Killer o poliziotti?
I.
10 dicembre 1990, ore 19:01, via Santa Caterina di Quarto, quartiere Pilastro di Bologna.
Fa freddo, un freddo umido e insopportabile. Daniela sta guidando la sua macchina in al confine del Pilastro, uno dei quartieri popolari di Bologna più frequentemente citato nelle pagine di cronaca nera. Si è già lasciata alle spalle le strade dove si susseguono i casermoni di cemento e l'asfalto non del tutto dissestato. Non c'è un lampione, non c'è una persona in giro, non c'è una casa abitata. Il quartiere è già così periferico da trovarsi oltre l'autostrada Adriatica, che è il cerchio più esterno della città. È già buio, e Daniela si rende conto che una Fiat Uno, di un bianco che risalta nell'oscurità che l'avvolge, è nel suo specchietto retrovisore da un po', senza né superarla né prendere un'altra strada. Scorge finalmente sulla destra il campo degli zingari dove vive Gianni, il suo ragazzo, e questa visione la rassicura. Ci sono sei roulotte sul prato. Daniela fa il giro attorno al perimetro per allontanarsi da quella macchina, e parcheggia accanto alla roulotte dove vive Gianni, che appena la sente esce sulla veranda.
– Ciao tesoro, la mamma ti aspetta.
Daniela dà una occhiata per vedere dove è finita la macchina che la seguiva, e la vede parcheggiata all'inizio del campo. È sicuramente l'abitante di una di quelle roulotte, pensa. Tranquillizzata, entra nella roulotte, dove quattro persone stanno cenando mentre tre bambini guardando la televisione.
– Ciao Daniela, sei stata gentile a venire ad aiutarmi a scrivere la lettera a mia figlia.
– Prima di cominciare posso farmi un caffè?
– Ma certo.
Si alza e comincia ad armeggiare al fornello.
Nello stesso momento, all'esterno, i quattro uomini dentro la Uno bianca parcheggiata poco lontano si infilano un passamontagna in testa e, senza neanche scendere dalla macchina, armano fucili, mitra e pistole, si affacciano ai finestrini abbassati e cominciano a sparare sul campo.
Daniela sente il rumore degli spari, ma pensa che qualche ragazzino ancora sveglio abbia fatto scoppiare dei petardi; poi sente altri colpi più forti, e una raffica di pallottole falcia la roulotte. Una di queste lascia un foro ben visibile sulla parete di lamiera a cui era appoggiata un attimo prima. È per pura coincidenza che ora sia viva. Tutte le persone della roulotte sono accasciate per terra, alcune sono ferite e gridano dal dolore, chiedendo aiuto. In pochi istanti il pavimento della roulotte è un lago di sangue.
Dopo un ultimo caricatore che sembra interminabile, la Uno bianca riparte a tutto gas.
Daniela, dopo qualche minuto di silenzio rotto soltanto dalle urla strazianti, si precipita fuori per cercare soccorso, e vede almeno otto persone coperte di sangue che, aiutate dai rimasti illesi come lei, vengono di corsa caricate su alcune macchine per essere portate all'ospedale. Nel giro di un buon quarto d'ora arrivano nel campo diverse volanti della polizia e gazzelle dei carabinieri, che cominciano a interrogare quei pochi ospiti del campo che non sono stati feriti. Un vecchio zingaro comincia a inveire in un italiano stentato, condito da dialetto rom, contro uno dei poliziotti presenti che, incurante delle offese, ride con aria sprezzante:
– Te ha visto, io cerca legno per foco, te ha visto. Te machina bianca co omini… sparato a noi. Te co maschera… fucile grande… Te ha visto!
Un giovane carabiniere, incuriosito, osserva la scena: rimane colpito dal coraggio delirante del vecchio e dalla sinistra strafottenza del poliziotto, che sogghigna e allontana l'uomo con poco riguardo. Il bilancio finale è disastroso: a un bambino di nove anni hanno disintegrato il femore, a un uomo di trentanove hanno fratturato l'omero, i feriti più gravi sono ricoverati con prognosi riservata. Non è la prima volta che qualcuno attacca il campo: fino a ora si era trattato di incendi di roulotte, pestaggi organizzati. Ma così… mai era capitato qualcosa del genere. Un salto di livello di inaudita e fredda efferatezza militare.
II.
4 gennaio 1991, Bologna.
Arianna, all'Agenzia informazioni di Bologna, si è guadagnata la competenza sulla Falange Armata. Ormai ha preso familiarità con questo fenomeno e ne parla tranquillamente con il suo caporedattore.
– Avevi ragione tu quando dicevi che non avrei trovato niente nei cestini della stazione di Bologna. Più quelli della Falange protestano e ci accusano di aver fatto sparire la cassetta audio che avevano annunciato, più mi convinco che cercano un modo per farsi pubblicità e garantirsi tutti i giorni un po' di spazio sui giornali, spazio che la Falange non merita di certo, con tutte le enormi stronzate che racconta. Detto questo, vorrei continuare a occuparmene.
