Kamo il Barbiere racconta: Il muro

"Quando il sole stava per tramontare, un viaggiatore con un mantello di lana nero e un lungo bastone in mano arrivò a un villaggio nascosto fra le montagne e sovrastato dalle nuvole, le cui case di pietra e i giardini senza alberi, da lontano, evocavano una landa desolata. Salutò prima i muri, poi i cani e dopo gli anziani appoggiati ai muri. A chi gli chiedeva il nome, rispondeva: 'Io sono il profeta'. Quando gli abitanti del villaggio lo invitarono nelle loro case, rifiutò con gentilezza. Loro, vedendo le ferite sui suoi piedi nudi causate dal lungo viaggio e le tracce di sangue lasciate sulla via, insistettero e offrirono del cibo al viaggiatore. L'uomo si accontentò di un po' di acqua e con voce debole disse che sarebbe stato ospite e avrebbe mangiato il cibo di chi avrebbe creduto che lui era il profeta. I bambini lo guardarono con curiosità, gli anziani risero. Il viaggiatore passò la notte all'aperto. La mattina dopo disse nuovamente di essere il profeta e agli abitanti del villaggio che volevano vedere un miracolo gridò con fervore: 'Le parole che riflettono il cuore sono il miracolo piú grande! Non cercate altri miracoli, credete alla parola!' Nessuno gli credette, e il viaggiatore passò di nuovo la notte all'aperto. Bevve dell'acqua e dormì appoggiato al muro accanto ai cani. Il giorno seguente, quando parlò, anche i bambini risero insieme agli anziani. Il viaggiatore rimase tranquillo. 'Se questo muro parlasse,' disse, 'voi che non mi credete, credereste al muro?' Tutti insieme risposero: 'Sì, gli crederemmo'. Il viaggiatore era un uomo con un mantello nero, un paio di pantaloni rattoppati e i piedi nudi. Non possedeva altro che il bastone che aveva in mano e la bisaccia sulla spalla. Si girò e si rivolse al muro: 'Ehi muro! Di' ai bambini e agli anziani che io sono il profeta!' Anche se gli abitanti del villaggio non gli credevano, aspettarono in silenzio. Il muro cominciò a parlare: 'Bugiardo! Quest'uomo non è il profeta!'"

Da quanto tempo sono da solo nella cella? Si sono presi il Dottore, lo Studente, il vecchio Küheylan e mi hanno lasciato qua. Visto che ero solo, parlavo con i muri. Raccontavo storie al muro di fronte e ridevo. Il tempo passava piú piacevolmente quando non c'era nessun altro. Non ero obbligato ad avere a che fare con il dolore degli altri, a unirmi alla loro stupidità. Conoscevo l'animo umano. Voleva la verità, ma non la capiva. A cosa potevano credere dopo tutto il loro sudore, i loro beni e le loro preghiere: al miracolo del muro parlante o alle parole che esso diceva? "Bugiardo! Quest'uomo non è il profeta!" Le persone non erano forse menzogne anche loro?

Se il Dottore e lo Studente potessero ascoltarmi direbbero: "Questa storia la sappiamo, ci raccontiamo storie che conosciamo già, condividiamo quello che già esiste". Abbiamo altra scelta? Nel mondo sono forse rimaste storie non raccontate, parole non dette? È quello che avevo chiesto ai miei clienti seduti in negozio in un giorno di primavera, mentre fuori pioveva da ore e nessuno voleva uscire. Raccontai loro anche la storia del profeta. Tra i clienti, l'Architetto Adaza rise talmente per lo stupore degli abitanti del villaggio da rovesciarsi il tè sulla cravatta. Si guardò allo specchio e rise anche di se stesso, ma non sapeva che quella notte non avrebbe dormito. Se ne andò di buon umore e la mattina seguente tornò al negozio con gli occhi iniettati di sangue.

"Kamo, dimmi la verità. Mi sono arrovellato il cervello fino al mattino. Quel viaggiatore era il profeta? Dimmelo".

Lo calmai e lo feci sedere sulla sedia di fronte allo specchio con la cornice blu. Ordinai due tè. "Adaza," dissi, "mi chiedi di spiegarti, ma crederai alle mie parole?"

"Sì, ci crederò".

Portarono i tè. Io ne bevvi un sorso, lui aspettò.

"Se ti dicessi che sono il profeta, mi crederesti, Adaza?"

Non rispose alla mia domanda. Gli offrii una sigaretta, accesi prima la sua e poi la mia.

"Non crederesti che sono il profeta," continuai. "Va bene. Se questo muro parlasse, gli crederesti?"

Adaza guardò il muro. Passò in rassegna la Torre di Leandro, il battello e i gabbiani della foto. Guardò attentamente il basilico sotto la foto e la piccola radio. Spostò lo sguardo sopra lo specchio verso la bandiera e il poster. Si perse nel sorriso ingenuo della ragazza del poster: tutti i clienti non le guardavano le gambe, ma il viso. Fu rapito dalla foto come se avesse perso le tracce di quella ragazza per aver mancato il loro ultimo appuntamento, ma ne conservasse ancora un ricordo indimenticabile. Se non avesse saltato l'appuntamento, sarebbero vissuti insieme felici e contenti da qualche parte lontano da lì? L'Architetto Adaza distolse lo sguardo dal poster, abbassò gli occhi e vide la propria immagine nello specchio dalla cornice blu. "Bugie!" disse guardandosi allo specchio. Fece una pausa, diede un lungo tiro alla sigaretta e soffiò sullo specchio. Con il viso avvolto dal fumo, ripeté: "Bugie!" Gli scese una lacrima. Senza dire una parola, uscì dalla porta aperta.

