Il Dottore racconta: L'uccello del tempo

"Una ragazza salì furtivamente a bordo di una nave nel porto di Istanbul e, dopo essersi arrampicata sulla scaletta, si nascose in una grande scialuppa di salvataggio. Si avvolse in una vela e prestò orecchio a tutti i rumori che venivano da fuori. Dopo che la nave fu salpata, tirò un sospiro di sollievo. Trascorreva il tempo tra il sonno e la veglia. Ascoltava l'equipaggio che cantava. Aspettava che la nave gettasse l'ancora, che la situazione si tranquillizzasse e che facesse buio. Senza farsi vedere, scese la scaletta e cominciò a correre. Stava entrando in un mondo nuovo. Corse fino al mattino e vide che la luna piena la seguiva: quando lei girava, anche la luna girava. Arrivò al deserto. Si stese sulla sabbia. Si riposò un po'. Vide in lontananza una baracca. Davanti alla baracca, un anziano eremita pregava rivolto al sole. L'eremita si tirò su lentamente e guardò quella bellezza avvolta in un vestito di seta che veniva verso di lui, come fosse un sogno. Entrò nella baracca e, inginocchiatosi davanti a un manoscritto sacro, disse fra sé e sé: 'Dio mi sta mettendo alla prova. Non devo soccombere ai piaceri della carne. Ho anche una certa età. È meglio che esca e dia dell'acqua alla ragazza'. La ragazza raccontò di essere fuggita da Istanbul perché non voleva entrare nell'harem del palazzo, e voleva invece rimanere con l'eremita. In questo modo avrebbe anche scoperto la via verso il Signore. L'eremita le disse di proseguire perché al di là della duna viveva un altro eremita che avrebbe potuto mostrarle meglio la via del Signore. La ragazza stanca si incamminò sotto il sole. Verso mezzogiorno arrivò all'altra baracca. Il secondo eremita, pensando di aver visto un miraggio, si strofinò gli occhi e guardò attentamente. Sembrava una fata dai capelli lunghi e dal corpo snello. Era l'esame piú difficile che l'eremita avesse affrontato. Se Dio lo metteva alla prova in quel modo, significava che era pronto a diventare santo. E così si inginocchiò e aprì le braccia al cielo. 'Mio Signore,' disse, 'sono vecchio, ma provo ancora desiderio. La carne brucia, il sangue bolle, ma resisterò. Non mi piegherò a Satana'. Poi, presa la brocca dell'acqua, la portò alla ragazza. Lei bevve fino a dissetarsi. Le gocce che colavano dalle labbra scesero lungo il collo. La ragazza guardò l'eremita con gli occhi socchiusi e disse: 'Prenditi cura di me, prendimi con te e mostrami la via del Signore'. L'eremita sospirò. 'Ah figlia mia, vorrei mostrarti la via del Signore, ma c'è chi può farlo meglio di me. Oltrepassa quella duna e vai dall'eremita che vive dove il sole tramonta. Là troverai la via del Signore'. Che cos'era il deserto? Che cos'era se non sabbia e sole? I granelli di sabbia erano tutti uguali, come le dune, come gli eremiti. Si assomigliavano tutti e ognuno ripeteva le parole dell'altro. Mentre il sole bruciava come un fuoco incessante, che cos'era il deserto? La ragazza si stancò a furia di camminare, e per la stanchezza rallentò. Quando la giornata stava per finire, oltrepassò l'ultima duna e in fondo vide una baracca. 'Ecco il luogo piú bello del deserto,' disse. Davanti alla baracca c'era un eremita piú giovane degli altri. Era inginocchiato davanti al sole che tramontava e pregava. Sentendo la voce della ragazza, il giovane eremita si voltò a guardare. Aveva di fronte una fata con il petto rigoglioso e le gambe nude. Era un dono di Dio. L'eremita prese tra le braccia la ragazza, che era svenuta, e la portò nella baracca. Le mise una pezza bagnata sulla fronte, sul collo e sulle labbra screpolate. Aspettò al suo capezzale fino al mattino. Dio mostrava all'uomo la bellezza in modi diversi. Le rose nei cespugli, l'acqua nel deserto e la luna nel cielo erano belle. Ma, piú di loro, la ragazza era lo specchio del paradiso. La via del Signore era la ricerca di quella bellezza. Era per questo motivo che l'eremita si trovava in mezzo al deserto così giovane. Quando il cielo si stava schiarendo, la ragazza aprì gli occhi. Guardò l'eremita in faccia. 'Non voglio tornare al palazzo,' disse, 'prendimi con te, mostrami la via del Signore'. Uscirono dalla baracca, si inginocchiarono davanti al sole che stava sorgendo e chiusero gli occhi. Dio era con loro. Trascorsero la giornata raccogliendo foglie per preparare un letto alla ragazza. La notte dormirono l'uno accanto all'altra. L'eremita rifletté a lungo, fece sogni erotici e una notte prese la sua decisione. Chiese alla ragazza se era pronta a servire il Signore con tutta se stessa. La ragazza era pronta. 'Ascolta,' le disse l'eremita. 'Il nemico di Dio è il diavolo. Dio lo getta nelle fiamme dell'inferno, ma lui scappa. Il compito dell'uomo è di aiutare Dio. Ora ripeti quello che faccio io'. L'eremita si tolse i vestiti. La ragazza si tolse il suo abito di seta. Rimasero nudi. Il cielo si era scurito, era diventato piú grande, si era riempito di stelle. Inginocchiatisi sulla sabbia, guardarono la luna piena. Aspettando in silenzio come se stessero pregando, i loro corpi cominciarono a trasformarsi. La virilità dell'eremita si era ravvivata fino a diventare rigida. 'Che cosa sta succedendo?' chiese la ragazza. 'Questo è il diavolo,' disse l'eremita. 'Mi sta facendo del male'. La ragazza era confusa, si chinò per guardare da vicino. Si accigliò. Era dispiaciuta. L'eremita, parlando con voce quasi divina, disse: 'So perché Dio ti ha mandata qui. Vuole vedere se riusciamo a mettere il mio diavolo nel tuo inferno. Ci sta mettendo alla prova. Dobbiamo aiutarci a vicenda'. La ragazza si fidava di lui. Disse che avrebbe fatto quello che era necessario per ottenere la benedizione di Dio. L'eremita si alzò e, presa la ragazza, la portò nella baracca. Il mattino seguente, al risveglio, i loro volti avevano un'espressione diversa. Si sorrisero nel letto. 'Il diavolo dev'essere davvero nemico di Dio,' disse la ragazza, 'quando mi è entrato dentro si è arrabbiato, si è infervorato come un pazzo nelle fiamme dell'inferno. Ieri notte l'abbiamo gettato sei volte all'inferno, le ho contate'. L'eremita disse che dovevano continuare su quella strada. La via del Signore era una via che si percorreva con la fede. Si lanciò sulla ragazza. Ancora una volta gettò il diavolo all'inferno. 'Non c'è al mondo un piacere simile,' disse la ragazza, 'se ci si può dedicare a Dio è stupido darsi da fare con altre cose. Tutta la notte ho pensato: ma perché Dio non ha eliminato il diavolo sin dall'inizio? Se vuole sconfiggerlo ma non ci riesce, significa che Dio non è forte abbastanza. Se, invece, può sconfiggerlo ma non vuole farlo, significa che ammette il male. Se Dio può e vuole sconfiggerlo, allora perché il diavolo esiste ancora? Da dove viene questo male?' Trascorrevano le loro giornate nel deserto parlando, dormendo e pregando. Il sole sorgeva e calava sempre nello stesso punto, solo la luna, ogni sera, mostrava una faccia diversa. Un giorno l'eremita si sedette davanti alla baracca e guardò lontano, mentre la ragazza protestava. Disse che non voleva stare seduta a poltrire, ma voleva servire Dio. 'Che cosa stiamo aspettando? Perché da ieri non gettiamo il diavolo all'inferno?' L'eremita si mise a ridere. Disse che avevano dato una bella lezione al diavolo e che non l'avrebbero punito finché non avesse rialzato la testa con orgoglio. La ragazza aveva un'espressione triste. Si mise una mano sulla pancia. 'Tu avrai anche placato il diavolo in te, ma il mio inferno continua a bruciare. L'inferno vuole il diavolo'. In lontananza videro una nuvola di polvere. La sabbia del deserto volava in alto. Un gruppo di uomini a cavallo aveva oltrepassato le dune e si era avvicinato a loro. Dissero che erano venuti a prendere la principessa. Fecero salire la ragazza su un cavallo. Andandosene per la strada da cui erano venuti, svanirono dentro la stessa nuvola di polvere che avevano sollevato arrivando. A Istanbul consegnarono la ragazza nelle mani dei dottori e delle donne del palazzo. La lavarono con acqua di rose e la fecero sedere davanti a uno specchio. Le legarono perline tra i capelli, la spalmarono di olio profumato e sugli occhi le misero il kajal. Quando fu pronta, la portarono davanti alle donne anziane della corte. Le donne le chiesero che cosa le fosse successo e che cosa avesse fatto nel deserto. 'Ho pregato molto,' disse, 'e ho fatto molte buone azioni. Io aprivo le gambe e l'eremita gettava il diavolo all'inferno. Ho imparato che adorare Dio porta la felicità. Avrei voluto continuare a servirlo'. Per un attimo le anziane rimasero in silenzio, poi scoppiarono a ridere. 'Non preoccuparti,' dissero, 'chiunque voglia gettare il diavolo all'inferno e servire Dio può farlo anche qui'".