Il caporedattore di Arianna, che per preparazione professionale ama andarle a cercare le notizie e non solo smistarle, ha previsto che un secondo giornalista garantisca la copertura fino a mezzanotte. Il collega che resta in redazione è un vecchio cronista di nera, che non ha mai smesso la pratica poco legale di utilizzare una radio a frequenze modificate, in grado di intercettare le trasmissioni delle volanti della polizia e delle gazzelle dei carabinieri. Quella sera, in particolare, quel trucco del mestiere rende un grande servizio alla sua agenzia, permettendogli di ascoltare verso le 22:30 questa drammatica conversazione.
Centrale:
– Volante Pisa 1, dove vi trovate?
– Qui Volante Pisa 1. Siamo di pattuglia in via Irnerio angolo via Belle Arti.
– Qui Centrale. Richiesta di intervento urgente al quartiere Pilastro in via Casini 2. Segnalati molteplici colpi di arma da fuoco. Pattuglia di carabinieri su Fiat Uno militare non risponde più alla radio.
– Qui Pisa 1. Ricevuto. Ci rechiamo sul posto.
L'attesa di un riscontro non è lunga.
– Qui Pisa 1. Siamo arrivati in via Casini all'incrocio con via Ada Negri, la zona è libera, non vediamo ancora nessuna macchina dei carabinieri… Mi correggo, ora vediamo la macchina con le portiere aperte e nessuno all'interno. Abbiamo indossato il giubbotto antiproiettile… Scendo armato di M12, il mio collega dal lato opposto mi copre con la pistola…
– Pisa 1, mantenete il collegamento con la Centrale e descrivete la situazione.
– Ci stiamo avvicinando. Si vedono fori di proiettili sulla carrozzeria e i finestrini… c'è qualcosa per terra. Cazzo! Centrale, due carabinieri a terra per colpi di arma da fuoco. Sono ancora caldi, avvolti dal vapore dei loro corpi. Mandate subito un'autoambulanza!
– Pisa 1, procedi all'identificazione.
Passano pochi, angoscianti, minuti prima che Pisa 1 riapra il collegamento.
– Centrale, rettifico: i colleghi sono tre e non hanno più polso. Leggo dai tesserini di riconoscimento raccolti dai cadaveri: sono Stefano Paolini, 22 anni, Lucio Tuffelli, 21 anni, Marco Mainardi, 21 anni. Ora sono arrivate due gazzelle dei carabinieri, una pattuglia della volante e una macchina bianca con quattro uomini a bordo, probabilmente è una pattuglia in borghese. Fino a ora nessun civile sul luogo dell'uccisione.
Alle 23 viene avvisato il caporedattore e subito dopo anche Arianna. Contemporaneamente esce il primo lancio di agenzia. La giovane giornalista, senza chiedere il permesso a nessuno, senza neanche avere mai messo piede nel quartiere Pilastro, decide di raggiungere con il suo vespino piazza Liparini, il luogo dell'eccidio. Non è nemmeno sicura di avere la benzina necessaria per arrivare e poi tornare, ma il suo istinto le dice di correre sulla scena. Non ha difficoltà a trovare il luogo, le basta seguire i furgoni dei cronisti e le sirene. Mentre gli altri giornalisti perdono tempo a cercare un parcheggio, lei vola giù dal motorino e si precipita ad ascoltare il racconto che un testimone sta facendo a un carabiniere.
– Ero in via Pirandello, all'altezza del centro commerciale, quando ho visto l'auto dei carabinieri fermarsi accanto a una Fiat Uno di colore bianco, e chiacchierare con i ragazzi che si trovavano dentro la macchina. Ho pensato avessero commesso un'infrazione e non ci ho fatto troppo caso. Mi sono incamminato verso via Casini dove poco dopo, all'altezza della Casa Rossa, mi ha superato l'auto dei carabinieri, lentamente. A un certo punto ho sentito il rombo di una macchina, che era la Uno bianca di prima, che, a tutto gas, arrivava a lato della gazzella, e da dentro hanno cominciato a sparare. Sembrava una guerra! L'auto dei carabinieri è andata fuori giri, andando a sbattere contro i cassonetti del rusco in piazza Liparini, vicino al mercato rionale. A quel punto la Uno bianca si è fermata vicino all'auto in panne e i suoi occupanti, non ricordo bene se due o tre persone, scendevano, si mettevano a semicerchio attorno all'altra macchina, tipo plotone d'esecuzione, e tornavano a sparare, mi sembra con il mitra. Subito dopo, quelle persone risalivano sull'auto, facevano retromarcia, e partivano a razzo verso dove erano arrivati.
Arianna, come si renderà contro più tardi, commette un unico errore: tralascia di annotarsi nome e cognome di quel testimone, sicura di poterlo recuperare successivamente dalle carte di polizia; purtroppo per lei e per le indagini, è lo stesso errore commesso anche dal militare che ha raccolto la testimonianza.