Dopo quel giorno non tornò piú al negozio. Pensai che avesse trovato un altro barbiere. Sua moglie era una cara amica della mia. Un giorno venne a casa nostra e disse che Adaza se n'era andato di casa e che nessuno sapeva dove fosse. Dopo che era andato via, le due figlie si erano ammalate. Mi chiese di aiutarla, di ritrovare Adaza e riportarlo indietro. Anche mia moglie insistette e così uscii di casa per andare a cercarlo. Guardai nei locali per architetti, passai per i bar di Beyoglu, lessi le pagine di cronaca e alla fine scoprii che Adaza era finito fra i senzatetto dalle parti delle mura antiche.

Da Sarayburnu a Kumkapi ispezionai tutte le strade sinuose come i cunicoli scavati da una talpa, controllai ogni passaggio chiedendo notizie ai ragazzi che sniffavano colla e alle prostitute a buon mercato. Lo trovai una sera a Cankurtaran lungo la ferrovia, davanti a un falò. Una dozzina di senzatetto, dal misero destino comune, erano seduti attorno al fuoco e passandosi una bottiglia di vino ascoltavano uno di loro che cantava una canzone arabesque 2, "Com'è triste il mio destino". Mi fermai per un po' accanto a un albero a guardare, ma senza avvicinarmi. Mentre la canzone andava avanti, "Il mondo è buio, dove sei umanità", passò un treno. La terra mi tremò sotto i piedi. Una luce gialla sfrecciò tra gli alberi e svanì. Quando il rumore del treno si allontanò, anche la canzone finì. "Ehi Viaggiatore," disse uno, "parlaci come ieri sera, raccontaci qualcosa di nuovo".

Il Viaggiatore era l'Architetto Adaza, che si alzò in piedi tenendo in mano il suo bastone. Aveva un mantello nero addosso. Come il viaggiatore del racconto, aveva i piedi nudi. Assomigliava a un oratore che si rivolge a una folla rispettabile. Dopo aver guardato tutti attentamente, cominciò a parlare.

"Ci hanno mentito. Il primo che usò il fuoco non diede questo nome al fuoco che vediamo qui davanti a noi. Le generazioni seguenti gli diedero un nome e dissero che l'umanità aveva scoperto il fuoco. Quello che c'era, esisteva già, come avrebbero potuto scoprirlo? Non dissero niente della prima persona che diede nuova vita al fuoco invece di scoprirlo. Se il fuoco brucia e si spegne da solo, non è niente. Un giorno l'uomo cucinò sul fuoco la carne che aveva cacciato e si riscaldò con esso nella caverna. Questo non voleva dire scoprire il fuoco, ma avergli dato nuova vita. Ci hanno nascosto la verità".

"Viva il Viaggiatore!"

"Ben detto Viaggiatore! Anche se non ti capiamo, parla".

"Bevi un po' di vino, o ti si seccheranno le labbra".

L'Architetto Adaza era ubriaco, ma ricordava bene le parole del mio racconto. Le sue frasi contenevano le stesse parole che avevo detto per intrattenere i clienti mentre tagliavo i capelli nel negozio.

"Siamo vittime della città," continuò. "Siamo o poveri o infelici, e la maggior parte delle volte entrambe le cose. Ci hanno abituato a sperare. Grazie alla speranza riusciamo a tollerare il male. Ma se non siamo sicuri dell'oggi, quale garanzia abbiamo del domani? La speranza è la bugia dei predicatori, dei politicanti e dei ricchi. Ci ingannano con le parole e nascondono la verità".

Gli altri ubriachi risposero con lo stesso entusiasmo.

"Al diavolo la speranza! Viva il vino!"

"Bravo!"

"La speranza è l'oppio dei popoli!"

Adaza interruppe le grida e i fischi con una domanda: "Fratelli miei, questa città è viva o morta?"

Penso che in quel momento stesse ricordando il periodo dell'università, parlava come se si rivolgesse a dei giovani ribelli. Stava tirando fuori dal suo repertorio il discorso che si era preparato da anni. Sentiva la mancanza dei tempi in cui era un rivoluzionario e si pentì di aver desistito per paura della polizia. Una volta, quando era ubriaco, mi aveva aperto il suo cuore: "Anche se ti lasci il passato alle spalle, è il passato a non lasciarti," aveva detto.

I vagabondi chiacchieravano.

"Questa città è sia morta, sia viva!"

"Se qualcuno dice che questa città è viva, gli spacco una bottiglia sulla testa".

"Morta!"

Adaza era eccitato. Mentre parlava, dondolava sulla punta dei piedi.

"Amici miei senzatetto! Voi sconfitti, voi cuori infranti!" disse. La voce si faceva sempre piú sicura: "Non siamo stati noi a costruire questa città, ci siamo solo ritrovati qui dentro. Non siamo nemmeno noi ad averla uccisa. Non c'è via d'uscita, i nostri predecessori hanno bruciato le barche. Così come ci sono stati gli uomini che per primi hanno dato nuova vita al fuoco, chi creerà per primo la nuova città, chi le darà vita?"

"Parla Viaggiatore, dicci tutto".

"Parlaci anche della luna piena".

