Il Dottore racconta: Il cane bianco

"Vecchio Küheylan, pensavi che questa cella fosse Istanbul? Adesso siamo sottoterra; sopra di noi ci sono strade e palazzi ovunque. La città si estende da una parte all'altra dell'orizzonte, anche il cielo fa fatica a ricoprirla tutta. Sottoterra non c'è differenza fra est e ovest, ma se osservi il vento sopra, ti accorgerai che si incontra con le acque del Bosforo e dalla collina si può distinguere il color zaffiro delle onde. Se avessi visto per la prima volta quella Istanbul che tuo padre ti ha raccontato dal ponte di una nave e non da questa cella, avresti capito, vecchio Küheylan, che questa città non è fatta di tre muri e una porta di ferro. Quelli che arrivano da lontano con la nave, vedono per prima cosa le Isole dei Principi sulla destra, avvolte dalla nebbia. I loro profili possono sembrare stormi di uccelli fermi lì a riposare. A sinistra, le mura che si protendono sinuose come un serpente lungo tutta la costa finiscono per imbattersi in un faro. Col dissolversi della nebbia, i colori si moltiplicano. Rimani in contemplazione degli eleganti minareti e delle cupole come se stessi guardando i tappeti appesi ai muri del tuo villaggio. Quando ti immergi nel disegno di uno di quei tappeti, immagini che una vita che non conosci continui a scorrere senza di te in un altro mondo; ora, quella nave ti sta portando nel cuore di quella vita. Un uomo è fatto del respiro che fa in un sospiro. Una vita non basta, ti dici. Pensi che la città, che si espande con le mura all'orizzonte, le torri e le cupole, sia un nuovo cielo.

"Sul ponte il vento si prende lo scialle rosso di una donna e lo porta a riva prima della nave. Tu ti mischi alla folla e come quello scialle vaghi per le strade di ciottoli. Arrivato alla Torre di Galata, fra le grida dei venditori ambulanti, tiri fuori il tabacco e ti fai una sigaretta. Ti fermi a guardare una donna anziana che camminando a fatica tiene una pecora al guinzaglio. Un ragazzo le grida: 'Vecchietta, dove vai con quel cane al guinzaglio?' La vecchietta si gira, guarda la pecora e rivolta al ragazzo risponde: 'Sei cieco? Pensi che questa pecora sia un cane?' Tu segui la donna. Un giovane che le viene incontro le chiede la stessa cosa: 'Nonna, porti a spasso il tuo cane?' Lei di nuovo si volta, guarda la pecora e dice: 'Non è un cane, è una pecora, hai bevuto stamattina?' Poco dopo, un altro: 'Perché porti al guinzaglio quel cane rognoso?' Piú avanti le strade si svuotano, le voci si spengono. Quando la vecchietta gobba si accorge di te, ti chiede: 'Sono diventata pazza, vecchio? Credo che questo cane sia una pecora. Quando la mia mente si è svuotata, anche il mondo si è svuotato. Siamo rimasti io, te e questo strano animale'. Mentre la donna parla, tu guardi l'animale al guinzaglio. Che cosa vedi? Un cane o una pecora? Hai paura che a Istanbul un giorno cominciato nel dubbio sia la promessa di una vita piena di dubbi.

"La vecchia si allontana a fatica trascinando l'animale. Tu non la guardi, ma guardi le opere dell'uomo intorno a te. Gli uomini hanno costruito torri, statue, piazze e mura che non sarebbero potute nascere dalla terra. Il mare e la terra sono piú vecchi dell'uomo, la città è una creazione dell'uomo. Capisci che la città è stata fatta dagli uomini e che è legata a loro come il fiore all'acqua. Così come la bellezza della natura, la bellezza della città è nella sua esistenza. Pietre irregolari diventano la porta di un tempio e pezzi di marmo si trasformano in una statua solenne. Per questo non credi di doverti stupire se in città le pecore sono cani.

"Passeggi fino a quando il sole cala dietro ai tetti. Bevi acqua fresca da un'antica fontana per strada. Quando senti un cane che abbaia, alzi la testa e guardi in direzione del suono. Vedi lo scialle rosso; il vento l'ha preso e da Galata lo sta riportando verso il mare. Che strano viaggio che è la vita. Lo scialle che è venuto dal mare ritorna al mare e ti chiedi dove ritorneranno gli abitanti della città. Cammini a passo pesante verso la strada da cui hai sentito provenire l'abbaiare del cane, come se il segno che stavi cercando fosse là.

"L'odore ti porta piú avanti fino a un cortile in rovina e da lì ti conduce al fumo che si alza. Ti avvicini e guardi sopra il muro. Tre ragazzi sono seduti per terra, stanno piacevolmente bevendo del vino mentre la carne cuoce sulla brace. Uno dei tre sussurra tranquillo una canzone. Vedendo per terra il pelo della pecora e il guinzaglio, capisci che si tratta della pecora della vecchietta.

"Quelli erano i ragazzi che per tutto il giorno avevano preso in giro l'anziana donna e l'avevano seguita. La vecchietta era stata raggirata e, convintasi che l'animale che aveva al guinzaglio fosse un cane, l'aveva sciolto. I tre ragazzi avevano così preso la pecora e, arrivati di corsa nel cortile, si stavano preparando festosamente al banchetto".

