Il vecchio Küheylan racconta: La risata gialla
"'Mandami tre mele, e che una sia morsicata'. Quando l'anziano cartografo navale tirò fuori da una piccola cassa le lettere della sua amata, morta anni prima, ripeté la frase che aveva appena letto: 'Mandami tre mele, e che una sia morsicata'. Dottore, ti ho già raccontato questa storia, vero? Stavolta te ne racconterò un'altra versione. Ascolta. L'anziano cartografo aveva viaggiato per i mari del mondo con le due eredità lasciategli dalla sua amata, la solitudine e una piccola cassa di lettere. In ogni continente disegnava nuove mappe, su ogni isola aggiungeva nuovi nomi alle mappe. Nel suo ultimo viaggio, che intraprese quando era un uomo dai capelli grigi, aveva pianificato di dire addio al mare e di trascorrere gli anni che gli restavano sulla terraferma. Per quanto rispettasse i marinai che avevano destinato le loro anime alle onde, il cartografo sognava di poter essere seppellito accanto al suo amore di gioventú. L'aveva raccontato al navigatore con cui condivideva la cabina. Al navigatore non interessava morire in mare o sulla terraferma, voleva solo morire al momento giusto. 'Io vado con l'ora di quest'orologio,' e così dicendo tirò fuori dalla tasca un orologio e ne accarezzò dolcemente il coperchio. Nel rivestimento di rubini sul coperchio dell'orologio si nascondeva un segreto che non era mai riuscito a decifrare, o forse gli piaceva credere all'esistenza di un tale segreto. Era una notte stellata. Quando una forte onda colpì la nave sul fianco, sentirono qualcosa rompersi all'esterno. L'anziano cartografo e il navigatore uscirono dalla cabina e risalirono le scale che portavano sul ponte. Quando videro il cielo ricoperto di stelle luccicanti, si fermarono a contemplarle con un'espressione che sembrava piú quella di bambini affascinati dal firmamento che di uomini vissuti che avevano passato la vita in mare. Guardarono la Via Lattea che scorreva lentamente. L'anziano cartografo indicò un punto in cui le stelle curvavano sinuose come un fiume. 'Guarda,' disse al navigatore, 'non assomigliano al disegno sul tuo orologio?' L'altro tirò fuori l'orologio e fecero un confronto. Videro che i rubini rossi sul coperchio luccicavano e che erano un esatto riflesso delle stelle che ruotavano nell'arco del cielo. 'È proprio così,' disse l'anziano cartografo, 'l'ora e i movimenti del tuo orologio sono giusti'. Le nuvole aumentarono velocemente e coprirono il cielo. Le vele ululavano e le cime schioccavano come fruste. La nave, diretta verso l'oceano, veniva trascinata dal vento come una foglia. La pioggia batteva da ogni parte e tirava un vento forte. Cominciarono a preoccuparsi. Seguendo le istruzioni che il capitano urlava in mezzo alle grida di panico, cercarono di riportare il timone sulla rotta giusta e di regolare le vele. Correvano di qua e di là allentando e stringendo le cime. Per tre giorni il diluvio continuò, incessante, e il cielo non si rischiarò mai. Vennero sbattuti da una parte e dall'altra, trascinati forse verso l'oceano, forse verso un mare che non era mai stato navigato prima. Quando, alla fine del terzo giorno, il mare si calmò, calò il vento e in cielo ricomparvero le stelle, credettero che la tempesta fosse finita. Tentarono di capire dove si trovassero. Cercarono un pezzo di terraferma dove poter riparare le vele strappate e rifornirsi di acqua potabile, che era fuoriuscita dai barili rotti. Il capitano guardò a una a una le mappe che aveva davanti a sé e seguì le stelle. Alla fine trovò una vecchia mappa le cui linee corrispondevano alla posizione delle stelle in cielo. Puntando l'indice sul mare nell'angolo della cartina, disse: 'Ecco dove ci troviamo,' e aggiunse: 'A un giorno di navigazione da qui c'è un'isola, possiamo arrivare fin là'. Il cartografo e il navigatore, che erano accanto al capitano, si lanciarono un'occhiata. Avevano dei dubbi sull'isola dipinta di blu che il capitano aveva indicato. 'Capitano,' dissero, 'non dovremmo andare troppo fuori dalla nostra rotta. Assomiglia a una di quelle false isole disegnate dai cartografi impazziti per amore'. In passato era infatti accaduto che alcuni cartografi disegnassero isole negli spazi vuoti delle mappe, cui davano il nome delle loro amate. In questo modo lasciavano nel mondo una traccia del loro amore. Tra i marinai circolavano molte storie di disillusione a proposito di navi dirette verso queste false isole disegnate sulle mappe. Sebbene l'anziano cartografo e il navigatore avessero dei dubbi su quell'isola, non dissero altro. Sapevano entrambi che era stato l'anziano cartografo a disegnarla anni prima, durante la sua giovinezza. Ma non potevano rivelarlo, temevano la rabbia del capitano e avevano paura che li avrebbe fatti legare mani e piedi e gettati in mare. I due amici andarono in cabina. Chiacchierarono tutta la notte. 'La prima volta che ho visto la ragazza che avrei amato, è stato al mercato del paese,' raccontò l'anziano cartografo. 'Ero un adolescente. Le scrivevo delle lettere. Ho letto e riletto le lettere che lei mi scriveva e inviava in segreto per paura dei suoi fratelli buoni a nulla. La prima volta che affrontai l'oceano le dissi che le avrei portato un regalo che non avrebbe mai dimenticato. Il mio piano era cacciare balene e guadagnare un po' di soldi per poter, al ritorno, prendere la mia amata e scappare lontano. La mia amata era bella, esile e delicata. Si ammalò quando ero in viaggio. Per giorni rimase a letto con la febbre. Alla fine, il suo corpo fragile come vetro non ce la fece. Ritornato dal mio viaggio, andai al cimitero. Scavai una fossa accanto alla sua tomba. Per tutta la notte lavorai alla mappa che avevo fra le mani. In una zona di mare deserto disegnai un'isola bellissima, la colorai di blu e le diedi il nome della mia amata. Fino a quando il mondo avrebbe continuato a girare, io avrei cercato l'isola che portava il nome della mia amata. Con questo sogno me ne andai per mare'. Con il petto rivolto alle onde, la nave bianca senza vele scivolava sull'acqua, facendosi strada verso la costa deserta della mappa. L'anziano cartografo e il navigatore andarono a dormire all'alba. Si persero nei loro sogni. Quando verso sera raggiunsero le acque dove il cartografo aveva disegnato la sua falsa isola, si risvegliarono al grido di 'terra!' Terra? Com'era possibile? L'anziano cartografo non poteva credere alle proprie orecchie. Salì di corsa sul ponte. Nella nebbia scorse una città blu che si mostrava con le sue mura, le sue cupole e le sue torri. 'Istanbul,' disse mormorando il nome della sua amata scomparsa, 'mia amata Istanbul'. Guardò con ammirazione e stupore quell'isola che, disegnata con le sue mani sulla mappa tanto tempo prima, era diventata reale. Gli cedettero le ginocchia e cadde a terra. Con un'espressione pienamente soddisfatta sorrise al navigatore che lo sosteneva. Si chiese se ciò che vedeva fosse vero. 'Quell'isola di fronte è l'isola che non è mai esistita e che io ho donato alla mia amata Istanbul?' I gabbiani volavano verso la nave, soffiava una leggera brezza. L'anziano cartografo morì lì e, come da tradizione marinara, il suo corpo fu consegnato all'immensità delle acque. Col passare degli anni, gli abitanti di Istanbul, credendo che la loro città fosse reale, ma la nave nella nebbia un sogno, raccontarono un numero infinito di storie sul capitano, sul cartografo e sul navigatore della nave bianca".
