IV

Cattoliche, comuniste e…

Le cinque vite di Irene Pivetti

Risalii con lo sguardo dall’aranciata al foulard. E dal foulard agli occhi verdemare di Irene Pivetti, 31 anni, freschissima presidente della Camera dei deputati. Era una domenica di metà giugno 1994. Tre mesi dopo aver vinto con Silvio Berlusconi le elezioni politiche, Umberto Bossi aveva capito che il trionfo del Cavaliere alle europee avrebbe relegato la Lega a un ruolo marginale. Decise, quindi, di mollare l’alleato. Il «tradimento» – il primo della lunga serie che Berlusconi dichiarerà di aver subìto da parte degli alleati in oltre vent’anni di vita politica – sarebbe stato completato alla fine di quello stesso anno. Ma le fondamenta furono gettate quella domenica di giugno sul pratone di Pontida.

Prima dei raduni padani, il Senatùr era solito chiudersi in un rifugio segreto. Una volta scovato questo rifugio (un alberghetto a due stelle) grazie alla singolare presenza di auto di scorta nella piazzola antistante l’edificio, mi trovai a sorpresa davanti al presidente della Camera. «Suor» Irene (Milano, 1963) era venuta in udienza da «papa» Umberto con l’umiltà di una giovanissima badessa avida d’istruzioni per la conduzione del suo convento. Si era trovata, per caso, a essere la più giovane presidente della Camera della storia italiana. Bossi avrebbe voluto Francesco Speroni alla presidenza del Senato, che, però, era troppo stravagante per i gusti del Cavaliere: «Uno che indossa quelle giacche colorate non può presiedere l’aula» era stato il suo inappellabile verdetto. E così era toccato all’Irene prendere da Giorgio Napolitano le consegne per la guida di Montecitorio.

«Giovane, cattolica, leghista»: con questi tre aggettivi Bossi la presentò in società. Il Senatùr, allora, era un mangiapreti, e una personalità cattolica gli faceva un gran comodo. La Pivetti portava il rosario nella borsetta e, al collo, la croce di Vandea, che sovrastava un cuore d’oro: «Dio e re». (I soldati vandeani la portavano cucita sul petto quando si opponevano armi in pugno alle violenze della Rivoluzione francese.) Quella croce le valse l’accusa di essere una scismatica lefebvriana. «Non è vero,» mi disse lei «seguo la dottrina del cardinale Ratzinger», mai pensando che, undici anni dopo, quel prelato sarebbe diventato papa. Esponente e poi presidente della Consulta cattolica della Lega, la Pivetti era tenuta ai margini dal mondo cattolico ufficiale: il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, non aveva mai voluto riceverla, e infatti lei lo detestava; alle Settimane sociali della Chiesa non la invitavano, ma lei una volta si presentò ugualmente e fece il suo intervento. Insomma, in minoranza anche nella fede, si ritrovò dalla sera alla mattina sulla poltrona di terza carica dello Stato.

Figlia di un regista teatrale e di un’attrice-doppiatrice, sorella maggiore di Veronica, che avrebbe seguito la strada della madre, Irene si era laureata con lode in filosofia all’Università Cattolica. Al momento della nomina a presidente della Camera, furono guardate con sufficienza o sottovalutate la sua solidità culturale, le sue ricerche sui manoscritti del Cinquecento, la sua attività di revisione e completamento del Grande dizionario illustrato della lingua italiana del nonno linguista, Aldo Gabrielli. Nel 1990 aveva inviato a Bossi un saggio sulla Lega e fu amore a prima vista: «Senza i cattolici, questo paese non si governa» sentenziò il Senatùr. Candidata per la Lega Nord alle politiche del 1992, fu eletta e ricandidata nel 1994, quando Bossi la «punì», presentandola non nel suo collegio naturale di Milano Centro ma in uno di periferia, tra la Bovisa e Quarto Oggiaro. «Non c’ero mai stata in vita mia» mi raccontò. «Una zona rossa che più rossa non si può. La Lega aveva una sezione, Rifondazione comunista sei. Ogni partito scelse un cattolico per contrastarmi. Un’ordalia. Ho vinto con quasi il 53 per cento dei voti.»

Nell’estate del 1994 incontrai di nuovo la Pivetti nel suo ufficio alla Camera mentre stava sostituendo un importante Sironi con un gigantesco dipinto raffigurante il primo Parlamento castigliano. Si sentiva sola. Dopo cinque anni, il matrimonio con il primo marito Paolo Taranta era finito (sarebbe stato annullato dalla Sacra Rota nel 1997). L’appartamento di servizio del presidente della Camera era di 580 metri quadrati, e non sapeva come scappare. Le proposi un piano articolato di fuga serale per farsi una pizza in santa pace, ma lei temeva che poi se la sarebbero presa con i ragazzi della scorta. Dal lunedì al giovedì, non riceveva nessuno, e il venerdì tornava a Milano con l’aereo di Stato. («Usavo quelli di linea, ma gli uomini della sicurezza mi hanno detto che gli complicavo la vita.») L’antipolitica non esisteva ancora.

Per non ingrassare, al mattino faceva jogging in un’area protetta indossando la tuta della polizia. Poi prendeva posto in aula con il suo volto senza sorrisi, il piglio severo che intimoriva tutti. Capelli corti ricci, abito castigato da suffragetta, trucco ridotto all’indispensabile. E più lei si castigava nell’immagine, più agitava i sogni erotici di tanti italiani: quelli del genere che vorrebbero fare l’amore con una suora. («Corteggiatori?» mi dice oggi. «Forse. Ma non raccoglievo e non incoraggiavo.»)

Meno di nove mesi dopo le elezioni (e subito dopo il primo invito a comparire al Cavaliere), il governo era già politicamente morto. Il 13 dicembre la Pivetti partecipò alla presentazione del libro di papa Giovanni Paolo II Varcare la soglia della speranza e fu festeggiata da sinistra come probabile nuovo presidente del Consiglio di un governo istituzionale, avendo dato buona prova di sé come presidente della Camera, malgrado l’inesperienza. Criticò l’aborto e la platea del teatro Argentina rumoreggiò. Ma fu difesa galantemente da Eugenio Scalfari, il suo corteggiatore più illustre, che le aveva inviato non si sa quanti fasci di rose rosse. («Sì, mi mandava delle rose,» ricorda «ma non era un corteggiatore in senso classico. Furono scambi importanti tra un uomo di grande esperienza e una donna che non ne aveva affatto.»)

Come presidente della Camera, Irene Pivetti esercitò il suo potere di ferrea militante leghista in diverse occasioni. La più clamorosa fu il 14 dicembre 1994, quando battezzò la «maggioranza di Giuda», come la chiamò Francesco Storace: Lega, Pds e Ppi, uniti alle spalle e in danno di Berlusconi, con cui Bossi aveva vinto le elezioni appena nove mesi prima. Sottrasse la discussione sul riassetto del sistema televisivo (nervo scoperto del Cavaliere) alla commissione Cultura, presieduta dal forzista Vittorio Sgarbi, per affidarla a una commissione speciale presieduta da Giorgio Napolitano. Due mesi dopo, nel febbraio 1995, mandò in visibilio il popolo leghista alla convention di Assago attaccando «i nuovi traditori» (Roberto Maroni) e «qualcuno molto furbo, qualcuno molto scaltro, che sa curare perfettamente i propri interessi, anche a costo di andare contro gli interessi della democrazia». Berlusconi non gradì, Forza Italia ne chiese le dimissioni da presidente della Camera, ma lei restò saldamente al suo posto.

Fu rieletta alla Camera nel 1996, quando la Lega – gridando «Roma Polo, Roma Ulivo» – raggiunse il 10 per cento. Poi Bossi perse la testa, inneggiò alla secessione, la Pivetti si oppose e venne espulsa. Allora fondò Italia federale, confluita prima in Rinnovamento italiano di Lamberto Dini e poi nell’Udeur di Clemente Mastella, della quale è stata presidente fino al 2002. Un anno prima era uscita dal Parlamento, proprio quando il centrodestra – di nuovo in coalizione con la Lega Nord – tornava a vincere le elezioni.

Nel frattempo, anche la vita privata della Pivetti era cambiata. Nel 1997 incontrò un giovane laureato in scienze politiche, Alberto Brambilla, mentre stava raccogliendo firme per un candidato sindaco. Lui aveva 24 anni, lei 34. E si sposarono subito. («Passammo dal lei al sì.») Benché avesse fatto annullare il primo matrimonio con la motivazione – poco cattolica, si disse – di non volere figli (anche se oggi non vuole confermarmelo), con Alberto ne arrivarono due, un maschio e una femmina. Suo assistente durante il periodo dell’attività politica, il nuovo marito fu il pigmalione della seconda vita della Pivetti, quella di star televisiva. (In verità, se consideriamo la prima vita da redattrice del dizionario Gabrielli, la seconda da Giovanna d’Arco sudata e scamiciata ai comizi della Lega e la terza da donna delle istituzioni, questa sarebbe la quarta.) Le rasò i capelli con la macchinetta e lei andò in televisione come autrice e conduttrice di parecchi programmi. «Mi sento sexy come Catwoman» disse l’ex presidente della Camera a «Gente». Finalmente, gli italiani che sognavano di possederla quando vestiva da suffragetta, ora potevano sognare le sue frustate.

Nel 2009 Alberto decise di lasciarla e i due si separarono nel 2010, dopo tredici anni di matrimonio. Nel 2012 la Pivetti gli riaprì le porte di casa per il bene dei figli, ma lui, con una lettera aperta al settimanale «DiPiù», chiarì che non sarebbero tornati insieme. «Abbiamo un buon rapporto familiare» mi dice lei oggi. «Viene da noi quando vuole, ha le chiavi di casa, ma prima avverte. Ha un ottimo rapporto con i nostri figli di 16 e 17 anni.» Alberto adesso ha un’altra vita sentimentale, quella che lei finora ha rifiutato. «Ho impiegato tanto tempo a elaborare il lutto della separazione. Solo quest’anno ho ripreso a truccarmi. Prima lo facevo unicamente in trasmissione, ma era lavoro. Mai più innamorata? Non è un proclama, ma sto bene così e a cercare un compagno non ci penso nemmeno.»

Intanto Catwoman è tornata una donna posata che fa l’opinionista in televisione e – quel che più conta – è diventata (quinta vita) amministratrice di Only Italia, una rete di imprese nata per promuovere i nostri prodotti all’estero, in particolare in Cina. «Con una ventina di collaboratori, siamo una piattaforma: chiudiamo precontratti in Cina e poi li offriamo a 2400 imprese italiane, a seconda dei settori» mi spiega. «A parte le difficoltà del mercato cinese, è la fragilità del sistema italiano a deprimere gli imprenditori. L’assenza della politica, che dovrebbe aprire il mercato con un colosso come la Cina dove bisogna presentarsi battendo il pugno sul tavolo.»

La politica, vent’anni dopo? «È una nobilissima arte, una delle cose di cui sono più orgogliosa. Attraverso la politica ho imparato che lo Stato è la sintesi del bene comune e provo un dispiacere infinito nel vederne i fallimenti. La gente ha perso fiducia nella politica perché da trent’anni i politici si “sparano” addosso, delegittimandosi a vicenda.»