Il vecchio Küheylan, che non aveva mai distolto lo sguardo da me, si mise a ridere. Come avevo imparato da Demirtay lo Studente, ripetei l'ultima frase: "I tre ragazzi avevano così preso la pecora e, arrivati di corsa nel cortile, si stavano preparando festosamente al banchetto," e Kühyelan rise ancora di piú.

"Sei bravo a parlare, Dottore," disse, "ma la mia voce interiore mi dice ancora che questa cella è Istanbul. Mio padre parlava tanto di Istanbul che a volte confondevo la realtà con il sogno.

"Da bambino non sapevo mai se le storie della città sotterranea, che si estendeva da un capo all'altro delle mura, o quelle delle persone scomparse che vivevano nei cimiteri e uscivano solo di notte, fossero vere o un racconto delle Mille e una notte. È come dici tu, Dottore, la vita è uno strano viaggio. Due settimane fa, nella stazione di polizia di un villaggio lontano, sono stato bendato e, dopo essere passato per un corridoio buio, ho aperto gli occhi nella Istanbul di mio padre".

Quando parlava, il vecchio Küheylan muoveva le mani, tastava l'aria e si metteva due dita davanti alla bocca come se stesse fumando una sigaretta. "La sera, a casa, mio padre faceva le ombre sul muro alla luce della lampada a gas; con le sue dite abili costruiva città. Era così che raccontava Istanbul. Faceva ombre lunghe per i battelli e ancora piú lunghe per i treni, e poi faceva l'ombra di un giovane uomo che aspettava vicino a un albero. Quando ci chiedeva che cosa aspettasse quel giovane, noi rispondevamo tutti insieme: 'La sua amata'. Ma lui faceva le cose al contrario, rinchiudeva il giovane in una cella sotterranea, lo spediva in un covo di ladri e solo quando avevamo perso ogni speranza lo faceva riunire alla sua amata. Diceva che Istanbul era molto grande, che dietro ogni muro c'era una vita diversa e che dietro ogni vita c'era un muro diverso. Istanbul è come un pozzo: profondo e stretto. Alcuni sono intossicati dalla sua profondità, altri schiacciati dalla mancanza di spazio. Mio padre era solito dire: 'Vi racconterò una storia vera di quella Istanbul che ho visto con i miei occhi'. Raccontava la storia e intanto ne proiettava le immagini sul muro con le dita e ci trasportava fuori dalla nostra piccola casa per portarci in quella città sconosciuta che era nata alla luce della lampada e che racchiudeva le nostre notti nella sua vastità. Sono cresciuto con le storie di mio padre, Dottore. Conosco bene questa porta, questi muri e questo soffitto buio; il posto che lui raccontava è questo".

"È solo il primo giorno, Küheylan. Non essere precipitoso, lascia che passi un po' di tempo".

"Dottore, mentre raccontavi la tua storia mi sentivo come se fossi qui da molto tempo. Adesso è giorno o notte?"

"Non so. Si capisce quando è mattina perché ci portano da mangiare".

I carcerieri di solito la notte uscivano, andavano a caccia. L'unico momento in cui riuscivamo a dormire e a tirare un sospiro di sollievo era quando prendevano una nuova vittima. Questa, tuttavia, non era la regola. Ognuno aveva il proprio metodo. Poteva succedere come a me, che ero stato torturato ininterrottamente giorno e notte per i primi cinque giorni senza essere mai portato in cella.

"Vediamo un po', cosa c'è oggi da mangiare?"

"Perché, il menu cambia ogni giorno?"

"Sì, pane e formaggio ogni giorno sono diversi. A volte il pane è vecchio, a volte molto vecchio. Anche il formaggio a volte ha la muffa, a volte puzza. Il cuoco ci prepara sempre un menu diverso".

Il vecchio Küheylan si mise a ridere. Da due ore era seduto con la schiena contro il muro e le gambe rannicchiate. Le ferite sul volto si erano gonfiate, era pieno di lividi. Solo gli occhi luccicavano. Si chinò in avanti, sistemandosi la giacca che aveva sulle spalle. "Non viene nessuno?" chiese a Demirtay che era in piedi davanti alla grata.

Demirtay si voltò e si accovacciò. Scosse la testa con aria abbattuta. "Se dovesse venire qualcuno sentiremmo il rumore del cancello di ferro," disse.

"Quando la ragazza è stata portata via non ha detto niente?"

"Non ha aperto bocca".

Mentre Küheylan dormiva, avevano portato via la ragazza della cella di fronte. Era preoccupato per lei, per questo faceva domande a Demirtay.

Il vecchio Küheylan era stato torturato per due settimane in un campo militare ed era stato portato qui dopo un lungo viaggio. Aveva viaggiato con una ragazza ammanettata come lui, insieme a quattro guardie armate. Dai mormorii delle guardie aveva capito che erano partiti da un po' e che la ragazza arrivava da un posto ancora piú lontano. Per tutto il viaggio, la ragazza non aveva parlato e non aveva mosso nemmeno una volta il labbro incrostato di sangue. Non aveva neanche mangiato il pane che le avevano dato durante la sosta, aveva solo bevuto dell'acqua. Il vecchio Küheylan le aveva parlato di sé e del proprio villaggio dicendole, mentre lei ascoltava senza parlare: "Mi fido del tuo silenzio". La ragazza gli aveva risposto con lo sguardo e aveva annuito. Il viaggio di quelle due persone, che si incontravano lì per la prima volta, partiva da un buio ed era diretto verso un altro buio. Si erano fidati l'uno dell'altra perché ai margini del dolore il tempo scorre in maniera diversa.