Ero solo nella cella, ma parlavo come se il Dottore fosse seduto di fronte a me.
Offrii al Dottore la sigaretta che avevo arrotolato a fatica con le dita ferite. Tirai fuori i fiammiferi e accesi prima la sua e poi la mia. "Gli abitanti di Istanbul credono che la loro città sia reale, ma non sanno di vivere sulla mappa della nave bianca," dissi. Feci un tiro profondo e soffiai fuori il fumo nell'aria. "Che ne dici, Dottore? Ti piacerebbe disegnare un'isola su una cartina e poi andartene per mare a caccia di balene?"
Fin dall'infanzia, Istanbul è stata anche la mia isola segreta. Quella notte d'inverno in cui mio padre ci raccontò la storia dell'anziano cartografo, tirai fuori dal mio zaino la cartina, vi disegnai sopra un'isola, la immaginai con gioia e mi legai a lei con amore. Era un periodo in cui mi sembrava che le persone scegliessero di vedere al posto di capire. Ovunque, il mondo stava cambiando. Le persone si erano dimenticate come si fa ad amare senza vedere. Non avevano un'isola da sognare e non sapevano cosa stavano cercando. Non riuscivano a capire come avessi potuto amare questa città da lontano per tanti anni, avendo cancellato dalla loro memoria l'idea di conquista. Ogni conquista si aggrappa a un sogno e segue il proprio cammino. La strada di Gesú era diversa da quella di Alessandro Magno. Alessandro voleva conquistare la città, Gesú i suoi abitanti. Il mio sogno era conquistare sia la città sia i suoi abitanti e, insieme, salvarli entrambi. Istanbul ne aveva bisogno.
Tutti raccontavano la bellezza di Istanbul, nessuno riusciva a viverci felicemente. L'incertezza, l'egoismo e la violenza oscuravano la sua bellezza. La città era l'espressione della bellezza e dell'integrità che l'essere umano cercava nel mondo. Da tempo Dio non bastava piú per questo. Gli esseri umani lottavano per creare una natura nella città e volevano viverci dentro. Dio non aveva forse fatto lo stesso? Non aveva creato il cielo, la terra e l'uomo per comprendere il suo stesso significato? Erano passati secoli. Le cose erano cambiate. Il caos aveva cominciato a buttare fuori Dio. Se per buttare fuori Dio c'era bisogno di tirare dentro qualcosa, gli esseri umani stavano costruendo questo qualcosa nella città. Gli uomini, dispiegando la loro vera natura, stavano costruendo inconsapevolmente una nuova era. Così era nata anche la malinconia. Non era la malinconia delle persone, ma di Dio che non riusciva ad adattarsi ai nuovi tempi. La cosa che aveva temuto di piú dall'epoca della Torre di Babele, si stava realizzando.
I membri di una tribú al di là del mare avevano deturpato e sfigurato i volti dei loro bambini per non farli prendere dal nemico che li avrebbe ridotti in schiavitú. In questo modo, i bambini erano rimasti liberi. Nella loro lingua, bruttezza e libertà avevano lo stesso significato, bellezza e schiavitú si esprimevano con la stessa parola. Anche gli abitanti di Istanbul vivevano con la paura di perdere la loro città e facevano di tutto per distruggerne la bellezza. Sopra e sottoterra affondavano nel dolore, si attaccavano al male. Chiamavano libertà il deturpamento della città. Non riuscivano a vedere che il fine ultimo del male era distruggere la bellezza. Ma Istanbul riusciva a sentirlo. Opponeva resistenza alla stupidità umana. La grande città resisteva da sola, tentando di difendere la propria bellezza.
Il bene era moralista. La giustizia era calcolatrice. La bellezza invece era infinita. La bellezza era in una parola, in un volto, nelle crepe di un muro intriso di pioggia. Anche se non la vedevano, era nei sogni delle persone e in un significato sconosciuto. Da sempre gli uomini, stanchi di scoprire la natura selvaggia, avevano cominciato a creare la propria natura nelle città e dedicato la loro vita al vetro, all'acciaio e all'elettricità. Avevano acquisito un gusto per la creazione. Guardandosi allo specchio, si dicevano: "Io non sono uno scopritore della natura, ma un creatore della città". Avevano eliminato il conflitto fra l'essere umano e la natura e unito lo spirituale e il materiale. Avevano fatto coincidere i diversi tempi e luoghi. Contemplando la città non vedevano solo il passato, ma anche il futuro. Poi, si stancarono di correre veloci. Diventarono pessimisti. Persero ogni speranza. Si abbandonarono alla bruttezza che c'era nella bellezza, alla povertà nella ricchezza. Erano esausti. Si accorgevano che la bellezza della città stava morendo? In tal caso, avrebbero dovuto ridare vita a quella bellezza. Sentivano che la vita nella città stava perdendo senso? Dovevano ridare senso a quella vita. La passione stava finendo, non c'erano piú segreti? Avrebbero dovuto circondare la città di passione e, invece di abbatterla, conquistarla di nuovo.