Mi misi a ridere come se fossi stato tra le donne nel palazzo e non in quella cella. Piegandomi in avanti, cercai di ripetere l'ultima frase, ma non ce la feci perché ridevo troppo.

Küheylan e Demirtay risero piú di me. Nel tempo libero che ci rimaneva tra una sofferenza e l'altra, ridere o dormire li faceva stare bene. I loro volti si rinvigorivano e le voci rotte dalla tortura si rianimavano. Come le donne del palazzo, piú si guardavano l'un l'altro e piú ridevano, dimenticando dove si trovavano. Oppure ridevano così perché non si erano dimenticati della cella neanche per un attimo.

I primi giorni era impossibile rendersi conto fino in fondo di quel che accadeva. Per quanto ci si sforzasse, era difficile creare una connessione fra la cella e se stessi. Poi si cominciava a pensare al tempo. La vita che avevamo vissuto in città apparteneva a qualche settimana o a qualche centinaia di anni prima? C'era una differenza di tempo fra le nostre vite e quelle del palazzo di Istanbul? Piú ne parlavamo e piú capivamo che non eravamo finiti lì dal nulla, ma da un tempo del mondo esterno. Ma quale tempo? Cercavamo di trovarlo raccontando storie, seguendo il profumo del presente.

Demirtay lo Studente si mise di nuovo a ridere e poi si fermò. "Fino all'ultimo secondo, ogni dettaglio della storia era vivo davanti ai miei occhi come fosse un film. La nave sulle onde, la ragazza che camminava nel deserto, le stelle sopra la baracca, la nuvola di polvere in lontananza... e poi il film si è interrotto. Ho cominciato a ridere e sono uscito dal tempo della storia per rientrare nel tempo della cella. Le immagini sono svanite dalla mia mente con l'ultima frase".

"Hai detto lo stesso anche l'altro giorno a proposito della storia del lupo di Küheylan. Dai vita a qualsiasi racconto come fosse un film. Stai pensando di diventare un regista?"

"Sarebbe bello, così potrei filmare queste storie. Se qualcuno non l'ha già fatto".

Il vecchio Küheylan, che ci stava ascoltando attentamente, si intromise nella conversazione. "La storia che avete raccontato la conoscono in molti?" chiese.