Salvini? «Non lo conosco, ma è riuscito a trovare una formula moderna per rivitalizzare la Lega. Maroni ha gestito la fase più difficile della vita del partito e ha trovato il successore giusto.»

Bossi? «Non lo vedo da quindici anni.»

Letizia Moratti, la Signora

Gianni Agnelli era l’Avvocato, Raul Gardini il Contadino. Silvio Berlusconi è il Cavaliere, Carlo De Benedetti l’Ingegnere, Romano Prodi il Professore, Cesare Romiti il Dottore. Letizia Moratti è sempre stata la Signora. E che Signora.

Quando nel 1994 sbarcò a viale Mazzini – prima donna presidente della Rai – gli uscieri del settimo piano, il ponte di comando, capirono che era cambiato il mondo. Abituati a ogni declinazione della Politica, si trovarono di fronte a una raffinata, elegantissima corazziera (metri 1,78), decisa a trasformare l’azienda in un reggimento d’eccellenza. Si portò dietro segretaria, autista e Mercedes personali, pagati di tasca propria. E cominciò a impartire ordini, con un piglio e una rapidità decisionale che, da quelle parti, non si vedevano dai tempi di Ettore Bernabei. Ma mentre Bernabei gridava e smoccolava come solo un toscano imbufalito riesce a fare, la Signora era glaciale come un chirurgo in sala operatoria. Un colpo di bisturi e zac, l’amputazione era bell’e fatta.

Dal concorso che mi ha portato alla Rai nel 1968, ho avuto 22 presidenti e altrettanti direttori generali. Bernabei fece fuori 3 presidenti, la Signora l’ha eguagliato con 3 direttori in due anni. («Li cambia come i collant» scrisse Massimo Gramellini sulla «Stampa.») «Quest’azienda» disse a fine mandato nel 1996 «era stimata 1000 miliardi di lire nel 1993, oggi ne vale 8000, con certificato delle banche internazionali. … L’abbiamo trovata con 1600 miliardi di debiti, alla fine del 1996 non ne avrà più.»

L’aveva designata Berlusconi, che la conosceva da tempo. Ma lei fece quasi sempre di testa sua, e Dio sa quanto ce l’abbia dura. «Se alla Rai non avessi avuto un po’ di carattere,» ricorda oggi «se non avessi avuto il pugno di ferro, non avrei combinato nulla. Ma non credo di essere una persona che esercita le sue funzioni in modo autoritario. Sono ferma, ma cerco di capire i problemi degli altri.»

La fermezza di carattere l’ha avuta fin da bambina. Letizia Brichetto Arnaboldi (Milano, 1949), a 8 anni, una sera mise il cappotto sopra il pigiama e scappò di casa perché i genitori non le avevano permesso di vedere «Lascia o raddoppia?». La riacciuffò il portiere sul marciapiede. Il padre era un importante broker assicurativo. Aveva fatto la Resistenza con Edgardo Sogno e fu internato a Dachau. «Mi diede l’ultimo schiaffo quando avevo 21 anni» ricorda oggi la Moratti. «Era il 1970, la sera di Italia-Germania 4-3, e mi ero dimenticata di avvertire che sarei rientrata tardi.»

A scuola andava molto bene. In tredici anni di studi, dalle elementari al liceo, prese soltanto un cinque. («E fu una tragedia» mi confida.) Laureata in scienze politiche a 23 anni, si è goduta in pieno la giovinezza. Per rassicurare i genitori usciva di casa con addosso qualche palandrana, salvo togliersela sul pianerottolo per restare in minigonna, che ne valorizzava le bellissime gambe. Le piaceva ballare e divertirsi. Nella sua autobiografia (Io, Letizia) racconta di aver avuto quindici fidanzati (il primo bacio a 14 anni al fratello di una compagna di classe). Un ragazzo ogni tre mesi, sottolineò Stefano Lorenzetto, facendo i conti. «Che c’è di male?» replicò lei.

Poi conobbe l’uomo della sua vita, Gian Marco Moratti, figlio ed erede del petroliere Angelo, mitico presidente dell’Inter. «Lo incontrai a un cocktail in casa di Anna Bonomi Bolchini. Avevo 18 anni. L’anno successivo lo rividi in una discoteca. Ci fidanzammo» mi racconta. (Gian Marco aveva tredici anni più di lei, ed era appena stato annullato il suo matrimonio con la giornalista Lina Sotis, dalla quale aveva avuto due figli.) Quattro anni dopo si sposarono. Un grande amore, le dico. «Sempre più grande» puntualizza, dopo oltre quarant’anni di matrimonio. «La nostra integrazione è assoluta. Gian Marco è la persona con cui condivido tutto. È una cosa unica.» Anche loro hanno avuto due figli, un maschio e una femmina.

Letizia Moratti parla dei primi due figli del marito come se fossero anche suoi. Me ne accorgo quando le chiedo quanti nipoti ha: «Quattro» risponde. «Due di Francesca, figlia di Lina Sotis, e due della mia Gilda. Non c’è nessuna differenza tra i figli di un matrimonio e quelli dell’altro. La cosa più bella è che si adorano.» Dei figli del primo matrimonio, Angelo si occupa di investimenti finanziari e Francesca ha una palestra di yoga e un bar trendy. Dei due del secondo, Gabriele ha fondato una società che produce moda e Gilda scrive, si occupa di film indipendenti, di cani abbandonati e di animali in via d’estinzione. («Lavorano tutti, naturalmente, secondo un radicato principio di famiglia» precisa.) A 25 anni la Moratti si rese indipendente, fondando una propria società di brokeraggio assicurativo. Ed ebbe tanto successo da assorbire più tardi la società del padre. «Anni dopo il mio inizio papà mi ha detto: “Letizia, utilizzerei volentieri la tua azienda”. E lì ho capito che era il suo modo per dirmi brava.»

Chiusa l’esperienza in Rai nel 1996, s’impegnò nella crescita della sua società di brokeraggio, che nel 1998, quando dopo la fusione con gli inglesi di Sedgwick fu venduta al colosso americano Aon, era la società italiana leader del settore, con 1800 miliardi di lire di premi, attività in 70 paesi, 290 uffici e 900 dipendenti. Nel novembre 1998 la Moratti andò a lavorare per Rupert Murdoch, diventando presidente della News Corp Europe, la società che nel 2003 porterà Sky in Italia. Poi, nel 2001, la chiamata di Berlusconi al governo. «Quando gli chiesi di andare all’Istruzione, Silvio mi disse: “Sei sicura? Guarda che quel ministero procura solo rogne”. Ma io volevo fare ciò che credo di essere riuscita a fare: una scuola orientata a fornire ai ragazzi maggiori opportunità professionali di quelle offerte dal percorso nei licei. Avevamo un tasso di abbandono troppo elevato.»

Fausto Bertinotti parlò di scelta classista: ai licei i ricchi, alle professionali i poveri. «Si è dimostrato il contrario. La mia riforma è riuscita a far rientrare 180.000 ragazzi nel percorso professionale che apre le porte all’università. Scuole professionali in provincia di Como e di Trento furono le prime a mettere in pratica la riforma, e oggi i loro primi allievi entrano all’università. Mi fa piacere che la stessa impostazione sia stata ripresa dal ministro Giannini.»

Anche su di lei piovvero contestazioni di ogni genere. «Quale ministro dell’Istruzione non le ha avute? Si cominciò con Franca Falcucci nella primissima Repubblica… Come toccò a me, anche la Giannini deve scontrarsi con impostazioni ideologiche che vedono la scuola come un mondo chiuso, che non deve subire contaminazioni dall’esterno. Esattamente il contrario di quel che deve essere.»

Conclusa l’esperienza di governo, alla Moratti si aprirono le porte di palazzo Marino a Milano. «L’esperienza di sindaco è stata la più impegnativa, ma anche la più bella. Devi impegnarti a costruire una visione di lungo periodo, ma occuparti anche di buche stradali e di semafori. Ogni giorno mi arrivavano in media tremila segnalazioni di ogni genere. La mia giornata cominciava alle 8.30 e finiva tra le 23 e la mezzanotte, con le ultime telefonate al comandante dei vigili e al capo della protezione civile.»

La Moratti ha condotto in prima persona la battaglia perché l’Expo 2015 fosse assegnata a Milano. Il 31 marzo 2008 la turca Smirne, l’altra candidata, fu battuta con 86 voti su 151. Un trionfo. Eppure, nel 2011 il sindaco dell’Expo non è stato rieletto: perché? «Avrò commesso certamente degli errori. Credo, anche, che la vittoria di Expo abbia creato qualche malumore, qualche gelosia. E poi non dimentichiamo che, per il centrodestra, il 2011 fu l’annus horribilis, con grosse perdite nella giornata delle elezioni comunali.»

Qualunque attività abbia svolto Letizia Moratti, la comunità di San Patrignano è sempre stata al centro delle sue attenzioni. «È l’altro punto fermo della mia vita, insieme alla mia famiglia» mi dice. Lo è dal 1979, quando il patron era Vincenzo Muccioli, uomo straordinario e terribile. «Ricordo la prima sera» mi raccontò nel 1998 per La corsa. «Ero rimasta colpita da Vincenzo, persona di immensa umanità. Quella sera parlò con grande angoscia di un ragazzo che aveva commesso alcuni reati quando era tossicodipendente. Mi stupì la sua cautela nei giudizi, il suo sforzo nel capire le difficoltà di quel ragazzo. Mi si spalancò davanti un orizzonte di umanità di cui non avevo mai sospettato l’esistenza.» Muccioli è morto nel 1995, ma i Moratti hanno moltiplicato il loro impegno: «Prima andavamo soltanto nei weekend,» mi dice «oggi andiamo dal venerdì». Chiunque visiti San Patrignano ne resta affascinato. I 1300 ospiti, che vengono assistiti gratuitamente da 350 dipendenti, sono protagonisti di una nuova vita, che si svolge in una fattoria modello dove si allevano animali e si producono formaggi e vini di alta qualità. Dal 2011, quando Andrea Muccioli, figlio di Vincenzo, ha lasciato la guida della comunità, è diventata prevalente la responsabilità gestionale dei Moratti, che la finanziano ogni anno con parecchi milioni di euro.

Lo spirito di solidarietà, che costituisce la base su cui si fonda la comunità di San Patrignano, è anche il motore che spinge Letizia Moratti a impegnarsi profondamente nel Movimento per l’economia positiva: la nostra conversazione nell’autunno 2015 avviene tra un suo «salto» di due giorni a New York e uno di ventiquattr’ore a Tokyo. «La crisi che ancora perdura» mi dice «deve farci ripensare a modelli che creano forti disuguaglianze e fasce di povertà sempre più ampie. I singoli Stati non riescono a sostenere sistemi di welfare in cui c’è un gap miliardario tra la domanda di servizi pubblici e la capacità di farvi fronte. Occorre, dunque, un “altruismo razionale” come quello proposto dal Movimento per l’economia positiva. La circular economy si basa sull’imitazione della natura, dove nessun rifiuto resta sprecato ma viene reintrodotto nel sistema a beneficio di qualcos’altro.»