Raccontai questo al Dottore guardando il muro vuoto di fronte a me. Portai alla bocca la finta sigaretta che avevo fra le dita. Feci un tiro. Nonostante fossi stato attento, quando la cenere cadde per terra, sospirai. Cercai di prenderla con la punta delle dita. Si fece piú fine e si sparse. Ero di nuovo infastidito.
Questo senso di fastidio era iniziato quando, di ritorno dall'interrogatorio, non avevo trovato Kamo il Barbiere in cella. La guardia a cui avevo chiesto cosa gli fosse successo non mi aveva risposto, sbattendomi la porta in faccia. Non c'erano neanche il Dottore e Demirtay lo Studente. Non li vedevo da due giorni. Erano ritornati in cella mentre mi stavano interrogando? Si erano riposati e avevano dormito un po'? Ma non vedevo nessun segno della loro presenza. La bottiglia dell'acqua non era stata spostata, era nello stesso angolo di prima. Toccai con le mani il muro e la porta, ma non trovai macchie di sangue fresco. Anche la cella di fronte era vuota. Steso per terra, avevo buttato sotto la porta un bottone, ma Zinê Sevda non aveva risposto e anche se avevo aspettato in piedi sulla mia unica gamba buona davanti alla porta della cella per qualche minuto, lei non era venuta alla grata.
Sentii da lontano un rumore sordo. Il colpo, che veniva da oltre i muri, i corridoi e le porte di ferro, somigliava al rumore di una pistola Browning. Quando si ripeté, capii che la mia ipotesi non era sbagliata. Cambiai posizione. Sorreggendomi al muro, mi alzai in piedi. Trascinando la gamba ferita come fosse un sacco pieno di pietre, mi avvicinai alla porta. Mi aggrappai alle sbarre della grata. Nella speranza di vedere qualcosa guardai fuori. Il corridoio era vuoto. Non c'erano ombre che ondeggiavano alla luce bianca e non si sentiva nemmeno respirare. Da che parte era arrivato il rumore della pistola? E poi, chi aveva sparato?
Mi vennero in mente due possibilità. L'obiettivo di quell'esplosione era forse il Dottore, il quale, l'ultima volta che ci eravamo visti, aveva detto: "Anche la morte è una buona cosa"? Oppure l'ingenuo e pensieroso Demirtay, o l'arrabbiato Kamo, o la testarda Zinê Sevda? Se uno di loro ne avesse avuta l'opportunità, se avesse afferrato una pistola e vagando per gli intricati corridoi avesse affrontato uno scontro, fin dove sarebbe potuto arrivare? Come avrebbe potuto trovare la strada in mezzo a quei corridoi?
Ma c'era un'altra possibilità: la Istanbul di sopra non ci aveva dimenticati. Ai giovani che si erano salvati negli scontri della Foresta di Belgrado se n'erano aggiunti altri. Avevano giurato di porre fine alle nostre sofferenze e di salvare chi soffriva. Stavano venendo ad aiutarci. Fra di loro c'erano anche il giovane figlio del Dottore e Mine Bade.
I rumori ricominciarono, si sentirono degli spari a ripetizione. Il colpo della Browning si confuse con i proiettili di una Beretta, una Walther e una Smith&Wesson. Il corridoio rimbombava. Distinguevo ogni pistola allo stesso modo in cui distinguevo ogni animale selvatico del Monte Haymana dove avevo trascorso la mia vita. Tesi le orecchie. L'ansia crebbe quando mi ricordai il tipo di ferita che ognuna di quelle armi poteva infliggere al corpo umano.
Ero preoccupato per i miei amici. Come stavano adesso? Erano salvi o morti? Pensai che potevano essere entrambe le cose al tempo stesso. Siccome non potevo vederli, per me erano sia vivi, sia morti. Respiravano e insieme giacevano a terra senza vita. I muri fra di noi rendevano vera ogni possibilità. Lo stesso valeva per chi combatteva contro di noi. Coloro che si erano fatti avanti, armati fino ai denti, potevano essere sia quelli che venivano a salvarci, sia quelli che cercavano di ucciderci. Non sapevo altro. Fino a quando non ne avrei saputo di piú, tutte le possibilità erano ugualmente probabili. Lo stesso valeva anche per la nostra cella sotterranea, vista da sopra. Gli abitanti di Istanbul, venuti a conoscenza della nostra sofferenza, camminavano per le strade tristi e disperati e, pensando a noi, valutavano due possibilità. Potevamo essere vivi o potevamo essere morti. Forse respiravamo, forse giacevamo a terra senza vita.
Mi misi nei panni di quelli di sopra. Per un attimo mi guardai con i loro occhi e non sapevo cosa pensare. Mi sentivo sia vivo sia morto, come se fossi stato entrambe le cose insieme. Mentre ero perso nei miei pensieri e attratto dalla luce bianca del corridoio come una falena, i rumori cessarono. Intorno calò il silenzio. La cella ritornò quieta come prima. Continuai ad aspettare che da un momento all'altro qualcuno arrivasse dal fondo del corridoio. Per riuscire a rimanere in piedi ancora un po', mi sostenni alle sbarre della grata. Chiusi gli occhi affaticati dalla luce. Sentii sbattere la porta di una cella nel corridoio posteriore.