"Non l'hai mai sentita?" dissi.

"No, non l'ho mai sentita".

"Küheylan, è la prima volta che ti raccontiamo una storia che non conosci. Dovresti farci i complimenti".

"Dottore," disse, "anche se conosco bene Istanbul, ci sono molte storie che non conosco. Mio padre diceva che ogni volta che veniva a Istanbul sentiva nomi nuovi e storie nuove e ci raccontava sempre quelle storie nuove con emozione. Diceva che le strade e i palazzi di Istanbul crescevano dando una sensazione di infinito. Come il deserto. Tra il punto dove il sole tramontava e quello dove sorgeva c'erano molti mondi diversi l'uno dall'altro. A Istanbul, le persone avevano da una parte l'impressione di poter tenere la città nel palmo della mano, dall'altra quella di svanire, e che la percezione di se stessi cambiasse ogni giorno, come la percezione della città. Una sera, sulle rive del Corno d'Oro, mio padre incontrò un uomo. L'uomo teneva in mano uno specchietto rotondo. Dallo specchio guardava la riva opposta. Mio padre si sedette accanto all'uomo. Lo salutò e aspettò un po'. 'Nello specchio vedo la mia bruttezza,' disse il vecchio. 'Da giovane non ero così, ero un bell'uomo. Amavo una ragazza e ci sposammo. Abbiamo avuto dei bambini. Siamo stati felici insieme per quarant'anni. Mia moglie è morta la settimana scorsa e l'abbiamo seppellita nel cimitero vicino alla collina di Pierre Loti, là di fronte. Quando lo sguardo di mia moglie è svanito, anche la mia bellezza è rimasta nel passato. Come sono volati via veloci, gli anni. Adesso, guardandomi allo specchio, mi accorgo di essere invecchiato e di essere diventato brutto'".

Il vecchio Küheylan raccolse le gambe contro il petto, girò la schiena contro il muro e sedendosi dritto continuò a raccontare.

"Quando mio padre finì di raccontare questa storia, disse che c'erano sempre piú persone che pensavano di essere state belle in passato, ma che adesso si trovavano brutte e guardavano la città nello stesso modo. 'Vi mostrerò il tempo di quelle persone,' disse mio padre alzando le mani contro la luce. Le ombre delle sue mani si riflessero sul muro come un uccello dalle grandi ali. 'Guardate,' disse, 'questo è l'uccello del tempo. Vola e vola e vola nel passato. Quando arriva nel presente, ferma le ali. Rimane sospeso nel vento. Il tempo di Istanbul è così. Muove le ali nel passato. Quando arriva al presente ferma le ali, piano piano si libra nel vuoto'".

Il vecchio Küheylan si guardò le grandi mani. Distese le dita come fossero lunghe piume.

"Anche se nella mia infanzia credevo all'uccello del tempo," continuò, "mi era difficile capire la Istanbul che mio padre raccontava. Adesso, qui nella cella, la capisco. Ogni volta che apro gli occhi, vedo in alto un uccello dalle ali nere. L'uccello del tempo, senza battere le ali, vola sopra di noi".

Alzammo la testa e guardammo il soffitto. Era buio. Profondo. Ci perdemmo in esso come se fosse stata la prima volta che vedevamo un buio tale da risucchiarci nel suo vortice. Chi era passato attraverso quel buio prima di noi? Chi si era salvato e chi aveva esalato l'ultimo respiro lì? Era come se fossimo nati sottoterra e non sopra, dimenticavamo ogni giorno di piú il mondo in superficie. Sapevamo che la parola caldo era il contrario di freddo, ma non riuscivamo a ricordare che cosa fosse. Come i vermi, ci eravamo abituati al buio e all'umido. Se non ci avessero torturati, avremmo potuto vivere all'infinito. Ci bastavano del pane, dell'acqua e un po' di riposo. Se adesso ci fossimo alzati in piedi e avessimo allungato le mani, saremmo potuti arrivare al buio lassú? Saremmo riusciti a toccare con le nostre dita l'uccello del tempo che si librava nel buio con le sue ali pesanti e terribili?

"Küheylan," dissi, "un giorno ce ne andremo di qua. Passeggeremo insieme per Istanbul. Poi ci siederemo sul balcone di casa mia con la vista sul mare. Tu racconterai una storia e io la ascolterò".

"Perché sarò io a raccontarla?"

"Tu conosci piú storie di quelle contenute nel Decamerone. Ti piace il raki, Küheylan? Accompagneremo le nostre storie con il raki".

"Mi è venuta voglia. Perché stasera non organizziamo una cena con un po' di raki, Dottore?"

"Buona idea. Preparerò la tavola. Cucinerò il pesce. Ma come faremo a capire quando sarà sera?"

"Visto che non lo sappiamo, siamo i padroni del tempo. Qui è sera oppure giorno a nostro piacimento".

Demirtay lo Studente si tirò su come un ragazzino dispettoso. "Inviterete anche me? Non mi escluderete dal vostro raki solo perché sono giovane, vero?"

Io e Küheylan ci guardammo. Indugiammo con un'espressione esitante sul volto.

"Küheylan," continuò Demirtay, "se vuoi posso andare dal pescivendolo sul mare. So dove vendono il pesce migliore. Al ritorno posso passare dal fruttivendolo per l'insalata e prendere una bottiglia grande di raki al negozio all'angolo".

"È ancora presto".

"Che dici? E se fosse già quasi sera, se il sole fosse già sceso sui tetti? E se i bambini, usciti da scuola, stessero riempiendo le strade di grida?"

"Non c'è fretta, meglio pensarci un po' su".

"Küheylan, se mi invitate alla cena, vi do la risposta all'indovinello di ieri".

"Indovinello?"

"E poi se volete ve ne faccio un altro".