"Non ti ha detto il suo nome?" chiese il vecchio Küheylan.

"Sì, me l'ha detto," disse Demirtay, "anzi, a essere piú precisi, l'ha scritto".

"Cosa ha scritto?"

"Zinê Sevda".

"Zinê Sevda..." ripeté Küheylan. Gli si illuminò il volto. "È muta per caso? O forse preferisce non parlare perché è una prigioniera. A te ha scritto con le dita quello che voleva dire. Perché durante il viaggio non mi ha risposto nello stesso modo? Forse perché c'erano le guardie?"

Il vecchio Küheylan si portò le dita alla bocca come se tenesse una sigaretta e fece un tiro. Poi, buttando fuori il fumo, appoggiò la testa al muro. Guardò a lungo nel vuoto. Scandagliò il soffitto da una parte all'altra. Riportò di nuovo le dita alla bocca e fece un altro tiro. I suoi movimenti assomigliavano alle cose che uno immagina di fare quando è da solo. Usava le dita e le labbra come se stesse fumando. Mentre faceva un altro tiro dalla sigaretta immaginaria, girò la testa e ci guardammo negli occhi.

Con la faccia seria, fece finta di tirare fuori dalla tasca la scatola del tabacco e ne offrì un po' a me e un po' a Demirtay. Fui preso alla sprovvista, ma non rifiutai la sua offerta. Feci finta di prendere una cartina e ci misi dentro un po' di tabacco. Avrei fumato, ma non sapevo arrotolare una sigaretta. Guardai Küheylan e ripetei i suoi gesti. Lui mise di nuovo la mano in tasca, fece come per tirar fuori i fiammiferi e accese le nostre sigarette finte. Kamo non si accorse di quello che stavamo facendo. Dormiva da ore. Era appoggiato al muro, rannicchiato e con la testa crollata in avanti.

"La cosa piú difficile è trovare un posto dove buttare le cicche. Di solito cerco un buco nel muro e le metto lì. Se non c'è un buco, allora sono costretto a buttarle per terra. Una volta mi risvegliai in una cella. Era buio pesto, non si vedeva nemmeno da che parte fosse la porta e la trovai solo andando a tentoni. Appoggiandomi al muro, mi feci una sigaretta e appena accesi il fiammifero la cella si illuminò. Sulla calce dei muri vidi denti umani, mandibole e dita tagliate. Toccai i muri e ispezionai ogni angolo. In quel momento mi dimenticai il fiammifero acceso che avevo in mano. Quando mi scottò il dito, lo gettai subito per terra. Il dito bruciato mi fece male per due giorni".

Capii che quello che il vecchio Küheylan raccontava non era frutto della sua immaginazione, ma qualcosa che aveva realmente vissuto. Era chiaro, da tutti i suoi gesti, che credeva che la sigaretta che aveva fra le dita fosse vera: dal modo in cui toglieva il tabacco in eccesso quando se ne faceva una, a come soffiava sulla punta del dito quando la fiamma del fiammifero si era consumata. Anche a me piaceva fantasticare ma, quando immaginavo di passeggiare per Istanbul con Demirtay, rimanevo sempre legato alla cella, sapevo che i miei confini erano lì. I fili della storia che immaginavo erano sempre nella mia testa. Non avevo neanche mai pensato di giocare a quel gioco da solo. Invece per il vecchio Küheylan tutto quello non era un sogno, era la realtà. Poteva giocare anche da solo, riusciva a dare vita ai muri e al buio. Anche quando disse che la cella era Istanbul, era serio. Non c'era niente che non fosse reale per lui. Non sentendo la necessità di uscire, portava il mondo dentro di sé trascendendo spazio e tempo. Così, la cella era Istanbul e il fumo avvolgeva tutto.

L'odore di fumo diventava piú intenso, riempiendo la cella. Sventolai la mano un paio di volte per cercare di mandarlo via. Volevo credere a quello che stavo facendo. Assomigliava al desiderio di restare in un bel sogno. Stavamo ritornando bambini.

Mentre cercavo intorno a me un posto dove mettere la cicca, Demirtay allungò la mano. "Qui c'è un portacenere," disse. Per un po' tenne la mano sospesa in aria e poi posò l'invisibile portacenere per terra fra i nostri piedi. Spensi io per primo la sigaretta, poi fu la volta di Demirtay.

"Demirtay," disse il vecchio Küheylan con un'espressione sorpresa, "mi hai appena insegnato un'illusione tirando fuori il portacenere. È da due giorni che mi contorco per cercare un buco dove buttare la mia cicca. Mi hai risolto il problema".

Küheylan aveva un'espressione pensierosa. Si accarezzò la barba. Si girò verso di me.

"Dottore," disse, "in città come si fa a sapere se un cane è un cane? Qui le colline vengono spianate e al loro posto sorgono palazzi. I lampioni in strada prendono il posto della luna e delle stelle. Fino a che punto un cane è un cane se l'uomo cambia la natura da capo a piedi?"