La rivoluzione suggerita dalla Moratti è la sharing economy: «Va garantito non il possesso, ma la circolarità dei beni». Lo strumento essenziale perché questo possa avvenire, dice la Signora, «è la finanza sociale, che consente di rispondere ai bisogni sociali alleggerendo i costi degli Stati. Questo sistema, già bene avviato in alcuni dei paesi più avanzati, sta prendendo piede anche in Italia con il Social Impact Bond, uno strumento di finanza sociale che ha come obiettivo la raccolta, da parte del settore pubblico, di finanziamenti privati». Che è quanto accade a San Patrignano.

Il dono dell’ubiquità di cui deve essere dotata Letizia Moratti non le impedisce di essere attentissima alla sua persona: profumo dalla formula ultrasegreta, cambio del colore degli smalti secondo le settimane e le stagioni, mutamento del taglio dei capelli, stilisti prevalentemente italiani («Quando ero sindaco di Milano, soltanto italiani» precisa). «Mi piace cambiare, ho tutte le vanità delle donne» sorride. Già, perché la Signora è anche una bella signora.

Rosy Bindi, la Giovanna d’Arco nemica di Renzi e Berlusconi

Era la primavera del 1996. Per il mio libro La svolta, seguii per un giorno la campagna elettorale di Berlusconi e per uno quella di Massimo D’Alema. Finita l’intervista, quest’ultimo mi disse: «Non capisco perché uno come te non possa votare per noi dell’Ulivo». Prima che gli rispondessi, aggiunse: «Colpa della sinistra democristiana, vero? Ma io, quelli, li ammazzo…».

La sinistra dc era un arcipelago variegato, carico di storia e ricco di teste illuminate, nonché di varianti e contraddizioni infinite. Amintore Fanfani, per dire, ne è stato uno dei massimi campioni, ma oggi viene ricordato da chi non lo conosce bene come uomo di destra. Stessa sorte toccò a Carlo Donat-Cattin, leader della sinistra sociale, difensore degli operai torinesi contro lo strapotere Fiat, caduto in disgrazia quando portò alla segreteria Arnaldo Forlani, uomo moderato eppure erede di Fanfani. Aldo Moro nasceva doroteo, cioè moderatissimo, ma poi fu il capofila dell’apertura ai comunisti. D’Alema si riferiva a quella nicchia della sinistra dc che si era distinta nella lotta ai cattolici moderati e che mi aveva costretto nel 1993, con pressioni ancor maggiori di quelle esercitate dagli stessi comunisti, a dimettermi da direttore del Tg1. Convinta di essere rimasta padrona del campo dopo che Tangentopoli aveva desertificato la Democrazia cristiana, e convinta di fare con il Partito popolare da contraltare collaborativo al Pds di Achille Occhetto, si era vista sbarrare la strada da un carneade impunito come Silvio Berlusconi.

La resistenza cattolica al Cavaliere ebbe la sua Giovanna d’Arco in Maria Rosaria Bindi, detta «Rosy» (Sinalunga, Siena, 1951), una donna che – per i suoi detrattori – ha fatto del risentimento, e talvolta dell’odio, una ragione di vita. A chi sospettava che a 14 anni volesse farsi suora, mandò a dire: «Non c’è un convento che avrebbe potuto contenermi. Se fossi nata uomo, però, avrei fatto il prete. Loro, almeno, hanno il potere». S’iscrisse a ragioneria a Montepulciano e nel 1970 si diplomò.

«Ho portato i calzettoni fino a 16 anni,» ha raccontato a Maria Latella del «Corriere della Sera» nel 2005 «ma ballare mi è sempre piaciuto. Da ragazzi, è vero, si tende al conformismo e un po’ mi è costato discostarmi dai modelli. Non è stato semplice attraversare le varie fasi della vita, i vari ambienti… Però i miei compagni di scuola erano gran signori, di piccoli Storace non ne ho mai trovati. [Il deputato di An aveva detto: “La Bindi non è nemmeno una donna”.] In classe ero molto amata e rispettata. Come rappresentante di classe prendevo voti a valanga.»

«Non ero una bambina frivola» aveva confidato tre anni prima a Barbara Palombelli per il «Corriere della Sera». «Avevo gusti austeri. La mamma dice che a otto anni le chiedevo di andare in pineta invece che al mare. … Il bikini? Forse ne ho uno in qualche armadio, ma non vado al mare da trentacinque anni. Le mie vacanze, oggi e sempre, sono caste. Cammino in montagna, penso, leggo, prego… Il mio celibato? È assoluto.»

Ha scritto di lei Giorgio Dell’Arti nel suo Catalogo dei viventi 2015: «Ha avuto “due o tre innamorati” e un fidanzato che si presentò anche in casa: “Piaceva tanto a mia nonna”. Le storie sono sempre finite per volere suo: “E che, mi faccio lasciare io? Piuttosto non mi faccio prendere”».

Non le manca il sesso?, le chiese Stefania Rossini dell’«Espresso» nel 2005. «Certo che mi manca» rispose. «Le rinunce valgono per le cose che ci piacciono, mica per quelle che ci fanno schifo.»

Laureata in scienze politiche con Vittorio Bachelet all’università Pro Deo di Roma e sua assistente alla Sapienza, era accanto a lui quando il 12 febbraio 1980 fu freddato sulle scale della facoltà dai brigatisti Anna Laura Braghetti e Bruno Seghetti. Fu vicepresidente dell’Azione cattolica dal 1984 al 1989, quando diventò deputata europea della Dc. Da segretario del Ppi in Veneto, la sua battaglia contro i corrotti all’interno del partito le diede grande notorietà nel 1992, «mostrando, dicevano in quei giorni gli “amici” democristiani, più intransigenza che carità cristiana. I talk show la invitavano in tv e, allora come oggi, lei caricava a testa bassa l’avversario» scrive ancora Dell’Arti nel Catalogo.

Dopo il tracollo elettorale del 1994, il segretario popolare Mino Martinazzoli si dimise. («Passare qualche mese a mediare nella guerra della Bindi contro Formigoni? No, meglio così» mi disse nel 1994 per Il cambio.) Il congresso elesse segretario Rocco Buttiglione, contro il presidente delle Acli Giovanni Bianchi, sostenuto dalla Bindi. Anche Ciriaco De Mita, ultimo leader della sinistra dc nella Prima Repubblica, è entrato spesso in aperta polemica con Rosy. («Tra la Bindi e Buttiglione» precisò nel 1994 «il moderno è Buttiglione.») «Rocco» sparò la Bindi nel pieno della battaglia «è come quei generali che ordinano di bruciare le terre che non sono riusciti a conquistare. … Ha bisogno dello psichiatra. Sua moglie ha una specializzazione in psichiatria, è ora che la usi» (Gian Antonio Stella, Avanti popolo).

Dopo la vittoria dell’Ulivo nel 1996, Prodi la nominò ministro della Sanità. Ci restò anche con D’Alema, ma la sua riforma, che imponeva ai medici di scegliere tra il servizio pubblico e l’attività privata, la rese impopolare presso molti camici bianchi. Il 20 aprile 2000, durante un dibattito a un congresso di chirurgia, annunciai che nel governo Amato al suo posto sarebbe andato Umberto Veronesi: ci fu un boato di giubilo.

Don Luigi Verzé, fondatore dell’ospedale San Raffaele di Milano, detestava la Bindi, ricambiato con gli interessi. «È una statalista sovietica» attaccò lui. E lei, di rimando: «È un prete machiavellico, in nome del principio poco evangelico che il fine giustifica i mezzi». Il sacerdote le rimproverava di aver impedito lo sbarco del San Raffaele a Roma, che avrebbe decongestionato il Policlinico Umberto I con una seconda facoltà di medicina. Quando dissi in privato alla Bindi che questo era un peccato di cui avrebbe dovuto confessarsi, lei avvampò e giurò che era una calunnia.

Nel 2006, con il nuovo governo dell’Ulivo, lei avrebbe voluto ancora la Sanità. Prodi le propose l’Istruzione, lei masticò amaro, ma accettò, salvo poi sentirsi dire dal Professore, diretto al Quirinale, che poteva darle solo la Famiglia. La Bindi, che era intenzionata a rifiutare, accettò unicamente quando il presidente del Consiglio la scongiurò di non piantargli grane: «Rosy, ti prego…». Insieme alla ds Barbara Pollastrini studiò i «Dico», i diritti e i doveri delle persone stabilmente conviventi. Proposta mai approvata.

Nella nuova legislatura inaugurata dalla vittoria elettorale di Berlusconi (2008) diventò vicepresidente della Camera e presidente del Partito democratico (fino al 2013). In queste funzioni, ha osservato Giampaolo Pansa in Tipi sinistri, «si faceva notare per due qualità. La prima era la sua furia da manettara senza pentimenti. Messa in mostra di continuo con il rischio di passare per una signorina troppo nervosa, al limite dell’isterismo. La seconda era l’inesauribile voglia di esternare senza soste, da vera pasionaria bianca. E di farlo dappertutto: sulle agenzie di stampa, i giornali, la radio e specialmente la tv. Con una verbosità infaticabile e inesauribile».

La Bindi ha sempre considerato il Cavaliere un «abusivo», come del resto lo consideravano Oscar Luigi Scalfaro e una quota non irrilevante della vecchia sinistra dc. «La smania di Rosy di apparire sempre sui media» scrive ancora Pansa «aveva un solo obiettivo: dare addosso a Berlusconi. Nel 2010 qualcuno scrisse che esisteva un partito mica da poco: il TTB, Tutto Tranne Berlusconi. E che aveva un perno fisso: la Bindi. Il Cavaliere era la sua ossessione. E combatterlo senza soste un dovere morale. Quando il Caimano venne ferito dal pazzoide che maneggiava un piccolo Duomo di marmo, la Rosy non smise di bastonarlo neppure una volta. La sera di domenica 13 dicembre 2009, cercata dalla “Stampa” nella sua casa di Sinalunga, Rosy spiegò che il Cavaliere non poteva sentirsi vittima, poiché era uno di quelli che avevano arroventato il clima politico. E concluse, con cinismo ben poco cristiano: “Certi gesti qualche volta sono spiegabili”.» Due mesi prima, in ottobre, Berlusconi aveva offeso la Bindi, ospite di «Porta a porta», durante un collegamento con lo studio. Furibondo perché la Corte costituzionale aveva respinto il Lodo Alfano, che rinviava i processi delle alte autorità in carica alla fine del mandato, ripeté una vecchia battuta di Vittorio Sgarbi: «La signora Bindi è sempre più bella che intelligente». Lei ricambiò al volo: «Non sono una donna a sua disposizione», alludendo alle scapestrate frequentazioni femminili del Cavaliere.

L’odio di Rosy Bindi nei confronti di Berlusconi si è trasferito senza sconti su Matteo Renzi, toscano come lei e pure lui considerato un «abusivo». Con l’aggravante che i due militano nello stesso partito. Quando Renzi era ancora sindaco di Firenze e si presentò alle primarie del 2012 per la segreteria del Pd in nome della «rottamazione», lo attaccò: «Mandare a casa una classe dirigente che per vent’anni ha combattuto contro Berlusconi significa dare ragione al Cavaliere. Renzi non rappresenta una minoranza, ma dà voce a quella maggioranza silenziosa del paese che Berlusconi ha avuto la stragrande capacità di forgiare». Il sindaco provò a rottamare anche lei, quando sembrava che avrebbe partecipato alle primarie contro di lui (poi rinunciò). Il 20 febbraio 2011, nella trasmissione «Mattino Cinque» su Canale 5, Renzi disse a Maurizio Belpietro: «Sta in Parlamento da prima della caduta del Muro di Berlino, dal giugno 1989. Ha fatto sei mandati, il ministro due volte, ha già corso alle primarie perdendo contro Veltroni. Io vorrei che ci fosse un candidato in grado di vincere le elezioni, non di perdere le primarie».