Küheylan fece una pausa, poi piano piano ricominciò a parlare. "Andrai al mare. Sceglierai un buon pesce e sulla via del ritorno prenderai l'insalata e il raki. Va bene?"

"Voi non dovete affaticarvi. Preparate la tavola sul balcone davanti al mare, chiacchierate, raccontatevi storie. Io farò la spesa e sarò di ritorno prima che cominci il traffico della sera. Intanto, per strada, al mercato e sull'autobus, origlierò quello che dice la gente; scoprirò chi ha truccato l'ultima corsa di cavalli, in quale quartiere c'è stato l'ultimo incendio e quale cantante si è separato ultimamente. Prenderò anche il giornale".

"Non dimenticarti di comprare i limoni," dissi. "Io preparerò la tavola. Verserò il raki nei bicchieri. Quando le luci della città si accenderanno, metterò su un po' di musica".

"Sì, ascolteremo della musica," confermò Kühyelan, "ma se provo a cantare quando sono ubriaco, impeditemelo. Alcuni sono famosi perché hanno una bella voce, io sono rinomato per quanto canto male. Quando gli abitanti del villaggio mi sentivano cantare, cambiavano strada".

Il vecchio Küheylan rise di cuore.

"Anch'io ho una brutta voce," dissi. "Mentre bevo raki, ascolto soltanto mia moglie. Sono poche le persone con una voce bella come la sua".

"Anche a lei piace il raki?"

"Le piaceva. È morta tanto tempo fa. Quando la malattia cominciò a progredire, senza dirmelo registrò la sua voce su alcune cassette. Sapeva che era il modo migliore per restare seduta al tavolo con me per il resto della vita. La sera, dopo aver messo su un po' di musica, mi sedevo e mi riempivo il bicchiere. Assorto, contemplavo Istanbul. Le luci su entrambi i lati del mare sembravano le terre magiche delle favole. A destra le mura e le torri del Topkapi si innalzavano come un castello delle fate. Le luci offuscate erano un velo sottile che avvolgeva le mura. A sinistra, la Torre di Leandro, la Fortezza di Selimiye e, quando ero fortunato e il cielo era limpido, le luci delle isole luccicavano in lontananza. Non mi rendevo conto di aver finito il secondo bicchiere che ero già passato al terzo. La voce di mia moglie che cantava una canzone turca classica gracchiava dallo stereo. Cantava della città della separazione. La separazione è una città lontana dalla speranza. Né un uccello, né una notizia, né un saluto ci raggiungono da lì. Ci sono solo grida disperate, inutili attese e una serata triste invece che confortante. Il raki nella bottiglia diminuiva e le stelle in cielo aumentavano. Proprio mentre mia moglie cominciava un'altra canzone. Ovunque sbocciavano fiori. La notte oscillava come un candelabro di cristallo. Si sentivano i fischi delle barche lontane, e i gabbiani che con le ali tracciavano linee nel cielo..."

Alzai la testa e guardai in alto. L'uccello del tempo era tornato sopra di noi? Ci avrebbe aperto la via in quel buio? Avremmo mai lasciato quel posto, saremmo usciti di nuovo su un balcone e saremmo stati ancora in grado di chiacchierare di fronte al mare immersi nella contemplazione di Istanbul?

"Küheylan, adesso mi sento di assomigliare all'uomo che tuo padre aveva incontrato sul Corno d'Oro," dissi e continuai: "Anch'io, ricordando mia moglie, penso che la felicità del passato appartenga solo al passato".

Demirtay mi guardava incuriosito. "È la prima volta che ti vedo triste, Dottore," disse.

"Triste? Non me ne sono reso conto. In genere preferisco pensare a cose felici qui, e quando mi vengono pensieri tristi, preferisco affogarli nel raki".

"Sono invitato anch'io a cena, vero? L'ho capito dai discorsi che facevate".

Non risposi, attendendo che fosse Küheylan a dire qualcosa.

Dopo aver osservato Demirtay ancora un po', Küheylan disse le parole che il ragazzo stava aspettando. "Sei un ragazzino intelligente. Sei invitato al nostro tavolo. Berremo raki insieme".

Invece di essere felice, Demirtay si piegò in avanti con un'espressione infastidita. "Küheylan, potresti evitare di chiamarmi ragazzino? Visto che posso sedere al vostro tavolo e bere raki, non sono un ragazzino".

"La mia è un'abitudine, Demirtay. Sei un giovane uomo".

Demirtay, soddisfatto, si tirò indietro e appoggiò la schiena al muro. "Inviterai anche Zinê Sevda?" chiese.

"Buona idea. Glielo dirò".

Da sotto la porta soffiò un vento di mare. Tutti e tre rivolgemmo lo sguardo in quella direzione. Il vento, che era entrato accarezzando il cemento, aveva portato un odore di mare che si era fermato sui nostri piedi nudi. Quel vento era il messaggero di un mondo di sale e di alghe. Sentimmo il freddo che saliva dalle caviglie. Era una sensazione momentanea, non duratura. A volte sentivamo profumo di mare, a volte di pino, a volte di buccia d'arancia e facevamo di tutto per cercare di aggrapparci a quella sensazione, che durava un istante. Prima che ci abbandonasse nella cella per ritornare da dove era venuto, nel Bosforo, respirammo profondamente e cercammo di inalare quel profumo fin giú nei polmoni. Non contenti, ne volevamo sempre di piú. Forse avremmo sentito anche l'ululato della tempesta e, se solo avessimo avuto un po' piú di fiducia nelle nostre fantasie, se ci fossimo abbandonati un po' di piú ai nostri desideri, saremmo stati in grado di percepire il rumore delle onde che crescevano nel vento proveniente da nord e i motori dei pescherecci.

"Dottore," disse Küheylan come un vecchio pescatore che chiamava qualcuno tra le onde, con la voce rotta dal rumore della tempesta, "qual è il libro di cui stavi parlando, quello pieno di storie?"

"Il Decamerone?"