"Guardia!" si sentì chiamare. Qualcuno in una cella dietro la nostra aveva bisogno di aiuto. "Guardia!" Cercai di sentire cosa avveniva in corridoio. Aspettai il rumore dei passi della guardia. Adesso la guardia si sarebbe alzata dalla sedia, sarebbe uscita dalla sua stanza e sarebbe venuta avanti sul cemento con i suoi tacchi rumorosi. Passando per il corridoio posteriore, si sarebbe fermata davanti alla porta della cella. Avrebbe tolto il chiavistello, aperto la porta e cominciato a imprecare. Ma la guardia non si mosse. Non si alzò dalla sedia, non batté i tacchi sul cemento. Le richieste provenienti dalla cella sul retro rimasero senza risposta. Il corridoio era di nuovo ripiombato nel silenzio. Ero troppo stanco per continuare ad aspettare. Appoggiai la schiena al muro. Spostando il peso sulla gamba sana, mi lasciai lentamente scivolare in basso. Mi sedetti per terra con le gambe aperte e tirai un profondo respiro.
Mi accorsi allora che perdevo sangue dal naso. Presi il pezzo di stoffa dal pavimento e mi asciugai.
Non avevo fame. Avevo sonno. Mi si era seccata la gola dalla sete. Invece di passare il tempo a guardare il muro vuoto davanti a me, preferii parlare col Dottore. Feci finta di tirare fuori il tabacco dalla tasca. Mentre mi arrotolavo una sigaretta fra le dita rovinate, decisi di andare a chiacchierare a casa del Dottore. Immaginai di sedermi con lui nel suo posto preferito, il balcone con vista sul Bosforo. Gli offrii una sigaretta piena di tabacco. Ne feci una anche per me. Presi l'accendino dal tavolo e le accesi. Trattenni per un po' il fumo, per poi espirarlo verso il cielo blu, così raro all'inizio dell'inverno a Istanbul. Tenni lontani dalla mia mente i rumori degli spari. Ascoltai i clacson delle macchine sotto, i fischi dei traghetti e i gridi dei gabbiani.
Sul tavolo con la tovaglia di pizzo c'erano piatti di verdure piccanti, formaggio e sottaceti. La rucola era fresca. Lo yogurt, cremoso. Sui ravanelli c'era il limone. Le olive erano condite col peperoncino. Il pane era affettato e alcune fette erano tostate. La brocca dell'acqua era piena a metà. Nei lunghi e delicati bicchieri, il ghiaccio era stato aggiunto al raki che, assunto il colore delle nuvole, aveva cominciato a raffreddarsi. Il tabacco, l'accendino e il posacenere erano uno accanto all'altro. La tovaglia bianca con gli inserti di pizzo ai lati era chiaramente un cimelio dei tempi andati.
Era una giornata tiepida. Il Dottore era tranquillo e felice. Una vecchia canzone popolare turca proveniva dall'interno. Quella che cantava era la moglie del Dottore morta anni prima, che però non aveva mai lasciato la casa. "Il mio cuore appartiene a te," diceva con voce potente, "è tutto tuo. Anche se la mia vita è passata e i miei capelli sono grigi, tu sei tutto per me, sei gioia, sei vita," cantava. Le parole della canzone gocciolavano come acqua dal balcone e scorrevano lungo le grondaie fino al suolo. Nel palazzo, nel giardino sotto e per la strada non c'era niente che non rievocasse quel desiderio. I venditori ambulanti gridavano con la solita voce. Le eliche dei traghetti e le ruote delle macchine giravano con il solito stridio. I tetti erano tutti in fila e scendevano come gradini verso il mare. Le onde si sollevavano e si abbassavano in armonia con la canzone. I capitani fecero suonare le sirene delle loro navi l'una dietro l'altra, come se ci avessero visto e avessero sentito la canzone.
Il Dottore sollevò il bicchiere prima verso di me e poi verso il mare. Quando vide che lo imitai, sorrise. Buttò giú il suo raki.
"Hai fatto bene a venire, Küheylan," disse.
"Anch'io sono contento di essere venuto," risposi.
"Sei riuscito a vedere abbastanza la città?"
"Una lunga vita e dieci giorni mi sono bastati".
"Sono contento".
"Posso morire in pace, Dottore. Mi sento tranquillo".
"Perché parli di morte? Pensiamo a cose belle. Auguriamoci di ritrovarci spesso a questa tavola e di bere raki guardando il mare".
"Beviamo ai bei giorni".
"Ai bei giorni..."
Facemmo tintinnare i bicchieri.
Guardammo le sedie vuote, i fili della biancheria e le tegole del tetto sulla terrazza del palazzo di fronte. Non c'era foschia. Il cielo era terso. Tranne un pezzetto di nuvola sulla collina di Çamlica, tutto era azzurro. Si vedevano persino le case e i boschi dell'isola di Kinali. Un'ora dopo, il sole sarebbe tramontato sulla destra e avrebbe colorato il cielo di arancione.
"Tra un po' sarà sera e una magica coperta ammanterà tutto," dissi.
"Magica? Cos'è rimasto di magico a Istanbul?"
"Dottore, ho applicato alla magia quello che tu hai detto qualche giorno fa a proposito della speranza. La magia è meglio di quello che abbiamo".
"Speranza o magia, chiamala come vuoi, non basterà a salvare la bellezza di Istanbul. Ti dico questo, Küheylan. Le persone si sono stancate, vogliono andarsene di qua".
"Dottore, le persone vogliono andarsene perché non è piú possibile vivere qui. Ma dovremmo guardare Istanbul per capire se è una città degna di essere creata, piuttosto che vissuta".
"Quale parte di Istanbul sarà creata? La sua bellezza oltraggiata?"
"Anche solo per ricreare la sua bellezza, sarebbe necessario conquistarla".
"Conquistarla... ne sei ancora convinto?"
"Certo".
"Anche dopo quello che hai visto negli ultimi dieci giorni..."
"Ne sono ancora piú convinto".
"Penso che sia il caso di brindare".
"Oggi brindiamo a tutto quello che ci viene in mente".
Ci rilassammo piacevolmente sulle sedie.