"Qui l'esistenza è legata alle persone. Se conosci le persone, allora conosci tutti gli esseri viventi, inclusi i cani," dissi. Dubitavo delle mie stesse parole. Anch'io mi facevo quel tipo di domande ed ero curioso di quale potesse essere la risposta piú giusta.

"Quanto puoi conoscere un uomo, Dottore? Conoscevi davvero i pazienti a cui hai aperto il corpo ed esaminato cuore e fegato? Da bambino, mio padre raccontava Istanbul con le ombre delle mani proiettate sul muro alla luce della lampada e diceva che a Istanbul le persone erano come quelle ombre. Diceva che le persone si erano lasciate dietro una delle loro forme e ne avevano portata un'altra in città. In questo non ci vedeva niente di male, lo trovava eccitante. Il piacere delle ombre era irresistibile, era impossibile non soccombere. Alcune sere, nella nostra povera casa, mio padre ci parlava di frutti stranieri, chiedendoci di immaginarli. Una volta descrisse l'arancia, ce ne mostrò il colore su un tessuto, poi, facendo finta di sbucciarla, ne descrisse gli spicchi. Tutti insieme simulavamo spesso dei bei banchetti. Gli abitanti della città sognavano, mentre noi eravamo dentro al sogno. Quando non c'erano sigarette, potevamo fumare e riuscivamo ad assaporarle lo stesso. Tutto ciò era dovuto alla povertà o a una diversa percezione dell'esistenza? Mio padre questo non lo diceva".

A contatto con i malati, avevo conosciuto l'interesse dei poveri per i sogni. Aspettavano avviliti in ospedale, nei corridoi che sapevano di disinfettante. Si ammalavano gravemente e morivano in modo veloce. Nel loro ultimo respiro, lo sguardo sul mondo era ormai ridotto a metà. Nei loro occhi non c'era riprovazione, ma curiosità. In Küheylan rivedevo il loro desiderio di vivere.

"L'uomo è l'unica creatura che non è contenta di se stessa, Dottore. L'uccello è solo un uccello, si riproduce e vola. L'albero mette le foglie e dà frutti. L'uomo è un'altra cosa, ha imparato a sognare. Non si accontenta di quello che già esiste. Vuole creare orecchini con il rame e costruire palazzi con la pietra, sempre alla ricerca dell'invisibile. La città è la terra dei sogni, diceva mio padre, offre infinite opportunità e l'uomo lì non è parte della natura, ma è il suo scultore. Costruisce, assembla, crea. In questo modo, mentre produce i suoi strumenti, si sviluppa e si modella. All'inizio l'uomo era solo un semplice pezzo di marmo, ma nella città ha trasformato la sua esistenza in una splendida statua. Ecco perché si prende gioco della sua prima forma non ancora rifinita. In città ridicolizzare gli altri è sacro, gli uomini si sentono superiori a chi non è come loro. Fanno di tutto per tramutare la terra in cemento, l'acqua in sangue e la luna in una destinazione, trasformano ogni cosa. A furia di trasformare, il tempo diventa piú veloce e, diventando veloci, i desideri degli uomini diventano irrefrenabili. Per l'uomo, ciò che era ieri è andato e l'oggi è incerto. Il cane, l'amore, la morte sono incerti. Le persone guardano a queste cose con sospetto ed entusiasmo. Anche mio padre, abituato alla città, lì assomigliava agli altri, e rientrava al villaggio sempre come uno straniero. Non voleva abbracciarci, perché prima aspettava di ritornare al suo stato normale.

"Mio padre, che paragonava questa sua condizione a quella dei marinai che soffrono di ebbrezza da alti fondali, la chiamava ebbrezza da città. Solo in quei giorni beveva vino. Sembra che i maggiori bevitori di vino e i sognatori piú incurabili siano i marinai. Mio padre una volta si era ritrovato chiuso in cella con un vecchio marinaio. Era stato testimone dei suoi incubi. Il vecchio marinaio aveva sognato che la sua nave era affondata e si era svegliato tutto sudato. Secondo lui una balena bianca si aggirava per i mari bui, trascinando le navi verso la tempesta. Ogni marinaio sogna di vedere una balena bianca, di inseguirla fra le onde e di arpionarla a morte. Nei mari remoti c'era un solo capitano che era riuscito a trovare la balena bianca. Il capitano nutriva un odio appassionato per quel mostro del mare che gli aveva strappato una gamba molti anni prima. Quando si incontrarono di nuovo, la rabbia della balena si scontrò con la rabbia del capitano. Alla fine la balena fece a pezzi l'enorme nave, mandando a fondo il capitano e tutta la sua ciurma. Solo un uomo si salvò e raccontò la lunga ricerca e l'ultima battaglia. Da quel giorno, ogni marinaio sogna di vedere la balena bianca piú di quanto non sogni di vedere una sirena. Mio padre, proiettando con le dita l'ombra della balena sui muri della nostra stanza e facendola nuotare su e giú, diceva che i marinai di Istanbul si erano persi per la stessa strada. Avevano viaggiato da nord a sud e da est a ovest ed erano tornati mesi dopo al porto immerso nella nebbia, abbattuti, a mani vuote e sconfitti. Molti sono i marinai che sono impazziti sognando la balena bianca, che si sono accoltellati e hanno avuto sonni infestati da incubi. Il vecchio marinaio nella cella di mio padre era uno di loro. Questa storia era vera, Dottore, e come tutte quelle che raccontava mio padre aveva dei segreti nascosti e la conoscevano in pochi".