"Sì. Il nome suona strano, è per quello che non me lo ricordavo".

"Anche il libro è strano," dissi. "Quando cominciò a diffondersi la peste, un gruppo di uomini e donne lasciarono la città e si rifugiarono in una casa di campagna. Aspettavano che l'epidemia finisse. Se il modo per sfuggire alla morte era lasciare la città, il modo per passare il tempo era chiacchierare. Per dieci giorni, ogni sera si raccontavano storie seduti davanti al fuoco. Nella lingua dei vecchi abitanti di Istanbul, Decamerone significa 'dieci giorni'. È da lì che viene il titolo del libro. Si raccontavano storie erotiche, d'amore, di fatti scandalosi, e ridevano molto. Combattevano la paura della peste con storie che non prendevano la vita troppo seriamente. Anche la storia della principessa scappata nel deserto è una di quelle".

"Avevo sentito parlare delle mille e una notte, ma non dei dieci giorni. Perché mio padre non ci ha mai detto di queste storie? Forse ne aveva molte altre da raccontare".

"Magari le ha raccontate senza dire quale fosse la fonte".

"Chi lo sa," disse Küheylan, fermandosi un attimo come se stesse cercando di ricordare tutte le storie che conosceva. Poi chiese: "La città del Decamerone in cui scoppiò la peste era Istanbul?"

"Lo sai, Küheylan, per noi ogni città è Istanbul. Se un bambino rimane fuori al buio e si perde nelle strade strette, quel luogo è Istanbul. La città in cui il giovane si avventura per cercare la sua amata, quella dei cacciatori che partono alla ricerca del vello della volpe nera, quella della nave trascinata dalla tempesta, del principe che vuole tenere il mondo in una mano come un diamante, dell'ultimo ribelle che ha giurato che non soccomberà mai, della giovane donna che scappa di casa per inseguire il sogno di diventare una cantante, la città dove vanno i milionari, i ladri e i poeti è Istanbul. Ogni storia gira intorno a Istanbul".

"Parli come mio padre, Dottore. Lui diceva che i sotterranei di Istanbul e la vita in superficie erano la stessa cosa, in entrambi l'uccello del tempo si librava come un'ombra scura, senza battere le ali. Mio padre conosceva il segreto di questo posto, ma invece di dircelo direttamente ce lo mostrava con le storie. Istanbul non è una parte di qualcosa, è il tutto in cui i vari pezzi si mettono insieme. Era questo che provava a dirci. Forse anche lui aveva appreso questo segreto in un posto così, sottoterra".

"Quindi adesso noi stiamo scoprendo le cose che tuo padre aveva scoperto anni fa".

"Ma i giovani del Decamerone sono piú fortunati di noi. Loro, scappando dalla città, si sono salvati dalla morte. Noi, invece, siamo stati buttati nel fondo della città, al buio. Che cosa non daremmo per trovarci in mezzo ai personaggi del Decamerone e non qui, non è vero? Loro se n'erano andati via volontariamente, mentre noi siamo stati portati qui contro la nostra volontà. Ancora peggio, loro si erano allontanati dalla morte, noi, invece, le andiamo incontro. Se la nostra Istanbul è la stessa città del Decamerone, penso che il destino di ogni storia prenda una direzione diversa, non è così?"

"Hai ragione, Küheylan," dissi.

Prima di continuare, sentimmo il rumore del cancello di ferro. Ci allertammo. Ci guardammo l'un l'altro e poi guardammo la grata. Cercammo di percepire cosa dicevano fuori in corridoio. Aspettammo che le voci arrivassero fino a noi. Sapevamo che la sensazione che avevamo da due giorni, ogni volta che sentivamo il cancello di ferro aprirsi e che ci chiedevamo se fosse per prendere uno di noi o per portarci da mangiare, non era di curiosità, ma di ansia. Oggi avevano portato il rancio presto. Adesso ci sarebbe stato il cambio della guardia oppure, dopo aver preso dei documenti, i carcerieri se ne sarebbero andati. Mi sforzai di trovare un'altra possibilità che non ci riguardasse, che non disturbasse la nostra pace interiore. Eravamo felici di come stavano andando le cose. Finché non ci portavano via per torturarci, ci bastava stare seduti l'uno accanto all'altro, chiacchierare e dormicchiare come conigli. Non confrontavamo la nostra felicità con quella del mondo sopra di noi. Il mondo sopra era una vecchia, lontana memoria. L'unica unità di misura nella cella era il dolore. Per noi l'assenza di dolore significava felicità. L'avevamo accettato. Se ci avessero lasciati così, saremmo stati felici.

Küheylan disse: "Anche questo passerà". Non parlava con me, ma con Demirtay.

Demirtay lo Studente era diventato pallido e aveva rivolto l'attenzione al corridoio, cercando di cogliere le voci che arrivavano da fuori. Quello che sentivamo non erano le conversazioni quotidiane delle guardie, ma le voci di un gruppo di persone che parlavano tutte insieme. A volte mormoravano, a volte ridevano. I nostri due giorni di vacanza erano finiti. Da dove avrebbero cominciato? Da noi, dalla cella di fronte, oppure dal corridoio posteriore?

"Passerà, non è vero?" chiese Demirtay con voce flebile.

"Certo che passerà," disse Küheylan. "Non è sempre passato? Perché questa volta dovrebbe essere diverso?"

"Ogni volta che mi hanno torturato mi sentivo pronto, ma in questi due giorni di pausa la carne si è rilassata, mi sono abituato a stare in pace. Adesso mi farebbe ancora piú male".

"Demirtay, il dolore è lo stesso. È lo stesso dell'inizio. Siamo stati torturati molte volte. Passerà e torneremo a essere sicuri di noi stessi".