A destra vedemmo uno scialle rosso che volava sopra i tetti. Lo scialle era spinto dal vento verso il mare. A volte si increspava, a volte si distendeva. Fluttuava come gli uccelli dalle grandi ali spiegate. Si vedeva che non voleva fermarsi su un tetto, ma volare verso il mare. Immersi nel rosso accattivante dello scialle, pensammo a posti lontani.
"Küheylan, a volte mi sento confuso. Sono dieci giorni che ci conosciamo, ma mi sembra di conoscerti da sempre. E tu?"
"Anch'io mi sento come se avessimo girato insieme per tutti i quartieri di Istanbul e avessimo chiacchierato per anni. E piú parliamo, piú cose abbiamo da raccontarci".
"Forse stiamo invecchiando..."
"Io sono già vecchio, Dottore, tu pensa a te".
"Ma la tua mente è affilata come un rasoio. Stai meglio di me".
"Non dimentico quello che imparo, è vero. Per esempio, il libro di cui mi hai parlato mi è rimasto in testa, sono giorni che ci penso".
"Quale?"
"Il Decamerone".
"Hai memorizzato il titolo".
"Sì, non posso dimenticarlo".
"E non puoi dimenticare neanche le storie divertenti che contiene".
"Dottore, tutte le storie divertenti di quel libro che ci hai raccontato, mi ricordano ciò che una volta disse mio padre. Di ritorno da uno dei suoi viaggi a Istanbul, ci raccontò di essere stato in una cella sotterranea, e narrò di un'isola di cui aveva sentito parlare da un marinaio nella cella. Secondo le abitudini di quell'isola, quando qualcuno moriva ci si riuniva tutti a casa del morto a piangere e lamentarsi fino a mezzanotte, dopodiché ognuno se ne tornava a casa. A quel punto la famiglia del defunto, rimasta sola, cominciava a raccontare storie divertenti sul conto del morto. A ogni storia, tutti ridevano e mentre i racconti proseguivano, le lacrime uscivano dagli occhi. Le chiamavano le risate gialle. Le risate che fanno dimenticare la morte hanno un colore giallo. Che ne dici, Dottore? Pensi che sia il loro bisogno di risate gialle a far sì che i giovani nobili del Decamerone si raccontino storie divertenti quando sentono l'alito della morte sul collo?"
"Forse," disse, ma non continuò. Si alzò per rispondere al telefono in sala. Anche ridere era meglio di quello che avevamo: una delle lezioni che avevamo imparato dalla vita era questa. Rimasto da solo sul balcone, estesi la frase al cibo che avevo di fronte a me: il formaggio e i sottaceti erano meglio di quello che avevamo. Il raki era meglio di qualunque altra cosa. Risi fra me e me. Bevvi un sorso. Posato il bicchiere sul tavolo, mi misi in bocca un cetriolino sottaceto. "Che bello vivere a Istanbul," dissi. Indirizzai il mio sguardo verso una piccola barca di pescatori che ondeggiava come una scatola di fiammiferi nel punto in cui la corrente del Corno d'Oro e quella del Bosforo si incontravano. Quando il cielo dietro ai minareti e ai palazzi sulla sponda occidentale stava ormai assumendo diverse sfumature di rosso, mi accorsi che la foschia che proveniva dalle isole stava venendo verso di noi e che presto sarebbe stata sopra la barca dei pescatori. Spalmai le verdure piccanti sopra a una fetta di pane tostato.
Quando il Dottore ritornò al tavolo bevemmo l'ultimo sorso di raki e riempimmo di nuovo i bicchieri.
"Era mio figlio," disse, "ha chiamato per dire che questa sera non verrà".
"Il nostro giovane dottore? Avrei proprio voluto che venisse. Volevo vederlo".
"Anche lui è curioso di conoscerti, Küheylan, ti saluta".
"Grazie".
"I giovani. Fanno quello che vogliono. Impossibile capirli. Probabilmente aveva qualcosa di importante da fare".
"La sua ragazza come sta? Mine Bade..."
"Bene, penso. Non l'ho ancora conosciuta. Stasera dovevano venire insieme e ci saremmo incontrati".
"Non era destino, Dottore. La prossima volta..."
"Prossima?"
Il Dottore fece una pausa come se fosse stato brillo. Guardò il mare sopra i tetti. Tenne il bicchiere stretto con entrambe le mani. Intrecciò le dita. Si chinò in avanti. Incurvò le spalle. Guardò la corrente del Bosforo che scorreva dolcemente. Per sentire meglio la voce della moglie che cantava, girò la testa di lato. Chiuse gli occhi. La accompagnò canticchiando. Piegò la testa sulla spalla. La sua voce si attenuò, e rimase in silenzio. Fece un profondo respiro. Aspettò. Quando ormai pensavo che si fosse addormentato, si tirò su e aprì gli occhi. Mi guardò tristemente. Mi guardò prima da vicino e poi da lontano come se dubitasse della mia esistenza.
Bevve un sorso di raki.
"Stai bene, Dottore?"
"Avrei voluto conoscere la ragazza di mio figlio. Magari fosse venuta anche Mine Bade stasera".
"Se vediamo una stella cadente, esprimeremo un desiderio al posto loro".
"Penso che vedremo la nebbia e non le stelle, Küheylan. La tua magica Istanbul tra poco sarà avvolta dalla nebbia".
Si sentì un susseguirsi di spari.
Non riuscimmo a capire da dove provenissero. Prima guardammo le case di fronte e poi, sporgendoci dal balcone, guardammo la strada tre piani piú giú. L'intenso traffico della sera, i bambini che camminavano velocemente e i lampioni che cominciavano ad accendersi, tutto sembrava normale. Dai balconi o dalle finestre delle altre case nessuno si era sporto a guardare. Le terrazze e le tende chiuse erano rimaste tali e quali.
"Era il rumore di una pistola?" chiese il Dottore.
"Non credo," dissi, per non farlo preoccupare. "Lascia perdere. Godiamoci il nostro raki".
Bevvi metà bicchiere. Volevo ubriacarmi prima possibile. Guardai le finestre lontane colpite dal sole della sera, come se fosse la prima volta che le vedevo.