Il vecchio Küheylan fece un respiro profondo. Raddrizzò la schiena come a voler dichiarare qualcosa di importante. Voltò lo sguardo verso di me e disse: "Conoscevo già la storia della vecchietta che ci hai raccontato. L'avevo sentita da mio padre. Ci aveva raccontato ridendo la storia della vecchietta che pensava che la sua pecora fosse un cane e dei ragazzi che gliel'avevano presa per banchettarci".

"Tuo padre è ancora vivo?" chiesi.

"Sembro così giovane? Mio padre è morto da molto tempo," rispose.

Sollevò la mano e toccò il muro con le dita per verificare se la cella esisteva veramente. Forse pensava che anche suo padre fosse stato nella nostra cella, anni prima. Cercava una traccia. Se non di suo padre, di qualcuno che era stato là prima di noi. Anch'io toccai il muro e vi passai sopra le dita lentamente.

"Küheylan," dissi, "se tu conosci la storia della vecchietta, anch'io conosco la tua storia della balena bianca. Avrei potuto raccontarti molte cose, dal capitano che per quarant'anni navigò sui mari per dare la caccia alla balena nel tentativo di arpionarla, fino alla nave che andò in pezzi e alla vita dell'unico marinaio superstite".

"Conoscevi già le avventure dei marinai?"

Vedendo che Küheylan era sorpreso, Demirtay si intromise e disse: "Anch'io le conoscevo".

Dal corridoio arrivò un lieve rumore. Demirtay ci fece cenno di stare zitti e stendendosi per terra guardò fuori da sotto la porta. Le guardie sedute nella stanza all'inizio del corridoio a volte passeggiavano e cercavano di beccare i prigionieri che parlavano. Ogni guardia aveva le proprie regole, c'era chi ascoltava di nascosto e raccoglieva segreti, chi invece apriva la porta e puniva quelli che parlavano. Demirtay si mise a sedere: "Ok, se n'è andato," disse.

"Stavi dicendo che conosci la storia della balena," disse Küheylan.

"Nella cella ci raccontiamo le storie che conosciamo, Küheylan. All'inizio io e Demirtay eravamo soli e quindi ci siamo raccontati la stessa storia anche due volte. Te la potremmo raccontare per la terza".

Demirtay lo Studente sedeva accanto alla porta e di nuovo ci fece segno di non parlare. Sentimmo un leggero rumore di passi. Vedemmo l'ombra della guardia sulla grata, poi lentamente si allontanò. Il rumore dei passi non proseguì a lungo e a un certo punto cessò del tutto. La guardia stava origliando le celle a una a una. Ci guardammo. Io e Demirtay eravamo abituati a quei controlli, a volte ce ne stavamo seduti senza parlare per ore. Se il giro delle guardie durava molto, invece di aspettare, cercavamo di dormire; a un certo punto sentivamo che la porta di una delle celle si apriva. Sentivamo il rumore delle percosse. Alcuni prigionieri imploravano, altri protestavano. Quando le guardie ritornavano nella loro stanza, io e Demirtay immaginavamo di aver lasciato la cella e di essere andati lontano. Salivamo su una nave panamense da carico che passava per il Bosforo diretta verso il Mar Nero. Sul ponte soffiava un vento freddo e ci accompagnavano onde impetuose e gabbiani; sul fare della sera scendevamo sottocoperta. Guardavamo la televisione con un mozzo dalle mani nere per il grasso. Se il film durava due ore, anche la nostra storia durava due ore. La cabina era piccola come la cella, quando ci veniva sonno ci stendevamo rannicchiati. Anche lì faceva freddo.

Se Kamo si fosse svegliato mentre ascoltavamo i passi della guardia e ci avesse visti seduti in silenzio come vecchi in una caffetteria, che cosa avrebbe fatto? Invece di chiedersi se era successo qualcosa mentre dormiva, magari avrebbe pensato a quanto tutti, tranne lui, fossimo insopportabili e si sarebbe domandato perché doveva tollerare la nostra presenza. Forse non avrebbe parlato, né sentito il bisogno di fare domande. Avrebbe lasciato ricadere stancamente la testa sul petto e si sarebbe rimesso a dormire. Prima di dormire, avrebbe trovato una scusa per rimproverare Demirtay. Lui era sempre dentro a un pozzo, noi eravamo fuori. Diceva di conoscere se stesso, mentre noi eravamo diventati troppo arroganti e adesso dovevamo fare i conti con noi stessi. Eravamo stati troppo tempo esposti alla luce. Per questo eravamo in uno stato di confusione e pazzia. Eravamo casi senza speranza. Kamo non aveva altra scelta che maledirci e lasciarci alla nostra condizione.