La paura scivolava sempre nella nostra gabbia toracica rosicchiandoci il cuore con i suoi denti da topo. Dubitavamo di noi stessi in ogni momento. Saremmo stati in grado di sopportare il vertiginoso fuoco di dolore, quell'orrore al limite della pazzia? Non appena venivamo colpiti dalla scossa elettrica smettevamo di pensare, tuttavia un senso che non riuscivamo a spiegare ci teneva per la mano, conservando salda la nostra voglia di vivere. C'era un mondo al di fuori di lì? Avevamo un futuro? I nostri corpi diventavano sempre piú pesanti e le nostre esistenze si aprivano all'ansia, sentivamo la luna che girava attorno alla terra e la terra intorno al sole con grande agitazione, accelerando a mano a mano che ruotavano. Quel dolore inarrestabile condizionava il passare del tempo e le nostre menti.

"Forse non prenderanno nessuno," dissi. "Così come sono venuti, se ne andranno".

Anch'io mi ero abituato alla sensazione di rilassamento a cui Demirtay si era abbandonato e pensavo che non sarei mai uscito di lì. Forse ci avevano dimenticato o forse era troppo faticoso scendere così in profondità. Eravamo animali ai quali ogni tanto veniva dato da mangiare, per poi essere lasciati soli. Toccavamo l'umidità sui muri, annusavamo l'aria e ci stringevamo l'uno all'altro. Se ci dicevano vieni, venivamo e se ci dicevano vai, andavamo. Come fosse la prima volta, tendemmo le orecchie per sentire le voci che si diffondevano nel corridoio e i passi che lentamente si avvicinavano.

"Quando torneremo, risponderò alla tua domanda," disse Küheylan.

"Quale domanda?" chiese Demirtay con curiosità.

"Ti sei dimenticato del tuo indovinello? La figlia di mia figlia è la sorella di mio marito, non aveva detto questo l'anziana donna riferendosi alla bambina accanto a lei? Ci ho pensato molto e ho capito qual è la soluzione; quando torniamo, ne parliamo a tavola davanti a un bicchiere di raki".

Il viso di Demirtay si illuminò come quello di un bambino che vuole credere alle bugie. "Va bene. Risolvete quest'indovinello che poi ne ho un altro per voi. Non ci alzeremo da tavola fino al mattino, d'accordo?"

"Certo, Demirtay. Sarà un onore bere con te".

La porta si aprì. Una luce illuminò l'interno della cella come una folata di vento del sud che si abbatte sulla riva. Alzammo le braccia per coprirci il volto, strizzando gli occhi aperti a metà.

"Alzatevi, idioti!"

Ci alzammo lentamente sul nudo cemento.

Con un gesto della mano, presero per un braccio prima Demirtay e poi Küheylan, mentre a me dissero di non muovermi. Restavo lì? Ero diviso fra l'allegria e la tristezza per i miei amici che venivano portati via. Guardai le spalle magre di Demirtay e il passo sicuro di Küheylan. Stavano andando verso un dolore che io non avrei provato. Insieme al dolore avvertii anche sollievo perché il mio corpo non sarebbe stato picchiato e la mia faccia non sarebbe stata trasformata in una maschera di sangue. Non si poteva sfuggire al dolore, ma stavolta mi era passato accanto e aveva preso altri. Sapevo che il nostro istinto ci portava a pensare per prima cosa a noi stessi e a controllare le nostre ferite. Ce l'avevano insegnato al primo anno di università. Ma l'essere umano aveva anche altre caratteristiche. Lì dentro resistevamo al dolore e sopportavamo la tortura solo per il bene dei nostri cari.

"Alzati anche tu, idiota!"

Si erano rivolti a Kamo il Barbiere. Kamo, che negli ultimi due giorni era rimasto appoggiato al muro senza dare nell'occhio e aveva dormito ininterrottamente come una vecchia tartaruga, alzò la testa con un grugnito. Guardò i carcerieri sulla porta. Non tentò nemmeno di tirarsi su e fissò lo sguardo su di loro.

"Ho detto a te, testa di cazzo!" La voce del carceriere si era fatta piú dura. Kamo il Barbiere se ne stava lì come fosse parte del muro. La schiena era incollata ai mattoni e i piedi inchiodati al pavimento. Non ricordava da quanto tempo fosse seduto là. Sospirò irritato. Si mosse. Si tenne al muro con una mano. Pensando che portassero via anche lui, si alzò; non era né ansioso né rilassato, aveva un'aria completamente indifferente. Aveva sognato mille volte che l'avrebbero torturato, ma ogni volta aveva riaperto gli occhi nella cella. Mentre tutti soffrivano, perché lui aspettava, mentre tutti andavano e venivano dal cancello di ferro, perché lui dormiva nella cella? Si faceva queste domande da solo, e si arrabbiava perché il suo corpo non era lacerato dal dolore. Sperava che il dolore fisico avrebbe alleviato quello della sua anima. Aspettava da giorni covando questo desiderio.

Kamo camminò verso la porta, passò tra i carcerieri ed entrò nel corridoio. Non era necessario trascinarlo. Era un invito che aveva atteso con piacere da giorni. Non gli interessava che cosa lo aspettasse alla fine del corridoio che stava percorrendo, dietro il cancello di ferro che stava per varcare, al centro del destino che stava per compiersi.

I carcerieri non lo seguirono immediatamente.

Rivolgendosi a qualcuno che aspettava in corridoio, dissero: "Prendi quello stronzo e buttalo nella cella col Dottore". Trascinarono per i capelli un uomo ricoperto di sangue e lo buttarono nella cella colpendolo sulla schiena. Finì sopra di me e cademmo tutti e due. Sbattei la testa sul pavimento. Pensavo di essermi rotto il braccio che era rimasto bloccato sotto. Dopo che la porta si chiuse e il buio ritornò dentro la cella, mi ripresi. Mi misi a sedere e guardai l'uomo che era piegato a terra vicino a me. Si lamentava.

"Stai bene?" gli chiesi.

Lo aiutai a tirarsi su. Si sedette con fatica e appoggiò la schiena al muro.