"Küheylan," disse il Dottore, "tuo padre aveva detto che in cielo c'è un mondo che assomiglia al nostro. Ieri ho raccontato questa storia a mio figlio. Gli è piaciuta, ma come sempre la pensava al contrario di me. 'Dovremmo cercare il mondo che ci assomiglia non in alto, ma in basso. Sottoterra, vicino a noi, senza andare lontano,' ha detto. 'Là le persone soffrono, si agitano e cercano una via d'uscita. Sono deboli e stanche. Guardano in su come per guardare il cielo. Fantasticano su di noi e ci danno voce. Per ognuno di noi c'è un doppio sottoterra. Se tendessimo le orecchie, li sentiremmo. Se guardassimo un po' in basso, potremmo vederli'".
"Forse il doppio di mio padre a Istanbul è tuo figlio. È rinato. Che ne dici, Dottore?"
Scoppiammo a ridere insieme. Ci lasciammo scivolare sulla sedia. Mio padre era morto, suo figlio era vivo. Il colore delle nostre risate, ingiallendosi sulla linea tra la morte e la vita, scorreva come un fiume nel mare di Istanbul. A una a una, le luci si stavano accendendo. Mentre il Topkapi e la Torre di Leandro si illuminavano, la Caserma di Selimiye e la Stazione di Haydarpasa rimasero nella nebbia. Le navi rallentarono e i fischi dei traghetti diventarono piú lunghi. Le barche dei pescatori tornarono a riva. La notte e il giorno, la realtà e l'illusione si confusero. Ogni cosa nascondeva in sé il suo contrario. Man mano che la notte copriva il colore del giorno, l'illusione annunciava una nuova realtà. La città, che si stendeva come un corpo nudo, si era ricoperta di una coltre morbida di seta e lana ricamata di fili d'argento. Ma se un villaggio rappresenta l'infanzia della vita e la città l'età adulta, gli abitanti di Istanbul vivevano ancora in purgatorio come adolescenti problematici. Non riuscivano ad assumere l'espressione adatta alla bellezza. Si aggiravano nervosi di giorno e andavano a letto ansiosi la notte. Si erano dimenticati che volere una bella città era come volere una bella vita.
Il Dottore, che agitava le mani mentre rideva, urtò la caraffa dell'acqua. Riuscì a prenderla appena in tempo, prima che cadesse per terra. Quando si asciugò la mano, scoppiò di nuovo a ridere. Con le risate gialle tutto aveva preso una tonalità gialla. L'acqua nella brocca e il pane nel cestino diventarono gialli. Le sedie della terrazza di fronte furono avvolte da un vento giallo. I gabbiani che dal mare volavano verso la costa spiegarono le loro ali nel vuoto giallo. Mentre le navi scaricavano il loro carico giallo al porto di Istanbul, le basi del ponte sul Bosforo si illuminarono di giallo.
Ricordare durava sempre molto, ma la vita durava poco. La memoria del Dottore era piena di ricordi ombrati di giallo. Ogni parte della città lo trasportava sempre in un altro tempo, ogni sorso di raki lo immergeva in un altro ricordo. Anche il colore del ghiaccio nel raki era giallo.
Appena sentimmo bussare alla porta, ci guardammo.
"Finalmente è arrivato," disse il Dottore.
Lasciò il suo bicchiere sul tavolo. Si alzò senza fretta. Andò ad aprire.
Ascoltai le voci alla porta.
"Demirtay," disse il Dottore, "dov'eri finito?"
"Qui non ho trovato nemmeno un pesce come si deve. Sono stato costretto ad andare a Kumkapi," rispose Demirtay lo Studente.
"Cosa hanno i pesci di qua?"
"Non vi avevo promesso che avrei portato il pesce piú buono di Istanbul?"
"Sono le sei e arrivi solo adesso".
"Le sei? Il tuo orologio da muro non funziona bene, Dottore. Il mio fa le sei meno dieci".
"Smettila di prendermi in giro. Porta le buste in cucina".
"Ho preso anche l'insalata".
"Sarai punito per essere arrivato in ritardo. Mentre io preparo il pesce, tu ti occuperai dell'insalata".
"Lo farò con piacere. Il vecchio Küheylan non è ancora arrivato?"
"Pensi che siano tutti come te?"
"È arrivato? E dov'è?"
"Sul balcone".
Demirtay raggiunse il balcone, eccitato. Senza darmi la possibilità di alzarmi, mi abbracciò. Affondò la testa sulla mia spalla. Sentii il battito del suo cuore. Pensai a come la vita fosse bella quando si è giovani. Possa la morte non toccarlo... Volevo che nessuno portasse via Demirtay dalle mie braccia. Aspettai fino a quando il battito del suo cuore non ritornò normale. Gli presi le mani, gliele strinsi fra i miei palmi.
"Ti vedo bene," dissi. "Hai messo su qualche chilo. Ti stai facendo crescere i capelli?"
"Sì, cercherò di farli crescere come i tuoi fino alle spalle".
"Allora ci faremo una foto insieme".
"Sarebbe bello. Non abbiamo neanche una foto di noi due".
"Hai le mani fredde come il ghiaccio, Demirtay".
"Come sempre".
"Prendi un maglione dentro casa. Berremo raki insieme sul balcone. Non voglio che tu abbia freddo".
"Adesso me ne metto due, di maglioni".
"Buona idea".
Il sole era sceso e il balcone era gelato. L'aria si era raffreddata. Se non avessi avuto un maglione di lana, avrei sentito freddo anch'io.
"Küheylan, ho dei pettegolezzi freschi freschi per voi. Quando saremo a tavola, vi dirò quale cantante vendeva pesce quando era giovane e chi ha lasciato la musica per tornare a vendere pesce con l'amore della sua infanzia. Ho saputo dai pescivendoli in quale palazzo è nascosta la mappa del tesoro sepolto sotto lo Stadio Inönü e ho scoperto chi ha truccato l'ultima corsa di cavalli. Vi racconterò tutto".
"Ti ascolteremo con piacere. Ma adesso vai ad aiutare il Dottore, non farti sgridare".
"Vado".