Il giorno in cui Kamo arrivò, ero solo nella cella. Era come un gatto intrappolato in una gabbia con un cane. Gli chiesi se era ferito, non rispose. Mi presentai, ma lui cominciò a fare domande, facendo finta di non capire. "Chi sei? Da quanto tempo sei in questa cella? Perché mi hanno messo con te?" Era sporco, puzzolente e affamato. Gli offrii del pane, ma esitò a prenderlo e, mentre allungava la mano, mi guardò. Ci eravamo incontrati nel posto sbagliato. Io ero arrivato prima, lui era nuovo. Poteva restare seduto senza parlare per ore, ma era anche pronto a saltarmi addosso e a strangolarmi. Questa era la stiva di una nave che aveva perso la rotta o il fondo di un precipizio dal quale non riusciva a venire fuori? C'erano solo tre muri, una porta e un uomo insanguinato. Pensava che se avesse chiuso gli occhi, si sarebbe risvegliato in un altro posto, o che questo luogo sarebbe cambiato. Guardava incuriosito, cercando di comprendere da capo la sua stessa esistenza. Quando da fuori veniva un urlo, alzava la testa. Di chi era quella voce che riecheggiava? Era la sua? Quanto era lontano il muro da cui proveniva? La linea tra credere a se stesso e perdersi era sottile; Kamo aveva forse paura che la sua testa girasse a vuoto su quella linea?

Sapere con la mente di non poter condividere il dolore era una cosa, ma scoprirlo con il proprio corpo era tutt'altro. Quando ci riprendevamo dal dolore insopportabile, ci sembrava che fossero passati mesi, anni. Era stato invece un momento breve e passeggero? Eravamo confusi e avevamo il terrore che quel momento potesse diventare il piú lungo mai esistito. Nel dolore il tempo non si allungava, ma diventava piú profondo. Sembrava che Kamo conoscesse già questa sensazione. Quando entrò nella cella aveva un'espressione confusa e la testa nel caos. Era andato a sbattere contro il muro della vita troppe volte, e molte era caduto. Se il dubbio era una strategia difensiva, potevo capire il suo sguardo freddo. Gli diedi del pane, dell'acqua e gli parlai. Non ero un estraneo, ero uno che si trovava vicino alla morte come lui. Kamo il Barbiere scandagliò le impronte di sangue sul muro, annusò l'odore di morte che c'era nell'aria e disse: "L'uomo non ha altra isola che se stesso". Era indifferenza? Disperazione? Riuscivo sempre a trovare una parola per alleviare momenti come quelli. "La speranza è meglio di ciò che abbiamo". Mi guardò perso. Anch'io avevo guardato così il muro quando ero stato buttato in cella. I confini qui erano i muri e le persone.

I giorni passavano, ma il disagio e la freddezza di Kamo persistevano. Aveva esaurito prima di arrivare in cella tutti i mari che potevano aprirsi davanti a lui e tutti i precipizi nei quali buttarsi. Il suo caratteraccio nascondeva una vecchia ferita.

"E così, questo è il sottosuolo di Istanbul," disse guardando il soffitto. "Proprio come me l'ero immaginato".

Che cosa aveva immaginato? Perché era così attaccato a questa città se aveva avuto la possibilità di andarsene? Ci vogliono tre giorni per familiarizzare con una città, ma tre generazioni per conoscerla. Ci voleva tempo per abbattere le spesse mura fra familiarità e conoscenza profonda, non era una cosa immediata. Nella città e negli uomini c'erano le stesse mura. Se le profondità della città erano buie, anche le profondità umane lo erano. Umide e fredde. Nessuno avrebbe voluto scendere nell'oscurità, ritrovarsi faccia a faccia con se stesso. Tranne Kamo il Barbiere. Il suo sguardo era rivolto all'interno. Guardando la propria anima, aveva conosciuto il sottosuolo della città. "Proprio come me l'ero immaginato". La sofferenza era l'unico insegnante di cui certe persone avevano bisogno. Né tre giorni né tre generazioni, a Kamo erano bastate tre ferite profonde per conoscere la città.

Per quanto riguardava Küheylan, era arrivato nella città che aveva immaginato. Qui vedeva delle persone e una natura diverse da quelle che aveva visto nel villaggio dove era cresciuto. Parlava con la voce dei poeti deliranti, degli esploratori famelici e degli innamorati impazziti, dava piú importanza a una realtà mai vista che alla propria. Per questo stava bene nel sottosuolo; se fosse andato sopra, sarebbe rimasto deluso. La città si era trasformata in un posto da vedere, da assaporare e in cui provare piacere, e anche se non era invasa in ogni angolo dalla disperazione, non era nemmeno quel mondo di vecchie storie fantastiche che lui aveva in testa. La città che le prime generazioni avevano assalito con tutta la loro energia e creatività era stata rimpiazzata dalla bramosia. Le persone, l'arte e i cani erano guidati dalla bramosia. Come i bambini che corrono nel bosco, si perdono e mangiano qualsiasi cosa che hanno in mano senza mai saziarsi. Era difficile raccontare tutto questo al vecchio Küheylan. In una cella dovevi sapere quando tacere. Non potevo dire che la bellezza presente da una parte svanisce subito dall'altra, o che molti giovani cercavano invano la città dei sogni.