"E delle stelle".

Tutti insieme sollevarono gli occhi al cielo. Feci due passi accanto all'albero e guardai anch'io il cielo. Le stelle erano così infinite che solo dei vagabondi ubriachi potevano avere il tempo di contemplarle. Non c'erano le luci della città, e le stelle brillavano. I dentisti, i fornai e le casalinghe non avevano mai guardato le stelle che, in questa enorme città, si erano riunite all'ombra delle mura e tremolavano nello spazio come se fossero pronte a cadere da un momento all'altro.

"Che notte lunga!"

"Ci vuole altro vino!"

"Viaggiatore, recitaci una poesia stellata".

Recitare una poesia? Questa volta non gli avrei permesso di recitare le sue terribili poesie. Con passo pesante mi avvicinai agli ubriachi intorno al fuoco.

Quando l'Architetto Adaza mi vide, esitò e poi bevve dalla bottiglia che aveva in mano. Bevve come se avesse trovato il segreto che stava cercando, come se avesse finalmente trovato la felicità dopo tutti quegli anni trascorsi invano e si mise a ridere.

"Ecco l'uomo di cui vi parlavo, Kamo il Barbiere!"

Girarono tutti la testa e mi guardarono. Da vicino le loro facce erano ancora piú brutte e le ferite sui loro volti ancora piú numerose. Si erano piazzati in quella zona come i ratti nella spazzatura e avevano ammesso l'Architetto Adaza fra di loro. Adaza era felice. La sua bocca da ubriaco penzolava. In una notte simile, quando era felice come adesso e a Istanbul era sceso presto il buio, eravamo andati insieme in una locanda. Dopo due raki doppi disse di voler leggere una sua nuova poesia. Salì sulla sedia e fece ripetere alle persone intorno i versi che aveva letto ad alta voce. Era stato insopportabile. Mi si era chiuso lo stomaco nel sentire quell'orrenda poesia.

L'Architetto Adaza parlava davanti al fuoco all'ombra delle mura con una bottiglia di vino in una mano, mentre con l'altra riusciva a stare in piedi appoggiandosi a un bastone.

"Kamo," disse, "il viaggiatore di quella storia non mentiva ma mostrava la menzogna, non è vero? Le parole sono l'unica via alla verità ed è questo che il viaggiatore cercava di spiegare".

"Signor Architetto," dissi, "Adaza, adesso è ora di andare a casa".

Gli ubriachi intorno al fuoco si spostarono e si sedettero. Si guardarono l'un l'altro e guardarono Adaza.

"Kamo," continuò l'Architetto Adaza, "stiamo cercando la verità del tempo in cui il primo uomo non diede il nome fuoco al fuoco. Cos'altro abbiamo se non la poesia? I poeti si spingono non solo oltre la realtà, ma anche oltre la fantasia e si avvicinano al tempo anteriore al fuoco. All'università non ci hanno insegnato queste cose, non ci hanno letto poesie. Ci hanno mentito ogni giorno".

Invece di tornare a casa e abbracciare la propria famiglia, l'Architetto Adaza si trastullava con parole che avrebbe dimenticato di lì a poco. Aveva una moglie e due belle figlie che lo amavano. I pazzi erano fortunati e non apprezzavano quello che avevano. Cosa cercavano? Cos'altro potevano volere quando avevano in mano la felicità che un altro avrebbe speso un'intera vita a cercare?

Gli ubriachi mi guardarono, erano curiosi di sapere cosa avrei fatto. Erano sporchi, brutti e magri. Non ce n'era uno che avesse dei vestiti decenti e i capelli in ordine. Anche l'Architetto Adaza aveva un aspetto simile. L'uomo di fronte a me non era quello che abitualmente veniva al negozio per farsi radere e che stava attento a non accavallare le gambe per non sgualcire i pantaloni che la moglie gli aveva stirato.

"Kamo," disse, "mi avevi detto che legare il proprio cuore a una fede trasforma l'uomo in diavolo, ti ricordi? Guarda, anch'io mi sono legato a una fede".

Sì, legarsi a una fede trasforma l'uomo in Satana. La persona che vede la propria fede come superiore, sminuisce gli altri. Raccoglie tutto il valore della vita in una mano e vede la fonte del bene solo in sé. Secondo lui il male fa parte degli altri, il suo cuore è estraneo a esso. A volte testavo i miei clienti con parole come queste. Sia che mi appoggiassero con fervore, sia che discutessero fra di loro, io cambiavo idea e demolivo quello che avevo appena detto senza che se ne accorgessero. Volevo capire chi era il piú tenace quando si trattava di difendere le proprie idee.

"Avevo detto così? Non mi ricordo," risposi ad Adaza.

"Non sottovalutatelo come se fosse un semplice barbiere, Kamo studia all'università. Ne sa piú dei professori. Capisce le mie poesie meglio di chiunque altro".

Perché non era finito sotto una macchina quando era ubriaco? La moglie, dopo aver pianto un po', si sarebbe rifatta una vita e avrebbe trovato un padre migliore per le sue figlie. Le persone come lui non miglioravano, le stupidaggini che facevano in casa continuavano a farle anche dopo essersene andate. Lo sapevo fin da quando ero bambino. Non si curano di quello che viene detto, fanno sempre qualcosa di sbagliato e pensano di essere furbe. Elogiandovi e mostrandovi la loro gentilezza, esaltano la loro poesia e vi annoiano declamandola. Questi tipi finiscono l'università, costruiscono città e dopo essere diventati capi di Stato parlano di giustizia. Vogliono che viviamo la nostra vita secondo la loro misera mentalità.