Le nomine di Renzi prima a segretario del Pd, alla fine del 2013, e poi a presidente del Consiglio nel febbraio 2014 sono state per la Bindi calamità peggiori della peggiore alluvione. In occasione della Leopolda 2014, disse in un’intervista a «Libero»: «Renzi non ha rottamato solo le persone, ma le fondamenta del Pd che stavano nell’Ulivo. Il cambiamento non dovrebbe mai passare per il taglio delle radici. Oltretutto non credo affatto che la sua sia un’idea di sinistra. Renzi deve essere espressione del Pd, non il Pd espressione di Renzi».

Il 22 ottobre 2013 Rosy Bindi era stata eletta su mandato di Pierluigi Bersani presidente della Commissione parlamentare antimafia. E ha approfittato del suo ruolo per regolare vecchi conti con l’ex sindaco di Firenze. A poche ore dalle elezioni regionali del 31 maggio 2015, la Bindi assestò a Renzi un colpo improvviso e micidiale, pubblicando una lista di 16 candidati «impresentabili», tra cui il sindaco democratico di Salerno Vincenzo De Luca, che correva per la presidenza della regione Campania. I 16 non ebbero il tempo per replicare, ma il premier dichiarò: «Mi fa male che si utilizzi la vicenda dell’Antimafia per regolare conti interni a un partito». Attaccata duramente dai renziani e dalla gran parte dei media indipendenti, la Bindi si difese debolmente. L’immagine di De Luca ne risentì, tanto che fu eletto con soli 60.000 voti di margine su Stefano Caldoro, candidato del centrodestra.

Oggi Renzi considera chiusa la carriera parlamentare di questa sua tremenda avversaria. La Bindi lo sa e ha annunciato per tempo che alle prossime elezioni non si ripresenterà: «Ho fatto le nozze d’argento con il Parlamento. Basta». All’annuncio si sono disperati in pochissimi.

Rosetta Iervolino, il potere e la voce

Rosetta Iervolino mi guardava con i begli occhi cerulei nel suo studio di ministro dell’Interno. Era una sera del marzo 1999. Di lì a poco, allo sbocciare della primavera, sarebbe stato eletto il successore di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale. La candidatura di Rosa Russo Iervolino era fortissima, eppure debole. Alle sue spalle – e alle spalle del suo partito – si stavano consumando giochi oscuri, che avrebbero impedito al primo ministro dell’Interno donna d’Europa di diventare il primo presidente donna della Repubblica italiana. Rosetta sapeva che Silvio Berlusconi non l’avrebbe mai votata. «Non voglio uno Scalfaro in gonnella» diceva in privato. «Anche l’orecchio vuole la sua parte» affermò in un comizio a Napoli il 3 aprile 2008.

Già, la voce, antico tormento di Rosetta. Stridula come una vecchia puntina su un vecchio disco a 33 giri. O «come certi uccelli di palude» scrisse Giancarlo Perna sul «Giornale» (5 marzo 2011), spiegando che essa è dovuta «a un lieve difetto del velopendulo, una codina carnea sub palatale». Lei ne era consapevole e ne soffriva. Toglieva l’audio al televisore per non ascoltarsi. Tentò di correggere la voce facendo esercizi di logopedia. Ma sentendo dalla stanza vicina gli «aaa, ooo, uuu», i tre figli (due femmine e un maschio) si rotolavano in terra per le risate. Fu costretta a desistere.

La sua candidatura al Quirinale era maturata la sera di giovedì 18 marzo 1999 in una cena riservatissima a casa di Walter Veltroni, segretario dei Ds. Solo tre gli invitati: Massimo D’Alema, presidente del Consiglio, Sergio Mattarella, suo vice, e Franco Marini, segretario del Partito popolare. D’Alema e Marini hanno pensato più volte di chiudere la loro carriera politica al Quirinale, non immaginando che questo onore sarebbe toccato proprio al terzo ospite di quella serata. Mentre affettava l’ottimo arrosto preparato dalla moglie Flavia, Veltroni lanciò la candidatura di Carlo Azeglio Ciampi. Marini e Mattarella si ribellarono: grande considerazione per l’ex governatore della Banca d’Italia ed ex presidente del Consiglio, ma il candidato dei Popolari era Rosetta Iervolino. Veltroni, a nome dei Ds, aveva già bocciato il presidente del Senato, Nicola Mancino, e lo aveva fatto per due ragioni: era un candidato gradito a Berlusconi (pur venendo dalla sinistra dc) ed emanava un profumo troppo intenso di Prima Repubblica. Mancino ne fece una malattia, ma questo rafforzò la posizione della Iervolino.

Marini e Mattarella uscirono da quella cena convinti che il ministro dell’Interno sarebbe stato eletto senza il concorso del Polo delle Libertà ma con qualche altro aiuto esterno: per esempio, di Umberto Bossi (che voleva fare l’ennesimo dispetto al Cavaliere, con il quale si sarebbe invece poi riconciliato nove mesi dopo) e di Fausto Bertinotti. Veltroni, al contrario, era convinto che alla fine il Polo si sarebbe accodato. E quella sera di marzo, al Viminale, lessi proprio questa speranza negli occhi di Rosetta. In ogni caso, qualche settimana più tardi Mattarella mi disse: «Dopo quella cena Marini unì senza difficoltà intorno alla Iervolino l’intero partito con la fiducia illimitata che i Ds l’avrebbero votata». Andò diversamente.

Marini, in cuor suo, sperava che se per qualche ragione Rosetta fosse stata «bruciata», sarebbe stato lui a essere eletto. D’Alema, del resto, era andato a palazzo Chigi (primo presidente «comunista») con l’impegno che il successore di Scalfaro sarebbe stato un altro democristiano. E infatti, dopo che D’Alema «tradì», i due non si parlarono per molto tempo. In realtà, mi disse l’allora presidente del Consiglio, Marini non si era accorto che stava per essere travolto da un treno in piena corsa. E il treno era l’accordo trasversale tra Gianni Letta (per conto di Berlusconi) e Altero Matteoli (livornese come Ciampi, per conto di Fini) con Walter Veltroni per portare al Quirinale l’ex governatore della Banca d’Italia. Come tutte le donne forgiate dalle inevitabili delusioni della politica, Rosetta ci restò malissimo, ma i begli occhi cerulei non versarono una lacrima.

Rosa Iervolino – con la I iniziale e non la J, come nell’uso consolidato – è nata (Napoli, 1936) con la tessera della Dc incollata alla culla. Il padre Angelo, avvocato, figlio di un vinaio, fu presidente dei giovani di Azione cattolica. La madre, Maria De Unterrichter, di nobile famiglia austriaca, lo fu degli universitari cattolici, la Fuci. (I due, fra l’altro, si erano conosciuti ad Assisi, davanti alla tomba di san Francesco.) L’attività antifascista valse ad Angelo la radiazione dall’ordine degli avvocati, che ridusse la famiglia in povertà. Amici di Alcide De Gasperi, gli Iervolino vissero nove anni in convento e nel 1946 Angelo e Maria furono eletti deputati alla Costituente. Entrambi diventarono in seguito sottosegretari e Angelo fu per quattro volte ministro.

Naturalmente, Rosetta studiò dalle suore, e non stupisce che le siano state imposte le trecce fino all’età di 20 anni. («Allora ero bruttina» disse molto più tardi. «Adesso so di non essere sgradevole.») Laureatasi in legge, nel 1964 sposò un medico, Vincenzo Russo, professore universitario di Malattie infettive, «bello come Tyrone Power» precisava lei, che morì prematuramente nel 1985 per problemi cardiaci. La cerimonia del loro matrimonio fu molto movimentata. Uno dei testimoni era Aldo Moro: distratto come al solito, entrò nella chiesa di Santa Sabina, all’Aventino, dove si celebrava un altro sposalizio. Fu la moglie a scuoterlo: «Aldo, ma ti pare che al matrimonio di Rosetta non conosciamo nessuno?». La sposa, infatti, lo aspettava nella vicina chiesa di San Saba. E come se non bastasse, durante la funzione il ministro della Marina mercantile Francesco Maria Dominedò morì stroncato da un infarto.

Iscritta alla Dc dall’età di 18 anni, senatrice per la prima volta nel 1979, restò in Parlamento fino al 1998, quando si dimise per diventare ministro dell’Interno nel governo D’Alema (un solo anno). Era già stata ministro degli Affari sociali tra il 1987 e il 1992 con tre presidenti del Consiglio (Goria, De Mita e Andreotti) e della Pubblica istruzione dal 1992 al 1994 con Giuliano Amato nell’ultimo governo della Prima Repubblica. In questa veste si batté per l’introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole. «Le è mancata?» le chiese un intervistatore impertinente. «Senza dubbio» rispose. «Pensi che mi avevano detto che mi chiamavo Rosa perché ero stata trovata ai piedi di un roseto…»

Per dieci anni esatti, dal 2001 al 2011, è stata il primo sindaco donna di Napoli. L’investitura le venne dal suo predecessore, Antonio Bassolino, detto «’o Re». Ma qui la sua stella si appannò. È vero che fare il sindaco è difficile ovunque e che a Napoli è probabilmente impossibile. Ma la Iervolino, soprattutto nel secondo mandato, ci ha lasciato qualche penna. A suo merito va l’approvazione del Nuovo piano regolatore generale, che in una città sregolata come il capoluogo campano è un punto essenziale. E anche l’avvio della riqualificazione del quartiere di Bagnoli. Ma dopo la riconferma per il secondo mandato nel 2006 (anche per la geniale insipienza del centrodestra), la città è stata «sommersa dai rifiuti», che nel 2008 portarono Napoli sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo e fecero fare a Silvio Berlusconi, fresco vincitore delle elezioni, la figura del Grande Risanatore. Lei, grata, cinguettò: «Il premier è simpaticissimo e ha riservato a Napoli un’attenzione molto superiore del governo Prodi». Votando, peraltro, l’indomani una mozione del suo partito contro il Cavaliere, si giustificò: «Come sindaco collaboro, come politico lo combatto».

In una regione che non voleva avere discariche, la sovrabbondanza di spazzatura era un problema che si trascinava da quindici anni, ma poiché da sette il sindaco era lei, non riuscì a evitare la rivolta. Nel gennaio 2008 il suo manichino fu impiccato in corso Umberto. Il centrodestra ovviamente ribolliva, e il suo stesso partito aveva smesso di sostenerla. («È del tutto inadeguata» sbottò De Mita.) Al cardinale arcivescovo di Napoli, Crescenzio Sepe, furioso con le istituzioni per il degrado della città, Rosetta rispose seccata: «Ognuno deve fare il proprio mestiere: il cardinale faccia il cardinale».