Demirtay entrò nel soggiorno, ma non fece in tempo a uscire che era già di ritorno.
"Küheylan," disse, "stavo per dimenticarmene".
"Che cosa è successo?"
"Quando ci siederemo a tavola, oltre ai pettegolezzi vi dirò la soluzione dell'indovinello".
"Quale indovinello?"
"L'indovinello su Jean e Filiz, la storia che i passeggeri del traghetto avevano letto per giorni e giorni sui quotidiani. Filiz era sia la moglie di Jean, sia la figlia, sia la sorella. Questo lo sappiamo. Ma le ultime notizie erano che Filiz fosse anche la zia di Jean. Ti ricordi?"
"Certo".
"L'ho risolto".
"Davvero?"
"Anche voi rimarrete stupiti".
"Sono già curioso".
"Ma voglio un premio".
"Che premio?"
"Visto che mi tocca preparare l'insalata per essere arrivato in ritardo, dovrete darmi un premio per aver risolto l'indovinello. Non sei d'accordo?"
"Mi sembra che abbia senso. Chiediamolo anche al Dottore".
"Lo convincerò io in cucina".
"Dai, vediamo se ci riesci".
Demirtay entrò in casa. Mi lasciò da solo sul balcone. Mi persi a contemplare Istanbul che produceva e riproduceva sofferenze e dolore ogni giorno, ma allo stesso tempo creava sogni e speranze. Come le anime tormentate che salivano sul ponte sul Bosforo per suicidarsi e contemplavano la vista per l'ultima volta, o come gli amanti che mano nella mano la vedevano per la prima volta, guardai il Palazzo di Dolmabahçe, il Palazzo di Sepetçiler e il Ponte di Galata. Guardai i quartieri di gecekondular sulle povere colline della parte asiatica che si preparavano a essere avvolti da una nebbia bianca. Istanbul era una città con un milione di celle e ogni cella era Istanbul. Una parte era nel tutto e il tutto in una parte. Vicino era lontano. Lontano era vicino. Tutto era sterile e fertile.
In questa città, ogni sofferenza fisica era accompagnata da una pena dell'anima. La folla e la solitudine erano ugualmente opprimenti. La sofferenza d'amore competeva con la povertà. Le difficoltà della vita avanzavano di pari passo con l'età. Le malattie contagiose andavano a braccetto con le paure contagiose. I bambini crescevano pensando di avere fibre ottiche sotto la pelle al posto delle vene, e gli anziani che tenevano in tasca una calcolatrice invece dello specchio stavano aumentando. Le cifre avevano rimpiazzato le lettere sulle loro lingue. Dicevano che l'amore era diventato denaro, ma non riuscivano a capire perché, quando tiravano fuori di tasca la loro calcolatrice, quella facesse i conti e non trasformasse il denaro in amore. Le cifre non bastavano.
Sentii il Dottore che chiamava da dentro.
"Küheylan! Stiamo arrivando. Non sarai solo a lungo. Pazienta ancora un po'".
"Se fate tardi finirò tutto il raki," risposi.
Riempii il mio bicchiere. Aggiunsi acqua e ghiaccio. Lì nella città dei miei sogni, accanto alle persone amate, guardando il Bosforo dall'alto del balcone, sorseggiai il mio raki.
Mio padre diceva che Istanbul creava una città diversa per ogni stagione, che dava vita ad altre città nel buio, nella neve, nella nebbia. In una calda giornata d'estate, aveva visto a Tophane un gruppo di studenti seduti in fila a dipingere. Ogni studente dipingeva la propria tela guardando la Torre di Leandro, i gabbiani e il mare, ma nessuno dei quadri assomigliava all'altro. In uno il mare era blu e in un altro giallo. In uno la Torre di Leandro era recente, in un altro era antica. In uno i gabbiani dispiegavano le ali, in un altro morivano in massa. Le tele non rappresentavano la stessa città, ma differenti città separate da ere diverse e grandi distanze. Erano luminose o buie, gioiose o malinconiche. La città che aveva visto mio padre era diversa da tutte quelle. "Solo allora capii," aveva detto mio padre, "che ciò che faceva di una città una città era lo sguardo delle persone. Chi la guardava male, la rendeva maligna, chi la guardava con amore, l'abbelliva". Il cambiamento e la bellezza della città dipendevano dal potere delle persone di cambiare e diventare piú belle.
Guardai la Istanbul che mio padre aveva lasciato anni prima. Era scomparsa dalla vista. Il corpo della principessa della Torre di Leandro10 era immerso nella nebbia. Il mare, come il mio bicchiere di raki, era diventato bianco. I traghetti e le navi dei pescatori riposavano a riva. Tra le nuvole di nebbia si vedeva solo un gabbiano dalle ali rosse. Il gabbiano aveva spiegato le ali e volava leggiadro dal mare verso la costa. Aveva abbandonato il suo corpo nel vuoto. Appropriandosi del cielo intero, cominciò a scendere sui tetti. Quando fu piú vicino, mi accorsi che non era un gabbiano, ma uno scialle rosso. Lo scialle rosso appariva e scompariva nella nebbia. Avevo bevuto troppo raki? Quanti bicchieri avevo riempito? Mi misi a ridere.
"Dottore! Dottore!" sentii una voce gridare.
Arrivava dal basso ed era conosciuta.
Sporsi la testa fuori dal balcone. Vidi Kamo il Barbiere fermo sul marciapiede davanti all'ingresso del palazzo.
"Kamo!"
"Vecchio Küheylan! Che bello vederti".
Lo salutai con la mano.
"Vieni su," dissi.
"Vengo piú tardi," rispose.
"Perché?"
"Devo incontrarmi con mia moglie Mahizer a Beyoglu".
"Porta anche lei".
"La porterò. Lei pure vi vuole conoscere".
"Non fate tardi. Stiamo preparando da mangiare".
"Il giovane studente è arrivato?"
"Sì".
"Zinê Sevda?"
"Tra poco".
"Vado. Non voglio far aspettare Mahizer".
"Dai. Vai in fretta e torna in fretta".