Presi la bottiglia che l'Architetto Adaza mi aveva allungato. Mi sedetti davanti al fuoco fra due vagabondi che mi avevano fatto spazio. Mi guardai attorno, osservando i volti di tutti. Avevano l'aspetto stanco ma felice di chi si è salvato da un naufragio. Non avevano passato, vivevano il momento presente con l'aiuto del vino; credevano al fuoco, alle mura della città e alle stelle.

Adaza si sedette vicino a me e lasciò per terra il suo bastone. Guardando il fuoco, gli occhi gli si riempirono di lacrime. Vacillò in avanti un paio di volte. Si perse nelle fiamme che passavano dal giallo al blu per poi scomparire. Era pronto a farsi seppellire dal mare, a tornare all'oscurità come chi si sia pentito di essere sopravvissuto a un naufragio. In questo mondo, non era rimasto neanche un ramo a cui aggrapparsi e non c'era nemmeno un tesoro da cercare. Se ne avesse avuta la forza, avrebbe fatto l'ultimo passo, oppure se qualcuno l'avesse spinto in mare da dietro, sarebbe precipitato e ora giacerebbe nella profondità delle onde.

Qualcuno si accorse che non stava piú parlando e gridò: "Dov'è la poesia, dov'è?"

Notando che Adaza non rispondeva, un uomo disse, alzando la bottiglia in aria: "Ve la recito io, una poesia". Era cieco da un occhio, l'altro brillava alla luce del fuoco.

"Dai," dissero gli altri.

"E che ci sia una donna".

"E le stelle".

"Vedremo".

L'uomo con un occhio solo diede un sorso alla bottiglia e recitò: "Prima di vedere le tue labbra rosse / Non sapevo cos'era l'infelicità".

Si fermò e guardò i suoi amici, voleva essere sicuro che lo stessero ascoltando. Da lontano si sentì un cane abbaiare. L'uomo continuò la poesia: "Con i tuoi capelli al sole / Le canzoni fluiscono verso il cielo / Le tue gambe fresche nella corrente / Luccicavano come i pesci argentati / Il sole era sorto, il sole era tramontato / Hai raccolto i tuoi capelli / E sei andata via con gli uccelli migratori / Dietro di te la porta della notte è rimasta aperta e / Mi hai lasciato sulle rive della corrente / Prima di vedere le tue labbra rosse / Non sapevo cos'era l'infelicità".

"Tutto qua?"

"C'era una donna?"

"E le stelle?"

"Cosa ne volete sapere voi, di poesia".

L'abbaiare dei cani si fece piú intenso, tutti si voltarono e guardarono da quella parte. Passando tra le pietre in rovina delle mura, alcuni cani si stavano avvicinando. Solo un cane bianco era rimasto indietro. Gli altri correvano e le loro ombre si fondevano sotto la luce della luna piena. Si avvicinarono e toccarono con il naso le braccia degli ubriachi. Si rotolarono per terra e girarono dappertutto. A furia di annusare trovarono le ossa che gli ubriachi avevano messo da parte per loro. Il cane bianco aspettava distante.

L'uomo con un occhio solo non si preoccupò dei cani. Bevve dalla bottiglia che aveva in mano e poi si alzò in piedi. "Vado a fare la pipì e quando torno vi reciterò un'altra poesia," disse. Nessuno sembrava interessato.

Dopo aver bevuto un goccio di vino, anch'io mi alzai in piedi. Seguii l'uomo con un occhio solo per vedere dove potevo fare pipì. Sotto la luna piena, le mura si allungavano e sembravano infinite. In quella parte della città non c'era nient'altro che mura, stelle e fuoco. Il cielo diventava sempre piú grande e un ubriaco intonò una canzone con voce acuta: "Mentre il sole della sera si appoggiava all'orizzonte / lasciandomi te ne sei andata amore mio".

L'uomo con un occhio solo aveva raggiunto una nicchia nelle mura e si era fermato. Vacillava sulle gambe e faceva fatica ad aprire la lampo. Con pochi passi lo raggiunsi. Lo spinsi dentro la nicchia e gli tappai la bocca. Il mio coltello d'acciaio era pronto, dopo averlo fatto ruotare in aria glielo avvicinai alla gola. Non capiva che cosa stesse succedendo e spalancò l'occhio, che brillò nella luna piena. C'era piú sorpresa che paura sul suo volto. Stava accadendo veramente o si era addormentato? Diede una scossa al cervello e cercò di ricordare prima me, poi il posto dove si trovava e infine se stesso. Se non fosse stato per la canzone che si sentiva a malapena in lontananza, avrebbe pensato di essere morto da tempo e di essersi risvegliato nella tomba. Era basso e si era contratto ancora di piú. Era schiacciato sotto il mio peso, appiccicato al muro. Feci ruotare un'altra volta il coltello in aria. "Attento a non urlare, adesso ti chiederò una cosa," dissi. Allontanai la faccia e ritrassi il corpo che gli pesava addosso. Togliendogli la mano dalla bocca, gli puntai sull'occhio il coltello che era nell'altra mano. "Non uccidermi, ti darò quello che ho rubato," disse. Puzzava di vino e di muffa. Sentivo il battito del suo cuore. "Ti chiederò una cosa e tu devi dirmi la verità". Fece di sì con la testa e disse: "Lo giuro". Invece di chiedergli perché insisteva nel restare in vita e perché non si era scavato la fossa in quella discarica buttandocisi dentro con il suo occhio solo e l'odore di sporco, gli chiesi da chi aveva sentito la poesia che aveva recitato. Il suo occhio brillò e poi si chiuse. "Ho fatto qualcosa di sbagliato?" balbettò. "Il tuo errore è stato nascere," dissi. "Rispondi alla mia domanda, da chi hai sentito quella poesia?"