Negli ultimi cinque anni di mandato sostituì dodici assessori, quattro furono arrestati, uno di loro si suicidò e fu riconosciuto innocente troppo tardi. «Io non c’entro» ha sempre ripetuto la Iervolino quando le rinfacciavano i mali della città. Alla fine, nel marzo 2011, trentuno consiglieri comunali su sessanta si dimisero per far decadere il sindaco e l’intero consiglio. Ma per un cavillo, la Iervolino restò in piedi ancora per tre mesi e completò l’infausto mandato. Anche se c’è una cosa che nessuno ha mai messo in dubbio: la sua onestà.

Livia Turco, nostalgia e lacrime

Quando Livia Turco (Morozzo, Cuneo, 1955) entrava nello studio di «Porta a porta», tutti le facevamo un po’ di festa. Perché Livia era rimasta semplice, come può esserlo la figlia di una famiglia operaia che aveva fatto sacrifici per mandarla al liceo classico di Torino.

Livia era ed è rimasta comunista, ma ha sempre avuto una grandissima capacità di ascolto nei confronti di chi aveva idee diverse dalle sue. Ha vissuto tutte le declinazioni del suo partito (Pci-Pds-Ds-Pd) e ha vissuto svolte drammatiche come quella della Bolognina, nel 1989, pochi giorni dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo definitivo dell’illusione che «di là» si fosse più liberi che «di qua».

Iscrittasi al Pci da giovane, la Turco è stata funzionaria di partito fino al 1987, quando entrò da deputata in Parlamento, dove sarebbe rimasta per sei legislature e dove fu più volte ministro, per un totale di sette anni (cinque alla Solidarietà sociale, tra il 1996 e il 2001, con i governi Prodi, D’Alema e Amato, e due alla Salute con il secondo governo Prodi).

La parte più rilevante della sua prima esperienza ministeriale fu, nel 1998, la firma congiunta con il ministro dell’Interno Giorgio Napolitano della nuova legge sull’immigrazione. All’epoca l’immigrazione sembrava già un’emergenza, e nessuno poteva immaginare i livelli che avrebbe raggiunto soltanto quindici anni dopo. Poiché la precedente legge Martelli sul controllo dei flussi migratori non era più adeguata alla nuova pressione da sud, la Turco-Napolitano stringeva un po’ i freni e apriva quei Centri di permanenza temporanea per i clandestini che si sarebbero rivelati, purtroppo, prigioni a cielo – e cancello – aperto, unendo un’apparente repressione a una sostanziale non gestione del fenomeno. La legge che la sostituì, la Bossi-Fini del 2002, ridusse gli aspetti solidaristici che, di fatto, avevano spesso vanificato i propositi della norma precedente, ma sostanzialmente non migliorò la situazione.

Come ministro della Salute, tra il 2006 e il 2008, la Turco sviluppò l’azione dei governi precedenti nel campo delle cure alternative e dell’assistenza domiciliare. Caduto il governo Prodi, fondò all’interno del Partito democratico la corrente A sinistra, continuando a occuparsi di temi sociali. A «Porta a porta» ricordiamo la sua partecipazione del 5 febbraio 2010: si parlava dell’esclusione di Morgan dal Festival di Sanremo per aver confessato di fare uso di droghe, e lei si commosse fino alle lacrime come una madre che si sente dire dal figlio quanto sia facile trovare stupefacenti.

Si comprende bene, quindi, come per lei l’arrivo di Renzi sia stato più traumatico dello sbarco dei marziani sulla terra. Dopo sei legislature, e con il nuovo clima, era scontato che non si ricandidasse alle elezioni del 2013. (Non avendo raggiunto i termini utili alla pensione, fu assunta, tra molte polemiche, al Pd come funzionaria, fino al compimento dei 60 anni nel 2015.)

Proprio pensando al nuovo corso del suo partito, il 17 novembre 2014, ospite della trasmissione di Myrta Merlino «L’aria che tira», scoppiò a piangere. «Mi fa soffrire» disse «vedere che migliaia di persone potrebbero iscriversi al Pd, ma non lo fanno perché sentono il nostro partito lontano da loro. Sono persone di sinistra, che con la loro dedizione, il loro volontariato, hanno svolto una grande parte della storia d’Italia. E allora chiedo al segretario del partito di non farli sentire esclusi, conservatori, perché magari troppo attaccati a valori come l’articolo 18, che non è un ferro vecchio…»

Giovanna Melandri, lo «scivolo» dal Parlamento al Maxxi

«La prima ministra newyorkese della storia italiana è nata oltreoceano da una famiglia Rai. Figlia di un dirigente di viale Mazzini, cugina di Giovanni Minoli, sorriso telegenico, capelli biondi, occhi celesti, molto carina, è cresciuta nella scuola quadri di Legambiente, parificata a Botteghe Oscure. Allieva di Federico Caffè, scomparso poco prima della sua laurea.» Così Pietrangelo Buttafuoco su Giovanna Melandri (New York, 1962) dopo la nomina a ministro dei Beni culturali da parte di Massimo D’Alema nel 1998.

Rientrata dall’America a 3 anni, la Melandri frequentò a Roma una scuola inglese e i boy scout con padre Ernesto Balducci. Sua madre, Cesarina Minoli (di qui la parentela con Giovanni), torinese, era amica di Norberto Bobbio, oltre che una raffinata traduttrice (Moby Dick, fra l’altro). Giovanna parla uno splendido inglese (accompagnò con successo la regina Elisabetta in giro per i musei italiani), un ottimo francese e un po’ di tedesco. E questo l’ha molto aiutata in una carriera iniziata all’ufficio studi della Montedison, dove la ricordano attenta, impegnata, scrupolosa.

Nel 1994 la Melandri ebbe la prima affermazione politica: l’accoppiata Fini-Berlusconi non fece cappotto nei 24 collegi romani della Camera perché lei ne vinse uno. Più tardi, mentre molti comunisti fingevano di non esserlo mai stati, lei riconobbe senza difficoltà la sua precedente appartenenza e contribuì alla vittoria del centrosinistra guidato da Romano Prodi nel 1996: essendo una secchiona, aveva imparato a memoria il programma del centrodestra e nella trasmissione di Lucia Annunziata «Linea Tre» lo contestò punto per punto ai leader del Polo, che non lo conoscevano nei dettagli.

Da ministro dei Beni culturali nel governo D’Alema ebbe l’opportunità di riaprire due luoghi straordinari: il Cenacolo di Leonardo a Milano e la Domus Aurea a Roma, e da ministro dello Sport nel secondo governo Prodi firmò con il ministro delle Telecomunicazioni Paolo Gentiloni la legge che regola i diritti televisivi sportivi. A proposito della sua presenza a Berlino in occasione della vittoria dell’Italia sulla Francia ai Mondiali di calcio del 2006, scrisse Aldo Cazzullo sul «Corriere della Sera» (7 febbraio 2007): «Giovanna Melandri è ministro dello Sport da pochi mesi, ma si è già guadagnata la stima degli addetti ai lavori. “È una donna bella e brava, ma proprio non la capisco: stia fuori dal calcio!” ghigna Matarrese. “È una incompetente!” urla Zamparini. … Indimenticabile la notte della vittoria di Berlino, con i 23 campioni a cantare in coro “ollelé, ollalà / faccela vedè, faccela toccà” e la Melandri inviperita con i giornalisti: “Cos’avete capito? Si riferivano alla Coppa del mondo!”». Con il mondo dello sport è stata sempre molto severa, qualche volta a ragione: la violenza negli stadi, il doping nel ciclismo.

Sposata con l’avvocato assicurativo Marco Morielli, uomo molto affascinante e molto benestante («genere rampollo, tra i suoi amici c’era tutta la jeunesse dorée, anche l’imprenditore Giovanni Malagò. È stato fidanzato con le più belle ragazze romane…» ha scritto Silvia Grilli sul «Foglio» nell’aprile 2009), Giovanna è diventata mamma di Maddalena nel 1998, un mese prima di giurare come ministro dei Beni culturali. Quando lei era ministro e la bambina ancora molto piccola, il marito copriva tutte le esigenze ed emergenze domestiche. Inseguita dal gossip, le è capitato di dire anche qualche bugia, come quando affermò di non essere mai stata in Kenya nella villa di Flavio Briatore. Fu seccamente smentita da un servizio fotografico di «Chi» del febbraio 2007 che la ritraeva in un ballo scatenato.

Quasi alla scadenza della penultima legislatura, nell’autunno del 2012, si dimise da parlamentare perché il ministro della Cultura del governo Monti, Lorenzo Ornaghi, l’aveva nominata presidente del Maxxi, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma. «Voglio farne la Tate Modern italiana» proclamò. «Facciamoci del male» sbottò Matteo Renzi. «Com’è possibile dopo il Parlamento avere subito lo scivolo del Maxxi?» La Melandri si difese sostenendo che avrebbe lavorato gratis. Ma nell’estate successiva Gian Antonio Stella del «Corriere della Sera» scoprì che, con la trasformazione del Maxxi da ente in fondazione di ricerca, il suo presidente sarebbe stato retribuito: 91.000 euro lordi all’anno più un bonus sugli incassi, per un totale di altri 24.000 euro. La Melandri precisò che questo era dovuto al mutamento della condizione giuridica del Maxxi, ma ormai la frittata era fatta.

Emma Bonino, dalla battaglia per l’aborto al jet set

Emma Bonino è un’ingrata? Marco Pannella ne è geloso? Dopo quarant’anni di convivenza, i due sono da tempo separati in casa. Ma per quarant’anni la ditta Pannella & Bonino ha funzionato. Lui ne è stato sempre l’amministratore unico e non ha mai ceduto un grammo del suo potere. Lei, socia di minoranza, ha acquisito negli anni la leadership dell’immagine e della credibilità, portando avanti le sue battaglie libertarie all’interno di quelle istituzioni contro le quali lui, vecchio gigante istrione di 85 anni, continua a scalciare con l’energia di un giovanotto. Fino alla loro rottura, consumata il 26 luglio 2015.

In una delle sue fluviali esternazioni domenicali a Radio radicale, delle quali è vittima paziente e faticosamente consenziente Massimo Bordin, Pannella è esploso: «Emma Bonino si comporta come se si fosse dimessa dal partito. Lei non opera più da militante ed esponente radicale. Ha contatti con tutto il mondo, col jet set internazionale, tranne che con noi…». Poi l’accusa di ingratitudine: «Se lei è stata inserita per un intervento di Napolitano nel governo Letta, c’entro io in qualche modo o no?». Infine la botta di gelosia: «Io cerco di avere un appuntamento con Mattarella e non riesco a parlarci. Sono sicuro che lei ci riesce in cinque minuti».

La Bonino rimase di sale. Sapeva bene che da tempo i rapporti non erano più quelli del passato, ma non si aspettava un’espulsione via radio. «Quando mi chiedono fino a che punto si spinge la mia lealtà ai radicali, rispondo che nella politica radicale mi identifico» ha detto. Ricordando che versa disciplinatamente ogni mese al partito 2500 euro.

Emma Bonino (Bra, Cuneo, 1948) ha acquisito negli anni una popolarità trasversale che all’inizio della sua militanza radicale, nel 1975, le era preclusa. Nata da una famiglia di agricoltori poi convertita al commercio di legname, si è laureata in lingue alla Bocconi di Milano con una tesi sull’Autobiografia di Malcolm X.