"Mi fanno male le ferite," disse.

"Dove sei ferito?"

I capelli, la faccia e il collo erano coperti di sangue, ma lui si teneva il polpaccio sinistro.

"Alla gamba. Ferita da arma da fuoco".

"Ferita da arma da fuoco?"

"Sì, sono stato preso due giorni fa durante uno scontro a fuoco. Mi hanno tolto il proiettile in ospedale e poi mi hanno portato qui. È da stamattina che mi torturano".

Quando allungai la mano per toccargli la gamba, il viso si contrasse e il corpo si irrigidì. I malati tendevano a ritrarsi quando provavi a toccare le loro ferite. Durante i primi anni della mia professione avevo cercato di capire il motivo di questa reazione, che trovavo strana, ma poi mi ero accorto che non solo i malati, ma anche i comuni abitanti di Istanbul rifuggivano dal contatto. In passato, quando c'erano epidemie contagiose come la peste o il colera, le persone vivevano ancora l'una vicina all'altra. Adesso eravamo in un'altra epoca, e malattie come il cancro, il diabete o i disturbi cardiaci, a cui si faceva fronte da soli, avevano preso il posto delle malattie contagiose. Le persone si rifugiavano nei loro gusci, vivendo vite senza contatto. Dire "sono un essere umano" era un messaggio che significava allontanarsi dagli altri, mettere una distanza fra sé e gli altri. Ora che non solo gli estranei, ma anche gli amici evitavano il contatto con il corpo altrui, ero consapevole che quelli che venivano nel mio studio si sentivano come gatti in gabbia. Quell'ansia non poteva essere attribuita solo alla paura della malattia. Pensavo che l'unica cosa che avrebbe desertificato Istanbul non sarebbe stata la diffusione di un'epidemia, ma la diffusione del contatto, che avrebbe gettato nel panico la popolazione, alla ricerca di un posto dove rifugiarsi.

"Lasciami controllare la ferita, sono un dottore".

I pantaloni erano a brandelli e le cuciture strappate. Potevo scorgere la ferita sul polpaccio, che era stata medicata e bendata. Sollevai lentamente la benda sui lati. Per guardare meglio la ferita, ruotai la gamba verso la luce che filtrava dalla grata.

"Non c'è sangue e i punti sono ancora al loro posto".

Quando richiusi la medicazione, l'agitazione dell'uomo era scemata, e mi accorsi che osservava i miei gesti con un'espressione calma.

"Ho freddo," disse.

Gli misi la mano sulla fronte. "Hai la febbre. È normale perché hai una ferita fresca. Non preoccuparti, passerà".

"Lo spero".

Presi un pezzo di pane e del formaggio vicino alla bottiglia dell'acqua e glieli passai.

Si fermò come se avesse visto qualcosa di strano. Esitò. Dopo aver osservato a lungo il pane che aveva in mano, lo morsicò e lo finì in due bocconi. Respirava in modo affannoso. Prese la bottiglia dell'acqua. Bevve avidamente.

"Mi chiamo Ali," disse. "Tutti mi conoscono come Ali l'Accendino".

Conoscevo quel nome. In effetti, si era fissato nella mia memoria come un chiodo. Per vederlo meglio, mi avvicinai al suo volto. Guardai le sopracciglia unite e la fronte pelosa. Non credo che arrivasse ai trent'anni, sembrava piú grande di mio figlio.

"Puoi chiamarmi Dottore. Mi conoscono tutti così," dissi.

"Per caso lavori all'Ospedale Cerrahpasa?"

"Sì".

Conoscevamo i nostri nomi, ma non ci eravamo mai incontrati. Qualche settimana prima avremmo dovuto vederci su una bella strada di Istanbul o in un bar in riva al mare, ma alla fine ci eravamo incontrati in quella cella. Avevamo ancora diritto di vivere, non eravamo arrivati al capolinea. Anche lui mi guardava con curiosità.

"Pensavo che fossi un giovane studente della Facoltà di Medicina di Cerrahpasa," disse.

Avrei dovuto dirgli la verità?

Quando a mia moglie fu diagnosticato un cancro al pancreas, lei espresse il desiderio di non prolungare l'agonia e di morire quanto prima: "Fammi un'iniezione e liberami, che il mio ultimo respiro rimanga qui con te," disse. All'inizio del nostro corteggiamento, quando eravamo due amanti inesperti alla scoperta di Istanbul, esprimevamo un desiderio su ogni molo e strappavamo i petali a ogni fiore, com'era di moda a quei tempi. Mentre i petali diminuivano, ci chiedevamo se avremmo avuto un numero di figli pari o dispari. A quell'età le persone sono così curiose del futuro. Dove vivremo fra dieci anni, che cosa faremo fra venti. Non riuscivamo nemmeno a immaginarci a cinquant'anni, speravamo soltanto che, una volta arrivati a quell'età, saremmo stati soddisfatti della nostra vita. Ma mia moglie aveva raggiunto precocemente la frontiera di quel paese chiamato morte e voleva passare dall'altra parte senza soffrire.

"Dolce moglie mia, se accetti di morire accanto a me, farò l'iniezione prima a te e poi a me," dissi. Cercò di sorridere mentre mi rispondeva: "Tu devi vivere. Prima devi crescere nostro figlio e poi vedere i suoi figli crescere. Solo allora mi raggiungerai. Non prima".