Quando ero bambino, la linfa vitale di Istanbul scorreva nelle strade, prima nelle strade e poi nelle piazze, in seguito la città si riempì di macchine che si moltiplicavano e di enormi palazzi, e scomparve dalla nostra vita. Forse aveva cominciato a scomparire anche prima, ma io non me ne ero accorto. Quando diventai piú grande e piú alto col passare degli anni, anche l'architettura divenne piú alta ed edifici sempre piú elevati spuntarono ovunque. E adesso, le strade erano sporche o buie? La nostra vita, trascorsa in strada prima che ci fossero quei palazzi enormi, era così sudicia? In passato, quando la città si espandeva in ogni direzione, le case non cercavano di crescere verticalmente, di piano in piano, chiudendo la vista del cielo. Gli edifici erano alti fino al punto in cui era ancora possibile vedere il cielo. Anche quando ero bambino, ne ero consapevole. Riuscivo a vedere il cielo in qualunque strada alzassi la testa. Allora, il profilo della città si allungava ondulandosi come le piccole colline che erano unite l'una all'altra. Vicino alle cupole e alle torri c'erano grandi piazze. Nessuna piazza era schiacciata da un'ombra gigante.

Due settimane fa, mentre andavo verso la Biblioteca Ragip Pasa, mi accorsi che non era piú la biblioteca della mia infanzia che si vedeva sulla collina di Laleli. In passato, la Biblioteca Ragip Pasa era un diamante solitario sulla collina, ma adesso si nascondeva nella folla fra le macchine e le insegne, ed era diventata piú piccola. Il portone principale era rimasto due metri sotto il livello della strada a causa dell'innalzamento del marciapiede. Quelli che ci passavano davanti non lo guardavano nemmeno e non erano incuriositi da quello che poteva esserci dietro. Appena entrai nel cortile, sentii che la frenesia della strada era scomparsa. Credetti di essere arrivato in una vecchia città. I marmi che erano stati messi lì centinaia di anni fa, le sculture e le incisioni in bronzo appartenevano a un'epoca dimenticata. Gli uccelli battevano lievemente le ali, le rose perdevano le foglie e si preparavano all'inverno. Guardandomi intorno meravigliato, pensai che l'uomo aveva diritto di vivere senza stress e che quel luogo offriva questa possibilità. Nella fresca biblioteca, il tempo scorreva diversamente da quello della città. Qui non andava né avanti né indietro ma, come se fosse soggetto a una diversa gravità, girava su stesso. Mi posi delle domande che non mi erano mai venute in mente prima. Come poteva il mondo di quel cortile essere così diverso dal mondo che stava fuori a due passi? In che modo una porta poteva trasportarci da un tempo all'altro, come se passassimo dal fuoco all'acqua? Soprattutto quando questi due mondi erano l'uno dentro l'altro, quando potevamo vederne uno dalla finestra dell'altro e allungare le nostre orecchie in uno per ascoltare l'altro...

Camminai verso la parte opposta del cortile per cercare la persona con la quale dovevo incontrarmi, salii le scale ed entrai nella sala di lettura. Mi ricordai della piccola cupola sorretta da quattro colonne. I muri erano decorati con piastrelle bianche e blu. Guardai i libri e i manoscritti sugli scaffali di legno. Quando da ragazzo studiavo qui, alzavo spesso la testa dai libri e lasciavo che il mio sguardo vagasse all'interno; potevo rimanere così per un tempo indefinito. Sentivo l'aria fresca sulla fronte. Ricordandomi del motivo per cui ero venuto, diedi un'occhiata ai tavoli agli angoli del salone col soffitto a volta. Tranne uno, erano tutti occupati da ragazzi e ragazze che stavano studiando. Non sapevo chi fosse la ragazza che dovevo incontrare, secondo le istruzioni l'avrei riconosciuta dal suo testo di anatomia. Alcune persone mi guardarono e poi tornarono al loro lavoro. Camminando piano osservai i tavoli, ma non trovai la ragazza che cercavo. Guardai l'orologio di legno marrone sul muro. Andava dieci minuti avanti rispetto al mio. L'orologio funzionava male o ero in ritardo all'appuntamento? La paura durò un istante, prima che mi tornasse in mente il passato. L'orologio era sempre lo stesso di quando ero bambino, era sempre andato dieci minuti avanti.

Ritornai nel cortile.

Guardando il cortile che divideva la biblioteca dalla strada attigua, pensai al mare che scorreva nel Bosforo. Istanbul assomigliava alle acque del Bosforo che in superficie vanno da nord a sud, ma in profondità si muovono al contrario. Mostrava vite che coesistevano nello stesso posto, ma funzionavano in modo diverso, vite vissute fianco a fianco, ma in epoche diverse; mostrava che lo spazio poteva governare sul tempo e che, come un vortice, il tempo poteva essere trasportato in spazi diversi.

Gli architetti avevano perfezionato l'arte di giocare col tempo prima dei fisici. Gli architetti, che costruirono luoghi a forma di tunnel, trasportavano le persone da un'era all'altra, facendo passare il tempo attraverso quei tunnel. Anche il tempo di quella piccola biblioteca, adiacente alla folla, scorreva in una direzione diversa, come un vortice invisibile negli abissi del Bosforo, vivendo la sua esistenza calma e gentile nella corrente sotterranea della città.