Nel 1974 la Bonino visse personalmente la drammatica esperienza dell’aborto: «Non usavo contraccettivi, perché mi avevano detto che ero sterile. E invece… Io e il mio compagno non volevamo il bambino e cercammo un dottore disposto a operare. Era illegale. Furono umilianti quelle visite notturne, la segretezza…». L’anno successivo contribuì con Adele Faccio alla fondazione del Centro informazione sterilizzazione aborto (Cisa). Lo scopo era evitare che le donne si rivolgessero per gli aborti clandestini ai cosiddetti «cucchiai d’oro», cioè ai ginecologi che si facevano pagare salatissimi conti in nero per praticare aborti clandestini.

La Bonino dichiarò di averne praticati personalmente – in Italia e a Londra, tra il febbraio e il dicembre 1975 – 10.141 e nel luglio 1976 raccontò dettagliatamente alla giornalista Neera Fallaci di «Oggi» la metodologia attuata (e illustrata anche da una foto molto esplicita). Per risparmiare il costo di un aspiratore elettrico e di altri strumenti sanitari, lei usava una pompa da bicicletta, un dilatatore di plastica e barattoli di marmellata da un chilo vuoti. Per aver reso pubblico con un gran battage queste pratiche, finì in prigione per tre settimane.

Popolarissima tra i radicali che, dopo aver vinto la battaglia per il divorzio, sostenevano quella per l’aborto, Emma incontrò subito Marco Pannella. Fu amore a prima vista. Politico, s’intende («Non sono mai stata attratta fisicamente da lui»). «Li chiamavano la ragazza e il vampiro» scrisse Guido Quaranta sull’«Espresso». «Lei piccolina, pallida e minuta com’è, ha sempre un’aria fresca e nonostante qualche ruga sulla fronte mostra un sorriso frizzante. Lui, oltre che canuto, straripante e con un ghigno alla Nosferatu, pare quasi tentato di addentarle il collo.» La Bonino non si è mai sposata, ha avuto due fidanzati, gli ex deputati radicali Marcello Crivellini e Roberto Cicciomessere, nessun figlio. Ma ha avuto in affidamento per alcuni anni due bambine, figlie di una donna conosciuta durante la campagna per la legalizzazione dell’aborto. (Pannella ha dichiarato di aver «amato molto quattro uomini» e di aver avuto forse figli da donne diverse.)

Nel 1976, a 28 anni, Emma si ritrovò in Parlamento. «Circolava in Transatlantico con le gonne a fiori e gli zoccoli neri delle femministe di allora» la ricorderà Maurizio Caprara sul «Corriere della Sera» del 28 aprile 2013. «Stilisticamente e antropologicamente distante dal circondario. Capelli arruffati, sguardo determinato e passo deciso…» Lontanissima da «Nilde Iotti, comunista dai tratti austeri, o da Franca Falcucci, sottosegretaria democristiana da cinegiornali in bianco e nero…» Nel 1978 fu una delle più spietate animatrici della campagna scandalistica che portò Giovanni Leone alle dimissioni da presidente della Repubblica. Campagna che si rivelò completamente calunniosa. E vent’anni dopo, nel 1998, quando il presidente festeggiava i novant’anni, la Bonino volle consegnargli personalmente una lettera di scuse.

Nei Parlamenti nazionale ed europeo è rimasta per dieci legislature (alcune interrotte) sotto bandiere diverse: Partito radicale, poi trasformato in Lista Bonino-Pannella e in Radicali italiani, Forza Italia, Socialisti e Radicali. Il trasversalismo è stata sempre una caratteristica dei radicali: in certi momenti i loro voti erano utili in una prospettiva di vittoria elettorale, in altri si sono rivelati un boomerang, perché hanno allontanato più elettori di quanti ne abbiano avvicinati. In ogni caso, le trattative con Pannella sono state sempre esperienze drammatiche per chiunque – a destra e a sinistra – abbia voluto imparentarvisi. (Quanto alla sinistra – prima il Pci, poi le diverse declinazioni successive – ha sempre detestato i radicali, ed è stata sinceramente ricambiata.)

Designata nel 1995 da Berlusconi commissario europeo insieme a Mario Monti (due persone provenienti da mondi lontanissimi da quello del Cavaliere), alla fine del suo mandato a Bruxelles la Bonino diventò molto popolare, grazie anche a un’accorta campagna mediatica organizzata dal suo partito per candidarla alla presidenza della Repubblica. E infatti alle elezioni europee del 1999 i radicali (e la Bonino) ottennero il massimo storico di voti: 8,5 per cento, quarta forza politica italiana. Ma né il partito né la Bonino hanno avuto mai la capacità di consolidare il consenso in un segmento più o meno stabile di opinione pubblica, e così, appena due anni dopo, alle politiche del 2001 la loro lista non andò oltre il 2,2 per cento. («Dopo le elezioni» confesserà a Adriano Sofri in un’intervista per «la Repubblica» dell’agosto 2005 «due settimane di lacrime: poi ero stufa anche di piangere.») Emma decise di trasferirsi per quattro anni al Cairo, per imparare l’arabo, arricchendo il suo patrimonio di lingue conosciute. «Difficile essere donna, sola in Egitto» dirà a Mirella Serri del «Corriere della Sera Magazine» nel marzo 2007. «La solitudine è stata grande. Tutte le sere ero a casa in compagnia di Al Jazeera.»

I due incarichi ministeriali ricoperti dalla Bonino negli anni successivi le furono affidati entrambi dal centrosinistra. Dal 2006 al 2008 fu ministro del Commercio internazionale e delle politiche europee nel secondo governo Prodi, e dall’aprile 2013 al febbraio 2014 ministro degli Esteri del governo Letta. I radicali, anziché veder riconosciuto un avvenimento unico nella loro storia, furono accusati di non farsi sentire, di essersi autoimbavagliati. La Bonino rispose che si sentivano, di fatto, emarginati. («In Italia ti ascoltano solo se minacci la crisi di governo» dichiarò amareggiata a Vittorio Zincone di «Magazine» nel gennaio 2008.)

Il 18 dicembre 2007 Emma Bonino conquistò il successo più importante della sua carriera politica, vedendo approvata dall’Assemblea generale dell’Onu la proposta italiana di sospendere la pena di morte o limitarne l’applicazione in tutti i paesi membri. Dopo tredici anni si coronava la storica battaglia condotta dalla comunità di Sant’Egidio e dall’associazione Nessuno tocchi Caino.

Dal 2013 al 2014, nel suo breve governo, Enrico Letta le garantì la promozione più ambita: ministro degli Esteri. Napolitano, pressatissimo da Pannella, avrebbe voluto che Matteo Renzi la confermasse, ma il nuovo premier ingaggiò un’aspra battaglia in favore di Federica Mogherini e la vinse. Lei ci rimase malissimo e protestò pubblicamente, dovendo sopportare per di più l’accusa di Pannella di non aver gridato abbastanza.

Dopo l’abbandono di Napolitano, all’inizio del 2015, si fece di nuovo il nome della Bonino per il Quirinale. Ma pochi giorni prima delle elezioni, il 12 gennaio, con molto stile, lei si tirò fuori dalla gara con un drammatico annuncio a Radio radicale: «Recentemente mi sono sottoposta a dei controlli medici di routine, che però hanno evidenziato la presenza di un tumore al polmone sinistro». Rivelò di aver iniziato un trattamento «lungo e complesso» di chemioterapia, che sarebbe durato almeno sei mesi. «Da una passione politica non ci si può dimettere,» disse «ma le mie attività dovranno essere organizzate in base alle esigenze mediche.»

La si vide in pubblico con un turbante che nascondeva la calvizie chemioterapica. Ma il 21 maggio successivo annunciò, sempre attraverso l’emittente radiofonica radicale, la «scomparsa di ogni evidenza di cancro», precisando che non si trattava di guarigione definitiva, bensì di remissione.

Anna Finocchiaro, la bella «zia delle riforme»

Non c’è ritratto di Anna Finocchiaro (Modica, Ragusa, 1955) che non cominci con un inno alla sua bellezza. E non c’è ritratto che non si concluda con lei che considera il complimento delegittimante: «La bellezza non aiuta, può fuorviare. Per una bella donna è più difficile essere autorevole». Nel 2006, quando fu nominata (prima donna) presidente dei deputati ds, i giornali si scatenarono. «L’Espresso»: «Vent’anni fa aveva lasciato i suoi colleghi a bocca aperta per la sua bellezza mediterranea. Anche oggi, nonostante le varie Carlucci e Carfagna, è considerata la più seducente. È così perfetta da dubitare che sia vera». «Io Donna»: «Si sono susseguite in tante, giovani, carine, belle, bellocce, ma se chiedete a un essere di sesso maschile chi sia la più affascinante risponderà sempre e comunque Anna Finocchiaro». Il settimanale «Oggi»: «Bedda, strabedda, beddissima». Pietrangelo Buttafuoco («Il Foglio»), citando un fantomatico deputato del centrodestra: «Una sigaretta tra le sue labbra è l’Etna che sprofonda nello Jonio». Sandro Bondi, politico e poeta, nel capitolo «Quanto mi piace Anna Finocchiaro» del libro Io, Berlusconi, le donne, la poesia, scritto a quattro mani con Claudio Sabelli Fioretti: «Nero sublime / Lento abbandono / Violento rosso / Fugace ironia / Bianco madreperla / Intrepido mistero». Giancarlo Perna («il Giornale»): «È proprio bella. … Alta e morbida, tornita e levigata. È già uno spettacolo come appare in tv, col filo di perle al collo, i capelli neri, gli occhi chiari e la bocca vermiglia. Ma l’ideale sarebbe vederla illuminata da uno scintillio di lapilli dell’Etna, avvolta in un peplo che si gonfia lievemente sul seno, scende sinuoso sui fianchi e si affusola ai piedi della dea». Amore puro. Amore devoto. Amore incondizionato, che lei scansa da sé con un lieve movimento del piede.

«Non sono mai entrata in Parlamento con una minigonna per il semplice fatto che non ho mai messo una minigonna in vita mia. Quando potevo permettermelo credevo che le mie gambe non fossero all’altezza. Ora è tardi.» Così ha detto ad Aldo Cazzullo («Corriere della Sera», 29 maggio 2006), che commentava: «La Finocchiaro vede nell’elogio della propria bellezza il riflesso dell’eterno maschilismo italiano». La senatrice aggiunse: «Un uomo con il mio curriculum sarebbe stato candidato alla presidenza della Repubblica. La gente non si sarebbe stupita. Il Palazzo sì. Il ceto politico non è ancora pronto. Su questo punto, come su altri, è in ritardo rispetto alla società».

Già, il Quirinale. Nel 2006 sembrava la volta buona. Lo stesso Romano Prodi aveva detto: «Ci vorrebbe un segno di novità, magari una donna». E invece scelsero Giorgio Napolitano. Nella primavera del 2013 ci sperò di nuovo. Matteo Renzi, ancora sindaco di Firenze, la gelò: «Mi spiace, ma non può diventare presidente chi ha usato la sua scorta come carrello umano per fare la spesa da Ikea». «Un attacco davvero miserabile» replicò lei.