A una domanda semplice avrebbe dato una risposta semplice, pensai, ma la punta affilata del coltello sull'occhio si scontrava con la sua ragione.

"Era una poesia del nostro maestro di scuola," disse.

Questo era tutto il segreto della sua vita, aveva detto quello che volevo sentire.

"Dove sei andato a scuola? Nel villaggio di Karapinar?"

Gli si illuminò il volto. "Sì, sono di Karapinar. Il nostro maestro veniva da Istanbul..."

Non gli feci finire la frase. Con la mano alla gola lo spinsi contro il muro. "Non ti permettere di dire niente di lui, non pronunciare il suo nome," dissi. "Parla del villaggio e non del maestro".

Mi afferrò il polso con le dita magre, mi guardò implorandomi. Che cosa stava succedendo, dove aveva sbagliato? Gli si gonfiarono le vene, la fronte era sudata. Sbavava agli angoli della bocca. Stava per smettere di respirare quando mollai la presa, lasciandogli il collo. Al suo posto parlai io.

"Si può raggiungere il tuo villaggio fra le montagne attraverso una ripida salita. È sempre coperto di nuvole. Nei vostri giardini non crescono alberi, si allevano animali. Costruite le vostre case con pietra nera. Il nome del vostro villaggio è Karapinar3, ma non c'è una fonte, l'acqua la prendete dal pozzo".

Lo sollevai tenendolo dalla mandibola e guardandolo nell'occhio continuai a parlare.

"I muri del vostro villaggio sono piú affidabili di te. Le pietre dei muri sono sempre uguali, sia alla luce del sole sia al buio. I muri sono lì da piú di cento anni. Quanto a te, di giorno sorridi alle persone e di notte appendi zampe di pollo alle loro porte. Nessuno ti ha mai visto ammettere le tue colpe, non sai come chiedere scusa. Violenti la tua stessa famiglia, poi uccidi un uomo per onore. Hai sempre il nome di Dio sulle labbra. Sei bravissimo a piangere. Ascolti i lamenti e sogni i vecchi tempi. Se il mondo finisse non te ne importerebbe niente, ti preme solo che non manchi nemmeno una pietra dai muri di casa tua. Credi che il male venga da fuori. La fonte del male è il vicino o lo straniero che arriva al villaggio. Non vedi il serpente che c'è nel tuo cuore".

"Hai ragione," disse con voce flebile. "Guarda cosa mi hanno fatto. I miei compaesani, i miei parenti mi hanno cavato un occhio e mi hanno cacciato dal paese".

"Taci, non raccontarmi la tua vita. Non hai una storia che ti appartiene, avete solo una storia comune. È un'unica storia in cui ognuno di voi ha una parte".

Si passò le mani su tutto il corpo e tirò fuori del denaro dalle tasche interne dei vestiti strappati. Mi offrì i soldi che aveva in mano. "Prendili, ogni giorno te ne porterò altri," disse. Agitai il coltello e feci schizzare del sangue dalla sua mano; i soldi caddero per terra. "Ah," disse e tirò indietro la mano.

"Siete codardi, furbi e, se ne avete la possibilità, crudeli. È così che l'avete fatta finita con il maestro. Mentre voi dormivate ancora, lui si alzava e accendeva la stufa nell'unica classe della scuola. Faceva dei disegni alla lavagna. Vi raccontava di montagne diverse dalle vostre e di animali mai sentiti prima. A voi non interessava sapere che la terra era rotonda e che la superficie del mare era maggiore di quella della terraferma. Nonostante tutto, vi portava in cortile e vi mostrava la Via Lattea e la Stella Polare. Quando andavate a casa e a scuola rimanevano solo i cani randagi, lui si chiudeva nella sua piccola stanza e alla debole luce di una lampada scriveva le poesie che vi avrebbe letto. Non si era accorto delle ombre che vagavano al buio fuori dalla sua finestra. Gli ci volle un po' di tempo per capire che tipo di persone eravate e che vita facevate nelle vostre case con le porte serrate. Ogni casa, ogni persona era una caverna buia. Fece fatica a crederci. Ecco perché la sua ultima poesia è piena di delusione. Il nome del vostro villaggio è Karapinar, ma non c'è una fonte, come il vostro villaggio anche voi siete un'illusione. Il maestro non ha sopportato questa bugia".

Mi guardò fisso come se l'unico occhio che aveva stesse per schizzare fuori. Si morse le labbra. Si attaccò al mio braccio. Cominciò a piangere. Era come un topo preso in trappola. Chissà quando aveva pianto così l'ultima volta? Pensava al coltello e non ai suoi peccati. Lo spinsi contro il muro. Lo tenni per il colletto.