Quando mio figlio crebbe e divenne un giovane uomo, volevo che si sposasse, anche per realizzare il sogno di sua madre. Al contrario, lui se ne andò di casa, lasciò la Facoltà di Medicina all'ultimo anno e si unì a uno dei tanti gruppi rivoluzionari sparsi per la città, prendendo tutta un'altra strada. Da ogni parte arrivavano notizie di scontri e morti. Seguivo gli eventi sui giornali. Ogni volta che leggevo un nome simile al suo o vedevo una fotografia che mi ricordava il suo viso, il cuore mi arrivava in gola. A volte mentre salivo sul traghetto, o passavo sotto un ponte buio, o passeggiavo in riva al mare nel cuore della notte perché non riuscivo a dormire, mio figlio appariva improvvisamente al mio fianco e mi abbracciava forte. Aveva l'odore di sua madre. Gli toccavo le dita, guardavo il viso sempre piú magro e cercavo di catturare la luce nei suoi occhi infossati. "Non ti preoccupare papà, sto bene. Questi giorni passeranno". Ma non passavano. Il tempo diventava sempre piú lungo e la mia ansia e la mia nostalgia crescevano alla stessa velocità.

Una mattina di una piovosa giornata d'autunno uscii di casa presto e mi diressi verso il mio studio, che distava una quindicina di minuti a piedi. Mio figlio si strinse a me sotto l'ombrello. "Non fermarti, continuiamo a camminare," disse. Era bagnato come un cane randagio. Tremava, tossiva, si copriva la bocca con un fazzoletto. Dopo poco gli cedettero le ginocchia e, mentre stava per cadere a terra, cercò di aggrapparsi a me. Chiamai un taxi e andammo all'ospedale. In una città dove le malattie contagiose stavano diminuendo e dove le persone evitavano di toccarsi, mio figlio aveva preso la tubercolosi; stava pagando il prezzo dei suoi principi con il proprio corpo. Durante le nostre discussioni, mio figlio diceva: "Papà, il bene è contagioso come il male," e ora era caduto vittima di una malattia contagiosa che non gli lasciava scampo. La città di un tempo era morta e la nuova non era ancora nata. Si sentivano ululati provenire dal sottosuolo e c'era un odore che neanche la pioggia riusciva a lavare via. I bambini avevano migliaia di sogni, gareggiavano come navi dirette verso i confini nebbiosi dell'oceano e raggiungevano la riva con le vele a pezzi. Questa città aveva mai amato i suoi bambini? Aveva mai avuto compassione per qualcuno? Un giorno, mentre parlavo così, mio figlio mi disse: "Papà, la nostra missione non è auspicare che ci sia amore, ma è crearlo. Per questo combattiamo".

Mio figlio, che dava lezioni di vita al padre, adesso era sdraiato in un letto, tremante, delirante e quasi privo di sensi. Il sudore che gli colava dalla fronte bagnava il cuscino. Gli rimasi accanto tutto il giorno, ascoltai il suo respiro e gli misurai la febbre. Quella notte, quando i corridoi dell'ospedale erano ormai deserti e si sentiva solo il rumore dei passi lontani delle infermiere, mio figlio aprì gli occhi e mormorò: "Devo alzarmi, domani ho un appuntamento". Anche se avessi acconsentito, mi stava chiedendo una cosa che era impossibile. "Papà, è molto importante. La vita dei miei amici dipende da questo. Domani devo incontrare una persona". Oltre alla tubercolosi aveva problemi ai reni e allo stomaco. Aveva superato il limite oltre il quale non era piú possibile ignorare la propria salute. Per un po' di tempo non avrebbe potuto alzarsi dal letto. "Figlio mio," dissi, "se è così importante, posso andarci io al tuo posto, non preoccuparti". Non riuscì nemmeno a rispondere, chiuse gli occhi e si addormentò. Aveva la stessa espressione innocente di quando era bambino. Non importava quanto fosse cresciuto, quella faccia da bambino che andavo a guardare di notte nella sua stanza illuminata dalla lampada, tornava sempre quando era addormentato. Mi augurai che si svegliasse con quella stessa espressione, ma quando aprì gli occhi all'alba mi guardò con sofferenza. Sollevò le dita ossute e disse flebilmente: "Papà". Mi avvicinai e risposi: "Figliolo". Per lui ero pronto a dare la mia vita, quella che sua madre non aveva voluto. Gli accarezzai i capelli devastati dalla tubercolosi, gli strinsi le mani devastate dalla tubercolosi. Rantolava. "Papà, se non fosse importante non ti manderei al mio posto. Dovrai andare alla Biblioteca Ragip Pasa di Laleli. Là ci sarà una ragazza. Lei sarà solo il tramite. Dopodiché dovrai andare al vero appuntamento, che lei ti indicherà, con un uomo che è conosciuto come Ali l'Accendino. Fai attenzione all'orario. Il tuo appuntamento con Ali l'Accendino è un'ora prima dell'orario che la ragazza ti dirà. Non ho mai visto prima nessuno dei due. Penseranno che tu sia me. Mi conoscono come il Dottore perché ho studiato alla Facoltà di Medicina. Non è un gran cambiamento per te. Se succede qualcosa e interviene la polizia, di' il tuo vero nome".

Quand'è che un uomo è completo? Mia moglie mi aveva raccontato che dopo il parto aveva provato delle sensazioni che non avrebbe mai immaginato. Aveva detto: "Mi sento completa, è come se tutti i pezzi sparsi dentro di me fossero andati a posto". Sul suo viso avevo colto un'aria di serenità che non avevo mai visto prima. L'avevo guardata con invidia, incuriosito dalla sua sensazione di soddisfazione nei confronti del mondo. Che tipo di completezza era? Come potevo raggiungere quella condizione? Sarebbe stato sufficiente fare del bene agli altri o farmi passare per mio figlio? Prendermi carico di tutte le sofferenze di mio figlio e mettere insieme tutti i pezzi dentro di me, mi avrebbe elevato a uno stato di pienezza? Quando ero seduto da solo di fronte al mare, quando appoggiavo la testa sul cuscino o quando di mattina a passo lento andavo al lavoro, mi facevo questa domanda, a cui pensavo spesso: "Quand'è che un uomo è completo?"

Anche mio figlio si sarebbe fatto questa domanda, un giorno.

"Figlio mio," dissi, "ti ho ricoverato qui con il nome di un altro paziente. Nessuno conosce la tua vera identità. Sei al sicuro".