fidanzato, Andrea Giambruno, autore di «Mattino Cinque» e di «Quinta Colonna».
Daniela Santanchè, la Pitonessa dell’eccesso
Non è mai stata ministro, né verosimilmente lo sarà mai. Ma come si fa a escludere Daniela Santanchè (Cuneo, 1961) dal pur ristretto novero delle donne che hanno un ruolo non trascurabile nel centrodestra? Il suo potere in Forza Italia è stato infatti, almeno per un periodo, significativo, a dispetto dei santi e persino dello stesso Berlusconi che, con lei, alterna momenti di grande sintonia a momenti di assoluto rigetto. Perché Daniela rappresenta la pancia più profonda del berlusconismo ribelle, e quando attacca qualche «nemico» con parole che lui mai potrebbe usare, il Cavaliere – segretamente – ne gode. Di qui il nomignolo di «Pitonessa», nel quale, dicono, lei si riconosce.
Quando qualcuno fa il nome della Santanchè nel sinedrio di «Porta a porta», tre quarti dei miei colleghi alzano gli occhi al cielo. «Non si può» obiettano. «Non ha incarichi, non rappresenta nulla.» E, infatti, viene invitata rarissimamente, anche se fa ascolto. Lo era invece spessissimo, ai tempi del Berlusconi-Caimano, nelle trasmissioni pesantemente orientate a sinistra: si voleva dimostrare che quella bella signora un po’ eccessiva in tutto, arrampicata su tacchi stratosferici, era l’incarnazione negativa del berlusconismo. Anzi, era il berlusconismo, proprio perché negativo. E lei si batteva come una leonessa in arene in cui tante sue colleghe si guardavano bene dal mettere piede.
Deputata per tre legislature (due con Alleanza nazionale, una con Forza Italia), quando era senza seggio (2010-2011) la Santanchè diventò sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’attuazione del programma di governo. In Forza Italia ci fu un maremoto, ma Berlusconi la volle premiare per essersi separata da Francesco Storace, con cui aveva fondato La Destra. Eppure, la politica è dopotutto marginale nel ritratto del personaggio Santanchè.
Nata in una famiglia di imprenditori dei trasporti, laureata in scienze politiche a Torino, già nel 1983 fondò una società specializzata in pubbliche relazioni e marketing strategico. Il suo motto era: «Ho fatto della mondanità un lavoro». Barbara Palombelli la descrisse così sul «Corriere della Sera» del 15 luglio 2002: «Faccia tosta e simpatica, fisico tonico e scattante, seno abbondante “tutto mio, ho rifatto in verità solo il naso perché aveva la gobba”, vestita come piace ai maschi». E lei le disse durante un’intervista: «Lo sa che moltissime persone, anche al vertice delle istituzioni, vorrebbero solo andare alle feste e poi uscire con la fotina su “Chi”?» («Corriere della Sera», 15 luglio 2002).
S’innamorò giovanissima del chirurgo plastico Paolo Santanchè: lei voleva un figlio, lui no, e il rapporto coniugale – riferisce Giancarlo Perna sul «Giornale» dell’8 luglio 2013 – si trasformò di fatto in una consulenza professionale: «Daniela si trasformò in PR con l’obiettivo di lanciare Santanchè come miglior chirurgo plastico d’Italia. “Gli facevo da campionario, ho fatto credere che mi avesse rifatta”». Si separò mantenendo il cognome (il suo è Guarnero) e si unì all’industriale farmaceutico Canio Mazzaro, al quale nel 1996 diede un figlio, Lorenzo. Dal 2012 è la compagna di Alessandro Sallusti, direttore del «Giornale». Ancora Perna: «Ho sempre pensato che se Daniela Santanchè avesse incontrato degli uomini che portavano davvero i pantaloni non li avrebbe mai indossati lei. … “È tutta la vita che sogno un uomo che mi dica: “Ciao piccolina, hai bisogno di qualcosa? … Mi trovo invece di fronte solo uomini intimoriti dalla mia apparente sicurezza che mi fanno sentire un maschio in un corpo di donna”».
La Santanchè entrò tardi in politica, spinta dall’amicizia milanese con Ignazio La Russa. Diventò deputato di An nel 2001 e fu rieletta nel 2006. Nel 2007 se ne andò dal partito, dopo aver definito «palle di velluto» i cosiddetti «colonnelli» di Gianfranco Fini. Nel 2008, come candidata premier della Destra di Storace, insultò Berlusconi: «Ci vede solo orizzontali, non ci vede mai verticali». La sua lista, però, non arrivò al 3 per cento dei voti e non entrò in Parlamento. Dopo le elezioni cambiò idea e diventò una pasdaran del Cavaliere. Lo è rimasta, e ogni sua parola, su qualunque tema, fa rumore.