"Smettila di piangere o ti taglio la gola," dissi. "È troppo tardi. Siete sempre in ritardo per queste cose. Avreste dovuto piangere anni fa, avreste dovuto chiedere perdono al vostro maestro. Che cosa vi aveva fatto, a parte raccontare la verità ai vecchi seduti all'ombra del muro? Quando lui parlò, perdeste il sonno e vi svegliaste nel cuore della notte coperti di sudore. Apriste la porta nel buio e guardaste lontano, molto lontano. Fumaste fino al mattino. Non volevate sapere la verità. Era bello vivere nella menzogna, negando la vostra cattiveria. Come eravate felici con il serpente nel cuore, non avete tradito solo il maestro, ma anche la montagna dove vivevate".

"Chi sei tu? Sei del nostro villaggio?" mi chiese esitante.

"Chi sei tu, chi siete voi?" Ero molto arrabbiato. "Perché non vi siete mai fermati a guardarvi almeno una volta? Il maestro, stufo della città, voleva fuggire dalla sua oppressione ed era venuto nel vostro villaggio. Altrimenti sarebbe impazzito. Istanbul si gonfiava come un cadavere e le persone erano come parassiti che alimentavano quel cadavere. Doveva scappare da quell'incubo e si era rifugiato nel villaggio. Passava le notti traducendo poesie dal francese e cercava nuova ispirazione per i propri versi. Gli abitanti del villaggio erano differenti? Gli uomini non erano uguali dappertutto? Il maestro si rese conto tardi che era passato da un incubo all'altro. La città era una menzogna, ora anche il villaggio lo era, e lui si ritrovava schiacciato fra due menzogne. Il marcio era ovunque e al mondo non era rimasto neanche un posto dove rifugiarsi".

Mi avvicinai al volto dell'uomo, annusai i suoi capelli unti, toccai con il dito la sua fronte sporca.

"Questa era la speranza, la speranza a cui si aggrappava," gli dissi mostrandogli il mio dito sporco. "Quel maestro era mio padre. Nell'ultima poesia ha maledetto gli uomini. La sera in cui scrisse quella poesia uscì e guardò il cielo. La Via Lattea andava da un orizzonte all'altro. La Stella Polare era lontana. Non potendo salire verso nord, verso la stella, pensò di scendere a sud, nelle profondità della terra. Avrebbe potuto completare il suo ultimo viaggio così. La morte non era una discesa? Andò al pozzo della piazza del villaggio e, sporgendosi, guardò giú. Piegò la testa verso il basso. I muri ricoperti di muschio avevano un buon profumo. Fece dei respiri profondi. Fece cadere una pietra nell'acqua. La pietra scese lentamente e solo dopo un po' di tempo il rumore dell'acqua riecheggiò per il tonfo. Laggiú era buio, umido e misterioso. Il cuore della terra, il sud erano là".

Si sentirono delle voci provenire dal falò. Probabilmente si stavano preoccupando perché ci attardavamo. Ci chiamarono per nome. "Occhio Solo, dove sei finito? Kamo, dove sei?" Allungai il collo e guardai. Mentre il resto degli ubriachi era seduto davanti al fuoco a bere, un paio di loro venivano verso di noi chiamandoci. Tra poco sarebbero arrivati. Stava per cominciare la canzone dei coltelli d'acciaio.

Quando mi voltai indietro e vidi il cane bianco, barcollai. Il piede si era incastrato in una pietra. Il coltello mi era caduto dalla mano. Quando era arrivato così vicino il cane bianco? Aveva un bel muso e il collo possente. Il pelo lungo e setoso gli ricopriva il corpo scendendo fino alla coda. Non assomigliava ai cani che giravano intorno alle mura. Non stava cercando da mangiare. I suoi denti brillavano alla luce della luna. Le orecchie a punta ricordavano quelle di un lupo. Le sue grandi zampe non erano ricoperte di polvere. Senza muoversi e senza far capire le sue intenzioni, mi guardava. Mi chinai e raccolsi il coltello da terra. Feci due passi indietro e poi mi appoggiai al muro. Mi ricordai il desiderio che aveva portato qui il coltello, me e il cane bianco, quella notte.

Si sentì il rumore del treno. La terra cominciò a tremare. Il rumore delle rotaie accelerava come il battito di un martello sull'acciaio. Tu-tum tu-tum. Tra poco sarebbero arrivati gli ubriachi. Tu-tum tu-tum. Di lì a poco sarebbe cominciata la canzone dei coltelli d'acciaio. Quella notte, tutti si sarebbero sottomessi al proprio destino. Appoggiai bene la schiena al muro. Distesi le dita. Che cosa aveva raccontato l'Architetto Adaza dopo che mi ero allontanato dal fuoco? "Non sottovalutatelo, non è un semplice barbiere, ha una moglie molto bella". Il buio era sensuale. Ai treni piacevano le rotaie. Gli ubriachi si passavano la bottiglia di vino di mano in mano. La bottiglia di vino era il corpo di una donna dalle labbra ardenti e dal ventre sudato. Ai treni piacevano le rotaie, ai bambini i pozzi. Tu-tum tu-tum. Anche a mio padre piacevano i pozzi. Nel villaggio di Karapinar, mio padre guardava le stelle, misurava la velocità dei venti e teneva un diario della pioggia, e anche a lui piacevano i pozzi. Tu-tum tu-tum. Se solo il pozzo di Karapinar, girando come un vortice, avesse inghiottito i bambini stupidi, i vecchi bugiardi e le donne indifferenti all'amore. Se avesse inghiottito le case dalle porte chiuse e le zampe tagliate dei polli. Tu-tum tu-tum. Anche in quel caso il pozzo avrebbe inghiottito mio padre?