La giornalista raggiunge la cabina telefonica della piazza, inserisce qualche gettone e si fa passare il collega che, in ufficio, sta ancora scrivendo il primo lancio della notizia. Gli detta, al telefono, l'intero pezzo in presa diretta, siglandolo con le sue iniziali. Mentre la città, man mano che si diffonde la notizia, rimane sconvolta per i tre carabinieri ventenni ammazzati senza apparente motivo, Arianna si scopre soddisfatta per aver pubblicato il suo primo pezzo di nera da inviata sul campo. Le contraddizioni irrisolvibili di questo mestiere.
La settimana successiva Arianna sta ancora lavorando sul materiale raccolto la notte della strage dei carabinieri al Pilastro: quella notte, compensando in parte lo sbaglio di essersi lasciata scappare le generalità del testimone chiave, aveva strappato i nomi dei carabinieri uccisi e, dopo avere incontrato alcuni giovani colleghi di uno di loro, Stefano Paolini, era riuscita a farsi presentare la ragazza che il militare frequentava quando era vivo, e intervistarla. Per l'ennesima volta, rilegge il foglio dattiloscritto su cui ha riportato con precisione ogni sua parola registrata.
«Faccio l'operaia in una ditta in via Emilia Ponente. Ho conosciuto Stefano durante una serata fuori, e siamo subito diventati amici. Lui era molto gentile e dopo che, per una caduta al pattinaggio, fui obbligata a stare a letto per un intero mese, mi venne a trovare molto spesso. In quel mese, per vari motivi, lasciai il mio vecchio ragazzo e cominciai a uscire con lui. Questo accadeva agli inizi di ottobre del 1990. Dopo circa due settimane il mio ex mi venne a trovare e conobbe Stefano. Alcuni giorni più tardi mi telefonò e, dopo un mio rifiuto a tornare con lui, mi disse: “Tra non molto io morirò. Mi sono messo in un brutto giro, ma sappi che lui verrà con me. Uno di questi giorni verrò dalle tue parti, e se lo vedrò lo investirò con la mia macchina…” Nei mesi di novembre e dicembre con Stefano ci siamo visti spessissimo, siamo anche andati insieme a Firenze. Mio padre lo adorava. Non mi parlava mai del suo lavoro, anche se alcune volte mi disse che spesso si svolgeva nella zona del Pilastro. Una sera doveva venire da me, ma mi telefonò che non poteva perché era impegnato in servizio. Il giorno seguente mi disse, sempre per telefono, che il motivo per cui la sera prima non era venuto aveva a che fare con un fattaccio che era successo a Santa Caterina di Quarto, fuori Bologna. Si trattava del ferimento di nove zingari nel loro campo, presi a fucilate e raffiche di mitra. Nello stesso periodo, poco tempo dopo, ci sentimmo e mi disse che si trovava a Modena, dove stava svolgendo il servizio in borghese, in abiti civili. Successivamente a quell'episodio, mi parlò di una sua paura per un turno che avrebbe dovuto svolgere presso un ospedale di notte. Doveva fare la guardia a un delinquente ferito. Quando Stefano Paolini venne a casa mia, dopo la notte passata in ospedale a controllare il ricoverato, era molto stanco e molto spaventato. Qualcosa deve essere andato storto quella notte, perché il ferito morì, e vidi la sua preoccupazione aumentare molto, ma non approfondì più nulla a riguardo. Poi partì per Roma. Ci sentimmo per telefono spesso. Tornò a Bologna il 4 gennaio 1991. Me lo ricordo perché arrivò con un suo amico carabiniere alla ditta dove lavoravo, chiese di me e vedendomi mi abbracciò per molto tempo senza pronunciare una parola. Questo episodio mi fece molto pensare, in quanto Stefano non si era mai comportato in quel modo; non faceva parte del suo normale modo di fare. Era davvero terrorizzato. Dopo l'abbraccio se ne andò, e promise di telefonarmi nella serata o nel tardo pomeriggio: infatti alle 18 mi telefonò e mi disse che, terminato il sevizio, non sarebbe venuto subito a casa perché avrebbe dovuto accompagnare dei colleghi al quartiere Lame. Lo ammazzarono al Pilastro poche ore dopo».
Arianna non si considera una ragazza intelligente, ma una ragazza logica; non ha colpi di genio, ma ragiona molto sui dettagli e ha sempre presente gli aspetti contradditori della realtà. Vive da sola proprio per poter mantenere aperte tutte le possibilità dei suoi pensieri senza farsi influenzare da nessuno.
Anche per questo riduce al minimo le comunicazioni con il suo capo su ciò su cui sta lavorando: conosce la voracità di notizie di cui soffrono i capiredattori. Pronti a bruciare un'inchiesta buttando le notizie appena raccolte e ancora imprecise nelle fauci dei colleghi della cronaca dei diversi giornali, che stanno come cani alla partenza di una gara, aspettando che la telescrivente dia loro il pretesto per scattare. Quando realizza un'intervista importante come quella che ha appena riletto, non pensa di avere realizzato uno scoop e di doverla pubblicare subito, ma l'esatto contrario: che quell'intervista non rivela ma nasconde qualcosa. È ricca di indicazioni contrastanti che dovrebbero essere analizzate e sviluppate. La ragazza con cui ha parlato ha descritto comportamenti molto strani del suo fidanzato, ma si è rifiutata di tirarne le conclusioni e dunque bisogna risentirla.