Gli abiti e i capelli delle ragazze intorno erano tutti uguali. Avevo sempre fatto fatica a distinguere i giovani, e oggi si assomigliavano ancora di piú. Era a causa degli anni che passavano? In effetti, avevo i capelli bianchi. Restai sotto i portici e guardai il cortile. Non vidi nessuno con un libro di anatomia in mano. Forse ero io che non riuscivo a distinguere la ragazza fra quei giovani. Ma lei avrebbe potuto vedermi e riconoscermi. Tirai fuori dalla tasca della giacca il mio segno distintivo, il libro di Jack London Il lupo di mare, e perché si vedesse bene il titolo lo tenni con la copertina rivolta all'esterno. Alcune persone mi guardarono. Forse si chiedevano che cosa stesse cercando lì dentro un uomo dell'età dei loro padri. Ritornai nella sala di lettura. Tenendo in mostra il libro, feci un paio di passi e guardai le ragazze negli occhi. Anche loro mi guardarono. All'improvviso tutti si alzarono in piedi, tirarono fuori la pistola e cominciarono a gridare: "Non muoverti o spariamo!" Alcuni erano arrivati di corsa dal cortile puntandomi la pistola alla testa. "Sei tu il Dottore? Sei tu il Dottore?" Non ottenendo risposta, mi diedero un colpo alla nuca. Caddi a terra. Anche Il lupo di mare cadde, e con un calcio lo allontanarono. Mi rimbombavano le orecchie. Mi girava la testa.

Mi sembrava che il tempo si fosse fermato, come un orologio rotto, ma uscendo dal cortile e ritrovandomi nella confusione di Istanbul, ritornai in me. La polizia che mi aveva teso la trappola aveva circondato l'intera zona. Molta gente si era assembrata sul marciapiede, guardando incuriosita. Ero un assassino, un ladro o un violentatore? Per vedermi bene, si spintonavano. Mentre la polizia in borghese mi portava in fretta verso la macchina, guardai le persone in faccia. Stavamo vivendo lo stesso tempo? Il vecchio Küheylan aveva ragione a dire che, quando gli uomini costruirono le città, scolpirono anche se stessi, come fossero fatti di marmo; ma se avesse visto le facce di quelli che mi guardavano per strada, avrebbe pensato che il tempo in città li aveva trasformati in qualcos'altro.

Si sentì il rumore del cancello di ferro. Uscii dai miei sogni e tornai alla cella.

"Hanno riportato Zinê Sevda?" chiese Küheylan.

Udendo scricchiolare lievemente il cancello, ci chiedemmo quale cella avessero scelto i carcerieri e chi avrebbero portato via. Ci sentivamo come quei soldati in guerra che pensano che non toccherà a loro morire. Ognuno si faceva la stessa domanda: tra poco prenderanno qualcuno e lo porteranno via, ma chi sarà quel qualcuno? L'unico modo per non pensarci era pensare a cose migliori. Forse era mattina, forse era arrivato il pane col formaggio.

Kamo il Barbiere si alzò e guardò dalla grata. "Che vengano e basta," disse.

"Devono aver portato da mangiare. Hai fame?" chiesi.

Kamo non rispose, non si accorse del sorriso sulla mia faccia. Era concentrato sulla luce che proveniva dalla grata.

"Sei riuscito a dormire?" gli domandai. "Abbiamo parlato troppo".

"Le vostre chiacchiere non mi hanno disturbato, ma quel cane che abbaiava mi ha interrotto il sonno piú di una volta".

"Un cane che abbaiava?"

"Non l'avete sentito?"

"No," dissi, "cosa ci farebbe un cane qui?"

"Eravate presi dalla conversazione e non l'avete sentito. Abbaiava lontano, dall'altra parte del muro".

"Era un sogno".

"Dottore, riesco ancora a distinguere la realtà dal sogno. Ogni volta che sentivo il cane abbaiare, aprivo gli occhi per vedere se ero ancora nella cella. Quel suono era reale come questa cella".

Il vecchio Küheylan mise una mano sulla spalla di Kamo. "Hai ragione," disse. "Probabilmente veniva da lontano e non ce ne siamo accorti".

Kamo guardò prima la mano sulla sua spalla, poi Küheylan. "Sembrava il latrato del cane bianco, il latrato penetrante del cane bianco".

Küheylan ritrasse la mano.

Sentimmo voci in corridoio e ci voltammo verso la porta.

Un uomo disse: "Vado a prendere questi qui".

Mostrò un pezzo di carta alla guardia, senza dire i nomi.

"Sono nella stessa cella," disse la guardia.

"Che numero?"

"40".

Ci guardammo. Mettemmo le mani sotto le ascelle per riscaldarci un'ultima volta. Aspettammo in silenzio.

I passi cadevano sul cemento come pietre. Non si capiva quante persone fossero, ma erano piú del solito. Il corridoio sembrava lunghissimo e le voci dei carcerieri riecheggiavano sui muri e nelle nostre orecchie. Speravamo che passassero oltre, ma si fermarono davanti alla nostra porta. Aprirono il chiavistello di ferro e la porta grigia. L'interno si riempì di luce.

Kamo il Barbiere si alzò in piedi prima di tutti.

La guardia spinse via Kamo e disse: "Tu rimani qui, coglione, gli altri fuori".