La sensualità della città si era improvvisamente placata. La sensualità della città era come un esercito di formiche che avanzava nelle vie e che, dopo essere penetrato ovunque, si era fermato. Sentii un ronzio nelle orecchie. Quando il rumore del treno si allontanò, alzai la testa dal posto dove ero sdraiato. Ero per terra? Quand'è che mi ero disteso sul cemento? Le bugie e gli ubriachi mi avevano stancato. Mi faceva male la testa. Mi tirai su a fatica. Appoggiandomi al muro allungai le gambe. Il collo, la schiena, il petto erano tutti sudati. Presi la bottiglia dell'acqua e bevvi. Che ora era? Mi voltai e guardai la grata. La luce che veniva dal corridoio mi bruciò gli occhi. Bevvi di nuovo. Che giorno era oggi? Avevo perso il conto. Non avevano ancora riportato dentro il Dottore e gli altri. Ero contento di aver avuto la crisi epilettica quando ero solo nella cella. Non avevo bisogno dell'aiuto di nessuno.

Guardai il muro di fronte. C'erano graffi, lettere incise e macchie di sangue. L'intonaco si era scrostato ed era caduto per terra. Chissà quando erano stati scritti quei graffiti. "Onore umano," diceva un messaggio; "Un giorno sicuramente!" diceva un altro, e poi: "Perché il dolore?" "Perché il dolore?" Quelli che arrivavano qui pensavano spesso a questo. Quando il dolore divideva il mondo nello stesso modo in cui divideva la mente, le persone pensavano a questo luogo come al luogo del dolore e alla Istanbul di sopra come al luogo del non dolore. Era l'epoca dei miraggi. Il miglior modo per nascondere una bugia era dirne un'altra. Il modo per nascondere il dolore nella città era creare dolore nei sotterranei. Le persone che erano chiuse in queste celle fredde sentivano la mancanza della confusione, delle strade di fuori. Quelli che erano in città, lontano dalle celle, provavano piacere nel dormire nei propri letti caldi. Istanbul era piena di persone asfissiate dall'infelicità che la mattina andavano al lavoro strisciando come lumache. Mentre fuori sui muri delle case crescevano radici che si appoggiavano ai muri delle celle sotterranee, gli abitanti di quelle case si aggrappavano a una falsa felicità. Era l'unico modo in cui Istanbul potesse reggersi in piedi.

"Controllo!" la voce della guardia risuonò per tutto il corridoio. Che cos'era? Si era aperto il cancello di ferro? "Tutti fuori! Tutti sulla porta!"

Non avevo la minima idea di che cosa stessero facendo.

Batterono sulle grate. Aprirono le porte delle celle a una a una. Avanzando nel corridoio arrivarono fino a me. Tolsero il chiavistello e illuminarono la cella. Mi bruciarono gli occhi e il mal di testa si fece piú forte. "Alzati! Vieni alla porta!" La guardia mi lasciò e andò alla cella successiva. Il rumore delle porte che si aprivano continuava.

Mi alzai e uscii. Tutti si erano messi in fila in corridoio. Gli uomini, la cui barba era tutt'uno con i capelli, e le donne con i volti tumefatti si guardarono. La guardia arrivò fino in fondo al corridoio, tornò indietro e aprì la cella di fronte alla mia. Mentre la porta si schiudeva, la ragazza che era dentro si alzò. Era Zinê Sevda, quand'è che era rientrata nella sua cella? L'avevano riportata dentro quando ero svenuto dopo la crisi? Era uscita e stava di fronte a me. Si vedeva che non dormiva da molto tempo. Non solo il volto e il collo, ma anche le dita erano gonfie. Una goccia di sangue le colava dal labbro inferiore. Pulì il sangue con la mano.

"Avanti, dai!" Guardammo i carcerieri che urlavano all'inizio del corridoio. Erano in molti. Avevano in mano bastoni e catene. Si erano tirati su le maniche, ci guardavano ridendo. "Ecco il vostro protettore, il vostro angelo custode!" Stavano trascinando qualcuno per i piedi attraverso il cancello di ferro. Lo lasciarono all'inizio del corridoio. Indossava solo un paio di mutande nere. Riconobbi il corpo imponente del vecchio Küheylan. Giaceva come un cadavere portato a riva dalla corrente. Era tutto insanguinato. I capelli bianchi erano macchiati di rosso. Lo avevano ucciso e quella era la sua tomba? Il corridoio fu attraversato da un mormorio. Si sentirono voci spaventate. Qualcuno mormorò: "Bastardi". Qualcun altro ripeté: "Bastardi". La guardia se ne accorse e venne verso di noi furiosa. Chiese chi aveva parlato e urlò per ottenere una risposta. Corse su e giú colpendo col bastone delle persone a caso. Denti rotti e schizzi di sangue sporcarono il corridoio.