Arianna decide di rivedere la ragazza di Paolini il giorno dopo, all'uscita della fabbrica dove lavora.
– Ho sbobinato la registrazione della tua intervista e riascoltandoti ho pensato che tu potresti avere capito cosa ha spaventato Stefano Paolini.
La ragazza, con un movimento nervoso, abbassa gli occhi e guarda da un'altra parte.
– Io non so niente e non sono sicura di niente.
Arianna insiste:
– Ho messo insieme tre notizie che mi hai dato di lui. La prima è che non è venuto a salutarti quando è dovuto andare all'accampamento degli zingari. Mi viene da pensare che la ragione per cui non è venuto possa essere legata alla gravità di quello che è successo. Forse Stefano ha visto qualcosa. Qualcuno dei presenti sulla scena ha raccontato che un vecchio gitano, pochi minuti dopo l'aggressione al campo, ha accusato uno dei poliziotti intervenuti di essere fra coloro che sparavano. Ovviamente gli hanno dato del matto e non hanno nemmeno raccolto la sua testimonianza, ma l'episodio è inquietante e Stefano deve esserne stato testimone. L'altra notizia che mi hai dato riguarda il piantonamento all'ospedale del delinquente ferito. Quell'uomo è morto durante la notte e, se Stefano la mattina successiva era molto spaventato, potrebbe avere visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere; ad esempio qualcuno che è intervenuto a favorire la dipartita del piantonato prima che raccontasse verità che avrebbero potuto mettere in difficolta altre persone. La terza cosa riguarda il modo in cui ti ha salutato. Quel lunghissimo abbraccio, senza una parola, potrebbe volere dire che aveva capito che avrebbero cercato di farlo fuori, ma che non poteva parlartene, perché questo avrebbe messo a rischio anche te. Tu cosa ne pensi?
– Tutte le cose che tu mi hai detto ora le ho pensate anch'io, senza osare parlarne con nessuno. Ma io non voglio entrare in questa storia. Non voglio finire come il povero Stefano. Quindi ti prego di lasciarmi stare.
Arianna ha capito di avere ragione sulle sue ipotesi di reticenza, non tanto da quello che ha detto la ragazza, ma da alcuni suoi movimenti incontrollati delle spalle e del collo, che tradiscono una tensione insopportabile e nervosa. Ma spaventarla ulteriormente non la aiuterebbe a parlare. Arianna tenta la sua unica possibilità:
– Voglio essere sincera con te. Se io pubblico le dichiarazioni che hai dato di tua spontanea volontà, credo che potresti essere esposta ulteriormente a qualche rischio. Allora ti faccio una proposta: io potrei non pubblicare quell'intervista, se tu mi dicessi sinceramente tutte quelle confidenze di Stefano Paolini che per ora mi hai nascosto.
La ragazza, visibilmente provata dal conflitto in corso dentro se stessa, esita.
– Cosa ti ha detto Stefano? Puoi dirmelo.
– Tu mi prometti di non pubblicare la mia intervista?
– Se ti ho offerto questa soluzione la manterrò, non temere.
La giovane cede.
–Va bene. Ok. Lui mi ha confidato anche qualche cosa di più: mi ha detto che sia dentro il corpo di polizia che dentro l'arma dei carabinieri c'era una guerra in corso. Io non so, e non voglio, sapere tra chi, e perché. Ma ha trovato strano che dopo alcuni giorni in cui faceva i turni di notte a piantonare quel delinquente che era stato ferito, proprio la sera dell'eccidio al Pilastro, nonostante lui fosse di riposo, gli hanno chiesto di tornare a lavorare di notte. Lui aveva capito che stavano mettendo in piedi qualcosa per togliere un testimone scomodo di quello che era avvenuto, ma nonostante le mie insistenze non mi ha voluto raccontare cosa successe. Anche io penso che abbia visto qualcuno, carabiniere o poliziotto non lo so, che ha favorito la morte di quella persona arrestata. Poi c'è un altro particolare strano: un giorno mi telefonò da Modena e mi disse che stava svolgendo un lavoro di osservazione in borghese. Trovai molto strano quello che stava facendo: io non ne so nulla di come sia organizzato il loro lavoro, ma da quel poco che mi raccontava lui faceva servizio sulle gazzelle nei quartieri e non indagini. Forse sapere questi dettagli potrebbe esserti utile, ma ti prego di non mettermi in mezzo, e di non scrivere nulla che mi possa coinvolgere. Ti prego. Promettimelo.
– Stai tranquilla, te lo prometto.