Era accaduto che un anno prima, nell’aprile 2012, il settimanale «Chi» aveva pubblicato una foto in cui due uomini della scorta, che l’accompagnavano nell’ipermercato romano, le spingevano il carrello. D’accordo, la procedura non prevede questo. Gli uomini della scorta devono avere le mani libere per far fronte a ogni emergenza. Ma la Finocchiaro fu sottoposta a un linciaggio in rete (e non solo) del tutto fuori misura. Gli addetti alla protezione di una persona devono accompagnarla in qualunque suo spostamento. Se va in bagno in un locale pubblico, devono piazzarsi davanti alla porta del bagno. E se la persona protetta è una signora che mette la spesa in un carrello, aiutarla è un atto di galanteria più che un imperdonabile abuso. In ogni caso, da allora la Finocchiaro è bollata con questo marchio da chi vuole attaccarla.

Nel 2015, prima dell’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella, il suo nome è tornato a circolare. Come vedremo, i candidati di Berlusconi erano Giuliano Amato e Pier Ferdinando Casini. Bocciati i due, se il Cavaliere avesse voluto mettere in crisi Renzi, avrebbe potuto gettargli tra i piedi il nome della Finocchiaro. Non gradita al segretario del Pd, che l’aveva estromessa perfino dalla direzione del partito, ma assai gradita alla maggioranza dei suoi gruppi parlamentari. E un nome al quale non sarebbe stato facile opporre un veto. Ma Berlusconi preferì l’Aventino dell’astensione e la Finocchiaro è rimasta di nuovo un candidato perdente.

Non era la prima volta. Nel 2006 doveva diventare ministro dell’Interno, poi la spuntò Giuliano Amato. Nel 2007 sembrava che il nuovo Partito democratico puntasse su una donna – lei – come primo segretario nazionale. Il suo discorso fu interrotto ventun volte dagli applausi. «Faremo come Temistocle» disse, incitando il Pd a partire all’attacco. «Affrontò per mare l’armata persiana anziché aspettarne l’arrivo ad Atene.» Era sostenuta da D’Alema, da sempre suo grande sponsor. Però fu eletto Veltroni. Nel 2013 sembrava molto probabile la sua elezione a presidente del Senato, ma, nel giro di una notte, Bersani – sconvolto per la frase di Beppe Grillo («Siete dei cadaveri ambulanti, vi seppelliremo vivi») e desideroso di recuperare con la «società civile» – scelse Piero Grasso. Un pubblico ministero prestato alla politica, proprio come era accaduto a lei ventisei anni prima.

Sì, perché Anna Finocchiaro, figlia di un alto magistrato, una laurea in giurisprudenza, dopo un breve passaggio in Banca d’Italia aveva vinto il concorso in magistratura. Due anni come pretore a Leofonte (Enna) e altrettanti come sostituto procuratore della Repubblica a Catania. Viveva nella villa ottocentesca di famiglia – frequentata oltre un secolo fa da Giovanni Verga, Luigi Capuana e Federico De Roberto – su via Etnea, la strada più prestigiosa della città. Poi prevalse in lei la passione politica, che l’aveva avvicinata al Pci fin dai 18 anni (sezione Ruggiero Greco, composta di fan duri e puri di Pietro Ingrao). A 32 anni era deputato: lo sarebbe rimasta per cinque legislature, prima di farne altre tre da senatrice. Era così legata al vecchio simbolo del Pci con la falce e il martello che, quando li vide rimpiccioliti sotto una quercia in quello nuovo varato dopo la caduta del Muro, Luciano Violante – magistrato e politico come lei – dovette asciugarle le lacrime.

La toga non le impedì nel 1994 di manifestare insofferenza verso lo strapotere del Pool di Mani pulite durante Tangentopoli: «Basta con queste vergini violate, sembra che in Italia ci sia solo il Pool di Milano». Nel 2007, ad «AnnoZero» di Michele Santoro in onda su Rai2, Marco Travaglio accusò Renato Schifani di collusione con la mafia. Lei, allora presidente dei senatori pd, gli si rivoltò contro: «Non si muovono accuse del genere al presidente del Senato». Salvo poi prendersi la patente di «manettara» dai giornali di destra quando, nel 2011, sottoscrisse una proposta di legge che fissava in due terzi dei voti della Camera la soglia minima per respingere la richiesta di autorizzazione a procedere della magistratura nei confronti di un parlamentare.

«Annuzza», come la chiamano in molti, ebbe il primo incarico di rilievo nel 1996 come ministro delle Pari opportunità nel governo Prodi. Non si era mai occupata di questioni femminili e, per questo, fu guardata con sospetto dalle donne, che poi invece conquistò. Sua la legge che migliora le condizioni delle detenute madri di bambini piccoli. Nel 2008 subì, invece, una bruciante umiliazione quando, con spirito di sacrificio, si candidò alla presidenza della regione Sicilia: ottenne il 30 per cento dei voti contro il 65 di Raffaele Lombardo. In quel momento era, come detto, presidente dei senatori pd, incarico che ha ricoperto dal 2006 al 2013. Nel primo biennio, secondo il giornalista e senatore Lino Jannuzzi, se a guidare i senatori del Pd fosse stato chiunque altro, il governo Prodi non sarebbe sopravvissuto un solo giorno.

La bocciatura nella più che legittima candidatura alla presidenza del Senato ha portato Anna Finocchiaro a distaccarsi progressivamente dalle posizioni della minoranza del suo partito, quella che ha come leader effettivo Bersani, che non ne appoggiò la corsa allo scranno più alto di palazzo Madama, e come leader carismatico proprio il suo amico D’Alema. Quando, tra l’estate e l’autunno del 2015, il Senato ha dovuto discutere e approvare la propria drastica riforma, la Finocchiaro ha svolto un ruolo decisivo nell’assistere il ministro Maria Elena Boschi e nel disinnescare le mine più insidiose posate sul cammino della legge prima dalla minoranza del Pd, poi dalle opposizioni.

Ha scritto di lei sul «Foglio» (21 settembre 2015) Marianna Rizzini: «Oggi è mistero puro di metamorfosi: già pilastro della campagna anti-Renzi agli albori della scalata dell’allora sindaco di Firenze, poi dal Rottamatore rottamata, Finocchiaro è stata infatti non soltanto protagonista di riabilitazione, ma in qualche modo persino di inspiegabile riassemblamento in versione Lady Antrace che sbarra la strada agli emendamenti di minoranza (avrebbe usato anche le armi chimiche contro i “no” alla riforma del Senato) … La si è udita dire la frase che per la minoranza pd è come l’aglio per il vampiro: l’articolo 2 non si tocca senza accordo politico».

L’articolo 2 era la Stalingrado dei resistenti, che fu tuttavia travolta. E la Boschi, madre della nuova Costituzione, lasciò il banco del governo per correre ad abbracciare quella che ne fu chiamata la «zia». Il resto, fino all’approvazione finale, fu solo una faticosa discesa.

Elsa Fornero, le lacrime e il lascito degli esodati

Elsa Fornero (San Carlo Canavese, Torino, 1948) è stata una meteora nella politica italiana (meno di un anno e mezzo di governo), ma ha lasciato il segno. Di lei l’opinione pubblica ricorda due cose: le lacrime che le spuntarono sotto lo sguardo sbigottito del gelido Mario Monti quando, il 4 dicembre 2011, illustrò la sua riforma delle pensioni e il lascito degli esodati che, quattro anni dopo, rappresenta ancora un incubo. Come tutte le semplificazioni, anche queste sono in parte ingenerose.

La Fornero è una delle maggiori esperte di sistemi pensionistici in campo internazionale. Indicandola, in un governo tecnico orientato moderatamente a sinistra, Monti fece la scelta migliore. Il momento era terribile. Anche se, molto tempo dopo, lo stesso Monti mi avrebbe detto che la storia che si rischiava di non pagare stipendi e pensioni a Natale era una forzatura, la situazione dei nostri conti era pessima e pessima, soprattutto, era l’immagine dell’immobilismo italiano in settori chiave come quello pensionistico. Da noi si andava in pensione troppo presto e, spesso, con un numero di contributi insufficiente. Per pagare il resto, lo Stato doveva mettersi – e metterci – le mani in tasca. Le pensioni di anzianità, che consentivano a molti lavoratori, in particolare del Nord, di abbandonare presto il lavoro per trovarne un altro da cumulare al vitalizio, erano sconosciute quasi ovunque.

Dopo decenni di discussioni, si giunse al paradosso di varare una riforma per decreto legge al termine di uno studio di nemmeno venti giorni: Monti scelse la Fornero la sera del 15 novembre 2011 e domenica 4 dicembre la riforma era già approvata. Quando in conferenza stampa, davanti alle telecamere, disse: «Abbiamo dovuto chiedere dei sacrifici…», le spuntarono «due lacrimucce». Mi raccontò nell’autunno del 2012 per Il Palazzo e la piazza: «La parola “sacrifici” mi si strozzò in gola. Perché pensai ai miei genitori. Mio padre operaio, mia madre casalinga, le tirate al mattino presto per studiare ragioneria a Torino, le supplenze per pagare l’affitto di una stanzuccia in casa di una vecchia signora durante l’università…» E aggiunse: «La riforma è severa, la più grande opera di bilanciamento tra le generazioni che sia stata fatta negli ultimi trent’anni. Siamo andati oltre il necessario? No…».

Fu un trauma salutare. Ma un trauma. Lo shock era talmente forte che i sindacati – che solo un mese prima, con Berlusconi al governo, avrebbero paralizzato l’Italia – se la cavarono con uno scioperetto simbolico di qualche ora. Ma nella gente (e nella sinistra, soprattutto) covò un risentimento sordo. In tanti si videro allungare la vita lavorativa nel giro di una sera. Per molte decine di migliaia di persone si aprì la prospettiva di restare per un periodo senza stipendio e senza pensione: erano gli «esodati». «Chiesi all’Inps e all’Economia quanti fossero e mi si diede il numero di 50.000» mi disse la Fornero. «Prudentemente trovammo le risorse per 65.000. Nell’autunno del 2012 erano saliti a 120.000…» Oggi non se ne conosce il numero. Forse 50.000, forse molti di più, forse addirittura molti di meno, soltanto qualche migliaio, secondo un sondaggio del Senato.

«Gli esodati sono stati un errore, lo riconosco» ha ammesso il 10 maggio 2015 davanti alle telecamere di Lucia Annunziata. «Ho provato un grande disagio. Sono stata descritta come una persona insensibile, e non è vero. Il mio grande rammarico è che il Pd non ha visto la sensibilità sociale che c’era nella riforma.» Già, il Pd. Il partito al quale lei si sentiva più vicina la trattò da appestata, non invitandola nemmeno alla Festa dell’Unità. Una damnatio memoriae che dura tuttora, anche nell’opinione pubblica.

Nel 2012 la Fornero avrebbe dovuto fare per decreto anche la riforma del lavoro. Napolitano (e Bersani, allora segretario del Pd) non lo consentirono. Oggi tiene a precisare: «Il Jobs Act è la continuazione della mia riforma», anche se trova inutile l’intervento sull’articolo 18. Ma la sola idea di tornare al governo l’atterrisce, e perciò la esclude. «Con la conoscenza di oggi, assolutamente no. In Italia c’è ancora un substrato di maschilismo diffuso, un atteggiamento misogino di non riconoscimento della parità dei diritti alle donne e di discriminazione. Qualche volta questo sconfina in atteggiamenti che sono squisitamente fascisti. Una donna, queste cose le avverte…»

Sposata con l’economista Mario Deaglio, Elsa Fornero ha due figli, Silvia e Andrea. Silvia, oncologa, un centinaio di pubblicazioni, invece di andare negli Stati Uniti, come avrebbe potuto, per ragioni familiari rimase in Italia come professore associato di genetica medica all’università di Torino e responsabile di ricerca presso una fondazione che si occupa di genetica.