Due carcerieri presero Küheylan sotto le braccia e cercarono di alzarlo. "Dai, stupido, cammina". Küheylan era vivo. I suoi lamenti riecheggiarono nel corridoio raggiungendo anche i prigionieri piú lontani, mentre noi aspettavamo immobili in silenzio. "Dai, idiota!" Küheylan mosse una mano e la tese in avanti come brancolando nello spazio vuoto. La testa reclinata, il collo grosso e le spalle larghe facevano pensare a un animale. Produsse un lamento che solo un animale ferito poteva emettere. La saliva gli colava dalla bocca. Le parole che mormorava erano un verso incomprensibile. Chi era adesso Küheylan? Quella creatura che si lamentava, chi era? Appoggiò un piede per terra e trascinò l'altro. I carcerieri lo lasciarono e lui si resse su un piede solo. Aspettò un po'. Respirò. Tirò avanti il piede che era rimasto indietro e lo portò di fianco all'altro. Alzò la testa. Il suo volto non assomigliava a un volto umano. Aveva le labbra gonfie e la lingua penzoloni. Le sopracciglia erano rotte e gli occhi chiusi pieni di sangue. Dalle ferite sul petto usciva del pus.

"Guardate bene!" disse uno dei carcerieri. "Guardate da vicino il nostro lavoro! Chi può sfuggire alla nostra giustizia?"

Il vecchio Küheylan assomigliava ai quei capitani che inseguivano la balena bianca in mare aperto, che lottavano contro le tempeste, ma ritornavano al porto sconfitti. Come in una delle storie raccontate dal padre. La sua nave era stata affondata, le vele fatte a pezzi. Come quei capitani, a ogni sconfitta fantasticava di nuovi viaggi. Trascinava i piedi insanguinati e sentiva nelle orecchie un turbinio di rumori. Pensò che il sangue che gli colava dal naso fosse acqua di mare. Era un sogno senza fine. Tutti cercavano la balena bianca nel mare aperto, ma Küheylan la cercava nel mare di Istanbul. Questo lo rendeva ubriaco di piacere e non aveva la forza di opporsi. Non voleva approdare su un'isola. Aveva cancellato le isole dalla cartina. Avrebbe conquistato i mari o si sarebbe fatto seppellire fra le onde. Sulla schiena aveva un'innumerevole quantità di tagli. Mentre trascinava i piedi pesanti sul cemento, alzò la testa come se avesse sentito un grido lontano. Cercò di capire la direzione del vento.

Küheylan stava percorrendo il cammino piú lungo della sua vita, quando Zinê Sevda, che mi stava in piedi di fronte, strinse i pugni. Sbatté le palpebre come una bambina e uscì lentamente dalla fila. Fece due passi in avanti verso il centro del corridoio. Si fermò di fronte a Küheylan dritta come un albero. Fra di loro c'erano cinque, sei metri. Tutti si girarono a guardare Zinê Sevda, mentre i carcerieri si guardavano tra di loro. Il silenzio invase il corridoio. Si sentiva solo il sangue di Küheylan che gocciolava sul cemento.

"Che cosa sta facendo?"

"Capo, quella è la ragazza che hanno portato dalle montagne".

Zinê Sevda si asciugò la fronte e le guance con la mano e si sistemò i capelli. Sotto gli sguardi curiosi, si chinò. Si inginocchiò davanti a Küheylan come una statua di marmo. Aprì le braccia. Aspettò di poter abbracciare quel corpo ferito che stava venendo verso di lei. Aveva le piante dei piedi martoriate e il collo era pieno di bruciature di sigaretta. Non era una sirena uscita dal mare che al tramonto su una roccia cantava una canzone, era una persona ferita. Küheylan riusciva a vederla? Con gli occhi ricoperti di sangue, riusciva a distinguere una ragazza inginocchiata di fronte a lui con le braccia aperte?

"Alzati, puttana!"

Zinê Sevda ignorò i carcerieri. Questa volta si asciugò con la lingua il sangue nero che le colava dal labbro. Aprì ancora di piú le braccia.

"Tirate su questa puttana!"

Dall'ingresso del corridoio si avvicinò un carceriere, che cominciò a sventolare il manganello. Si fermò davanti a Zinê Sevda. Buttò per terra la sigaretta che aveva in bocca e la schiacciò con la punta della scarpa. Mentre premeva la scarpa sul cemento guardò Zinê Sevda. Fece un ghigno, si intravidero i denti gialli. Fece un passo indietro e le diede un calcio nella pancia. Zinê Sevda volò via come un pezzo di legno e sbatté contro la porta della cella. Per un po' non si mosse. Si strinse la pancia con le mani e piano piano si alzò. Si inginocchiò di nuovo. Guardò Küheylan. Fra di loro c'era un vuoto immenso.

Con il piede, il carceriere lanciò la sigaretta in un angolo. Chinandosi, si avvicinò al volto di Zinê Sevda e, non vedendo reazioni, si rialzò. Aveva ancora il ghigno sulla faccia. Fece girare fra le mani il manganello come un giocattolo e poi lo alzò in aria. Era proprio davanti a me. Con un movimento afferrai la sua mano sollevata in aria. Il manganello rimase sospeso nel vuoto. Ci ritrovammo faccia a faccia. Figlio di cagna! Mi conosceva? Conosceva la canzone del coltello d'acciaio? Mi pulsavano le tempie. Mentre tutti tremavano immobili sul nudo cemento, la mia faccia bruciava come fuoco. Un martello mi batteva nella testa. Conosceva la canzone del coltello d'acciaio? Figlio di cagna! Cercò di liberare la mano spingendomi via. Quando si accorse che non aveva abbastanza forza, si mise a urlare.

 

2 Genere musicale turco sviluppatosi a partire dagli anni sessanta, in cui il pop turco si mescola alla musica araba moderna. [n.d.t.]

3 Fontenera. [n.d.t.]