Allontanandosi dopo averla rassicurata, Arianna pensa quanto sia ricorrente quella frase: non scrivere nulla di quello che ti ho detto. Tutte le sue interviste finiscono così. Poi ripensa a quell'altra frase: c'è una guerra dentro la polizia e dentro i carabinieri. Ma tra chi? E perché? E che legame c'è, se esiste, con la Falange Armata? Di sicuro non ci sarà mai nessun poliziotto o carabiniere che le parlerà di questa guerra civile intestina, segreta, tenuta nascosta dentro le istituzioni. Fino a quando il sangue non sgorga anche sulle strade, alla luce del giorno, tra i passanti di un quartiere difficile di una città fondamentalmente affabile, nessuno si sveglierà dall'illusione di essersi lasciato alle spalle lo shock di una strage senza spiegazione. Arianna deve continuare la sua inchiesta silenziosa, anche a costo di non pubblicare un'intervista così forte come quella che aveva realizzato.
III.
Como, ufficio della Questura.
– Salve collega, sono Guido Monti della Digos di Firenze. Ho telefonato qualche giorno fa.
Il poliziotto in borghese lo squadra attentamente.
– Sì, certo. Se non erro volevi notizie su un'informativa che parlava di armi trafugate?
– Esatto. Avevo letto la vostra relazione e vorrei capire meglio chi potrebbe essere coinvolto in questi traffici, perché ce ne stiamo occupando anche dalle mie parti. E so per certo che dovete dei favori alla nostra questura.
– La cosa migliore è che tu ti faccia una chiacchierata con la nostra fonte. L'avevo già avvisato che ci sarebbe stata questa possibilità, e se torni tra quaranta minuti lo troverai qui.
Guido non è la persona che ama le mezze misure, i paesaggi quieti e armoniosi, e a lui Como non piace affatto, non apprezza le montagne troppo incombenti, il sole ridotto a poche ore nei pomeriggi invernali, l'umidità del lago, la staticità mortale dell'acqua; lo stesso accento degli abitanti gli risulta difficile da apprezzare. Dunque, passeggiare quei quaranta minuti per le strade di Como è per lui una sofferenza. Alla fine torna in questura e viene accompagnato in un ufficio isolato e disadorno, dove trova ad attenderlo un tale corpulento dai capelli rossi e dall'aria cordiale.
– Mi può raccontare come è venuto a conoscenza di questo traffico di armi?
– Era verso la fine di agosto e mi trovavo in un locale notturno un po' particolare. I proprietari avrebbero voluto chiamarlo Miami, ma per un errore hanno fatto scrivere sull'insegna Maiami. In realtà, questo nome sbagliato ha fatto la fortuna del locale e lo ha reso molto famoso.
– Non mi interessa. Andiamo ai fatti. In quali circostanze ha sentito parlare di traffico di armi?
– Questo locale si trova in un paesino vicino a Como e io ogni tanto vado a vedere che c'è di nuovo.
– Ballerine?
– Anche.
– E oltre alle ballerine?
– Solo le ballerine, in effetti.
– Ok. E allora come ha saputo di questo traffico di armi?
– Avevo bevuto quattro o cinque bicchieri di birra e, come può immaginare, ero andato in bagno a svuotare la vescica.
– Che ora era?
– Saranno state le dieci e mezza. Ero un po' alticcio, in effetti, e in bagno me la sono presa comoda. Stavo seduto sulla tazza cercando di riprendermi da tutta la birra che avevo bevuto, quando ho sentito entrare degli uomini. Dalle voci mi pare fossero tre. Due hanno fatto delle brevi domande, come «Allora, qual è il giorno?», o cose del genere, e l'uomo a cui lo chiedevano, che non aveva parlato fino a quel momento, ha detto molto chiaramente: «I carichi arriveranno dalla Val d'Ossola. Il codice della Falange armata di Como è 201871». Me lo ricordo perché io ho molta memoria per i numeri.
– E poi cosa è successo?
– Subito dopo hanno smesso di parlare e sono tornati nel bar. Io ho aspettato ancora un poco, poi sono uscito dal cesso, mi sono lavato le mani e sono tornato anch'io nel bar.
– Ha potuto vedere la persona che aveva parlato per ultima?
– Effettivamente sì, da un foro sulla porta del gabinetto. Avrà avuto più o meno una quarantina d'anni, alto circa un metro e ottanta, robusto di corpo, con i capelli tagliati corti. Dall'accento sembrava piemontese, o comunque del nord. Ho notato che al polso aveva un orologio Rolex.
– Lei fa parte di qualche gruppo politico?
– Perché me lo chiede? Ha qualche importanza?
– Risponda semplicemente alla domanda.
– Ah be', se è per questo… Sono comunista, un simpatizzante di Rifondazione.
– Ha dei precedenti?
– No, nessuno.
– Ha fatto il servizio militare?
– Sì, ero nell'aeronautica.
– Ha un lavoro fisso?
– No, lavoro saltuariamente come operaio edile specializzato.
– Le è capitato altre volte di venire a conoscenza di questi traffici?
– So che esistono, come tutti gli abitanti di queste zone di confine. Il contrabbando c'è da sempre, ma non ho mai avuto notizie così dirette.
Guido si congeda dal testimone e torna nell'ufficio del suo collega.