All’inaugurazione dell’anno accademico dell’ateneo torinese, la Fornero aveva detto che non possiamo più dare ai giovani l’illusione del posto fisso a vita. Fu coperta d’insulti sulla Rete: «Perché non lo dice a sua figlia, che di posti fissi ne ha due?». Stava per dimettersi da ministro, ad appena tre mesi dall’incarico. La fermò il presidente Napolitano. La politica, per chi non ci è abituato, può essere un tappeto di spine.

Laura Boldrini, la presidente contro tutti

Fino al 16 marzo 2013 pochissimi in Italia sapevano chi fosse Laura Boldrini (Macerata, 1961). Quattordici anni di lavoro come portavoce per l’Italia dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati l’avevano fatta conoscere a una ristretta cerchia di giornalisti e operatori del settore, ma molti di noi non sapevano nemmeno che fosse stata eletta deputato nelle liste di Sel, il partito di Nichi Vendola. Il 16 marzo, trentacinquesimo anniversario del rapimento di Aldo Moro, si scatenò il terremoto, firmato dall’allora segretario del Pd Pierluigi Bersani.

Bersani è persona di grande buon senso, ma la «non vittoria» alle elezioni politiche del 24 febbraio si era trasformata per lui in una grave sconfitta politica per almeno due ragioni: 1) doveva rinunciare alla scontatissima nomina a presidente del Consiglio; 2) il Movimento 5 Stelle aveva avuto un successo strepitoso e rappresentava un quarto dell’elettorato. L’affermazione di Grillo – imprevista, almeno nelle dimensioni – procurò al segretario del Pd un annebbiamento che mai avrebbe consentito al miglior lambrusco della sua nobile terra d’Emilia. Per ingraziarsi il comico, che lo avrebbe ricambiato con un memorabile show in streaming al momento delle consultazioni per il governo, decise di fare due mosse a sorpresa per la presidenza di Camera e Senato, in linea con quelle compiute pochi mesi prima per il consiglio d’amministrazione della Rai.

Nonostante fosse erede della solida tradizione degli amministratori comunisti emiliani, gente pratica e concreta, anche Bersani era stato infatti accecato dal mito della cosiddetta «società civile», così chiamata per l’opporsi limpidamente alla «società incivile» dei politici, che noi diligentemente quasi ogni anno votiamo – magari con un po’ di mal di pancia – alle elezioni. Alla Rai finirono così, in quota Pd, due raffinati «marziani» come l’ex sostituto procuratore di Milano Gherardo Colombo e la scrittrice e giornalista Benedetta Tobagi, figlia del non mai abbastanza compianto Walter, un grande giornalista del «Corriere della Sera» ucciso dai rampolli «rivoluzionari» della Milano bene perché stimato da Bettino Craxi. Entrambi i neoconsiglieri risposero con uno sberleffo alla designazione, rivendicando giustamente piena autonomia. Ma si isolarono all’interno del cda Rai in maniera così blindata, con tuta bianca e mascherina, da far pensare all’eroismo dei sanitari e dei tecnici obbligati a operare in zone altamente infette o a bonificare un’area colpita da radiazioni nucleari. Tuttavia, il loro contributo a discussioni e decisioni non risultò memorabile.

Lo stesso criterio Bersani usò per la presidenza delle Camere. Le alternative «tradizionali» erano le seguenti: Anna Finocchiaro (Pd) al Senato e Lorenzo Dellai (Scelta civica) alla Camera, oppure Dario Franceschini (Pd) alla Camera e Pier Ferdinando Casini o Mario Mauro (Udc) al Senato. Per palazzo Madama c’era anche la candidatura di Mario Monti, che sperava (prima delle elezioni) di restare a palazzo Chigi. Ebbene, il segretario del Pd pensò d’ingraziarsi Vendola, il mondo no global e la «società civile» designando Laura Boldrini, e l’opinione pubblica indicando Piero Grasso, già capo della Procura di Palermo.

Figlia di un avvocato «cattolico conservatore che non apprezzava le aperture del Concilio e la sera ci faceva recitare il rosario in latino» (come disse ad Aldo Cazzullo, che la intervistò per «Sette» poco dopo l’elezione), Laura ruppe i rapporti con lui quando, conseguita la maturità classica, andò a lavorare in un’azienda di riso in Venezuela. Dopo aver viaggiato per il Centro America, nel 1985 si laureò in legge alla Sapienza di Roma e collaborò brevemente a diversi programmi della Rai. (Poco dopo l’elezione a presidente della Camera, Valerio Staffelli di «Striscia la notizia» le consegnò un Tapiro d’oro per aver partecipato da assistente di produzione nel 1988 a «Cocco» di Pier Francesco Pingitore, padre del Bagaglino.) Entrata alla Fao come addetta stampa nel 1989, dal 1993 al 1998 è stata portavoce per l’Italia del Programma alimentare mondiale, e poi, fino al 2012, portavoce per l’Italia e coordinatrice informativa per il Sud Europa dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.

«Famiglia cristiana», giornale spesso fuori del coro cattolico, la adora. Nel 2010 l’ha designata «italiana dell’anno» per l’impegno in favore di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. «La sua casa romana è un riflesso chiaro, perfetto della sua vita…», secondo il settimanale. Invece, i giornali che guardano a destra non la amano. Ha scritto Giancarlo Perna sul «Giornale» (5 agosto 2013): «Mai un sorriso sul bel volto di cinquantaduenne giovanile. Sempre imbronciata e superciliosa, con la voce esasperata di chi ha la ricetta per un mondo migliore ma è inchiodata a questa valle di lacrime dai trogloditi che non la pensano come lei. Fieramente consapevole di appartenere a una élite come borghese benestante e militante della sinistra mondialista, Laura ha tuttavia degli sbalzi umorali che manifesta nel cambio continuo del look. Un giorno ha i capelli sciolti, l’altro a coda di cavallo, a volte ha occhiali, altre è senza, alterna abiti di clausura a maliziosi décolleté, vesti arcobaleno e cupe tenute esistenzialiste…».

«Boldrini, regina dell’ovvio dei popoli» l’ha bollata il 31 luglio 2015 Marianna Rizzini, penna caustica del «Foglio», in occasione dell’uscita del suo libro Lo sguardo lontano, pubblicato da Einaudi. «Una donna di incrollabile gravitas terzomondista e benecomunista e di sempre più dolorosa preoccupazione per i bisognosi e gli oppressi del mondo tutto.» Due mesi dopo, sempre sul «Foglio» (19 settembre), Mario Sechi si è mosso sulla stessa linea: «La madonnina del pianto. È Laura Boldrini, santa patrona dell’Accoglienza. La lacrima radical-chic come programma politico». E, notando la rapida riconversione dell’ex ragazza sorridente della copertina di «Famiglia cristiana», aggiunge: «Finito il freak, comincia lo chic. Tutti ancora a cercarla sulle pagine dell’impegnato settimanale “Left”, mentre lei è già morbidamente atterrata nell’impaginato glam dei platinati femminili. Ella ha un altro palcoscenico, compagni».

La Boldrini ha declinato, per «ragioni istituzionali», l’invito di Sergio Marchionne a visitare uno stabilimento Fiat, facendogli peraltro sapere che non si può «giocare al ribasso sui diritti dei lavoratori». Memorabile un suo tweet su Ebola: «#Ebola anche causa di tagli a spesa pubblica e privatizzazioni in paesi in difficoltà. Serve approccio complessivo per combatterla». Scrisse Stefano Di Michele su «Panorama» (29 agosto 2013): «Se il sogno finale è il modello Iotti, l’avvio è piuttosto marcato dal modello Manu Chao. Così è su questo duplice binario che la fenomenologia della presidente Boldrini si muove: l’autorevole tailleur, persino a volte un filo di perle quasi thatcheriano; l’argomentare sospiroso di chi il mondo guarda con sguardo impeccabilmente, politicamente corretto». In realtà, dalla Iotti la divide tutto. La compagna di Togliatti univa all’eleganza nell’abbigliamento e nel tratto un autorevole trasversalismo istituzionale, che i principali partiti fanno fatica a riconoscere alla Boldrini. La sua inesperienza l’avvicina piuttosto a Irene Pivetti, che tra il 1994 e il 1996, malgrado i numerosi omaggi floreali di Eugenio Scalfari, perse la sua terzietà quando la Lega decise di mollare Berlusconi.

Se si escludono il suo partito (Sel) e la minoranza politica del Pd, nei primi due anni e mezzo di legislatura tutti i principali schieramenti parlamentari hanno contestato la Boldrini. Il M5S lo ha fatto in maniera più scomposta e perfino violenta, ma gli altri – dalla Lega a Forza Italia, da Fratelli d’Italia alla maggioranza politica del Pd – hanno protestato ripetutamente per l’atteggiamento della presidente.

Il suo gelo verso Renzi è completamente ricambiato. «Diciamo che rappresenta una parte del Pd» disse a Cazzullo nell’intervista già citata. Non immaginava che, meno di un anno dopo, il giovane fiorentino sarebbe diventato segretario del partito e presidente del Consiglio. Da allora gli scontri fra i due sono stati costanti: «La Boldrini è uscita dal suo perimetro di intervento istituzionale» affermò il premier in un’intervista all’«Espresso» (6 marzo 2015), ricordandole che è il governo a decidere se e quando fare un decreto legge.

Dal matrimonio con il giornalista Luca Nicosia, interrotto da tempo, è nata nel 1993 Anastasia (che nel luglio 2015 si è laureata in scienze politiche a Londra). La sua nascita riavvicinò la Boldrini al padre. «Lui si è sciolto» ha raccontato a Cazzullo la presidente della Camera «e attraverso l’affetto per lei ha ritrovato il rapporto con me. Ma quando si è ammalato, sulla sedia a rotelle, io ho perso tempo, occasioni per recuperare il rapporto. Fino a quando [2011], in pochi terribili mesi ho perso lui, mia madre che non ha retto al colpo, la sorella di mia madre e mia sorella Lucia. Un dolore che ti piega, ma nello stesso tempo ti rende più forte.»

Dall’estate del 2015 non è più apparso vicino a lei Vittorio Longhi, suo compagno dal 2008 e di undici anni più giovane, un giornalista catanese che ne condivide l’interesse per i problemi del Terzo mondo. «Ci sono uomini che stanno con ragazze più giovani di trenta-quaranta anni e questo viene considerato normale» disse la Boldrini dopo l’elezione del 2013 a Stefania Di Lellis per «D - la Repubblica». «Se una donna ha un compagno di undici anni di meno, diventa subito uno scandalo. Questo dimostra un maschilismo inaccettabile, un’arretratezza allarmante. Vittorio è un giornalista che non ha barriere culturali e ha una visione che esce fuori dai confini nazionali. Con lui divido da cinque anni anche ideali e impegno.» Adesso, a quanto pare, le cose sono cambiate.