Kamo mise le mani nelle tasche del suo pesante cappotto. S'incamminò a passo spedito.
Quando stava per svoltare l'angolo, si sentì chiamare.
"Kamo!"
Si fermò e guardò. Nella nebbia sembrava un'ombra. All'incrocio dove esistenza e non esistenza si incontrano, stava fra il lento battito del cuore e lo scorrere veloce del tempo.
"Mi sei mancato," dissi.
Sorrise. Allargò le braccia e abbracciò l'aria. Mi abbracciò stretto da lontano. Poco dopo riprese a camminare. Con passo lungo si perse nella nebbia.
Sollevai il bicchiere. "Alla tua salute, Istanbul," dissi, "alla tua salute".
Quando riappoggiai il bicchiere sul tavolo, mi accorsi che stavo perdendo sangue dal naso. Con un fazzoletto asciugai il sangue che mi era colato sul labbro. Mentre controllavo se mi ero macchiato gli abiti, mi ricordai di un giorno caldo d'estate della mia adolescenza. Mi trovavo su un pendio del Monte Haymana e stavo passando vicino a una villa con il mio cavallo esausto per la calura. Lo diressi verso una ragazza che stava prendendo acqua alla fontana davanti alla villa. La giovane aveva le trecce. Delle monete gialle pendevano dal nastro che indossava sulla fronte. Le dita erano tinte di henné. Era evidente che si era appena sposata. Prese una brocca d'acqua e me la offrì. Bevvi fino a dissetarmi, sciogliendo la stanchezza nell'acqua fresca. Anche il mio cavallo si dissetò al trogolo. Diedi le spalle al sole e me ne andai. Risalii il pendio. Passando di fianco a un pero selvatico, mi accorsi di avere del sangue sulla camicia. Mi sanguinava il naso e la camicia bianca si era macchiata. Capii allora che mi ero innamorato della ragazza che avevo visto poco prima. Il sangue era segno di amore o di morte. Ero ancora in un'età lontana dalla morte, ma vicina all'amore.
Presi una cartina dalla mia scatola del tabacco. Tenni la cartina fra le dita e vi misi sopra il tabacco. La arrotolai. Bagnai un lato con la lingua e lo incollai. Asciugai la parte bagnata con la fiamma dell'accendino. Aspirai come se volessi finire la sigaretta in un tiro solo. Feci uscire il fumo dal naso. Il fumo faceva bene al sanguinamento. Il sangue che mi colava dal naso si era fermato e seccato. Tornai ad appoggiarmi alla sedia. Mi misi ad ascoltare la canzone popolare turca che proveniva dal soggiorno. Non passò molto che la melodia della canzone fu interrotta da un rumore di spari che proveniva da fuori.
Di nuovo riecheggiarono i colpi di una Browning, una Beretta, una Walther e una Smith&Wesson. Da una parte volevo dimenticare, dall'altra quei rumori mi legavano a una speranza. Ogni volta che un proiettile esplodeva piú vicino, mi chiedevo che cosa si stesse approssimando. Era la vita o la morte? Sollevai la testa. Guardai l'uccello del tempo che volava leggiadro nella profonda oscurità. L'uccello del tempo aveva aperto le sue grandi ali e occupava lo spazio intero. Aveva abbandonato il suo corpo, sfinito dai venti del passato, nel vuoto del momento presente. Un'ala era venata di sofferenza, l'altra di bellezza. Se mi fossi alzato in piedi e avessi teso le braccia, sarei riuscito a raggiungerlo? Se mi fossi sollevato sulle punte dei piedi e avessi allungato bene le dita, sarei riuscito a toccare le piume nere dell'uccello del tempo?
Mentre i colpi si facevano sempre piú vicini, fermandosi proprio fuori dal cancello di ferro, avrei voluto tenere per sempre fra le dita la mia generosa sigaretta. Non volevo vita, morte o sofferenza, volevo solo sentire l'aroma della sigaretta che mi riempiva le narici. Volevo pensare al ricamo di pizzo della tovaglia, al colore del pane tostato, all'odore del raki ghiacciato. Volevo fantasticare sullo scialle rosso che volava nella brezza marina senza una ragione e volevo camminare a piedi nudi sul tappeto di lana. Volevo mangiare formaggio e sottaceti. Volevo alzare al massimo il volume perché tutti sentissero la musica, volevo sedermi sul balcone e salutare le navi. Non lo feci. Sentii il rumore del cancello di ferro nello stesso momento in cui gli spari cessarono. Il rumore, come di sega arrugginita, del cancello di ferro riempì il corridoio.
Aspettai senza muovermi. Mi portai una mano al collo. Mi faceva male. Piegai la testa a destra e sinistra. Guardai le mie unghie lunghe. Con la mano, mi pettinai indietro i capelli scompigliati. Pulii le macchie di sangue dalla fronte. Misi a posto il colletto strappato della camicia e raddrizzai le spalle. Toccai il muro passando le dita sul cemento irregolare. Sentii un vento freddo che, a partire dalle dita, si diffuse fino alle braccia e poi a tutto il corpo. L'aria sapeva di muffa e alghe. La gola mi bruciava. Mi fischiavano le orecchie. Un vortice mi girava nella testa. Mentre l'uccello del tempo volava ad ali spiegate nell'oscurità, il rumore del cancello di ferro abbracciava l'intero vuoto.
Alzando la testa, diedi un ultimo sguardo alla nebbia di fronte.
La nebbia gialla era bella.
La nebbia che conteneva il tempo di Istanbul e che nascondeva sia la vita che la morte, era una nebbia bellissima.
10 La Torre di Leandro è piú comunemente nota come Kiz Kulesi, "Torre della ragazza". La leggenda racconta che un sultano rinchiuse la figlia in quella torre solitaria, eretta in mezzo al Bosforo, per farla scampare a una profezia che prediceva la morte della ragazza a causa del morso di un serpente velenoso. Il giorno del suo diciottesimo compleanno, però, il Destino, in forma di vipera, si nascose in un cesto di frutta, penetrò nella torre e morse la principessa, che morì. [n.d.t.]
libri Nottetempo.
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