– Caro collega, penso che tu sappia che la Falange Armata è diventata così frequentemente imitata da avere bisogno di una sequenza di numeri per garantire l'originalità della sua firma. Premesso che nessuno sa chi faccia parte della Falange e che nessun numero può garantire, con la sua ripetizione, l'originalità dei comunicati scritti da non si sa chi, vorrei chiederti se il numero ascoltato dalla persona chiusa nel bagno del locale Maiami era il 201871.
Il collega di Como molto pazientemente riprende il foglio con le informazioni fornite dalla persona con la quale ha appena parlato Guido.
– Sì, nella sua relazione ha raccontato di aver ascoltato questo numero. Le confermo che è apparso in altri messaggi ricevuti qui a Como firmati Falange Armata, ma concordo con lei che questo non significhi nulla.
– Voi date credito a questo informatore?
– Credo sia affidabile. Non è un vero e proprio informatore. È venuto spontaneamente. Pensiamo che sia stata davvero una strana coincidenza che gli ha permesso di venire a conoscenza di quel traffico.
– Vi ringrazio della collaborazione. Teniamoci in contatto in caso di sviluppi.
Il viaggio di ritorno da una missione è sempre un momento di decantazione delle informazioni ricevute. Con gli occhi incollati sulla strada e le mani sul volante, la testa è libera di fare affiorare gli elementi rilevanti che si stagliano sul fondo limaccioso dei pensieri. Punto primo: i colleghi di Como sono affidabili, e lo è anche il loro informatore.
Guido prosegue le sue valutazioni ad alta voce:
– Sulle persone non mi sbaglio mai: se sono sfigati come me, sono affidabili. Sono fatto così, mi fido solo degli sfigati.
Punto secondo, i traffici di armi ed esplosivi in val D'Ossola ci sono, non è una grande novità. Forse e meglio dire: ci sono sempre stati. Ma ora il problema è un altro: come comportarsi con Michele? Bruciare una fonte inserita nella Falange sarebbe una cazzata, ma non avvertirlo sarebbe ancora peggio.
Tra amici c'è sempre il modo per fare arrivare un messaggio senza suonare le trombe. Guido sa che lo troverà.
IV.
Firenze, 27 gennaio 1991.
Guido sta sfogliando la rassegna stampa dell'ufficio politico degli ultimi giorni, quando un collega, Flavio, forse uno dei pochi colleghi di cui Guido si fida per le sua esperienza con le armi, gli esplosivi e le sue conoscenze sulla balistica, entra nella stanza.
– Guido, mi hanno detto che mi cercavi.
– Ciao Flavio, è da un po' che non ti si vede. Dove sei finito?
– Mi hanno messo al servizio stranieri.
– Che hai combinato?
– Dico sempre quello che penso, soprattutto con le persone sbagliate. Quelli dell'ufficio personale hanno deciso di trasferirmi al servizio stranieri, sotto la pressione di qualche superiore che a quanto pare non ha gradito la mia opinione spassionata sul suo operato. Lì posso dire quello che voglio, tanto nessuno mi capisce.
– Un pensiero carino. Allora con te posso parlare liberamente?
– Te l'ho detto: anche se non ti dessi retta e ripetessi tutto il giorno i tuoi segreti più profondi, nessuno mi capirebbe; quindi stai tranquillo e raccontami tutto.
– Sto ragionando su un particolare strano sul quale sei l'unico che può aiutarmi: c'è stato un assalto a un campo nomadi a Bologna con nove feriti colpiti da sventagliate di un fucile Ar70.
Flavio individua subito l'anomalia :
– L'Ar70 al massimo spara tre colpi continui, non sventagliate. Ad esempio, per fare nove feriti con due sventagliate, due proiettili avrebbero dovuto colpire due persone contemporaneamente. Altamente improbabile. È più probabile che sia stato usato l'SC70, la versione da guerra dello stesso fucile, quello sì spara sventagliate, ma è in dotazione solo all'esercito americano o alle formazioni d'élite dell'esercito italiano.
– Io penso che si tratti di un fucile d'assalto SC70 e suppongo che faccia parte di quelli trafugati da un'armeria della Folgore senza essere stati denunciati. Ma perché usare un fucile mitragliatore di quel tipo contro un campo di zingari, che per difendersi potranno avere al massimo dei coltelli? Quella è un'arma da guerra, che senso avrebbe assalire un campo di nomadi con fucili mitragliatori?
Flavio azzarda una ipotesi:
– Potrebbe forse essere stato qualche militante di Ordine Nuovo o di Avanguardia Nazionale. Ma se così fosse qualsiasi poliziotto o carabiniere arrivato al campo zingari dopo gli spari avrebbe capito al volo, anche solo dal racconto delle sventagliate, che non si trattava di criminalità comune, o di un qualsiasi fascistello esaltato come se ne trovano tanti in città.
– Trovo difficile dare retta alle rivendicazioni. La Falange Armata, che ha comunicato la responsabilità dell'attacco, rivendica ogni cosa ed è come se non rivendicasse niente. Occorre saper leggere dietro le apparenze: la relazione che lega questi omicidi è nella firma segreta lasciata dalle armi utilizzate. Prendiamo i recenti eventi politici. Se metti in fila i fatti non ci vuole molto a capire cosa sta succedendo. Il 27 di novembre il ministro della Difesa Rognoni dispone la soppressione di Gladio e lo smantellamento di tutta l'organizzazione. Ma Gladio, da quanto si è appreso, è una struttura clandestina legata alla Cia e al Sifar, e gli amici americani non hanno nessuna intenzione di essere portati sul banco degli imputati, o di farci andare qualcuno tra i propri arruolati. Il 21 Dicembre 1990 la Procura di Roma fa un bel regalo di Natale alla Settima divisione del Sismi dopo che è stata appena sciolta: apre un'inchiesta giudiziaria e sequestra tutto il materiale di Gladio a Forte Boccea, la sede del Servizio Segreto Militare a Roma. Gli uomini della Falange Armata non sembrano apprezzare questa iniziativa e decidono di reagire. Il 27 di dicembre ancora una rapina a un distributore di benzina in Emilia Romagna. Anche questa volta viene usata un'arma ingombrante e sproporzionata per una rapina del genere. Penso che anche in questo caso si tratti di un SC70. Mi sono convinto che la sua sola funzione fosse proprio quella di firmare l'operazione in modo inequivocabile. E infine il 4 gennaio 1991 a Bologna, nella notte, viene attaccata una pattuglia di Carabinieri al Pilastro, tre giovani di ventun anni o poco più. Tutti e tre vengono uccisi e tra le pallottole utilizzate ci sono anche quelle di un fucile d'assalto SC70. Anche questa sembra una firma, una firma comprensibile solo a chi conosce bene le armi, solo al giro dei servizi e agli addestrati a Capo Marrargiu. Gli attacchi ai campi nomadi si spiegano come una prima dimostrazione pubblica della potenza di fuoco che l'organizzazione può mettere in campo, senza alcuno scrupolo né rimorso. E chi meglio degli zingari, quelli che essi considerano come la feccia della società, si presta come primo portatore sacrificale del loro messaggio di sangue? Ma il livello dell'attacco è destinato a salire, e qui viene la strage del Pilastro. Ma perché ammazzare proprio tre carabinieri di vent'anni?
– Qualche settimana prima era stata aperta un'indagine della Procura di Roma sulla Settima divisione. Sai cosa vuol dire aprire un'indagine del genere?
– Che se trovi un solo personaggio che collabora ti crolla l'intera organizzazione con tutti i suoi fondi sporchi, i suoi collegamenti politico-militari e le sue nefandezze buttate ai quattro venti. Per essere convincente il messaggio deve essere mandato alla struttura dello Stato più forte in Italia, ovvero l'Arma dei carabinieri, e deve essere privo di ambiguità. Il sacrificio di tre giovani di vent'anni non ha altre possibili spiegazioni. Vedrai che i carabinieri, e lo Stato, capiranno il messaggio e cercheranno un compromesso.
– Certo, se fosse confermata la nostra ipotesi...
– Potrebbe esserci anche un'altra motivazione dietro alla strage del Pilastro: la necessità di eliminare qualche giovane carabiniere che, mettendo insieme i fatti, avrebbe potuto scoprire qualcosa che non doveva essere scoperto.
– Potrebbe essere. C'è molta confusione a Bologna e ce ne sarà ancora di più. Per quelli della Settima divisione, Bologna e l'“Emilia rossa” sono territori da bonificare col terrore.
V.
Guido, dopo averci pensato a lungo, decide un altro incontro con Michele e questa volta va lui a Milano. Si incontrano nella solita libreria, quasi sempre deserta. Senza perdere tempo in assurdi convenevoli, la prima domanda è molto diretta:
– Perché sono stati uccisi i tre carabinieri del Pilastro?
– Guido, speravo che l'ultimo incontro ti fosse servito a capire la gravità di quello che sta succedendo. Non l'hai capito ancora che sta saltando tutto? Gli equilibri che hanno funzionato per mezzo secolo sono crollati: la guerra fredda, il pericolo comunista, tutto finito. Lo stesso terrorismo di Stato in grande stile adesso non serve più, non ha più ragion d'essere. Il momento è delicatissimo. Il Partito comunista non ha perso un minuto a cambiare nome. Quello che serve a noi è un terrorismo a bassa intensità, un terrorismo diffuso, geograficamente collocabile nelle zone ad alto inquinamento comunista. All'orizzonte si staglia una tempesta imminente per quelli come noi. Stiamo navigando a vista per impedire che avvenga una svolta verso sinistra, per evitare che i nostri nemici di sempre possano mandare alla sbarra quelli che ci hanno aiutato per tutta una Repubblica con appoggi, soldi e armi. Ora ti occupi di me perché ho ancora delle informazioni da darti e in cambio ricevo aiuto, ma appena verranno davvero smantellate le strutture voglio vedere come ti comporterai anche tu. Non sei mai stato latitante, non puoi capire cosa significa vivere braccato.
Entrambi restano in silenzio per un po', ciascuno immerso nei propri pensieri. Poi Guido riprende:
– Non credo sia molto facile smantellare una struttura parallela, clandestina, che sta dentro lo Stato e che esiste da cinquant'anni.
– Dovresti partecipare alle nostre “riunioni” e capiresti cosa sta succedendo.
– Ricordi le informazioni che mi hai dato sul progetto di un attentato al congresso dei socialisti a Bari? Ne ho fatto un'informativa e l'ho mandata ai miei superiori, ma non ho avuto nessuna risposta. Sai se a Bari è poi successo qualcosa?
– Ti ho detto quello che sapevo. Non posso indagare apertamente sui miei camerati.
– Ho scoperto che la macchina che hai usato per venire all'incontro con me era rubata e aveva la targa di un'altra macchina il cui proprietario, residente a Cervia, non ha sporto nessuna denuncia di furto. Da quelle parti bazzica anche il tuo amico Carlo, guarda caso. Ma ho preferito non approfondire.
– Se cominci a fare lo sbirro con me, io comincio a comportarmi di conseguenza, come un qualunque latitante. Vuoi dire addio alla tua fonte di informazioni?
– Vedi di non fare cazzate. Ho dato un'occhiata e ci sono delle denunce sui campi di addestramento clandestini nei dintorni di Como e su partite di armi che dovrebbero arrivare dalla Val d'Ossola. Si vede che da quelle parti c'è gente che parla di queste cose nei bagni delle birrerie del Maiami senza accertarsi se negli altri gabinetti ci sia qualcuno che, tra una pisciatina e l'altra, sente tutto. Ora vado. Mi rifaccio vivo io. Hai capito? Ripeto. Non fare cazzate.
VI.
Tornato a Firenze, Guido trova sulla sua scrivania la copia di una lettera anonima arrivata alla Digos di Bologna e agli uffici di investigazione speciali che stanno seguendo il caso delle armi trafugate:
«Giovedì 11 gennaio 1991.
Ho deciso di scrivervi questa lettera dopo aver letto alcune versioni differenti sui giornali riguardo alla probabile arma usata per assassinare i tre carabinieri di Bologna. L'informazione che posso darvi è poca cosa e probabilmente è già a vostra conoscenza. Comunque sia, sento che è mio dovere portare un piccolo, ma forse importante, contributo per la ricerca dei colpevoli. Il fucile Beretta Ar70, come ben sapete, è liberamente venduto in Italia, ovviamente con la scatola di scatto sigillata per impedire che la si modifichi per farlo sparare a raffica. Tuttavia esiste un sistema, molto economico e totalmente reversibile in meno di due secondi, che permette all'Ar70 versione Civile cal. 222 di sparare a raffica. Se sapete già dell'esistenza di questo “giochetto” potete buttare questa lettera, in caso contrario seguitemi ancora. L'anello di gomma che trovate qui allegato – nella busta, graffettato alla lettera, c'è un elastico circolare di tre centimetri di diametro – è l'accessorio che permette la modifica. Purtroppo, avendo io appreso da altra persona e solo “a grandi linee” di tale possibilità, non so dirvi come vada fissato l'anello e dove. Posso comunque assicurarvi che si tratta di persona molto competente in materia di armi e che la “modifica” l'ha sperimentata in presenza di un'altra persona anch'essa competente e affidabile che mi ha confermato tutto ciò. Tutto questo discorso per dirvi, senza volere insegnare a voi il mestiere, che se in casa di qualche tiratore trovate un Ar70 cal. 222 e qualche anello di gomma più o meno delle dimensioni di quello allegato…» Guido prende la lettera e va nell'ufficio di Flavio a fargliela leggere.
– È straordinaria, è un capolavoro: una guarnizione da idraulico che scagiona “l'esercito segreto del terrore”. Questa lettera ha l'eleganza di un trompe-l'oeil del Borromini! La spiegazione tecnica viene rimandata da una persona all'altra fino a perdersi nel punto di fuga di una prospettiva. Se la persona che l'ha scritta avesse detto di possedere l'arma, sarebbe stato più facile rintracciarla, visto che si tratta di un'arma poco venduta e che ha comunque bisogno di essere registrata. E poi la scelta dei sostantivi: “tiratore”, non “poliziotto” o “carabiniere” o “delinquente”, ma “tiratore”… Molto interessante, è un indizio. Vuoi trovare queste persone? Allora devi andare nei poligoni da tiro istintivo…
– Se ci pensi, è il delitto perfetto: prima firmano la strage con un'arma in dotazione solo di una struttura segreta italiana eterodiretta dagli americani, facendoti capire l'importanza e il livello di intoccabilità di chi l'ha compiuta; poi, con una semplice lettera anonima e con una guarnizione da idraulico da tre cm di diametro, fanno sparire l'arma e, di conseguenza, anche il profilo dell'armato. Il primo messaggio è arrivato alle strutture a cui doveva arrivare: siamo quelli dell'Sc70; ma ai magistrati resta in mano solo una guarnizione da idraulico e un'arma di cui è molto più difficile identificare la provenienza. Qualcosa mi dice che di versioni sull'omicidio dei tre carabinieri ce ne saranno ancora tante. Vedrai.